BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?_di Hajnalka Vincze

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?

Portfolio – 28 gennaio 2021
Nota di notizie

Dietro le infinite lamentele sulla “perdita” del Regno Unito, in realtà molti si rallegrano, chi per un motivo, chi per un altro. I sostenitori dell’Europa federale ritengono che la strada sia chiara ora che il nemico giurato di qualsiasi idea di pooling (approfondimento dell’integrazione) è definitivamente fuori gioco. I campioni di un’Europa indipendente – che dipenderebbe meno dall’America – sorridono alla partenza del “cavallo di Troia” degli Stati Uniti, credendo che il loro momento sia finalmente arrivato: senza Londra, l’eterna torpediniera di qualsiasi iniziativa politica dell’Unione, l’Europa potrebbe anche diventare uno dei poli del potere nel mondo. Tale ragionamento non è del tutto infondato, ma non tiene conto dei malumori interni dei restanti Ventisette.

Sempre presente nelle teste

La Gran Bretagna ha sempre avuto una visione molto particolare della costruzione europea. Ha preferito stare lontano dal suo lancio; non solo, ha creato un’area di libero scambio che dovrebbe competere con esso e renderlo obsoleto sin dal suo inizio. Rendendosi conto del loro fallimento, gli inglesi cambiarono strategia: entrarono per meglio silurare, questa volta dall’interno, tutto ciò che prometteva di diventare più di un semplice mercato aperto. Che si trattasse di tariffe protettive, diritti sociali, autonomia strategica o politica industriale, Londra è stata un freno. Di conseguenza, le lotte più dure e frequenti l’hanno opposta alla Francia, paladina di un’Europa politica e indipendente. Quindici anni fa Jean-Claude Juncker, l’allora primo ministro lussemburghese, ha giustamente osservato, dopo una battaglia franco-britannica particolarmente dura nell’UE: “Qui si confrontano due filosofie. Ho sempre saputo che un giorno o l’altro sarebbe venuto a galla ”.

(Credito fotografico: Reuters)

Non è un caso che ciò sia avvenuto proprio in questo momento. Londra è stata rafforzata dall’adesione, nel 2004, del primo gruppo di paesi dell’Europa centrale e orientale. Nel dilemma “allargare o approfondire” che ha definito i dibattiti per tutti gli anni ’90, la Gran Bretagna spingeva per l’allargamento dell’UE più rapido e più ampio possibile nella speranza di abbattere l’inclinazione politica diluendo il progetto in un gigantesco supermercato. Di fronte a ciò, i francesi – e di tanto in tanto i tedeschi – cercavano di salvare, se necessario sotto forma di un’Europa a più velocità, l’essenza politico-strategica del progetto. Un tentativo coronato da scarso successo. Dopo l’ingresso dei nuovi Stati membri, seguaci della visione britannica, tutto suggeriva che lo scenario di un’Europa dei supermercati addormentata nell’inesistenza geopolitica sotto l’ala protettrice della NATO avrebbe prevalso per sempre.

È vero che lo spirito dei tempi ha lavorato a favore di Londra. Durante i quindici anni trascorsi dal crollo dell’ordine bipolare, il modello globalista-neoliberista controllato a distanza da Washington ha innestato una marcia in più, mentre la NATO, invece di scomparire con la Guerra Fredda, si è adattata, rinvigorita e ha persino effettuato una vera mutazione. In queste circostanze, Londra non ha avuto troppe difficoltà a promuovere, nelle parole dell’ambasciatore Usa, “la posizione comune anglo-americano all’interno dell’UE”. In vista del referendum sulla Brexit, il presidente Obama ha messo in guardia gli elettori britannici: la presenza di Londra è la garanzia che l’UE rimanga economicamente aperta e militarmente attaccata all’America. Sarà interessante osservare, dopo la Brexit, come si comporteranno i paesi membri che fino ad ora, su questi due temi, si nascondevano comodamente dietro Londra.

Minare, dall’esterno

Allo stesso modo, saranno intriganti da osservare gli sforzi che gli inglesi dispiegheranno, d’ora in poi dall’esterno, per indebolire qualsiasi dimensione politica e strategica dell’Unione. Un esempio molto divertente è il caos intorno al sistema di navigazione satellitare, Galileo (“GPS europeo”). Londra è sconvolta dalla perdita, a seguito della Brexit, del suo accesso automatico al “servizio pubblico regolamentato” (PRS) crittografato e ultra sicuro, controllato dai governi e dalle istituzioni dell’UE e in gran parte dedicato agli usi militari. La Gran Bretagna ha giurato il giorno dopo il referendum sulla Brexit che avrebbe messo in atto un proprio sistema simile, dicendo: “la sicurezza dei nostri soldati non può dipendere da un sistema esterno, che non dipende da esso”. Curioso argomento del Paese che, al lancio del programma Galileo, aveva lottato con le unghie e con i denti per impedire ogni uso militare. Con il pretesto del GPS e della NATO, non aveva trovato nulla di imbarazzante nell’essere, insieme a tutti gli altri europei, dipendente da un sistema sotto il controllo esclusivo americano.

Risultato della contesa: oggi l’Europa ha un proprio sistema di navigazione satellitare globale, mentre Londra può solo sperare in una costellazione regionale attaccata al GPS. Per una volta, l’Europa non ha ceduto ai tentativi britannici di sbrogliare. Perché Londra aveva chiesto, al di là dell’accesso diretto, un posto e una voce nel corpo di “governo” e controllo di Galileo. Esattamente come chiede un accesso privilegiato al Fondo europeo per la difesa (FES) destinato ai programmi europei di armamento, dal bilancio dell’UE. Questo gli avrebbe permesso di prendere due piccioni con una fava. Perché la Gran Bretagna ha sempre fatto di tutto per rendere le istituzioni della politica di difesa dell’UE più “flessibili”, cioè permeabili agli alleati della NATO che non sono membri dell’Unione. Da ora in poi, proverà a continuare lo stesso lavoro di affondamento, ma questa volta dall’altra parte dell’uscio.

Faccia a faccia franco-tedesco

Il successo dei tentativi britannici dipende dal fatto che i restanti Stati membri vi cedano o meno. Innanzitutto la Germania, caratterizzata da un’eterna ambiguità ma che generalmente si trova (sulla questione del grande mercato transatlantico di libero scambio o sul primato dell’Alleanza atlantica) piuttosto vicina agli inglesi. Charles Grant, il direttore del Centre for European Reform con sede a Londra, ha avvertito i parlamentari di Sua Maestà all’inizio degli anni 2010: la Gran Bretagna non può permettersi di essere passiva all’interno dell’UE, perché la sua emarginazione rischierebbe di avvicinare le posizioni di Berlino su queste questioni a quelle francesi. Non è un caso che oggi, a seguito della Brexit, la meccanica interna del motore franco-tedesco sia sotto i riflettori.

Con la partenza di Londra, Parigi e Berlino hanno perso un forte alleato all’interno dell’UE, ovviamente su argomenti diversi. Per la Francia, la Gran Bretagna è stata utile nella misura in cui – a differenza della maggior parte dei paesi membri, Germania inclusa – comprendeva l’importanza cruciale di costruire capacità militari (anche se Londra lo considerava piuttosto all’interno della struttura della NATO) e che era ferocemente desiderosa di preservare il carattere intergovernativo delle politiche estere, di sicurezza e di difesa europee. Per i tedeschi, gli inglesi sono stati un prezioso freno, sempre pronti a bloccare qualsiasi iniziativa francese che mirasse ad emarginare la NATO o mettere in discussione i principi del libero scambio deregolamentato. A seguito della Brexit, questo comodo scudo scompare su entrambi i lati; Francia e Germania si trovano ora faccia a faccia.

È sempre più difficile negare che, dietro i grandi discorsi europeisti, i due cerchino di posizionarsi nel modo più vantaggioso possibile l’uno sull’altro. Parigi vorrebbe correggere la sopraffazione economica tedesca proponendo meccanismi di solidarietà finanziaria europea, sempre più collettivizzanti. Berlino, da parte sua, si sta sforzando di neutralizzare le risorse diplomatiche e militari francesi (come il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o la superiorità nella tecnologia delle armi) spingendo, nell’UE, per una sempre maggiore integrazione in queste aree e sostenendo un passaggio delle decisioni a maggioranza qualificata. I due cercano di raccogliere intorno a loro quanti più alleati politici possibili, consapevoli delle rispettive debolezze.

La fine, ma la fine di cosa?

Chris Patten, ex commissario europeo per le relazioni esterne e rettore dell’Università di Oxford, ha prontamente ricordato un disegno della Chained Duck degli anni ’70 che mostrava un minuscolo Primo Ministro britannico, a letto, tra le braccia di una voluttuosa regina, Europa. Quest’ultimo, ovviamente seccato, gli disse: “Entra o esci, mio ​​caro Wilson. Ma smettila con questo ridicolo andirivieni ”. Con la Brexit, gli inglesi finalmente hanno obbedito e se ne sono andati, ma solo dopo più di quarant’anni. Inoltre, nel frattempo avevano in gran parte ridisegnato l’Europa striminzita. Come efficaci portatori dell’ideologia dominante degli ultimi decenni, sono riusciti a diluire il progetto al punto che, oggi, la stragrande maggioranza dei restanti Stati membri perseguirà la linea atlantista-neoliberista. O piuttosto lo avrebbero perseguito … se gli eventi non fossero stati di ostacolo.

Perché in questo periodo di cose ne stanno accadendo a livello internazionale. La pandemia del nuovo coronavirus ha inferto un colpo grave, persino fatale agli occhi di molti, a un dogma globalista-neoliberista che vacilla già da dieci anni. Chi meglio  nell’illustrarlo se non il prestigioso Financial Times di Londra, la Bibbia dei decisori europei, il cui giornale stesso nel suo editoriale dell’aprile 2020 ha sostenuto una rottura con gli orientamenti degli ultimi quattro decenni e ha chiesto un maggiore interventismo da parte dei governi, più ridistribuzione, più spesa statale a favore dei servizi pubblici. Sul fronte transatlantico, la presidenza di Donald Trump ha avuto un effetto rivelatore simile. Dietro i grandi consessi occidentali programmati a intervalli regolari, la realtà è sempre più evidente: alleanza o no, le relazioni sono principalmente determinate dai rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Ciò è generalmente vero anche per lo stato attuale delle relazioni internazionali. La riconfigurazione dei centri di gravità ha dissipato le illusioni sul trionfo universale, inevitabile, del modello liberale occidentale; ha riproposto il confronto tra grandi potenze. Ciò rivaluta, nell’Ue, “la dimensione politica” e “l’autonomia strategica”, le stesse caratteristiche che la concezione britannica avrebbe voluto scacciare una volta per tutte. È questa combinazione di sviluppi esterni (e non la Brexit) che probabilmente rimescolerà le carte in Europa. L’ex primo ministro britannico Harold Macmillan è stato intervistato da un giornalista alla fine degli anni ’50 su ciò che più influenza la politica del governo. La sua risposta: “Gli eventi, mio ​​caro ragazzo, gli eventi! “. Il dilemma dei 27 paesi dell’UE in questi giorni è se rispondere all’accelerazione degli eventi secondo il punto di vista dell’impasse britannico o preferire rilanciare il progetto dell’Europa politica. Ovviamente stanno facendo quello che sanno fare meglio: esitano.

Il testo completo, in ungherese, è disponibile sul sito Portfolio, cliccando qui .

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/591-le_brexit_camouflet_ou_cadeau_pour_leurope

Mario Draghi, la sua potenza di fuoco_ con Antonio de Martini

Mario Draghi è ripiombato sulla scena politica. Salutato come un salvatore; etichettato come un esponente della grande finanza, delle lobby finanziarie, dei poteri finanziari. Un abito troppo stretto per un vero decisore politico o, nel minore dei casi, a stretto contatto con i decisori, con gli strateghi. Draghi è tornato in Italia per sistemare le cose, non per galleggiare. E’ diverse spanne sopra gli altri attori. Che poi ci riesca, sarà tutto da vedere.

L’Italia è un paese troppo importante per essere lasciato completamente alla deriva; è un tassello fondamentale per bilanciare la posizione di Francia e Germania; è una piattaforma imprescindibile per influire nell’area mediterranea. I pochi a non rendersene conto sono gli italiani e la quasi totalità del suo ceto politico. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vdmdkf-mario-draghi-la-sua-potenza-di-fuoco-con-antonio-de-martini.html

L’Europa dopo la pandemia, di Antonia Colibasanu

L’Europa dopo la pandemia

L’epidemia di COVID-19 ha fatto deragliare i piani dell’UE per il 2020.

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Nota del redattore: la seguente analisi è adattata dal libro di prossima uscita, “Contemporary Geopolitics and Geoeconomics”.

Per l’Unione Europea, due eventi avrebbero dovuto definire il 2020: la Brexit e l’imminente budget 2021-27, che include il cosiddetto Green Deal. Come la nuova leadership a Bruxelles ha annunciato all’inizio dell’anno, questi sviluppi avrebbero posto le basi per una nuova Unione Europea “geopolitica”. Renderebbero il blocco più forte, eliminando l’incertezza sulla perdita di un membro e trasformando l’economia per affrontare le sfide del 21 ° secolo. Dopo un decennio di instabilità, tutti in Europa hanno guardato alle visioni presentate dalla nuova Commissione europea e dal Parlamento europeo come un’opportunità per un nuovo inizio.

I motori di questa focalizzazione su quella che i francesi chiamano “autonomia strategica” – cioè il ripristino dell’indipendenza dell’Europa come attore economico, militare e politico – sono stati molteplici. Le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale sono diventate sempre più tese da quando Washington ha iniziato a esercitare maggiori pressioni sugli stati membri della NATO per aumentare la loro spesa per la difesa nel 2009 per affrontare il crescente squilibrio dell’alleanza. Le operazioni della NATO in luoghi come la Libia hanno evidenziato quanto l’Europa dipendesse dagli Stati Uniti per la sua sicurezza. Nel 2014, al vertice del Galles, i membri della NATO hanno deciso di aumentare la loro spesa per la difesa nazionale al 2% della produzione economica entro un decennio. Ma per l’Europa occidentale, di fronte a una crisi economica che si è trasformata in una crisi esistenziale per l’UE, e non sentendo minacce credibili alla sicurezza nazionale,

Ma se il mondo non sembrava una minaccia militare dalla maggior parte delle capitali europee, negli anni 2010 ha iniziato a sembrare pericoloso in altri modi. Anni di acquisizioni cinesi di aziende e infrastrutture europee strategiche, furti di proprietà intellettuale e la crescita e la fiducia in forte espansione della Cina hanno portato l’UE nel 2019 a cambiare lo status di Pechino da “partner economico” a “concorrente strategico e rivale sistemico”. La dipendenza dall’energia russa le dava uno scomodo grado di leva. L’instabilità cronica in alcune parti del Medio Oriente e del Nord Africa potrebbe rivisitare la crisi dei migranti del 2015-16 nell’UE. E a cominciare dall’amministrazione Trump, il blocco è stato sempre più schiacciato dagli Stati Uniti e tra Stati Uniti e Cina. Dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare iraniano nel 2018, l’UE non poteva sostenere le sue relazioni commerciali con l’Iran anche se gli interessi economici dei suoi membri favorivano tali relazioni. La guerra commerciale USA-Cina ha aumentato costi e rischi per le multinazionali europee le cui catene di approvvigionamento di solito attraversavano uno o entrambi i paesi. Nel 2019, la Cina ha minacciato la Germania, la più grande economia europea, con tariffe punitive sulle auto per fare pressione su Berlino affinché consentisse alle telecomunicazioni cinesi Huawei di costruire l’infrastruttura 5G del paese. Washington ha regolarmente sventolato la minaccia delle tariffe automobilistiche per cercare di ottenere concessioni sul commercio, in particolare un accordo commerciale UE-USA. Persino la Russia ha vietato le importazioni di una vasta gamma di prodotti agricoli dalla Polonia dopo che l’UE ha imposto sanzioni nel 2014 per l’annessione della Crimea da parte della Russia. -La guerra commerciale cinese ha aumentato costi e rischi per le multinazionali europee le cui catene di approvvigionamento di solito attraversavano uno o entrambi i paesi. Nel 2019, la Cina ha minacciato la Germania, la più grande economia europea, con tariffe punitive sulle auto per fare pressione su Berlino affinché consentisse alle telecomunicazioni cinesi Huawei di costruire l’infrastruttura 5G del paese. Washington ha regolarmente sventolato la minaccia delle tariffe automobilistiche per cercare di ottenere concessioni sul commercio, in particolare un accordo commerciale UE-USA. Persino la Russia ha vietato le importazioni di una vasta gamma di prodotti agricoli dalla Polonia dopo che l’UE ha imposto sanzioni nel 2014 per l’annessione della Crimea da parte della Russia.

L’impatto della pandemia

La pandemia ha accelerato queste tendenze. Cina e Russia hanno sfruttato le prime divisioni dell’Europa inviando pubblicamente forniture mediche e medici nelle regioni più colpite. Dietro le quinte la Cina ha persino minacciato di frenare le forniture mediche ai Paesi Bassi in aprile per costringere il paese a riconsiderare la possibilità di cambiare il nome della sua ambasciata di fatto a Taiwan. A marzo, i tedeschi erano sconvolti dopo che sono emerse notizie secondo cui l’amministrazione Trump aveva tentato di acquistare i diritti esclusivi per un vaccino contro il coronavirus in fase di sviluppo da parte di un’azienda tedesca (rapporti che sia Washington che la società hanno negato).

Peggio ancora per l’UE, la pandemia ha riportato in superficie il nazionalismo. Sebbene l’UE possa vantare il più grande mercato comune del pianeta, manca di strategie o obiettivi condivisi. Anche prima della pandemia, l’avvio dei negoziati sul prossimo bilancio a lungo termine, il quadro finanziario pluriennale (QFP), stava ricordando a tutti la fragilità del sindacato, mettendo in luce le disparità tra ovest ed est e tra nord e sud. Gli stati membri del nord, che sono anche i più sviluppati, non erano disposti a pagare per lo sviluppo degli stati del sud. I vecchi Stati membri dell’ovest – Stati come Francia e Italia, anch’essi sotto stress economico – non erano disposti ad accettare che i nuovi arrivati ​​nell’est avessero bisogno di finanziamenti per lo sviluppo dell’UE più di loro.

Quando il coronavirus ha cominciato a diffondersi in Europa, la prima reazione degli Stati membri dell’UE è stata quella di chiudere i confini per prevenire afflussi di persone e deflussi di forniture mediche. La protezione della salute della popolazione era una prerogativa nazionale e Bruxelles poteva assumere solo un ruolo di gestione, contribuendo a creare strutture in cui gli Stati membri potessero condividere le risorse. All’inizio, questo sistema ha fallito. Le richieste di aiuto umanitario dell’Italia, il paese più colpito all’inizio, sono state accolte da Cina e Russia prima dei pari dell’Italia nell’UE. La situazione è cambiata nel giro di poche settimane e gli Stati membri dell’UE sono riusciti a coordinare le loro azioni per aiutarsi a vicenda, anche condividendo alcune scorte mediche, ma si è appresa la lezione che il protezionismo prevale quando è in gioco la sicurezza nazionale.

A luglio, dopo la fine della prima ondata di blocchi nazionali, gli Stati membri dell’UE hanno deciso di stanziare 750 miliardi di euro (920 miliardi di dollari) a un fondo di recupero, denominato “Next Generation EU”, per garantire la “sopravvivenza del progetto UE”. Lo scopo del fondo a breve termine è aiutare le economie europee più deboli a riprendersi dalla recessione seguita alla crisi sanitaria e, a lungo termine, aiutare a colmare i divari tra gli Stati membri più ricchi e quelli più poveri. Potrebbe anche segnare un punto di svolta per il blocco, poiché è la prima volta che gli Stati membri emetteranno sul mercato obbligazioni a livello di UE (i cosiddetti coronabond). Il fondo di recupero rappresenta anche una svolta per l’affidabilità creditizia di alcuni Stati membri e la sostenibilità dei loro rating del debito sovrano. Nello scenario più ottimistico, l’accordo potrebbe persino portare l’UE più vicina a diventare un’unione politica, poiché il lancio (riuscito) dei coronabond avrebbe avvicinato il blocco più che mai all’unione fiscale. L’euro potrebbe anche diventare una valuta di riserva e le banche centrali avrebbero accesso a una nuova serie di grandi obbligazioni liquide da acquistare. Altri cambiamenti drammatici includono la sospensione temporanea delle norme dell’UE su debito, deficit e aiuti di Stato; accesso a prestiti condizionati alla luce tramite il meccanismo europeo di stabilità; e l’accesso a un nuovo fondo di disoccupazione denominato SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency).

Nel complesso, il processo decisionale dell’UE durante la pandemia si è dimostrato flessibile e adattabile. Sebbene ci siano diversi passaggi da compiere prima che il fondo di recupero sia completamente formalizzato – i trattati dell’UE richiedono che i parlamenti degli Stati membri ratifichino l’accordo – Bruxelles ha portato a decisioni difficili. Alla fine, però, è il pubblico che deciderà cosa funziona e cosa no, e quanto velocemente l’economia si riprenderà. Prima l’UE si riunirà e inizierà la ripresa economica, maggiori saranno le possibilità che essa svolga veramente un ruolo geopolitico importante a livello globale.

Europa orientale 

In nessuna parte dell’UE la divergenza nelle prospettive strategiche differisce più che tra gli Stati membri occidentali e orientali. Stati come la Francia e l’Italia cercano le loro minacce alla sicurezza nel Mediterraneo e non trovano la Russia tra di loro, ma per stati come la Polonia e la Romania la Russia è inevitabile. Occupando la via di mezzo, la Germania considera la Russia un partner economico, pur riconoscendone l’aggressività.

Per l’Europa orientale, l’UE è stata un motore efficace per lo sviluppo economico. Ma sono gli Stati Uniti ad essere visti nell’Europa orientale come il principale alleato contro la Russia, con la quale la maggior parte dei membri dell’UE ha interessi diversi. Pertanto, poiché l’Europa occidentale e gli Stati Uniti si sono discostati sulle questioni di sicurezza, l’Europa orientale deve mantenere un atto di equilibrio tra Bruxelles e Washington. Anche la creazione di alleanze regionali sostenute dagli Stati Uniti come la Three Seas Initiative è diventata una parte importante della strategia di difesa dell’Europa orientale.

La pandemia ha esacerbato l’instabilità nella regione. Una guerra nel Caucaso e disordini legati alle elezioni in Bielorussia hanno confermato sia la debolezza della Russia che la sua aggressività. Allo stesso tempo, la pandemia ha convalidato l’idea che la linea di contenimento occidentale – o americana – contro la Russia si sia spostata dall’Europa centrale all’Europa orientale, che attualmente comprende un triangolo di accordi strategici con Stati Uniti, Polonia e Romania. A luglio, Washington ha annunciato l’intenzione di ritirare 12.000 truppe dalla Germania in quello che ha descritto come un riposizionamento strategico delle sue forze europee. Gli Stati Uniti stanno attualmente negoziando con Polonia e Romania su ulteriori spiegamenti, nonché su nuove linee di cooperazione.

Con così tanta parte dell’Europa orientale in continuo mutamento, le sfide che la regione deve affrontare diventano più chiare se ci concentriamo sugli ultimi sviluppi nelle regioni del Mar Baltico e del Mar Nero.

Regione del Mar Baltico

Per Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, la Russia è la principale minaccia alla sicurezza. La Russia ha condotto una guerra ibrida nella regione da prima del 2010, ma i suoi sforzi si sono intensificati dopo il 2014, quando la rivoluzione ucraina ha rafforzato la sensazione a Mosca di essere minacciata dall’Occidente. Considerando che la maggior parte della comunità russofona nei paesi baltici si affida ai media russi per ottenere informazioni, lo scenario più temuto dai governi baltici è che il Cremlino possa orchestrare o aggravare segretamente un incidente interno che coinvolge la comunità russofona per provocare una crisi. La Russia potrebbe quindi trarre vantaggio dai disordini che ne seguiranno e intervenire militarmente a difesa della minoranza russa.

In risposta, la Polonia ha lavorato per garantire la sua partnership strategica con gli Stati Uniti attraverso la firma in agosto di un accordo di cooperazione rafforzata in materia di difesa. Nel dicembre 2019, i tre stati baltici hanno deciso di istituire una brigata NATO congiunta con la Polonia come paese quadro, con l’obiettivo di rafforzare la prontezza del fianco orientale della NATO. Tutti i paesi della regione hanno integrato nuovi concetti nelle loro strategie di sicurezza nazionale che contrastano gli attacchi ibridi provenienti dalla Russia o altrove. Varsavia sta anche negoziando con Washington per ulteriori 1.000 soldati statunitensi da aggiungere ai già 4.500 di stanza nel paese.

In prima linea tra la Russia e l’Occidente, però, c’è la Bielorussia, che è stata duramente colpita dalla pandemia di coronavirus. Dopo anni di stagnazione economica, il presidente Alexander Lukashenko, che ha ricoperto la carica da quando il paese è diventato indipendente nel 1994, ha rifiutato di prendere misure contro COVID-19. Sebbene il paese di oltre 9 milioni di persone avesse oltre 70.000 casi e oltre 700 morti entro la fine di settembre, Lukashenko ha tenuto duro, negando la gravità del virus e aggrappandosi al suo potere. In mezzo a questa crisi, il paese ha tenuto le elezioni ad agosto che Lukashenko vinse in circostanze dubbie, scatenando proteste persistenti e su vasta scala. Inaugurato per il suo nuovo mandato a fine settembre, Lukashenko è ancora al potere, ma Mosca può fare poco per migliorare la situazione.

La Polonia e gli altri stati baltici vedono la situazione in Bielorussia come un’opportunità per tirare il paese fuori dalla sfera di influenza russa e trascinarla in quella occidentale. Tuttavia, sebbene la Polonia e la Lituania abbiano sostenuto l’opposizione bielorussa, c’è poco altro che possono fare – non solo a causa della minaccia dalla Russia, ma anche a causa delle loro difficoltà socioeconomiche e della mancanza di strumenti specifici per aiutare l’economia bielorussa . La Bielorussia ha cercato per anni di stringere legami più stretti con l’UE, ma dipende ancora troppo dalla Russia per farlo, soprattutto dall’energia. La sfida principale per la Polonia e gli Stati baltici è che l’ambiente politico ed economico instabile della Bielorussia si estenderà all’Ucraina.

Regione del Mar Nero

La regione del Mar Nero è un punto critico tra l’Occidente, la Russia e il Medio Oriente. È stato il sito di due recenti operazioni di combattimento terrestre russe, nel 2008 e nel 2014, ed è un’area di transito critica per l’accesso marittimo russo alla Siria. Dal 2014 la Russia ha ampliato e modernizzato la sua flotta del Mar Nero. La flotta include ora nuovi sottomarini e fregate diesel con capacità di missili da crociera, nonché dispiegamenti di risorse di difesa aerea e costiera in Crimea. La Russia ha anche dispiegato truppe di terra aggiuntive nel suo distretto militare meridionale, che si estende tra il Mar Nero e il Mar Caspio e nel Caucaso settentrionale.

La Turchia, d’altra parte, aspira a diventare una potenza importante in Medio Oriente e oltre attraverso la sua politica neo-ottomana. Si è impegnata in una modesta cooperazione con la Russia in Medio Oriente in un momento in cui i legami di Ankara con Washington e le principali capitali europee si stanno logorando. La Russia ha anche acquisito maggiore influenza con la Turchia (e potenzialmente la Bulgaria) attraverso il suo gasdotto TurkStream. Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno cercando di lasciare il Medio Oriente, ma non possono ignorare gli sviluppi intorno al Mar Nero. E a causa della pandemia, la regione è in continuo mutamento. Ha indebolito le economie sia della Russia che della Turchia, rendendole solo più attente ai potenziali pericoli nelle loro terre di confine. La crisi nel Nagorno-Karabakh ne è un esempio.

Date le sue relazioni instabili con la Turchia, gli Stati Uniti hanno posto maggiormente l’accento sulle loro relazioni militari con la Romania. La base aerea di Mihail Kogalniceanu vicino a Constanta, inizialmente una base di transito per le operazioni militari statunitensi in Afghanistan, ha acquisito importanza negli ultimi anni poiché gli Stati Uniti hanno intensificato la loro partecipazione alle esercitazioni regionali. Anche il porto di Constanta sul Mar Nero ha ricevuto visite periodiche da navi statunitensi. Questa tendenza è stata accelerata dai recenti eventi nel Caucaso e dal potenziale di nuovi problemi nella regione (ad esempio, la transizione al potere in Moldova, dove un candidato pro-UE ha sconfitto l’incumbent filo-russo) o in Asia centrale.

All’inizio di ottobre, gli Stati Uniti e la Romania hanno firmato una roadmap decennale per la cooperazione in materia di difesa e un accordo di finanziamento da 8 miliardi di dollari per la modernizzazione della centrale nucleare di Cernavoda. Gli Stati Uniti hanno anche annunciato un altro accordo di finanziamento da 7 miliardi di dollari per modernizzare e completare le infrastrutture stradali e ferroviarie che collegano i mari Nero e Baltico. Poi, alla fine di ottobre, gli Stati Uniti e la Bulgaria hanno firmato un memorandum d’intesa sulla cooperazione nucleare, indicando che la Bulgaria probabilmente utilizzerà la tecnologia statunitense per sviluppare il suo reattore nucleare di Kozloduy. I due paesi hanno anche firmato un accordo sulla sicurezza 5G. Sebbene non sia stato menzionato il progetto nucleare bulgaro di Belene, attualmente in fase di sviluppo con la Russia, questi annunci indicano i passi intrapresi dagli Stati Uniti per limitare l’influenza russa nella regione. Infatti, 

Conclusioni 

È ancora troppo presto per sapere come sarà il futuro post-pandemia dell’Europa orientale. Ma possiamo già vedere tre cambiamenti che prendono forma che avranno un impatto sull’equilibrio di potere regionale.

In primo luogo, aumenterà l’impegno degli Stati Uniti nella regione. Considerati i crescenti legami con la Polonia e la Romania, gli Stati Uniti probabilmente assumeranno un ruolo più importante nella governance regionale. Ciò presenterà nuove opportunità di sviluppo economico e riforme strutturali che potrebbero portare a un’ulteriore integrazione nella grande regione dell’Europa orientale, dal Mar Baltico al Mar Nero. Allo stesso tempo, tuttavia, aumenterà anche il potenziale di resistenza in aree e settori in cui l’influenza russa è forte.

In secondo luogo, la sovranità economica dell’UE aumenterà. Il mercato comune è il fondamento del blocco e con la crescita del protezionismo in tutto il mondo, in particolare negli Stati Uniti e in Cina, i suoi stati membri probabilmente guarderanno a Bruxelles per imporre misure protezionistiche per abbinare quelle introdotte da altre potenze globali. Considerando che i paesi dell’Europa occidentale e orientale hanno interessi economici diversi, queste misure potrebbero dividere il blocco. Se, tuttavia, i suoi membri raggiungono un raro accordo su come imporli, potrebbero effettivamente trasformarsi in un primo passo verso una maggiore unità politica.

In terzo luogo, il settore energetico rimarrà fondamentale per l’integrazione e la stabilità dell’UE. L’UE non ha rinunciato al Green Deal. Al contrario, il supporto sembra essere cresciuto. Il Green Deal sostiene la parità di accesso alle moderne infrastrutture energetiche per tutti i membri dell’UE, il che è particolarmente importante durante le crisi come quella che l’Europa sta attualmente affrontando. Tuttavia, il Green Deal riconosce anche il divario tra Europa orientale e occidentale quando si tratta di energia. Sembra che alcuni paesi dell’Europa orientale – vale a dire Polonia, Romania e Bulgaria – abbiano cercato negli Stati Uniti, invece che nei loro vicini a ovest, un sostegno per modernizzare la loro produzione di energia nucleare. Progetti come Nord Stream 2 e Turkish Stream hanno anche diviso il continente.

La sfida più grande dell’Europa resta la polarizzazione, in particolare delle sue nazioni orientali. È probabile che il divario tra aree rurali e urbane e tra classi si approfondisca man mano che la pandemia continua. L’anarchismo diventerà una minaccia crescente, poiché intere aree all’interno di questi stati potrebbero diventare ingovernabili.

Ma man mano che queste sfide diventano più chiare, potrebbe crescere anche l’apertura alla riforma. I leader dovranno adattarsi alle nuove realtà e trovare modi creativi per colmare le lacune, sfruttando il progresso tecnologico disponibile. L’Europa orientale dispone delle risorse umane necessarie per sostenere il progresso tecnologico, ma resta da vedere quanta di quella creatività e adattabilità si tradurrà in ristrutturazione politica e se alla fine porterà a un cambiamento positivo per la regione.

tratto da https://geopoliticalfutures.com/europe-after-the-pandemic/

Per una nuova integrazione economica franco-italiana, di Alessandro Aresu

Un punto centrale della collocazione internazionale dell’Italia, divisa ed assorbita dalla anglosfera, dall’influsso transalpino e da quello tedesco secondo una precisa scala gerarchica, potenzialmente disfunzionale. Il problema, soprattutto verso una potenza di dimensioni paragonabili con quella italiana, è ancora di più la qualità, la capacità e l’ambizione della nostra classe dirigente, nemmeno capace di selezionare decentemente i propri interlocutori d’oltr’Alpe, vedi l’affare Telecom_Giuseppe Germinario

Marcello De Cecco era un personaggio unico sia per la sua curiosità che per la diversità dei suoi interessi. È morto nel 20161. Economista e storico abruzzese, come il grande banchiere umanista Raffaele Mattioli, De Cecco ha saputo coniugare nella sua carriera apertura internazionale e divulgazione giornalistica. Attento osservatore degli squilibri nella zona euro e delle ambiguità dell’ondata di privatizzazioni italiane degli anni Novanta, De Cecco è anche all’origine dell’idea che qui analizzeremo e riprenderemo: l’integrazione economica franco-italiana.

Questo il titolo di un articolo ormai dimenticato del ricercatore italiano pubblicato su Le Monde nel 19932. L’articolo prende come punto di partenza il “terremoto” geopolitico e monetario dei primi anni 90. Alla fine della Guerra Fredda, De Cecco ha visto una tendenza neogolliana tra i leader tedeschi. La Germania si preparava ad “affrontare il mare aperto della politica internazionale” investendo massicciamente nelle sue regioni orientali. La priorità per Francia e Italia era capire il nuovo ruolo svolto dalla Germania. Secondo De Cecco, “un’Europa balcanizzata è perfetta per la nuova Germania”: il più alto livello di integrazione economica potrebbe essere raggiunto dall’ex Germania dell’Est formando un nodo strategico più ampio a livello dell’Europa centro-orientale, prima in ambito geoeconomico, poi in altre aree di integrazione. Il vecchio equilibrio integrazionista, fondata su una Germania divisa, era già obsoleta. L’unico modo per bilanciare il nuovo gigante, secondo De Cecco: “un’altra entità di dimensioni paragonabili alla Germania. Questa nuova entità può essere formata solo da una più profonda integrazione economica tra Italia e Francia. ” Perché ? “Da un punto di vista industriale, l’Italia è una Germania in scala ridotta. Ma, dove è debole, l’industria francese è forte. ”

La “nuova entità economica latina” non è germanofoba, ma indica un problema inevitabile che si presenta all’integrazione europea, quando questa è legata solo a una catena del valore geo-economica tedesca in crescita.

ALESSANDRO ARESU

Nel 1993, questa sostanziale parità in termini di punti di forza rendeva difficile il perseguimento, ma le integrazioni e le fusioni aziendali sembravano ancora possibili nei settori automobilistico, chimico, aeronautico e persino l’industria dell’acciaio. De Cecco ha anche ricordato il percorso già intrapreso nell’industria alimentare e nell’elettronica. Ha accusato i francesi di non avere la volontà politica di concretizzare i progetti industriali di cui sopra. E ha invitato gli “orgogliosi cugini transalpini” ad abbandonare gli stereotipi offensivi dei mafiosi e dei mangiatori di spaghetti italiani. Era quindi il momento di capire che una più profonda integrazione con una più ampia economia tedesca e con un centro di gravità allargato avrebbe portato a un’erosione della “individualità economica” della Francia. L’opzione italiana, invece, ha costituito la via ideale per la potenza francese, che ha saputo dispiegare anche la sua “capacità di costruzione e gestione delle infrastrutture” all’interno di uno spazio geopolitico. Su questo punto, il dono profetico di De Cecco ci riporta subito al nostro presente: il “ nuova entità economica latina Non è germanofobico ma indica un problema inevitabile che si presenta all’integrazione europea, quando questa è legata solo a una catena del valore geo-economica tedesca in crescita. De Cecco ha avanzato un argomento politico: “Non è possibile credere, anzi, che italiani e francesi si sottometteranno tranquillamente alla necessità di chiudere sempre più fabbriche nei due Paesi, che saranno, s «restano divisi, schiacciati dalla produttività della rinnovata industria tedesca, rafforzati dai bassi salari dei paesi dell’Est, a cui le aziende tedesche stanno già trasferendo la produzione. “L’integrazione franco-italiana potrebbe dialogare su un piano di parità con la Germania, potrebbe concentrarsi sul” collegamento ferroviario rapido Torino-Lione, alla gestione congiunta dei porti del Mediterraneo, che oggi hanno una concorrenza assurda, agli accordi tra le acciaierie di Taranto e Fos, le più moderne d’Europa, alla creazione di grandi holding franco-italiane in aeronautica, chimica, petrolifera e, soprattutto, nel settore automobilistico. Per questo De Cecco ha fatto appello alla “tradizionale capacità visionaria dei leader francesi” che “non può restare fissa sull’asse Parigi-Bonn”.

È proprio l’attualità delle questioni industriali sollevate da De Cecco che dovrebbe portarci a interrogarci sul nostro presente. Tra gli altri attori globali, i progetti industriali e geoeconomici sono ancora quelli di trent’anni fa? Leggendo questo articolo visionario, l’impressione di aver perso tempo è opprimente. Un’impressione diversa da quella che si può avere negli Stati Uniti, Cina, Giappone, Corea del Sud, Taiwan: luoghi che non hanno mai smesso di inventare il futuro. Non credo che De Cecco conoscesse nel 1993 il testo di Alexandre Kojève sull’impero latino, riapparso nel 19903, ma non posso escluderlo: in ogni caso si è avverata la sua profezia sullo scenario europeo di un allargamento della sfera economica tedesca e centro-orientale, mentre non è apparso alcuno “spazio latino”. . Non credo nemmeno che i “leader francesi visionari” – attori politici, industriali o finanziari – abbiano letto il testo di De Cecco mentre organizzavano le loro “campagne italiane”. Ma questa bottiglia in mare può permetterci di ottenere una fotografia di un momento importante per le nostre nazioni, in una svolta nella storia europea.

L’unione tra Francia e Italia rappresenta oggi circa il 26% del PIL dell’Unione, il 22,4% dei posti di lavoro e il 23,2% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il peso dell’Italia nell’economia europea è diminuito nell’ultimo decennio, quello della Francia è rimasto stabile, quello della Germania è aumentato. Il volume degli scambi tra Italia e Francia nel 2019 è stato di 86 miliardi di euro.

Ma per riportare in vita queste figure, torniamo alla nostra storia, e al grande Abruzzo della finanza italiana, Raffaele Mattioli, che in particolare ha contribuito a finanziare gli studi di Marcello De Cecco a Cambridge.4, classe 1939. Nel 1939 il giovane banchiere Enrico Cuccia sposò la figlia di Alberto Beneduce, ideatore dell’IRI, il cui nome era – in realtà – Idea Nuova Socialista. Mattioli offrì a Cuccia una mappa gigante (circa tre metri per due metri e mezzo) della Parigi del XVIII secolo, quando Michel Etienne Turgot lavorava come prevosto dei mercanti.5. Cuccia ha sempre tenuto il Piano di Parigi nel suo ufficio in Mediobanca, la banca di investimento del capitalismo italiano, che rappresentava anche un legame con il sistema francese, in particolare grazie alla grande amicizia tra lo stesso Cuccia e André Meyer, lo storico leader di Lazard negli Stati Uniti.

I legami instaurati tra istituzioni finanziarie come le banche rappresentano una delle caratteristiche a lungo termine del rapporto franco-italiano.

ALESSANDRO ARESU

Mediobanca è un hub finanziario: tra i partner francesi, oltre a Lazard, ci sono stati più recentemente player come Dassault, Groupama, Bolloré, la banca d’affari italiana che ha acquisito nel 2019 la francese Messier Maris. La storia delle banche italiane ha avuto diversi altri esempi. I legami che si instaurano tra le istituzioni finanziarie rappresentano una delle caratteristiche a lungo termine del rapporto franco-italiano. Possiamo ad esempio citare il finanziamento di missioni di interesse generale, che è sempre più importante nel nostro tempo. Nel 1816 la creazione della Caisse des Dépôts et Consignations fu opera del Conte Corvetto, ministro delle finanze francese nato a Genova. Il mondo italiano è stato quindi diviso e frammentato, rispetto alle opportunità offerte dalla Francia. La sua “sorellina” italiana, la Cassa Depositi e Prestiti, nasce nel 1850, prima dell’Unità d’Italia. Anche Roma si è rivolta a Parigi su questi temi negli ultimi tempi, quando ha cercato di integrare nel sistema italiano le lezioni del modello Bpifrance.

Oggi viviamo in un contesto diverso da quello di Cuccia e Lazard, e da quello di De Cecco. Viviamo all’ombra del conflitto tra Stati Uniti e Cina e vediamo nel capitalismo politico la progressiva espansione della sicurezza nazionale6. La Germania si è evoluta nella gestione di questa crisi, rispetto alla crisi precedente che ha indebolito tutti gli europei. Ma resta da dimostrare la capacità di realizzare progetti europei nel nostro continente. Dobbiamo raccogliere grandi sfide, come quelle che Emmanuel Macron ha esposto nella sua intervista con il Grande Continente . Quando si tratta di salute, digitalizzazione, sostenibilità, questo decennio porterà vincitori e vinti e cambierà le nostre società. Il fiume impetuoso dell’innovazione minaccia di mandare alla deriva gli europei, dopo un decennio di addormentarsi e perdere opportunità.

Borsa-Euronext, FCA-PSA, Fincantieri-STX, Essilor-Luxottica-Mediobanca-Unicredit-Generali, Tim-Vivendi-Mediaset, Crédit Agricole-Creval, Leonardo-Thales, Stm: questi sono, tra gli altri, industriali e a cui partecipano Francia e Italia.

L’Italia è la grande sconfitta nei trent’anni che ci separano da Maastricht e dal progetto De Cecco. È ovvio. Noi italiani dobbiamo riflettere sulla nostra debolezza. Il fenomeno delle multinazionali “tascabili”, che è comunque il nostro capitalismo medio, come descritto negli studi di Giuseppe Berta7e Dario Di Vico, devono affrontare disagi senza precedenti. La riluttanza finanziaria e organizzativa del motore essenziale del nostro sistema economico, le medie imprese con capacità internazionale, non è sostenibile nel medio termine. Inoltre, l’azionista Stato italiano si è ritirato da alcune aree (telecomunicazioni, autostrade) dove il settore privato non ha ottenuto buoni risultati. In questa fase lo Stato, attraverso strumenti finanziari e fondi sovrani, torna in prima linea. Alcuni imprenditori italiani si rivolgono alla Francia con una strategia di lunga data, a partire da Leonardo Del Vecchio, mentre è innegabile il coinvolgimento finanziario e industriale francese nel nostro Paese.

A mio avviso, è essenziale pensare in termini di dimensioni e scala: nel nostro mondo presente e in futuro, difficilmente possiamo fare nulla senza una scala rilevante.

ALESSANDRO ARESU

A mio parere, è essenziale pensare in termini di dimensioni e scala: nel nostro mondo presente e in futuro, difficilmente possiamo fare nulla senza una scala rilevante. Il sistema finanziario italiano non ha potuto trarre alcun reale beneficio dagli insegnamenti di Antoine Bernheim, nonostante quest’ultimo sia stato a capo di Generali da molti anni. È il suo sostegno ad Arnault e Bolloré che gli è valso giustamente il soprannome di “padrino del capitalismo francese”8. Tuttavia, noi italiani non avevamo un Thierry Breton nazionale per unificare i nostri servizi di sistema informativo. Alla fine degli anni ’90 Telecom Italia era di gran lunga la migliore azienda di telecomunicazioni in Europa. Un “complotto automobilistico” italiano lo ha seriamente indebolito modificando gli equilibri di potere. Ma le grandi società di telecomunicazioni europee devono affrontare gli stessi problemi di redditività se vogliono essere competitive in termini di frontiere tecnologiche, e queste domande riguardano anche i francesi.

L’Italia ha perso, ma la Francia non ha certo “vinto”. La pandemia ha solo confermato il fatto che i due paesi hanno difficoltà comuni. In assenza di un equilibrio di potere tra i due Paesi, negli ultimi anni è emersa una strategia offensiva, in quanto i francesi hanno esercitato maggiori pressioni sull’Italia, attraverso una serie di acquisizioni e operazioni in diversi settori industriali. . Ma questo non è stato fatto senza resistenza: tutti i paesi sono impegnati in una “corsa alla sicurezza nazionale”, che è e sarà rafforzata dalla pandemia. Nessuna strategia industriale su scala bilaterale o continentale può funzionare senza un tessuto di fiducia. Altrimenti prevarrà la resistenza all’integrazione ei mercati europei non avranno un governo industriale autonomo,

Inoltre, dovremo anche trattare tutti con la Germania dopo l’era Merkel , una situazione che non si era mai vista prima. Nello sviluppo della costruzione europea è secondo me impossibile che, in un futuro irrigidimento della posizione tedesca, la Francia lasci sola l’Italia ad affrontare il suo destino. Troppi legami uniscono i due paesi. I sentimenti degli italiani per la Francia oscillano tra complesso di inferiorità e fastidio. Si tratta di un problema reale, a cui è legata la convinzione degli italiani che l’opzione francese potrebbe essere messa in discussione da un improbabile ingresso dell’Italia nell’Anglosfera.. Sul piano geopolitico, la Francia ha spesso agito in sottile o aperto contrasto con l’Italia, senza trarne alcun reale vantaggio. Basti pensare alla guerra in Libia. La colpa è della Francia, la sconfitta è di entrambi. Sul nostro terreno di gioco nessuno ha i mezzi per comportarsi da “padrone”: siamo ridotti a fare appello agli Emirati sul terreno. Ma possiamo davvero continuare così? No, soprattutto perché le storiche divergenze tra le nostre aziende in campo energetico stanno affrontando un terremoto tecnologico e finanziario. Devono anche affrontare nuovi “campioni” in nuove arene.

Su quali basi possiamo ricostruire l ‘“integrazione economica franco-italiana”? Non tornerò qui nei dettagli di tutte le pratiche industriali e finanziarie aperte, ma le traccerò.

Primo punto: dobbiamo parlare francamente dei nostri contrasti, invece di tornare ai vecchi “file” o perdere tempo. Ce lo deve insegnare soprattutto la vicenda Fincantieri-STX e il susseguirsi di alti e bassi nel settore delle telecomunicazioni: non dobbiamo tardare a mettere sul tavolo i nostri interessi senza dare alla situazione il tempo di deteriorarsi. Altrimenti, continueremmo a riempire sempre di più le tasche degli avvocati. Una forma di sostegno economico indiretto, certo, ma che non è esattamente ciò di cui hanno bisogno le nostre economie.

Dobbiamo mostrare a una nuova generazione che la dimensione mediterranea non è una chimera. Come dice spesso il ministro Giuseppe Provenzano, siamo una generazione cresciuta cullata dalla “promessa” di un’unione tra il Mediterraneo e l’Africa che non ha prodotto alcun effetto reale.

ALESSANDRO ARESU

Secondo punto: i gruppi che saranno il risultato di una nuova unione franco-italiana non possono essere guidati solo da francesi. Certo, la Francia è un’economia più grande dell’Italia e ha un sistema istituzionale migliore. Non c’è bisogno di negarlo. L’Italia, invece, ha ancora dei punti di forza e non può essere “acquisita” dal sistema francese, in particolare perché in settori strategici è tecnicamente impossibile farlo senza un accordo. Altrimenti, le reazioni renderebbero le relazioni disfunzionali. Quando parlo di gruppi, intendo anche le aree che contano davvero: alta tecnologia, elettronica, ingegneria dei sistemi, difesa e sicurezza, infrastrutture, finanza.

Terzo punto: dobbiamo mostrare a una nuova generazione che la dimensione mediterranea non è una chimera . Come dice spesso il ministro Giuseppe Provenzano, siamo una generazione cresciuta cullata dalla “promessa” di un’unione tra il Mediterraneo e l’Africa che non ha prodotto alcun effetto reale. L’ opzione “latina” di De Cecco può avere senso solo se, in questi campi logistici, economici e geopolitici, la collaborazione italo-francese darà i suoi frutti. Una collaborazione che può essere svolta anche nel campo della finanza sostenibile, in un percorso già avviato dalla Francia con Finance in Common , che potrebbe essere ripreso dal G20 sotto la Presidenza italiana.

Quarto punto: dobbiamo anticipare il terremoto nella catena del valore tedesca, nei suoi collegamenti con la produzione italiana di componenti e robotica industriale, che è ancora un settore di eccellenza. Dobbiamo coordinare gli investimenti in nuove catene di approvvigionamento di elettricità e tecnologie all’avanguardia in relazione ai mercati europei e alle catene di approvvigionamento manifatturiere, anche attraverso relazioni più strette con università, politecnici e centri di ricerca. Ricerca. Non diciamo mai più che dobbiamo creare una DARPA o BARDA europea se non siamo in grado di farlo entro un anno, se non siamo in grado di riguadagnare la nostra ambizione,

Dal 2018 Francia e Italia discutono del Trattato del Quirinale. Tutti questi elementi possono far parte di un nuovo patto tra Italia e Francia, di cui dovremmo discutere il più rapidamente possibile, mentre siamo ancora di fronte alla tempesta del coronavirus e delle sue incognite. Dovremo essere pronti almeno per ottobre 2023, quando festeggeremo i trent’anni dalla pubblicazione dell’articolo di De Cecco.

FONTI
  1. Questo testo inedito riprende diversi studi sui rapporti economici e geopolitici tra Francia e Italia, pubblicati dal 2016 sulle riviste italiane Limes , Atlante Treccani , L’Espresso .
  2. Marcello De Cecco, “Per un’integrazione economica franco-italiana”, Le Monde , 2/10/1993. Sui progetti franco-italiani dei primi anni ’90 si legge la testimonianza di Paolo Savona, Come un incubo e come un sogno. Memorialia e moralia di mezzo secolo di storia , Rubbettino, 2018.
  3. Alexandre Kojève, L’empire latin (1945), in “Le regole del gioco”, I, 1990, 1
  4. Secondo la testimonianza di De Cecco in La figura e opera di Raffaele Mattioli , Ricciardi, 1999
  5. Cfr. L’opera di Giorgio La Malfa, Cuccia e il segreto di Mediobanca , Feltrinelli, 2014 o l’articolo di Fulvio Coltorti, “La Biblioteca storica di Mediobanca”, 8/10/2014, http: //www.archiviostoricomediobanca .mbres.it / documenti / FC_presentazione% 20della% 20Biblioteca% 20Mediobanca.pdf
  6. Alessandro Aresu, L’ Europa deve imparare il capitalismo politico , Le Grand Continent, 10 novembre 2020
  7. Giuseppe Berta, Che fine ha fatto il capitalismo italiano? , il Mulino, 2016
  8. Pierre de Gasquet, Antoine Bernheim: il padrino del capitalismo francese , Grasset, 2011.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/01/12/integration-economique-franco-italienne/?mc_cid=7aaa6f21c8&mc_eid=4c8205a2e9

Tre piani a confronto….e il bluff, di Giuseppe Germinario

Ad una rilettura il mio articolo del 23 dicembre scorso “tre piani a confronto…” https://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ mi era apparso eccessivamente livoroso. I contenuti li ho ritenuti validi, ma il tono troppo spietato per una partita tutto sommato ancora in buona parte da giocare. Colpa probabilmente della claustrofobia sedimentata in settimane di reclusione in una stanza d’ospedale.

Devo ricredermi! La realtà delle cose sta assumendo aspetti ancora più irrealistici e prosaici, mi si perdoni il gioco di parole.

Un giallo che sta assumendo i tratti multicolori di una farsa, elevando con ciò la compagine di governo, in particolare la triade Conte, Gualtieri, Di Maio e con un paio di rare eccezioni ridotte ormai al ruolo di mera testimonianza, la stessa riservata nel Conte I a Luciano Barra Caracciolo, al rango di giocatori delle tre carte.

In quell’articolo avevo sottolineato con forza che il piano di investimenti, il pezzo forte del PNNR (NGEU) italiano, sarebbe rifluito progressivamente in un recupero di investimenti in realtà già programmati e finanziati. Avevo specificato per altro che il documento prevedeva questa possibilità, ma di fatto avevo attribuito ai condizionamenti politici esterni, in particolare quelli dei ventriloqui della Commissione Europea, alla mancanza di ambizione e strategia del piano, al dissesto istituzionale e alla inadeguatezza dell’apparato tecnico-amministrativo centrale l’inesorabilità di quell’inerzia. Invito chi non lo avesse fatto, a leggerlo con una buona dose di pazienza.

Le fibrillazioni politiche interne allo schieramento politico che sostiene il governo hanno portato alla luce intanto uno degli aspetti cruciali di un piano mantenuto nella riservatezza e nel mistero, possibilmente sino al suo varo: i 4/5 di quel piano di investimenti sono già il recupero di opere già programmate e finanziate.

https://www.agi.it/estero/news/2020-12-31/discorso-fine-anno-angela-merkel-10867389/

Così recita il Ministro Gualtieri: “L’unico momento in cui la discussione si e’ accesa e’ stato quando il ministro Gualtieri ha ribadito che l’Italia non si puo’ permettere di puntare tutti i prestiti europei su progetti aggiuntivi perche’ questo farebbe schizzare il debito e rischierebbe di far saltare il percorso di rientro approvato in Parlamento. “

Quello che sarebbe stato l’esito di una inerzia delle cose, è in realtà una scelta politica ex ante del Governo.

Se si aggiunge il fatto che già dal 2023, non alla scadenza decennale del piano di azione, è già previsto un programma di rientro del deficit pubblico intorno al 2,5% medio annuo, di fatto una massa finanziaria all’incirca equivalente ai finanziamenti europei, il quadro diventa leggibile e trasparente, non ostante l’evasività mistificatoria dei nostri saltimbanchi; il Recovery Fund (NGEU-PNNR), almeno per l’Italia, si sta rivelando una mera partita di giro o poco più.

È l’evidenza che un accordo politico, magari di massima, con i ventriloqui della Commissione Europea c’è già, di fatto se non ancora formalizzato; un accordo frutto di una presa d’atto piuttosto che di una trattativa vera e propria.

Le fibrillazioni politiche non devono ingannare. I sussulti che scuotono il governo sono tutti interni a questa logica e se la tentazione di esasperare una strumentalizzazione a fini di bottega dovesse alla fine prevalere, gli efficaci strumenti di persuasione, trasformismo o di annichilimento non mancheranno di certo. Né del resto dalla parte dell’opposizione politica appaiono forze credibili, di una certa consistenza, capaci ed realmente intenzionate a sostenere uno scontro ed un confronto politico così arduo.

https://www.facebook.com/watch/?ref=search&v=394576961851749&external_log_id=0989f68c-cfe2-4d54-8bf2-12a64db07927&q=matteo%20renzi

I portatori di questa dinamica sono nel PD, le mosche nocchiere sono in Italia Viva, gli insulsi, gli inconsapevoli e gli opportunisti di basso rango nel M5S.

Forze che trovano lì, a Parigi, a Bruxelles, a Berlino, dire anche a Washington sarebbe forse una sopravalutazione, la propria legittimazione e la propria ragione d’esistenza.

Qualche beneficio d’inventario, con qualche buona volontà, lo si potrà pur concedere: il trasferimento possibile dalle spese ordinarie agli investimenti, sia pure sempre meno strategici, può rientrare nel ventaglio dei margini operativi; gli stessi investimenti già previsti, programmati e finanziati, senza il Recovery Fund rischierebbero di essere quantomeno dilazionate; la stessa consistenza effettiva dei piani di rientro del deficit dipendono molto dall’accondiscendenza politica verso i ventriloqui della C.E., dalle dinamiche geopolitiche ad essa legate e dai rischi politici interni al paese. Tutti fattori che potrebbero agire quantomeno nella funzione di moltiplicatore keynesiano del piano, almeno nell’immediato; non nella futura posizione strategica del paese.

Qualche beneficio d’inventario in meno, in verità uno spreco criminale alla luce del futuro che si sta profilando, si stanno rivelando la pletora di bonus elargiti allegramente e meschinamente nella fase iniziale di emergenza.

Ma ormai nelle dinamiche della UE le opzioni di politica economica dell’Italia sono strette non in una, bensì in due morse: quello del principio di austerità che deve regolare il rientro del deficit pubblico; quello della rimessa in discussione, per inadeguatezza del piano, dello stanziamento dei fondi di NGEU. Due ganasce che sottendono dinamiche geoeconomiche e geopolitiche interne alla UE e soprattutto esterne ad essa che vanno bel oltre le capacità di comprensione e di azione del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente; limiti che stanno portando questi ultimi ad un livello di connivenza e complicità a titolo sempre più gratuito.

Lo stellone, le competenze sempre più disperse e il genio italico, sia pure appannati, purtuttavia rimangono e covano sotto le ceneri; emergono qua e là, capaci di disegnare gioielli come l’ultima portaerei varata a Trieste. Sono strumenti però utili, tra i tanti possibili, a chi li sa e li vuole utilizzare.

Già in altre fasi storiche il genio e lo stellone italici hanno tratto il classico coniglio dal cappello nelle situazioni più complicate e disperate, a partire dal conseguimento stesso dell’Unità d’Italia e dalla fondazione della Repubblica. Lo hanno potuto fare nei momenti più traumatici e drammatici. Oggi la situazione è, almeno per il momento, diversa. Viviamo in una fase nella quale la rana, cioè noi, si trova immersa ancora in una pentola ravvivata a fuoco lento. Più sarà lenta la fase di ebollizione, meno la rana capirà in tempo utile o in extremis in quale gioco nefasto, ma inizialmente confortevole è andata a cacciarsi.

grazie Boris, di Giuseppe Masala

Accordo sulla Brexit fatto. Ora bisogna certamente lasciare il tempo di far leggere agli esperti le oltre 2000 pagine ma qualche considerazione preliminare può essere fatta sulla base di quanto letto sul Financial Times che è certamente un quotidiano britannico, ma altrettanto certamente era schierato con gli eurofili britannici.
Il punto dirimente per come la vedo io è che Londra ottiene una corte apposita che arbitri le controversie che si verificheranno in futuro. La Corte di Giustizia europea è tagliata fuori. Dunque la Gran Bretagna esce nettamente dal giogo europeo.
L’Europa si accontenta dell’uovo oggi lasciando perdere la gallina domani: niente dazi e contingentamento di merci, dunque non perde il ricco mercato britannico.
Dunque, uno a uno? Direi di no, la Eu ha accettato questo compromesso perchè nelle more del disastro economico in corso la perdita del mercato britannico sarebbe stato un danno devastante, in alcuni stati in particolare; Francia che ha uno dei suoi pochi segni positivi sulla bilancia commerciale proprio con la Gran Bretagna, Irlanda, che se perdesse il mercato inglese o muore di fame o osce dalla Ue, ma anche Italia e ovviamente Germania hanno molto da perdere, la Germania certo poteva resistere il colpo, ma all’Italia mancava solo questo per completare un disastro a livelli che è impossible anche immaginare la profondità. Bruxelles tutto sommato limita i danni immediati. Ma perde la speranza di tenere Londra come una sorta di protettorato a sovranità limitata.
In compenso i danni a lungo termine per la UE sono devastanti. Perde il primo esercito, la prima diplomazia, il primo mercato finanziario, la seconda economia della UE. Lascia inoltre a Londra la possibilità di maramaldeggiare diplomaticamente. E soprattutto è indicata la strada per l’uscita agli scontenti. Ora tutti sanno che si può e che la UE non è così forte da poter infliggere danni irreparabili né diplomatici, né economici. Grazie Boris!

piani a confronto…da recovery, di Giuseppe Germinario

I Next Generation EU (recovery fund), in via di presentazione ed elaborazione da parte dei vari paesi aderenti alla UE, sono una straordinaria occasione per tentare di comprendere il punto di vista delle diverse classi dirigenti europee, riguardo al tipo di rappresentazione della crisi in corso, alle scelte strategiche per affrontare i mutamenti ed i riposizionamenti, alla consapevolezza dell’adeguatezza degli strumenti operativi necessari e disponibili rispetto agli obbiettivi.

Una occasione straordinaria, appunto, ma a condizione di non cadere nella trappola della fiera delle mirabilie nella quale ci stanno trascinando quelle classi dirigenti e quei ceti politici nazionali europei, in prima fila pateticamente gli italiani, i quali stanno puntando tutto ed univocamente su un intervento europeo dal carattere salvifico.

L’entità reale delle cifre non è ancora affatto scontata. La loro ripartizione tra indebitamento e sussidio ai beneficiari è ancora tutta da consolidare. Lo stesso vale per la effettiva composizione del carnet secondo la ripartizione dei fondi accumulati derivanti dall’inedita imposizione diretta degli organismi amministrativi comunitari, dall’emissione di titoli di indebitamento comuni e dalla contribuzione diretta degli stati nazionali. Per non parlare di una tempistica e di una diluizione degli interventi agli antipodi di un efficace intervento anticiclico. La consueta piega che sta prendendo l’istruzione della pratica NGEU, destinato a seguire pedissequamente il canovaccio delle collaudate procedure decisionali comunitarie, lascia presagire l’introduzione di condizionalità variabili in corso d’opera in funzione del grado di dipendenza da NGEU degli interventi nazionali. Se infatti per l’Italia il peso relativo di NGEU, unito ad altri importi residuali, si avvicina nella spesa di investimento pericolosamente al 100% dell’intervento complessivo, per la Germania ad esempio non arriva, secondo stime attendibili, nemmeno al 30%. Gli stessi fondi NGEU tra l’altro potranno assorbire e sostituire investimenti già in corso. Tutte dinamiche ed inerzie in grado di acuire come si vedrà il divario tra ambizioni dichiarate e risultati effettivi; per meglio dire in grado di mettere a nudo i reali obbiettivi strategici di fondo.

Paradossalmente tutte incognite, inerzie, logiche che fungono da ulteriore cartina di tornasole nel valutare la qualità dei ceti politici e delle classi dirigenti italici ed europei.

I piani esaminati sono quelli tedesco, francese ed italiano. Al momento quello tedesco è il più scarno ed essenziale negli indirizzi, anche se il giudizio è fondato sulla lettura di una mera sintesi della quale si offre uno schema predisposto da un collaboratore del sito:

IL PIANO TEDESCO

130 Miliardi totale

  1. 80 Miliardi nel breve termine, 50 miliardi investimenti a medio-lungo termine

  2. 35 miliardi sono dedicati alla voce greem automotive, H2

  3. riduzione IVA del 3% per sostenere il potere d’acquisto

  4. riduzione del costo dell’energia elettrica alle famiglie PMI

  5. introduzione della tassa sulla CO2

  6. niente bonus alle auto con motori a combustione interna

  7. sviluppo delle stazioni stradali di e.e. e filiera delle batterie per auto

  8. aumento di capitale delle ferrovie statali

  9. pochi soldi sul risparmio energetico negli edifici

  10. pochi soldi, quasi nulla per le politiche attive del lavoro

In breve importi non disdicevoli, ma largamente sottodimensionati rispetto alle potenzialità dell’economia tedesca; investimenti diretti indirizzati prevalentemente nel settore dei trasporti ferroviari e soprattutto delle infrastrutture stradali e industriali legate alla trazione elettrica, in un paese che a dispetto degli attivi commerciali stratosferici, ha lasciato languire malinconicamente il livello di efficienza delle infrastrutture. Per il resto si cade nella più tradizionale e generica politica di sostegno della domanda attraverso riduzioni fiscali e di tributi, tassazione mirata sulle emissioni ed incentivi agli acquisti e alla ricerca nel più tradizionale e più importante dei settori, dal punto di vista delle dimensioni economiche e delle implicazioni sociali, quello automobilistico. Si direbbe un classico esempio di perfetta ed anonima efficienza tedesca. E tuttavia il piano, preso a se stante, assume dimensioni ingannevoli in due sensi. Le dimensioni dell’intervento diretto del Governo Centrale tedesco e dei suoi laender vanno ben oltre quelle legate all’intervento europeo e soprattutto sfuggono in gran parte ai criteri di controllo ed applicazione europei. Il sistema neocorporativo che lega i destini e le strategie dello Stato, in particolare dei laender, dell’industria manifatturiera, del sistema bancario-finanziario e delle associazioni garantisce un indirizzo e pilotaggio delle risorse massiccio e capillare. Tutto bene quando si tratta di proseguire nello statu quo, sia pure dorato, attraverso il controllo sempre più stretto e ferreo delle catene di valore e di produzione, degli stessi standard di esecuzione resi possibili dai processi di digitalizzazione di secondo e terzo livello e da una intermediazione bancaria e finanziaria resa sempre più accessibile a tutto il settore grazie soprattutto alle garanzie offerte dalle aziende capofila del prodotto finale e alle coperture politiche-economiche ad esse garantite.

Una prospettiva, nelle more, che lascia entusiasti i giornalisti e scribacchini benpensanti del Corriere della Sera, i quali al pari della quasi totalità del ceto politico e della classe dirigente nazionali ritengono del tutto irrilevante ed ininfluente il livello di autonomia decisionale e di controllo gestionale delle aziende rispetto alla sovranità e alla coltivazione degli interessi nazionali. Irrilevante ed ininfluente, tranne che nella forma puerile e cialtrona di una tifoseria calcistica alla quale spesso ci hanno abituato ed indotti le classi dirigenti sorte dall’Unità Nazionale.

L’altro senso rappresenta il vero lato oscuro di un paese, la Germania che non ostante e proprio grazie alla sua potenza economica rischia di essere sempre più la zavorra in grado di annichilire le volontà e le velleità di indipendenza politica di un continente. Una conformazione e una dinamica di esercizio di potere interni in una collocazione geopolitica e geoeconomica che inibisce ogni seria ambizione di sviluppo nei settori strategici del controllo e gestione del digitale di primo livello, dell’aerospaziale, delle biotecnologie. Il poco che si riesce o si tenterebbe di fare (il progetto Gaya nel digitale, il progetto Galileo nel controllo dei posizionamenti, il Consorzio Airbus nell’aereonautica) nasce monco soprattutto nella sua parte militare, nasce spesso con ritardi incolmabili, sono frutto di fatto della esclusiva gestione cooperativa e conflittuale franco-tedesca, sono oggetto di mercimonio con la potenza egemone occidentale. In realtà la potenza tedesca continua ad essere un tramite di controllo geopolitico e di drenaggio di risorse, specie finanziarie, costretta a pagare pesantemente i propri radi sussulti di potenza di seconda se non di terza categoria. Lo si vedrà con la strisciante e possibilmente controllata distruzione di capitale legata alla crisi di Deutsch Bank e Commerzbank; lo si è visto nella trappola in cui è caduta il colosso della Bayer con l’acquisizione della americana Monsanto sino alla batosta nel settore automobilistico. Una propensione che si conferma e si accompagna ad un atteggiamento ottuso sul problema ambientale che accompagna il processo di decarbonizzazione a quello di denuclearizzazione. Una trappola ben conosciuta nell’Italia degli anni ‘80/’90, ma che evidentemente riesce a trovare nuovi emuli.

GLI ALTRI DUE PIANI IN PARALLELO

Si passa, quindi e ci si dilunga sui due piani esaminati dettagliatamente francese e italiano, senza entrare però troppo in particolari tecnici del tutto ridondanti rispetto alle finalità dello scritto.

Tutti i piani devono seguire obbligatoriamente due parametri stabiliti dalla Commissione Europea (CE) secondo un piano decennale di sviluppo; l’utilizzo di almeno un terzo delle risorse per la riconversione verde dell’economia e un’altra quota significativa nell’investimento massiccio nella digitalizzazione dei consumi, dei servizi e dei processi produttivi. Indirizzi i quali a loro volta rientrano pienamente nel filone del Grande Reset, inaugurato tre anni fa a Davos e ripreso in pompa magna in queste settimane anche in risposta all’emergere dei cosiddetti movimenti “nazionalisti e populisti”.

LA GREEN ECONOMY

L’investimento nell’economia verde è legata all’ideologia del catastrofismo ambientale che induce al contrasto ai cambiamenti climatici determinati dall’antropomorfizzazione del pianeta.

Una enfasi che comporta tre implicazioni importanti di natura regressiva e velleitaria:

  • i cambiamenti climatici, in realtà determinati nella più gran parte da forze ed elementi superiori alle attuali possibilità di controllo dell’uomo, vanno contrastati piuttosto che di essi bisogna prendere atto per adeguare l’intervento umano sul territorio

  • il problema del cambiamento climatico, spesso e volentieri ridotto ad un problema di riscaldamento e quello dell’inquinamento, spesso e volentieri semplicisticamente e meccanicamente connesso al primo, sono visti come un problema generalista ed universale, piuttosto che come una serie di problemi locali, per quanto sempre più estesi, da affrontare pragmaticamente secondo le condizioni regionali

  • le massicce dosi durgenza e di allarmismo iniettate nell’opinione pubblica impediscono di vedere l’impegno di riconversione delle attività come un lungo processo di transizione dai risultati spesso sperimentali e tutt’altro che certi e definitivi. Le conseguenze cominciano a manifestarsi nella loro gravità e contraddittorietà: il problema ancora insoluto dell’intermittenza della produzione di energia elettrica verde ha generato in California, terra di elezione dell’ambientalismo radicale, estesi e prolungati black out; la soppressione improvvisa e senza alternative dell’utilizzo di alcuni fitofarmaci nella produzione di soia e cereali in Francia ha generato in pochi anni un crollo della produzione di quei prodotti, una diffusione delle malattie in quelle specie e la perdita repentina della sovranità alimentare.

Anche l’approccio più dogmatico deve però in qualche maniera fare i conti con la dura realtà. Tutti e tre i documenti tentano questo bagno di realismo introducendo il concetto di “economia circolare” inteso nel migliore dei casi ancora poco rigorosamente come sistema di recupero e riutilizzo di rifiuti, scarti e prodotti usurati e/o alternativamente come creazioni di economie territoriali tendenzialmente più autosufficienti; nel peggiore dei casi come una scatola vuota dal carattere apertamente reazionario.

Questa l’impostazione di fondo comune che accomuna i due piani, cementata dalla prospettiva di creazione di una tecnologia dei carburanti, l’idrogeno, più promettente e tecnologicamente e industrialmente praticabile nel giro di un paio di decenni.

Una impostazione comune che nasconde una serietà di approccio, una intenzione, se non una capacità operativa e di programmazione del tutto divergente.

In Francia nel piano è evidente il tentativo almeno dichiarato di recupero di territori depressi e periferici attraverso la creazione di una nuova rete di trasporto pubblico, il risanamento e la valorizzazione di territori attraverso la manutenzione resa accessibile e sensata nei costi dal ripopolamento e dalla costruzione di economie pluricolturali fondate su turismo, agricoltura di nicchia, artigianato e piccola industria. In esse, la tecnologia dell’idrogeno assume dichiaratamente un ruolo fondamentale nella costruzione di una rete di trasporti meno inquinanti.

Il piano italiano utilizza gli stessi termini di green economy e di economia circolare per coprire l’estemporaneità degli interventi dagli effetti di qualche utilità nella funzione di moltiplicatore keynesiano immediato, ma del tutto controproducente dal punto di vista della coesione della formazione sociale e delle possibilità di sviluppo serio e duraturo del paese.

Il potenziamento della rete fisica di comunicazione si riduce sostanzialmente alla conferma di tre reti di alta velocità, due delle quali al sud e con esclusione integrale della Sardegna, in un contesto in cui scompare totalmente un ruolo europeo e nazionale dei quattro porti principali del Meridione d’Italia e non si accenna minimamente ad una proiezione del paese e di questi verso le economie del Mediterraneo. È assodato, ma non evidentemente per i nostri, che le reti di comunicazione possono rivelarsi fattori di sviluppo ma anche di regresso e polarizzazione economica se non accompagnate da altre politiche. Grecia docet.

La ricostruzione dei territori degradati e abbandonati si risolve in una serie di manutenzioni e ricostruzione di opere destinate a degradarsi nuovamente in tempi rapidi se non accompagnati da un ripopolamento ed una valorizzazione diversificata di quei territori. Eppure in Italia, anche se pochi, esempi riusciti di salvaguardia e valorizzazione da cui attingere esistono, in particolare in Trentino, in Alto Adige, ma anche in Toscana e in Piemonte. Tutto in realtà sembra risolversi nel potere magico di parole come turismo, cultura, agricoltura quasi che da sole e singolarmente riescano ad assumere una funzione salvifica a prescindere tra l’altro dalla capacità stessa delle realtà economiche nazionali e territoriali di quei settori, in verità sempre più deficitaria di incentivare, attirare e controllare con politiche proprie i flussi.

Un approccio del tutto acritico pervade anche i propositi di ulteriore sviluppo degli impianti di produzione di energia verde, in gran parte intermittente. Nessuna riflessione sulla tempistica e sul sistema dissennato di incentivazione al consumo che ha impedito e nemmeno considerato nei tempi d’oro di inizio millennio l’eventualità di creazione di una industria nazionale dei pannelli e di sistemi di produzione diversificati e di un artigianato locale preparato professionalmente, venuto fuori quest’ultimo a fatica solo a tempi di esecuzione inoltrati dei programmi. Il segno di uno scollamento dalle realtà economiche ed imprenditoriali e di una strutturale incapacità politica di assumere nelle decisioni tutti gli aspetti dei cicli operativi. L’idrogeno è diventata la nuova terra promessa già bella e impacchettata per tutte le occasioni: per le auto, per i treni e le navi, ma anche per salvare e riconvertire la produzione di acciaio dell’Ilva di Taranto. La parola che di per sé si materializza in fatto concreto e tangibile. La tecnologia è in effetti promettente, ma ancora in gran parte da realizzare e da rendere industrialmente praticabile. Soffre soprattutto di un handicap pesante, la conferma che non esistono tecnologie e interventi umani che non abbiano comunque un costo ambientale: i pesanti fabbisogni e costi energetici elettrici necessari a garantire attraverso l’elettrolisi la produzione di batterie ad idrogeno. Fabbisogni dai costi praticabili solo con la presenza di centrali nucleari.

Quali sono i paesi in grado di garantire questi costi e quantità praticabili? La Francia e, in caso di improbabile rinsavimento, la Germania.

Quale è il paese che ha ceduto totalmente il controllo delle tecnologie delle batterie, in pratica del tanto sbandierato e agognato futuro verde dell’economia, quanto meno dei trasporti? L’Italia, ovvero la nostra lungimirante classe dirigente e il nostro preveggente ceto politico, abbagliati dal loro stesso eurolirismo ed ecolirismo e così sempiternamente ossequioso verso una famiglia ormai di predoni, colti ormai con le dita nella marmellata in episodi sempre più meschini, più che imprenditoriale alla quale non si è eccepito nulla riguardo la vendita della Magneti Marelli e di gran parte del patrimonio tecnologico costruito e finanziato pubblicamente in settant’anni. Una condizione ormai ricorrente di un paese disposto a sobbarcarsi entro certi limiti i costi e le incertezze della ricerca ma alla quale manca sempre più di offrire le piattaforme industriali necessarie alla valorizzazione economica e alla tutela delle proprie competenze. Una posizione che le impedisce di entrare a pieno titolo nei processi decisionali e di creazione di nuove realtà industriali e imprenditoriali almeno di livello europeo. Processi per nulla spontanei e per niente determinati da astratti principi di mercato.

Una condizione che risalta ancora più drammaticamente nelle parti dei due documenti che trattano di digitalizzazione, ricerca, applicazioni industriali.

SCIENZA, RICERCA, DIGITALIZZAZIONE, PIATTAFORME INDUSTRIALI

Il documento francese sull’argomento offre tre linee guida e un principio chiari:

  • la concentrazione e il coordinamento dell’attività di ricerca in sei grandi poli già in fase avanzata di sviluppo

  • il recupero della tradizione di un paese di ingegneri, matematici e tecnici di alto livello costruita nei tempi d’oro del gaullismo e smarrita drammaticamente negli ultimi due decenni

  • la creazione di sinergie che consentano la traduzione delle attività di ricerca in applicazioni, sperimentazione e in piattaforme industriali. Sinergie da mettere in pratica con la interazione e la collaborazione a vari livelli tra centri di ricerca, agenzie ibride militari-civili, sistema finanziario, pubblica amministrazione e complessi industriali che guidino le varie fasi ed in particolare quella delle applicazioni industriali attraverso la creazione di start-up e della resa economica attraverso l’offerta di piattaforme industriali adatte a garantire la resa economica su larga scala

  • il recupero della sovranità nel settore agroalimentare, della produzione di quello sanitario e dei settori strategici ad alta tecnologia laddove il controllo nazionale delle imprese e delle loro strategie assume un aspetto cruciale

Il documento italiano rappresenta l’apoteosi dell’estemporaneità e della schizofrenia, in pratica un collage di auspici e denunce sterili:

  • nessun accenno alla organizzazione e riorganizzazione dei pochi centri di ricerca e delle università come pure nessuna indicazione concreta sul punto cruciale della trasformazione della ricerca in applicazioni industriali sperimentali attraverso la promozione di start-up e soprattutto della creazione, con l’impegno diretto delle imprese di piattaforme industriali in grado di garantire la resa economica su larga scala dei risultati della ricerca. Il documento, denunciando la scarsità di investimenti, affronta il problema con delle tautologie pure e semplici: segnala la scarsa attrazione esercitata sui ricercatori e propone un incremento delle retribuzioni e dei corrispettivi economici senza alcun accenno alla carenza di attrezzature e materiali e soprattutto alla riorganizzazione dei centri di ricerca; segnala la crescente carenza, rispetto alla media europea e ancora più impietosa rispetto ai diversi paesi emergenti ed emersi, di personale tecnico-scientifico altamente qualificato, stigmatizza che il sistema economico italiano non è in grado di assorbire in buona parte quello stesso personale e alla fine si limita ad auspicare una maggiore qualificazione e corrispondenza alle esigenze delle università e delle scuole superiori. Un approccio classico del progressismo democratico che riesce a garantire sì spesso processi di emancipazione individuale, ma che riesce a far diventare le già scarse risorse destinate alla formazione e alla ricerca dei meri costi per la società di fatto sempre meno sostenibili e di fatto giustificabili

  • se si vuole, ancora più enfasi viene dedicata ai processi di digitalizzazione. Qui l’approfondimento va suddiviso in due parti. Il documento registra a ragione una grande difficoltà nell’implementazione dei processi di digitalizzazione nelle attività produttive, in particolare quelle industriali. Una remora già ampiamente segnalata dall’ex-ministro Calenda, fautore del programma “industria 4.0”. Attribuisce alla insufficiente dimensione e alla scarsa preparazione manageriale delle imprese la scarsa capacità di assimilazione delle nuove tecnologie. Ma anche in questo caso lo sforzo di elaborazione e propositivo si ferma qui o poco oltre. Glissa vergognosamente sulla vera e propria abdicazione della grandissima parte delle famiglie imprenditoriali medio-grandi italiane. In una condizione di pur oggettiva maggiore difficoltà di esercizio delle attività rispetto agli altri paesi e in una situazione nella quale la gestione scellerata delle privatizzazioni e dismissioni ha incentivato le più importanti di esse (Benetton, Agnelli, Pirelli, ………..) a trasformarsi in percettori di rendite da concessioni o in cavalieri di ventura per conto terzi, per lo più stranieri, si assiste ad un vero e proprio esodo biblico, per altro lucroso e ben ricompensato, dalle attività prettamente imprenditoriali a favore di soggetti esteri senza che nessun componente della classe dirigente e del ceto politico abbia e continui ad avere nulla da obbiettare e a maggior ragione senza che gli stessi fossero disposti ad utilizzare gli strumenti legislativi, normativi e finanziari, per altro in buona parte disponibili, tesi a compartecipare e condizionare le scelte delle imprese impegnate in questa fase di transizione. La conferma dei limiti e della grettezza di un ceto, sempre latente a partire dall’unità d’Italia e pronta ad emergere alla luce del sole nei momenti critici come negli anni ‘30, negli anni ‘50/’60, negli anni ‘90 e in maniera ormai endemica in questo ventennio. A questa generale abdicazione e complicità non corrisponde nessun tentativo adeguato di prendere atto della situazione, di conoscerne i meccanismi allo scopo di implementare al meglio i processi di digitalizzazione. La rete di aziende medie e piccole assume certamente queste caratteristiche, buone a garantire flessibilità ma poco adatte a sostenere i costi e le competenze necessari alla digitalizzazione e alla automazione, tanto più che buona parte delle competenze professionali e delle capacità innovative sono legate alla creatività e al patrimonio professionale personale degli operai e tecnici in buona parte fuori dal controllo e dalla standardizzazione manageriale. È altrettanto vero, però, che queste imprese per operare ed aggiornarsi devono disporre di una rete esterna di professionisti ineguagliata nella qualità e soprattutto nella quantità rispetto agli altri paesi europei. Questa rete, in qualche maniera organizzata, probabilmente potrebbe essere uno dei veicoli trainanti di promozione e gestione dei processi. Lo stesso dicasi per lo strumento dei distretti aziendali e per la funzione delle aziende capofila, non a caso nel mirino delle acquisizioni estere, altrimenti poco spiegabili dal punto di vista della redditività delle operazioni. Quanto più però la rete imprenditoriale è frammentata, tanto più occorre una gestione ed un indirizzo politico e strategico saldo e pervasivo, in pratica l’esistenza di un ceto politico e di una classe dirigente ancora più determinata e lungimirante. Una determinazione ed una lungimiranza ancora più incisiva quando deve necessariamente essere applicata all’estero sia nelle sedi istituzionali europee e nei rapporti bilaterali che decidono delle norme di regolazione, dei progetti di collaborazione nei settori, dei programmi ci compenetrazione e compartecipazione delle aziende sia in egual misura nei meandri amministrativi della UE, dove la fa da padrona l’attività lobbistica di imprese e gruppi di pressione, senza nemmeno la relativa trasparenza garantita dalla legislazione americana. Qualità e intraprendenza politiche tanto più necessarie quanto devono sopperire allo scarso peso lobbistico delle aziende e dei gruppi di pressioni italiani.

  • Le occasioni e gli esempi in corso vanno ancora una volta in controtendenza rispetto alle necessità e alle opportunità e a conferma di un ceto politico e dirigente italico passivo e in perenne attesa, complice. I processi di digitalizzazione della determinazione e regolazione dei flussi nella rete dei trasposti nazionale ed europea avrebbero potuto diventare l’occasione per mettere lo zampino o almeno l’occhio nella gestione dei flussi commerciali a cominciare dai fulcri dei porti di Amburgo, Anversa e Rotterdam, forti della posizione geografica dell’Italia e delle potenzialità dei porti di Trieste, Genova e Taranto. Ancora una volta i nostri non trovano di meglio che cedere, in cambio della digitalizzazione e della capacità gestionale, in condominio e probabilmente di fatto spesso in esclusiva la creazione e gestione digitale dei flussi. È già accaduto a Taranto con i turco-cinesi, pur nella incertezza delle dinamiche geopolitiche, sta accadendo a Trieste e a Genova. Ancora più sconcertante e deprimente l’esclusione e di fatto la rinuncia alla partecipazione ai progetti franco-tedeschi nell’aerospaziale e nel progetto Gaya di controllo, elaborazione e gestione di primo livello dei dati e comandi digitali in grado di mettere al sicuro il sistema di controllo e comando di industria 4.0. Progetti ancora allo stato intenzionale, dall’esito incerto e alquanto improbabile perché destinato a scontrarsi con gli interessi geopolitici strategici degli Stati Uniti e a subire l’indifferenza della potenza emergente cinese. In questo ambito l’Italia è stata semplicemente ignorata, pur potendo contribuire in maniera significativa con il proprio patrimonio di competenze. L’intenzione dei nostri è quella di subentrare a giochi fatti ma solo con l’apporto dei sistemi di sicurezza e gestione dei dati costruito nel processo di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (PA). Un proposito allo stesso tempo riduttivo e a ben pensare inquietante

  • e infatti l’unico obbiettivo realistico e a portata di mano, realmente impegnativo nell’ambito della digitalizzazione è proclamato a chiare lettere nella PA. Anche qui, però, il progetto soffre di una rigida impostazione deterministica. Il presupposto di questo programma è che l’informatizzazione, l’integrazione e la digitalizzazione dei servizi presuppongano meccanicamente un unico modello organizzativo. Chi conosce anche genericamente questi processi sa benissimo che non è così e che la determinazione di un modello organizzativo, quello più adatto ai sistemi digitali e più compatibile con un funzionamento ordinato delle istituzioni e delle amministrazioni. Un approccio fideistico non farà che creare conflitti, sovrapposizioni e intoppi che porteranno a conflitti di sistema, ridondanze e aggiornamenti tali da prolungare indefinitamente la fase di transizione. Una dinamica già conosciuta nella riorganizzazione di specifici settori come quelli delle Poste e destinata ad espandersi esponenzialmente in un progetto ben più complesso e articolato

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E IL DISORDINE ISTITUZIONALE E AMMINISTRATIVO

Un tema a parte ed originale riguarda la riforma e la riorganizzazione della gestione della giustizia italiana. Un capitolo dai contenuti accettabili sempre che il Governo presente e futuro abbia la forza di mettere mano alle modalità di funzionamento dell’ordinamento giudiziario e saper gestire le dinamiche ormai perverse e destabilizzanti dei gruppi di potere interno ad esso.

Rimane completamente rimosso il problema del disordine istituzionale e della pletora dei modelli organizzativi di gestione delle pubbliche amministrazione alimentati in particolare dal processo di regionalizzazione avviato al finire degli anni ‘90. Un problema la cui soluzione è in realtà propedeutica ad ogni altro provvedimento di riorganizzazione delle strutture statali e il cui procrastinarsi lascia spazio al lento processo di liquefazione delle strutture statali e alla invasività dell’Unione Europea nella sua continua ricerca di rapporto diretto con le strutture periferiche e decentrate, in particolare le regioni e i comuni, dello Stato Italiano. Una invasività strisciante nei vari paesi dell’Unione, che trova notevoli resistenze e paletti in alcuni Stati politicamente centrali e in quelli dell’Europa centro-orientale e autostrade aperte nell’area mediterranea, specie in Italia e Grecia

CONCLUSIONI

A questo punto della comparazione, il confronto potrebbe apparire assolutamente impietoso rispetto ad una classe dirigente e un ceto politico italici talmente remissivi ed approssimativi, perennemente in attesa di indicazioni esterne, concentrati ad assecondare un processo di trasferimento all’estero e di recupero per conto terzi di risorse politiche, di controllo ed economiche, a cominciare dal risparmio nazionale. È artefice e vittima di dinamiche ed inerzie che probabilmente faranno scivolare il programma NGEU italiano nella routine delle spese e degli investimenti ordinari, dalla resa immediata, dalla efficacia tuttalpiù immediata ed effimera dei moltiplicatori keynesiani, sempre che siano ormai in grado di individuarli vista la gestione disastrosa degli incentivi energetici e della pletora di bonus fiorita nell’emergenza pandemica. Non è un caso che questa classe dirigente individui nell’edilizia il moltiplicatore di sviluppo e di benessere. Con questa lungimiranza non farà che adattare surrettiziamente i programmi di investimento alle capacità tecnico-amministratice e agli interessi delle amministrazioni e dei centri di potere e di spesa residui sopravvissuti nel paese, in particolare i comuni e le regioni.

In realtà la situazione non presenta, purtroppo, nemmeno aspetti così marcati e distinti rispetto ai due paesi europei sotto esame ed in particolare la Francia.

Che dire di un ceto politico impersonato dalle ultime tre presidenze francesi ed in particolare da Macron che da ministro dell’economia ha consentito la cessione all’americana GE dell’intero settore strategico delle turbine, intimamente legato alla difesa e al settore nucleare salvo vedersi vaporizzare da Presidente a pochi anni di distanza il relativo intero centro di ricerche da 900 dipendenti nei pressi di Parigi; che dire della sua reazione a tempo quasi scaduto al mercimonio intentato dai tedeschi ai danni del consorzio Airbus e a favore della Boeing in cambio probabilmente della trappola ai propri danni dell’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer; che dire del suo accorato sostegno alle tesi del catastrofismo ambientale alla Greta Tunberg a principale giustificazione del programma di espansione dell’economia circolare, in un contesto geoeconomico, in particolare quello architettato dalla Germania e dalla UE, sostenuto pesantemente dagli Stati Uniti, nell’ambito delle importazioni di prodotti agricoli dal Maghreb, dall’America Latina e dall’Asia, in grado di renderlo velleitario pur con ben altre e più fondate motivazioni e proprio quando l’onda verde delle recenti elezioni municipali ha già messo a nudo il dogmatismo e la dabbenaggine di questo nuovo ceto politico emergente. Che dire di tutte queste posizioni e della schizofrenia connessa ai proclami di recupero di sovranità e ai propositi più o meno dichiarati e sottintesi nel documento francese?

Non si tratta della schizofrenia di un ceto politico prevalente, in Francia, in realtà molto più affine culturalmente e politicamente a quello assolutamente predominante in Italia e pervasivo anche in Germania.

È il contesto politico interno al paese che fa la differenza: è la drammatica situazione delle énclaves identitarie e comunitariste ormai quasi completamente fuori controllo nel paese; è la presenza di movimenti ostinati come quelli dei gilet gialli e degli epigoni prossimi venturi; è la presenza di una tradizione politica, amministrativa e di potere gaullista residua ma culturalmente ancora ben preparata ed ancora ben allignata nei centri decisionali a costringere a questa schizofrenia. Non è un caso che a parziale supporto e a sostegno su impostazioni più radicali del documento siano emerse due ben ponderose monografie di settimanali, in particolare del settimanale Marianne.

È una situazione ancora fluida ma che in assenza dell’emergere un terzo solido interlocutore europeo, l’Italia capace non dico di imporsi ma di trattare seriamente e con pari dignità lascia presagire il ritorno effimero ed illusorio allo statu quo, specie con l’affermazione di Biden, ma con il sacrificio definitivo di un paese, l’Italia dalla classe dirigente e dal ceto politico incapace di strategia, di volontà propria e di forza contrattuale oggettivamente disponibile in un contesto così mobile. Una remissività che probabilmente più che procrastrinare una tregua incerta interna al continente, non farà che accentuarne contemporaneamente il carattere ostile e conflittuale interno tra gli stati e la remissività e la subordinazione geopolitica al gigante americano, pur con le pesanti riserve legate alla instabilità di quella formazione politica.

Dieci anni fa Xi Jin Ping proclamo che avrebbe trasformato la Cina da opificio in laboratorio; pare ci stia riuscendo. La nostra classe dirigente e soprattutto il nostro miserabile ceto politico paiono impegnati, nel migliore dei casi, nel garantire il percorso opposto.

La posta in palio per il nostro paese è enorme: ha già perso progressivamente autorevolezza e forza politica in Europa e nel Mediterraneo; rischia di essere definitivamente spolpato del proprio risparmio nazionale e della propria capacità produttiva, in particolare quella più interconnessa e in posizione subordinata a quella francese e soprattutto tedesca a favore della collusione franco-tedesca proprio perché i propri amici-coltelli transalpini e teutonici potrebbero trovare più comodo ripiegare sul nutrimento garantito da un corpo amorfo disponibile ad accettare qualsiasi cosa piuttosto che puntare contro una bestia troppo grossa e per di più distante un oceano ma ben presente e attenta a preservare il dominio sulle lande europee.

https://www.economie.gouv.fr/files/files/directions_services/plan-de-relance/annexe-fiche-mesures.pdf

https://www.corriere.it/economia/tasse/20_dicembre_07/pnrrbozzapercdm7dic2020-7908fa02-3898-11eb-a3d9-f53ec54e3a0b.shtml

https://www.prosud.it/wp-content/uploads/2020/12/linee-guida-pnrr-2020.pdf

https://www.marianne.net/economie/le-nouvel-imperatif-industriel-les-solutions-pour-redresser-la-france-le-hors-serie-de-marianne-est-en-kiosque

EUROPRONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

EUROPRONI

L’accordo raggiunto tra l’UE e i cattivissimi Orban e Morawiecki ha scatenato i media mainstream (ossia la maggioranza), solidali nel criticarlo, ma differenti nelle ragioni addotte.

Quella più frequentemente allegata, anche se la meno probabile, è che la Merkel avrebbe piegato alla volontà europea i recalcitranti di Visegrad, concedendo poco o nulla.

Prima di spiegare i motivi di tale impostazione occorre citare che il Consiglio U.E., nell’esporre il testo dell’intesa ha sottolineato che si è cercata una “soluzione reciprocamente soddisfacente” per “rispondere alle preoccupazioni espresse in merito al progetto di regolamento relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” assicurando il rispetto dei trattati, delle peculiarità nazionali degli Stati; l’U.E. ha accettato che, in caso di ricorso alla Corte di giustizia non potranno essere prese misure a carico degli Stati disobbedienti prima della sentenza e che comunque (con espressione poco chiara) nel regolamento impugnato saranno incorporati “eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza”. Peraltro solo violazioni che hanno impatto sul bilancio U.E. possono essere sanzionate: “Le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all’impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione o sugli interessi finanziari dell’Unione”; inoltre “la semplice constatazione di una violazione dello stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo” e “le misure si applicheranno solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation Eu”.

Più che una resa incondizionata dei discoli l’accordo appare per quello che è ogni soluzione a carattere transattivo, dove le parti si sono fatte “reciproche concessioni”: ciascuno ha dato e ottenuto qualcosa. Di guisa che, rispetto ai puri, agli estremisti, alcune critiche hanno qualche fondamento: basti ricordare che, prima dell’accordo, alcuni euroestremisti erano giunti nell’ordine a sostenere: a) la cacciata dei discoli dall’U.E.; b) l’abolizione del diritto di veto nell’ordinamento europeo.

Il tutto peraltro “giustificato” con le conseguenze economiche della pandemia – e la necessità di porvi rimedio. Ma se l’obiettivo era questo (emergenza sanitaria e risposta economica), non si capisce perché il negoziato era stato complicato e reso difficile con la condizionalità rafforzata del rispetto dello Stato di diritto. La quale, a pandemia in corso, appariva come un espediente per estorcere un consenso minacciando reazioni a comportamenti estranei all’emergenza sanitaria ed alla necessità di porvi rimedio.

Ma la questione che qui affronto è diversa: per quale ragione le élite dirigenti italiane (e i loro accoliti) vogliono dimostrare che la reazione di polacchi e ungheresi non ha ottenuto nulla (o molto poco) piegata (come sarebbe stata) dalla volontà sovrana (scusare l’aggettivo da turpiloquio) della U.E.. Con la quale è meglio assentire, sottomettersi senza discutere (tanto, si perde solo tempo).

Atteggiamento che è quello preferito da governanti eurolirici che hanno diretto l’Italia (quasi sempre) negli ultimi dieci anni e in buona parte del periodo precedente. Bastava una richiesta europea (“ce lo chiede l’Europa”) per eseguirla prontamente: e farsene titolo di merito quali novelli De Gasperi o Martino. Anche quando era evidente che qualche sgarbo dall’Europa l’avevamo ricevuto (come nella vicenda della caduta di Berlusconi e degli eurosorrisetti), bisognava incassare e fare penitenza. La quale, per gli eurodipendenti è castigo scrupolosamente riservato ai governati, anche quando una siffatta pretesa non è stata avanzata dalla Merkel o dalla Von der Layen.

Gli è che gli eurodipendenti esternano delle trattative un’immagine da solotto o da bocciofila: che per dialogare bisogna (necessariamente e previamente) assentire. Nella realtà non è così, e rientra nei fondamentali del politico: per trattare l’accordo più agognato, ossia la pace, occorre trattare col nemico.

Perché questo sia durevole, la pace deve tener conto degli opposti interessi e posizioni (se no, da trattato diventa dettato di pace; come capitò a quello di Versailles). Avete mai visto trattare qualcosa, dalla pace in giù, tra amici, cioè non solo non belligeranti, ma neppure aventi volontà e obiettivi differenti?

Quindi contrariamente all’opinione dei nostri eurodipendenti, trattare è cosa logica (e quasi sempre opportuna): avere volontà ed interessi diversi è naturale; conciliarli con quelli dell’altro è – in genere – normale e conveniente. Non c’è nulla di contrario al bon-ton diplomatico nel comportamento di chi prima minaccia, litiga e poi tratta.

Ma per i nostri ciò voleva dire legittimare (anche) la posizione di Salvini il quale, per l’appunto, chiudeva i ponti ai migranti per costringere l’Europa a farsi carico – proporzionalmente – del problema degli stessi. Atteggiamento risultato pagante dato il calo drastico, tuttora perdurante (anche se in misura minore) dei medesimi. Con sollievo delle strutture di accoglienza e del bilancio dello Stato. Ma con grande scorno di coloro che dell’accoglienza – ben remunerata – avevano fatto un affare. Strano ed inconsueto è l’atteggiamento remissivo e sottomesso praticato (e predicato) degli eurolirici. A proposito dei quali occorre dire che se polacchi e ungheresi avessero avuto la loro stessa tempra ed attitudine – mentale e morale – l’Est europeo sarebbe ancora diviso dalla cortina di ferro.

Teodoro Klitsche de la Grange

Un motore franco-tedesco a gas magro … Di Georges-Henri Soutou

La riconciliazione franco-tedesca era un prerequisito per la costruzione europea. Poi, il motore franco-tedesco ha contribuito a potenziarlo, prima che il crescente squilibrio tra i due paesi indebolisse questo motore. Emmanuel Macron vuole rilanciarlo, questo è il significato del Trattato di Aix-la-Chapelle che voleva imitare il Trattato dell’Eliseo del 1963. Ma Angela Merkel non è Konrad Adenauer e Emmanuel Macron no non il generale de Gaulle.

Continuità delle relazioni post-seconda guerra mondiale

Il trattato firmato dal presidente Emmanuel Macron e dal cancelliere Angela Merkel ad Aix-la-Chapelle il 23 gennaio ha destato in Francia, ancor prima della cerimonia, molti sospetti: stabilirebbe una sorta di legame di vassallaggio da Parigi a Berlino. Questi sospetti sono soprattutto la prova che il rapporto franco-tedesco, che dovrebbe costituire il motore dell’Unione europea, non sta andando bene.

È probabile che il Trattato di Aix-la-Chapelle rilanci questo motore? In effetti, si basa sul Trattato dell’Eliseo del 22 gennaio 1963, precisa, ma non crea realmente un nuovo quadro per le relazioni franco-tedesche. In particolare, non modifica il meccanismo istituzionale delle riunioni regolari del governo. E molte delle clausole ricordano infatti ciò che già esiste.

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In termini di politica estera, i due Stati “stanno  approfondendo la loro cooperazione in materia di politica estera, difesa, sicurezza esterna e interna e sviluppo mentre si sforzano di rafforzare la capacità di azione autonoma dell’Europa. Si consultano per definire posizioni comuni su qualsiasi decisione importante che interessi i loro interessi comuni e per agire congiuntamente in tutti i casi in cui ciò è possibile  ”. Ciò non aggiunge nulla di essenziale rispetto al testo del 1962, che già citava l’Europa (ricordiamo che era come un sostituto, per due, del progetto di Unione politica a sei – piano Fouchet – che era fallito. ‘l’anno scorso) : ” I due Governi si consulteranno, prima di prendere qualsiasi decisione, su tutte le questioni importanti di politica estera, e in primo luogo su questioni di interesse comune, al fine di raggiungere, per quanto possibile, una posizione simile.  “

L’importanza del dominio militare

In termini di difesa, il Trattato di Aix-la-Chapelle stabilisce che ”  si prestano reciprocamente aiuto e assistenza con tutti i mezzi a loro disposizione, compresa la forza armata, in caso di aggressione armata contro i loro territori  ” . Ma questa è solo la conseguenza dei trattati del Nord Atlantico e di Lisbona, e il preambolo del 1963 segnalava già ”  la solidarietà che unisce i loro due popoli  […] dal punto di vista della loro sicurezza  “.

Continuiamo: dopo aver promesso di ”  sviluppare  […] l’ Europa in campo militare  “, i due Stati “si  impegnano a rafforzare ulteriormente la cooperazione tra le loro forze armate al fine di stabilire una cultura comune …  “. Ma il testo del 1963 era in realtà più preciso e impegnativo: “  In termini di strategia e tattica, le autorità competenti dei due Paesi si adopereranno per unire le loro dottrine al fine di arrivare a concezioni comuni. Verranno creati istituti di ricerca operativa franco-tedesca  ”, che è molto più preciso della“  cultura  ”.

 

Per quanto riguarda gli armamenti, anche vaghi nelle dichiarazioni del testo del 2019: “  Stanno intensificando lo sviluppo di programmi di difesa congiunta e la loro estensione ai partner. In tal modo, intendono promuovere la competitività e il consolidamento della base industriale e tecnologica della difesa europea. Sono favorevoli alla cooperazione più stretta possibile tra le loro industrie della difesa, sulla base della loro fiducia reciproca. 

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Nel 1963 era più preciso: “  Per quanto riguarda gli armamenti, i due Governi si adopereranno per organizzare un lavoro congiunto dalla fase di elaborazione di opportuni progetti di armamento e di preparazione dei piani di finanziamento. A tal fine, le commissioni congiunte studieranno la ricerca in corso su questi progetti nei due paesi ed effettueranno il loro esame comparativo. Presenteranno proposte ai ministri che le esamineranno nelle loro riunioni trimestrali e forniranno le necessarie direttive di applicazione.  Ciò non ha impedito a questa collaborazione di fallire in gran parte immediatamente, essendo le esigenze operative dei due eserciti differenti.

L’ambizione di un nuovo slancio 

Si tratta molto di questo articolo del nuovo trattato: “  I due Stati hanno istituito il Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza come organo politico per guidare questi impegni reciproci. Questo Consiglio si riunirà al massimo livello a intervalli regolari.  In effetti, questo Consiglio esiste dal 1988!

Si tratta infatti di riportare finalmente in vita ciò che era vegetato, a causa della diffidenza degli Stati Uniti, ma anche del rifiuto tedesco di essere solo il secondo brillante di Parigi, vale a dire un La cooperazione politico-strategica franco-tedesca dovrebbe condurre l’Europa verso un ruolo internazionale autonomo. Ma basterà la nuova congiuntura per rilanciare davvero le cose?

In effetti, rimane una differenza sul tema della concezione stessa del potere. La RFT dà più importanza alle istituzioni multilaterali e al soft power in tutte le sue forme (influenza, persuasione, negoziazione, standard, sanzioni) rispetto a Parigi, che ha una visione più tradizionale del potere militare, ancora che la differenza sembra diminuire ora.

 

Aggiungiamo in generale che Berlino non vuole entrare nel gioco permanente francese, di cui comprende i secondi fini (continuare a giocare un ruolo nella “coppia” grazie al potere militare, mentre economicamente la Francia è distanza, e dall’altra trasporre la visione – e gli interessi – francesi a livello europeo).

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Inoltre, resta un punto essenziale: gli altri membri dell’Unione europea. Gli altri paesi, a parte la Francia e la RFT, devono trovare un modo per partecipare alla costruzione politico-strategica dell’Europa. Questa è sempre stata la posizione di Berlino. Il nuovo Trattato non è immune da una contraddizione fondamentale: la stretta cooperazione franco-tedesca è stata sin dall’inizio un motore essenziale per l’Unione europea, ma allo stesso tempo ha sempre suscitato le riserve degli altri partner. Sempre necessario, ma allo stesso tempo ancora insufficiente. Questo è stato uno dei motivi del relativo fallimento del trattato del 1963, è probabile che limiterà anche gli effetti di quello del 2019.

https://www.revueconflits.com/allemagne-france-relations-traite-aix-la-chapelle-georges-henri-soutou/

TANTO TUONÓ…, di Teodoro Klitsche de la Grange

TANTO TUONÓ…

Si legge sulla stampa che il veto di Polonia ed Ungheria all’accordo sul bilancio UE 2021-2027 e l’aumento delle risorse proprie, è stato da queste posto “perché insoddisfatti della recente decisione del Parlamento e del Consiglio di condizionare con uno specifico testo legislativo l’esborso dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto” (Il Sole 24 ore – tra i tanti). Il che ha scatenato il solito coro anti-sovranisti, tendente a equipararne le azioni ad atti da delinquente: i due Stati avrebbero “preso in ostaggio” il bilancio U.E. e i fondi del Recovery Fund; avrebbero violato ripetutamente il principio dello Stato di diritto (art. 2 TUE); sarebbero “irresponsabili”. Dall’altra parte si risponde che subordinare l’esborso dei fondi europei al rispetto dello Stato di diritto è un “ricatto”.

A guardarlo con distacco, il comportamento delle parti in causa è logico: se l’UE cerca di ottenere il via libera al bilancio (ecc.) ha bisogno che polacchi e ungheresi acconsentano; ma questi esercitano il veto perché i fondi potrebbero essere bloccati per la “condizionalità” al rispetto dello Stato di diritto annunciata dalle rispettive procedure di infrazione iniziate dalla U.E.. La soluzione della querelle dovrebb’essere rinunciare da un lato al veto esercitato; dall’altro alla “condizionalità” introdotta.

Comunque, dato che a decidere sulle (pretese) violazioni allo Stato di diritto, non è un arbitro scelto dalle parti, ma per l’appunto un organo U.E. come la Commissione, il veto dei due Stati non è privo di ragione.

Ed ancor più perché come scritto1 la nozione di “Stato di diritto” è tra le più polisemiche, essendo stati ricondotti al relativo concetto ordinamenti assai differenti; peraltro è stato elaborato da tanti pensatori in modo non univoco, ma con vistose differenze. A sintetizzare quanto sopra, si può riportare quanto si legge nella voce “Stato di diritto” scritta da Anna Pintore per il “Dizionario del liberalismo” (Rubettino): “non è affatto pacifico quali siano le caratteristiche che un’organizzazione statale deve possedere per essere considerata uno Stato di diritto e quali rapporti intercorrano tra questo e altri modelli di Stato, in particolare lo Stato liberale, quello democratico e quello costituzionale. Per questa ragione nessuna trattazione del tema può essere neutrale, e neppure questa lo sarà” (e se non può esserlo la trattazione scientifica, figuriamoci l’applicazione politica!); e prosegue la Pintore “Forse proprio a causa della sua indeterminatezza, la formula ha goduto fin dalla sua nascita di apprezzamento pressoché universale, al punto da segnare oggi una strada senza alternative: uno Stato che non incarni questo modello deve essere considerato illegittimo e indegno di obbedienza. Ma il carattere apprezzativo della formula, unito all’evanescenza del suo contenuto, ha fatto sì che di essa si appropriassero le più disparate ideologie… Ciò non deve stupire, se è vero che il concetto di Stato di diritto non è legato né a particolari condizioni storiche, né a specifiche premesse filosofiche, essendo viceversa antico quanto il pensiero filosofico-politico stesso”2 (i corsivi sono miei).

In attesa che la vertenza abbia una conclusione, occorre ribadire due considerazioni.

Non è difficile prevedere – non occorreva un Bismark o un Cavour – che introducendo quella “condizionalità”, polacchi e ungheresi avrebbero apposto il veto sul bilancio. In altri tempi si sarebbero rischiate guerre; consoliamoci che si siano limitati ad esercitare un proprio diritto.

Secondariamente è quanto mai inopportuno utilizzare a fini di lotta politica, caratterizzata dalla volontà di prevalere sull’avversario (il nemico), il diritto e, ancor più un concetto polisemico e, almeno in larga parte, controverso come quello di “Stato di diritto”. Se poi una delle parti ha il potere di applicare il precetto indefinito – come nella vicenda trattata -, lo squilibrio è evidente. Quando Luigi XIV rivendicava alla corona francese – per il tramite della moglie – i territori del (fu) ducato di Borgogna, avendo la consorte il diritto di devoluzione, almeno questo era vigente nel Brabante. Il Re Sole si serviva del diritto per la politica di potenza, ma almeno non se lo era “pre-confenzionato” da solo, come succede nel caso alla Commissione U.E.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Rinvio il lettore all’esposizione più dettagliata che ho fatto negli articoli “L’unione europea e lo Stato di diritto” e “Unione europea e Stato di diritto II”.

2 Tra i contributi più recenti che confermano la differente connotazione del concetto di Stato di diritto ricordiamo il saggio di R. Bin Stato di diritto (in rete); sempre in rete è interessante leggere il Dossier Stato di diritto dei radicali, che ha il pregio di stigmatizzare le violazioni dello Stato di diritto in Italia; ad avviso di chi scrive non meno lesive di quelle polacche o ungheresi.

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