STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO

C’è da chiedersi perché i “vecchi” giuspubblicisti e scienziati della politica chiamavano lo Stato loro contemporaneo, ossia lo Stato post-rivoluzione francese preferibilmente Stato rappresentativo e, come concetti prossimi e/o derivati, le istituzioni di quello rappresentative, il regime politico rappresentativo, la stessa democrazia rappresentativa e rappresentativo il governo (e la forma di governo). Oggigiorno, a partire (grosso modo) dalla metà del secolo scorso, al posto di rappresentativo lo si caratterizza come liberale o democratico-liberale (raramente borghese)[1].

Dagli autori e dai loro contributi (citati in nota e da altri) risulta la duplicità dei significati dei termini rappresentanza e rappresentativo i cui estremi sono da un lato il carattere necessario, per cui non c’è possibilità di governo e quindi di sintesi politica senza rappresentanza. Come sostiene Carl Schmitt la rappresentanza è un principio di forma politica; senza quel principio (così come senza quella d’identità) non c’è forma di Stato[2].

Scrive Schmitt “Nella realtà della vita politica esiste tanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali del principio di identità, quanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali della rappresentanza. Anche là dove è fatto il tentativo di realizzare incondizionatamente un’identità assoluta, rimangono indispensabili gli elementi e i metodi della rappresentanza, come viceversa non è possibile nessuna rappresentanza senza raffigurazioni dell’identità”.

Dall’altro la necessità che il rappresentante sia scelto dai rappresentati e sia in sintonia con essi. Ambo i caratteri sono già presenti nel discorso di Sieyés del 7 settembre 1791 all’Assemblea costituente francese, così come le ragioni che li rendono insopprimibili[3].

Se è vero che la rappresentanza è necessaria perché è principio di forma politica è anche vero che (l’altro polo del significato del termine) viene considerato rappresentante chi è, in qualche misura, in sintonia con i rappresentati. Scrive Fisichella “In termini di rapporto tra elezione e rappresentanza, si possono configurare tre combinazioni principali. Si può ipotizzare, per cominciare, una elezione senza rappresentanza … Ancora più nutrita è la combinazione inversa, cioè la rappresentanza senza elezione. Del monarca si dice che rappresenta la nazione, senza che nelle monarchie ereditarie egli passi attraverso il momento elettivo”[4]. Ma se “tralasciamo l’elezione che non dà luogo a rappresentanza, in quanto esula dal nostro tema che invece ha per oggetto appunto la rappresentanza, ci accorgiamo che rimangono i due casi della rappresentanza senza elezione e della rappresentanza elettiva … vale chiedere in prima istanza a quale livello incide l’elemento elettivo, cioè in altri termini quali differenze sussistono tra rappresentanza elettiva e non”[5]. Quanto alla somiglianza sociologica delle istituzioni rappresentative “come riproduzione del microcosmo rappresentativo del macrocosmo sociale … Siamo nel contesto della concezione «descrittiva» della rappresentanza o, se vogliamo, della rappresentanza come rappresentatività”, ma non è detto che un organo non elettivo non sia meno rappresentativo in questo senso. Parimenti per la rappresentatività psicologica per cui “non è necessario enumerare altri casi, oltre i due ora richiamati, per inferirne la possibilità dell’esistenza di assemblee che siano rappresentative anche se non elettive”. Pertanto a fare “la differenza” è il carattere partecipativo dell’elezione “Solo la rappresentanza elettiva è la rappresentanza democratica, nel senso che in essa si realizza il precetto partecipativo”[6]. E prosegue “La repubblica di cui parla il Federalist per distinguerla dalla democrazia, è pur sempre una realtà democratica, se la sua rappresentanza vi è elettiva”. Anche perché la procedura elettiva ha un (potente) effetto di integrazione.

A concludere questo breve excursus su un tema quanto mai trattato dalla dottrina così come dalla politica “militante”, se ne deduce che carattere (e funzione) principale della rappresentanza è dare capacità d’azione (e quindi esistenza) alla comunità di cui le istituzioni rappresentative sono organi. É l’impossibilità (se non per comunità piccolissime) di agire come politica che determina l’inevitabilità della rappresentanza politica. E la necessità anche dei di essa corollari, affinchè possa operare congruamente alla funzione principale.

  1. L’insistenza con cui i “vecchi” giuristi (Mosca, ancorché ricordato soprattutto come scienziato della politica, era professore di diritto costituzionale) definivano come “rappresentativo” lo Stato successivamente denominato “liberale” o (meglio) “democratico-liberale” è probabilmente da ricondurre al (sotteso) concetto di costituzione e in genere di ordinamento (e non lontano dalla concezione schmittiana della costituzione).

Questo è in primo luogo, relativamente allo Stato rappresentativo (o borghese) l’ordinamento di uno status mixtus cui concorrono sia i principi di forma politica (identità e rappresentanza, istitutivi dell’organizzazione politica) che dell’ “ordine” borghese (con funzione limitativa del potere politico e pubblico in generale)[7].

Dato che l’esistenza (e la capacità d’azione) politica è costituita e modellata dai primi (e i secondi non sono necessari a quella) sono questi, e in particolare il principio rappresentativo a connotarlo. Anche se tale rappresentanza, avendo un carattere democratico (o proiettato verso la democrazia), è orientata verso tale specie del genere rappresentativo. Successivamente tale carattere è passato in secondo piano, cedendo la priorità alla tutela del diritti fondamentali (e quale principio organizzativo orientato alla libertà, alla distinzione dei poteri).

Ciò non toglie che come scriveva Santi Romano “Costituzione, significa, come si è detto, assetto o ordinamento che determina la posizione, in sé e per sé e nei reciproci rapporti che ne derivano, dei vari elementi dello Stato, e, quindi, il suo funzionamento, l’attività, la linea di condotta per lo stesso Stato e per coloro che ne fanno parte o ne dipendono”[8].

  1. Da qualche anno si è contestato il precetto, derivante dal carattere rappresentativo dell’unità politica, per cui il rappresentante non può avere vincoli di mandato (disposto fin dalla Costituzione francese del 1791, Titolo III, cap. I, art. 7). Si sostiene data la scarsa fedeltà dei parlamentari al partito nelle cui liste sono stati eletti, (al punto che la maggioranza dei parlamentari della legislatura passata ha cambiato partito) l’opportunità di abolire, ma per lo più limitare quel principio con precetti antivoltagabbana.

A tal fine si vorrebbe limitare la libertà di decisione dei parlamentari sia con norme comportanti decadenza dall’incarico, sia con sanzioni economiche. Cioè circoscrivere giuridicamente ciò che politicamente non tollera limiti. Una proposta ufficiale è quella di recente lanciata da Di Maio. Secondo il quale introdurre il vincolo di mandato sarebbe “l’unico vero antidoto alla piaga dei voltagabbana che ammorba il Parlamento da anni” perché si tratta di gente che si prende 15.000 euro al mese grazie al voto dei cittadini per portare avanti un programma e poi invece fa quello che gli pare… Per noi il parlamentare è un portavoce delle istanze degli italiani (cioè Di Maio rivaluta il “corriere politico” così svalutato da Sieyès) … Se il programma per cui è stato votato non gli sta più bene, allora prende e se ne va a casa senza stipendio, senza buonuscita”.

Tutte tali proposte, ancorché quelle dei Cinquestelle siano blande, violano il principio della libertà (d’azione e di opinione) degli organi rappresentativi e dei loro componenti e che non si limita alla sola salvaguardia dall’invadenza del Giudice penale, ma ha portata (e ratio) generale. Scriveva Orlando che “l’istituto delle immunità parlamentari non ha bisogno di essere collegato con alcuna ragione di convenienza specifica, ma si giustifica come si giustifica ogni istituto di diritto comune, cioè con la semplice enunciazione di quella che i romani chiamavano ratio iuris[9]; onde le prerogative parlamentari vanno considerate nella loro inscindibile connessione.

Immunità personali, reali, funzionali sono tutte specificazioni del principio che “nessuna volontà esteriore può, non diremo limitare, ma neanche semplicemente concorrere con quella dell’Assemblea nell’esercizio delle sue attribuzioni”. Il principio che le accomuna consiste nell’inviolabilità; perché ciò che conta è che “la persona (o il collegio di persone) che dell’inviolabilità è coperta, non può essere  sottoposta ad alcuna giurisdizione, in quanto questa si attui attraverso una coazione sulla persona” e va intesa come “indipendenza da ogni giurisdizione[10].

Ciò stante la coazione che verrebbe esercitata nel parlamentare anche nell’ipotesi blanda dei Cinquestelle, è comunque lesiva dell’indipendenza del Parlamento[11]. Perché “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (ché allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto”[12].

La notorietà di cui scriveva il Presidente della vittoria si è, evidentemente, assai ridotta; ciò non toglie che l’esigenza per cui era (ed è) stata (fin dagli albori del costituzionalismo moderno) prescritta nelle Carte Costituzionali non sia venuta meno.

Sanzionare il parlamentare anche solo con pronunce di decadenza dall’incarico o di perdita dello stipendio e della pensione è una forma, meno intensa di altre, di esercitare pressioni sul rappresentante. Da parte o di altri poteri dello Stato, nel caso quello giudiziario, e/o anche di poteri non statali (partiti e non solo).

Perché anche se a promuovere il giudizio per la decadenza dallo stipendio fosse anche solo un comitato di elettori, a pronunciarlo sarebbe – a quanto pare – un Giudice (ossia un potere costituito esterno al Parlamento).

E quello del quis judicabit? è il problema principale della decisione. Mentre la “sanzione” prevista dall’ordinamento rappresentativo (ed esercitata da sempre) è quella più logica e conforme al sistema: che il rappresentante fellone sia giudicato dagli elettori i quali, conformemente al carattere democratico della rappresentanza, come hanno il potere di nominarlo, hanno anche quello di giudicarne l’operato e negargli la conferma nell’incarico[13].

Potere che è più complicato da esercitare – e ce ne rendiamo conto – quando, con la seconda Repubblica si sono promulgate leggi elettorali che, progressivamente, hanno prodotto più camere di nominati (dai partiti) che di eletti (dal popolo).

Nella speranza (o illusione) che il futurellum dia maggior spazio alla scelta da parte degli elettori delle persone (e non solo dei partiti), non è comunque ravvisabile l’opportunità che si proceda ad un ulteriore condizionamento dell’indipendenza delle camere.

Insomma: pezo el taco del buso.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Si ricordano alcuni luoghi in cui il termine rappresentativo è utilizzato come nel testo v. V.E. Orlando principi di diritto costituzionale, Barbera (s.d.) p. 64 ss.: “Il governo rappresentativo suppone innanzi tutto che i cittadini partecipino, per mezzo di diritti politici, alla cosa pubblica: riferendocene quindi al criterio delle tre forme secondarie, possiamo dire che questa forma di governo deve necessariamente essere semilibera o libera… esso è dunque una forma di governo popolare o libera o democratica che dir si voglia” nel concetto di rappresentanza si differenzia la distinzione da quello diretto “Il criterio che distingue questo tratto caratteristico si può averlo da questa considerazione materiale, cioè che l’esercizio dei diritti politici, al popolo riservati, non si fa direttamente dai cittadini medesimi… ma bensì per mezzo di rappresentanti, scelti dal popolo”. Caratteristica del governo rappresentativo erano l’armonia tra coscienza popolare e diritto positivo, la distinzione dei poteri, la tutela giuridica e la pubblicità (e con ciò l’opinione pubblica è elemento di controllo). La forma di governo rappresentativo si connette sia alla forma monarchica che a quella repubblicana democratica; Gaetano Mosca parla di “sistema” e “regime” rappresentativo, i quali riproducono, anche in forma democratica (elezione dei rappresentanti) il potere delle minoranze organizzate sulla maggioranza “Quel che avviene colle altre forme di Governo, che cioè la minoranza organizzata domina la maggioranza disorganizzata, avviene pure, e perfettamente, malgrado le apparenze contrarie, col sistema rappresentativo… Accade nelle elezioni, come in tutte le altre manifestazioni della vita sociale, che gl’individui, che hanno la voglia e soprattutto i mezzi morali, intellettuali e materiali per imporsi agli altri, primeggiano su questi altri e li comandano” Elementi di scienza politica, Torino 1923, p. 142 (in altre opere ripete sempre l’aggettivo “rappresentativo”, con significato conforme. V. ad es. “Lo Stato città antico e lo stato rappresentativo moderno” in Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 37 ss.).

Scrive Santi Romano “Più volte, si è avuta l’occasione di notare che, fra le istituzioni governative dello Stato, alcune hanno carattere rappresentativo, cioè rappresentano il popolo o la nazione e sono quindi, quelle nelle quali trova la sua più tipica espressione la forma del governo democratico, in quegli Stati in cui alla democrazia diretta si è sostituita, in tutto o in parte, quella indiretta, ossia rappresentativa. Fra tali istituzioni, basti ricordare le camere parlamentari, che nelle costituzioni che hanno adottato il sistema bicamerale sono spesso entrambe rappresentative, mentre talvolta siffatto carattere ha una sola delle due camere, e il presidente o la suprema istituzione governativa della repubblica, che, per definizione, è sempre rappresentativa… l’istituto della rappresentanza politica è uno di quegli istituti, che erano sorti nel medioevo anche nell’Europa continentale, compresa l’Italia, ma che, in quanto sono ora tipiche espressioni del moderno costituzionalismo, derivano, direttamente o indirettamente, dal diritto costituzionale inglese… Essa partiva dal principio della sovranità popolare, e riteneva che gli elettori, come organi del popolo, delegassero, mediante l’atto elettivo, detto perciò mandato, l’esercizio di tale sovranità agli eletti… I primi dubbi sulla consistenza di tale teoria sorsero quando al principio della sovranità popolare fu sostituito quello della sovranità dello Stato”.

Tali istituzioni “si dicono rappresentative vengono così qualificate perché, nella loro stessa struttura, nel modo con cui sono designate le persone ad essere preposte, in tutti i momenti del loro funzionamento, è implicito lo scopo che esse hanno di mantenere in un continuo e stretto rapporto lo Stato con la nazione, cioè col suo popolo”. Anche se l’elezione non basta a conferire loro il carattere rappresentativo. La rappresentanza può essere “necessaria, che si ha quando il rappresentato non ha la capacità di agire da sé, e quella volontaria, che ha luogo per volontà dello stesso rappresentato, nonché del rappresentante, fuori dei casi di incapacità”. La rappresentanza politica “è una rappresentanza necessaria. Il popolo quando non si ha un governo democratico diretto, non ha la possibilità giuridica di curare e tutelare i suoi interessi se non per mezzo di rappresentanti e, di solito, scegliendo esso stesso questi ultimi. È inoltre rappresentanza legale, che ha, cioè per fonte la legge” (v. Principii di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 160 ss.).

[2] V. anche “La diversità delle forme di Stato si basa sul fatto che ci sono due principi di forma politica contrapposti, dalla cui realizzazione ogni unità politica assume la sua forma concreta … Lo Stato è una condizione, e precisamente la condizione di un popolo. Ma il popolo può raggiungere e ottenere in due diversi modi la condizione dell’unità politica. Esso può già nella sua immediata datità – in virtù di una forte e consapevole omogeneità, in seguito a stabili confini naturali o per qualsiasi altra ragione – esser capace di agire politicamente. Inoltre esso è come entità realmente presente nella sua immediata identità con se stesso un’unità politica … Il principio contrapposto parte dall’idea che l’unità politica del popolo in quanto tale non può mai esser presente nella reale identità e perciò deve esser sempre effettivamente presente” V. Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della costituzione, Milano 1984 pp. 270-272.

[3] V. Diceva l’abate rivoluzionario “È quindi necessario convenire che il sistema di rappresentanza e i diritti che volete ricollegarvi in tutti i gradi devono essere determinati prima di decidere alcunché sulla divisione del corpo legislativo e sull’appello al popolo delle nostre deliberazioni. I moderni popoli europei somigliano ben poco a quelli antichi. Tra noi non si tratta che di commercio, di agricoltura, di opifici … Tuttavia non potete rifiutare la qualità di cittadino e i diritti correlativi, a questa moltitudine senza istruzione che la necessità di lavorare assorbe completamente. Perché proprio come noi debbono obbedire alla legge, devono anche, come voi, concorrere a farla. E questo concorso dev’essere uguale. Può esercitarsi in due modi. I cittadini possono accordare la loro fiducia a qualcuno di loro: senza spogliarsi dei loro diritti, ne affidano l’esercizio. È in vista dell’utilità comune che nominano delle rappresentanze ben più capaci di loro di capire gli interessi generali, e d’interpretare, in vista di questi, la loro propria volontà. L’altro modo d’esercitare il proprio diritto a formare la legge è di partecipare in prima persona a farla. Questa partecipazione diretta è ciò che caratterizza la vera democrazia. Quella mediata è connaturale al governo rappresentativo. La differenza tra questi due sistemi politici è enorme” e proseguiva “Non è dubbio, tra noi, su quale debba essere la scelta tra questi due metodi per fare la legge. In primo luogo, la stragrande maggioranza dei nostri concittadini non ha abbastanza istruzione, né abbastanza tempo a disposizione per volersi occupare direttamente delle leggi che devono governare la Francia; la loro opinione è dunque di nominare dei rappresentanti”. Ciò comporta che “i cittadini che si nominano dei rappresentanti rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi direttamente la legge: e, di conseguenza, non hanno alcuna volontà particolare da imporre. Ogni influenza, ogni potere compete ad essi sulla persona dei loro mandatari; ma questo è tutto. Se dettassero delle volontà questo non sarebbe più uno stato rappresentativo; sarebbe uno stato democratico”: di conseguenza è inammissibile il mandato imperativo come se ciascun deputato fosse il commesso del proprio committente (il collegio elettorale) “un deputato lo è della nazione intera; tutti i cittadini ne sono i mandanti … non c’è né può esservi, per un deputato altro mandato imperativo, o del pari, altre aspirazioni, che quelle nazionali; non deve dar ascolto ai suggerimenti dei suoi elettori se non quando siano conformi ai desideri generali”; infatti nell’assemblea “Non si tratta, qui, di registrare, uno scrutinio popolare, ma di proporre opinioni, infine formare in comune una comune volontà”; e “È pertanto inutile che vi sia una decisione nei baliaggi o nelle municipalità, o in ciascuna casa di città o di paese, perché le idee cui mi oppongo non portano che ad una specie di Certosa politica. Questi tipi di pretese sarebbero assai più che democratiche. La decisione non spetta, e non può non spettare che alla sola Nazione, riunita in assemblea. Il popolo o la nazione non può avere che una sola voce, quella della legislatura nazionale” (il corsivo è mio).

[4] V. La rappresentanza politica, Milano 1983, pp. 11-12.

[5] Op. cit. pp. 12-13.

[6] Op. cit. p. 14

[7] C. Schmitt, op. cit., p. 267.

[8] E proseguiva, criticando la concezione di chi ritiene costituzionale solo lo Stato borghese “E sempre in base a tale principio nel campo della dottrina si è spesso ritenuto e da qualcuno si ritiene ancora, che diritto costituzionale sia soltanto quello dello Stato a regimec.d. libero, o, specificando di più, con riguardo alla figura che tale regime ha assunto nello Stato moderno, quello dello Stato «rappresentativo», mentre un diritto costituzionale non avrebbero gli Stati c.d. assoluti o dispotici o anche semiliberi… Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo”, op. cit., pp. 2-3.

[9] Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 484.

[10] Op. cit., pp. 485-486.

[11] Per salvaguardare la quale è da sempre (addirittura) disposta la “giurisdizione domestica” per i dipendenti delle Camere.

[12] Orlando op. cit., p. 487 (il corsivo è mio).

[13] C’è da valutare poi se un simile tipo di sanzione (il cambiamento di gruppo politico e perciò di partito) sia volto a tutelare (e in quale misura) la fedeltà al partito o quella agli elettori nel caso, non infrequente che non coincidano. L’antico reato di fellonia prescriveva sanzioni contro il vassallo sleale verso il signore feudale (il rapporto era tra persone fisiche determinate).

Così com’è stato sinteticamente esposta la proposta dei 5 stelle (ed altre analoghe) pare prevedeva una fattispecie  – il cambio di gruppo parlamentare – più volta ad assicurare la fedeltà al partito che ai propri elettori. Sarebbe poi interessante a tal fine sapere chi può farlo valere (il partito? Un suo organo?  O sarebbe attivabile con azione popolare?

A PROPOSITO DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO, di Massimo Morigi

A PROPOSITO DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO 2018: BREVI RIFLESSIONI ATTORNO A  PACCO-ITALIA: ALTO/BASSO, FRAGILE, MANEGGIARE CON CURA DI ROBERTO BUFFAGNI E A SI APRANO LE DANZE DI GIUSEPPE GERMINARIO

 

Di Massimo Morigi

http://italiaeilmondo.com/2018/03/06/pacco-italia-alto-basso-fragile-maneggiare-con-cura-di-roberto-buffagni/

Si aprano le danze, di Giuseppe Germinario

 

Pur senza consapevolezza della posta in gioco e delle eventuali conseguenze da parte del corpo elettorale, le elezioni politiche italiane del marzo 2018 hanno decretato la morte delle vecchie classi dirigenti e delle loro ideologie (liberalismo ed antifascismo) che avevano legittimato di fronte ai vincitori la ricostruzione di una nazione uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale. Si tratta di un evento epocale di fronte al quale, in questo momento, appare onestamente del tutto secondario che la forza uscita vincitrice al nord del paese, pur espressione della sua parte più produttiva, non abbia alcuna consapevolezza teorica della posta in gioco e che la forza egemone al sud sia espressione di profonde e radicate pulsioni assistenzialistiche, senza rendersi conto gli elettori di questa parte politica che la realizzazione di un piena cittadinanza può essere realizzata solamente liberandosi dei lacci mentali dell’ideologia liberale ed antifascista che rende l’Italia una colonia economica, politica e culturale, una condizione liberatasi dalla quale solo allora sarà possibile innestare in Italia una autentica rivoluzione attraverso la quale anche le vecchie forme assistenzialistiche (prima democristiano-comuniste ed ora di appannaggio esclusivo dei pentastellati) possono tramutarsi in una autentica occasione di profondo e reale sviluppo (cioè di rivoluzione) per il sud e quindi per il resto del paese. Ma anche la forza ora politicamente egemone al nord, la Lega, non riesce ancora ad esprimere la consapevolezza che i suoi ambiziosi ed ampiamente condivisibili obiettivi (drastico abbattimento fiscale, difesa culturale dell’identità italiana e tutela economica dell’Italia e dei suoi operatori contro la peste delle globalizzazione)  sono possibili solo gettando a mare gli idola tribus ideologici di cui si è detto prima riguardo ai cinque stelle. Il processo iniziato con le elezioni del 4 marzo 2018 non è ancora completato. Da parte della Lega manca ancora il completo inglobamento di quell’equivoco chiamato Forza Italia; e da parte del movimento pentastellato non è ancora del tutto riuscito l’annientamento di quell’altro grande equivoco che va sotto il nome di partito democratico. Quando (e se) questo processo sarà completato, se ciò non sarà accompagnato da una migliore consapevolezza teorica della posta in gioco, cioè l’abbandono degli idola tribus chiamati liberalismo ed antifascismo con le conseguenze di servaggio dalle potenze straniere che sono il loro logico corollario, l’Italia, come acutamente paventa l’amico Roberto Buffagni in Pacco-Italia: Alto/Basso. Fragile. Maneggiare con cura,  ritornerà veramente ad essere una metternichiana espressione geografica. Se invece questo processo di ribellione dalle attuali élite sarà parallelamente accompagnato da un’analoga maturazione e liberazione politico-culturale, si può veramente sperare che le due direttrici della protesta possano veramente mutare natura e divenire le due formidabili braccia di una rivoluzionaria manovra a tenaglia che spezzerà le catene che tengono legata l’Italia da più di settant’anni. Se ciò non sarà, il movimento cinque stelle riconfermerà la sua natura intimamente servile di guardia bianca controrivoluzionaria al servizio delle potenze straniere che hanno vinto il secondo conflitto mondiale, e la Lega non potrà certo pretendere (e non vorrà assolutamente intraprendere) quella legittima azione di liberazione economica dalle tecnoburocrazie italiane ed europee e dalle rimanenti bardature economico-clientelari del morente PD del nord. Insomma, in questa che Germinario chiama “apertura delle danze” siamo ancora al minuetto. Penso che non dovremo attendere molto per vedere se il minuetto si trasformerà in una luttuosa marcia funebre per l’Italia oppure in un energico boogie-woogie, che, come si sarà capito, non è qui metafora di un idilliaco stato di quiete ma l’augurio di una rinnovata consapevolezza strategica perennemente   in statu nascenti, il cui cardine è la comprensione della natura intimamente creatrice del conflitto qualora questo si svolga in forme razionali e socialmente condivise. Una epifania strategica che sarebbe veramente singolare – e triste – che non si manifestasse in una nazione che ha dato i natali a Niccolò Machiavelli, Giuseppe Mazzini ed Antonio Gramsci.

Massimo Morigi – 8 marzo 2018

L’Italia nella transizione globale ed epocale, di Gennaro Scala

Qui sotto un contributo alla lettura, offerta dal sociologo Gennaro Scala, delle recenti vicende politiche italiane alla luce delle dinamiche di conflitto e confronto geopolitico. Buona lettura_Germinario Giuseppe

L’Italia nella transizione globale ed epocale*

Siamo nel pieno di una transizione che è allo stesso tempo globale ed epocale. Per comprendere tale transizione dobbiamo ritornare indietro, fino alla nascita del mondo moderno che avviene proprio in Italia, precisamente nelle città di Venezia, Genova, Milano e Firenze, e che mostra già in Venezia una vocazione all’espansione commerciale a-territoriale e priva di limiti. Lo storico marxista e globalista Immanuel Wallerstein esaltava nel suo I volume sul “moderno sistema-mondo” quale dimostrazione di precoce modernità e “grande saggezza” la decisione di Venezia, che aveva dato un contributo decisivo alla sconfitta di Costantinopoli, attraverso la flotta e il finanziamento commerciale della IV crociata, di non assumersi l’eredità dell’Impero bizantino, preferendo piuttosto assicurarsi solo lo sbocco sui principali porti commerciali. Dopo la sconfitta delle città italiane, all’inizio del XVI secolo, la palla passerà alle altre potenze dell’epoca, che seppur meno ricche delle città italiane (secondo Braudel la sola Genova ancora nel XVI secolo aveva una ricchezza maggiore dell’intera Francia), ma che erano riuscite, a differenza dell’Italia, a costituirsi come stato unitario (vedi in merito la fondamentale correzione di Charles Tilly al metodo marxiano che insieme alla concentrazione del capitale considera la concentrazione del potere coercitivo – Stato – quale seconda variabile decisiva per la comprensione delle dinamiche delle società moderne.) Con la progressiva scomparsa dell’eredità del Sacro Romano Impero, le due principali potenze, il cui conflitto determinerà le sorti dell’Europa saranno la Francia e l’Inghilterra, il cui secolare conflitto si concluderà con la sconfitta di Napoleone e con la vittoria delle tendenze centrifughe all’interno dell’Europa, cioè con la tendenza a risolvere i conflitti interni dell’Europa attraverso l’espansione esterna che diventerà globale, mentre le tendenze centripete (cioè volte al raggiungimento di un ordine interno all’Europa), troveranno in Napoleone la maggiore quanto inadeguata espressione, a causa dell’approccio fondamentalmente militaristico (vedi in merito il fondamentale lavoro di Victoria Tin-Bor Hui, War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe).

Con straordinario intuito il grande storico inglese Arnold Toynbee, considerato che quando scrisse il suo libro Civiltà al paragone, qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica, appena uscita vincitrice dalla II guerra mondiale, sembrava costituirsi come l’affermarsi in scena di una potenza “comunista” stabile, ipotizzò che in realtà il comunismo era stato il modo in cui la civiltà russa-ortodossa aveva reagito ad una minaccia mortale, attraverso l’adozione di un’ideologia frutto della crisi della civiltà europea. Sia la civiltà russa-ortodossa che la civiltà sinica sono uscite vincitrici dalla prova del fuoco della modernità, adottando tramite delle rivoluzioni, gli aspetti delle società occidentali necessari al fine di costituire quella potenza industriale e militare atta a far fronte all’espansionismo occidentale. Mentre non sono riuscite a superare questa prova la civiltà islamica e la civiltà africana, il che sarà fonte di enormi problemi in futuro (ad es. il fatto che il continente africano sia in piena espansione demografica, si ritiene che raddoppierà la popolazione in trenta anni, va vista all’interno di un conflitto demografico tra civiltà).

Dopo il “crollo dell’Unione Sovietica” era sembrato alla potenza guida dei paesi occidentali che si potesse rilanciare l’espansionismo globale e che gli Usa, con l’alleanza dell’Europa, potessero diventare l’unica potenza globale. Invece, come già oggi evidente, era stato solo un processo attraverso cui la Russia si era liberata dell’involucro comunista, utilizzato all’uopo per far fronte alla “minaccia mortale” di cui parlava Toynbee, ma non più adeguato agli scopi della potenza russa. Quindi il “crollo del comunismo” è stata una crisi di trasformazione che ha riportato sulla scena mondiale la potenza russa senza più i limiti dell’ideologia comunista.

Con la crisi del mondo bipolare Usa-Urss (iniziato prima del “crollo del muro” vero e proprio, quando già, a chi ha strumenti di informazioni più efficaci rispetto ai mass media, l’Unione Sovietica appariva in crisi irreversibile) le classi dominanti occidentali avevano perso lo stimolo fondamentale che aveva portato, fino alla fine degli anni sessanta a curare l’ordine interno, il consenso e l’inclusione della classi popolari (termine con cui intendo sia le classi medie che inferiori)e a trattare con le loro rivendicazioni. Iniziava la lunga fase del cosiddetto neo-liberismo che è stato soprattutto un lungo e micidiale attacco alle conquiste delle classi popolari, mirante alla loro esclusione e subordinazione (il vero obiettivo della precarizzazione dei rapporti di lavoro). Questo attacco è stato dovuto al fatto che le classi dominanti occidentali, scomparso il loro nemico principale, hanno ritenuto che non fosse più necessario conservare il consenso all’interno.

L’epoca seguita al crollo dell’Unione Sovietica è già terminata. Con il progressivo ritorno in scena della potenza russa, chiaritosi definitivamente con il decisivo intervento nella crisi siriana che ha evitato alla Siria una sorte simile a quella dell’Iraq, della Jugoslavia e della Libia, si è visto che gli Usa, come guida del mondo “occidentale”, non possono aspirare ad essere l’unica potenza mondiale. Essi dovranno fare i conti con l’esistenza della Russia e della Cina.

L’Italia è un pezzo minore, seppur non del tutto marginale, dell’Occidente. Queste elezioni italiane che hanno visto il prevalere dei partiti “populisti” vanno viste in questa fase di transizione di cui una tappa, sicuramente più importante, sono state le elezioni statunitensi che hanno visto la vittoria di Trump (il cui significato anch’esso epocale, quale fine dell’epoca della globalizzazione, ho cercato di delineare in un intervento in occasione della vittoria di Trump*). L’Italia mostra una fase avanzata di questa crisi all’interno delle nazioni europee, mentre in altre essa sembra ancora ad uno stadio iniziale, anche se il sistema politico ad es. della Germania, con l’allenza tra CDU e SPD, è già entrato in una crisi profonda. Il “populismo” è un riflesso di questa trasformazione in corso, che rende necessario curare l’ordine interno e l’inclusione delle classi popolari. Anche se il “populismo” la rappresenta in modo del tutto inadeguato, e di meglio non ci si poteva aspettare, data la distruzione di ogni cultura, non solo politica, un vero e proprio rimbecillimento collettivo, che si è avuto in questi ultimi decenni in “occidente” Mentre il “protezionismo” è necessario per difendere le industrie occidentali dalla globalizzazione che si è rivelata un boomerang (è oggi la Cina a dichiararsi a favore della globalizzazione). E’ evidente che tanto la Lega che il M5S sono inadeguati ad affrontare i problemi del paese, tuttavia almeno con essi resta la possibilità di un miglioramento, mentre invece l’Italia sarebbe sicuramente affondata nelle mani dell'(anti)berlusconismo, cioè il sistema politico basato sulla pseudo-opzione berlusconi sì/berlusconi no che ha asfissiato il contesto politico italiano per vent’anni, mentre gli apparenti contendenti hanno poi finito per allearsi, con gli ultimi governi basati sul sostegno di Pd e Fi.

Il significato del “populismo” è questo: le classi dominanti devono capire che è necessaria un’inversione di rotta, verso la cura dell’ordine interno che recuperi il consenso delle classi popolari, se invece continuerà la disgregazione interna dei paesi occidentali essi perderanno la sfida globale del domani rispetto ad altre civiltà che sono più compatte per il fatto stesso che sono in crescita. Il rischio maggiore è che le classi dominanti non siano in grado di compiere questa inversione di rotta e vogliano invece risolvere questa crisi attraverso la Tecnica, cioè attraverso l’utilizzo di armi terribili (Putin ha detto qualche giorno fa con la massima chiarezza di essere in grado di neutralizzare, con la realizzazione di nuove armi tra cui un nuovo tipo di missile intercontinentale, questo obiettivo). Il compito comune della politica in “occidente” è oggi realizzare questa inversione di rotta, e il compito di tutte le persone di buona volontà in tutto il mondo è evitare i rischi immani di uno scontro di civiltà.

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* Questo intervento molto sintetico riprende, per quanto riguarda il quadro storico, alcuni temi trattati più ampiamente in altri scritti interventi pubblicati in internet, tra i quali principalmente:

Il paradigma machiavelliano oltre i soliti schemi ideologici
1) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma/
2) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma-2/

3) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma-3/

Ripensare la rivoluzione francese

http://www.opinione-pubblica.com/ripensare-la-rivoluzione-francese/

Il paradigma machiavelliano (video)

https://www.youtube.com/watch?v=cXIRTx6oMdQ

Per quanto riguarda l’analisi della vittoria di Trump

Endgame for globalization

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58220

Pacco-Italia: Alto/Basso. Fragile. Maneggiare con cura, di Roberto Buffagni

Pacco-Italia: Alto/Basso.

Fragile. Maneggiare con cura

 

Com’è il pacco-Italia che ci hanno recapitato le elezioni politiche 2018?

Be’, anzitutto è rovesciato: presenta il lato Basso in alto. Però sconsiglierei di raddrizzarlo bruscamente, perché il pacco è molto Fragile: basta guardarlo un momento, e si vede che presenta una netta linea di frattura proprio a metà, fra Nord e Sud. Insomma: maneggiare con cura.

Non stupisce, che il Basso (Lega al Nord, Movimento 5 Stelle al Sud) abbia rovesciato l’ Alto. Il centro di gravità dell’Alto che sinora ha governato l’Italia (il PD) era situato troppo, troppo in alto: geograficamente, oltre la cintura alpina, a Bruxelles e a Francoforte; socialmente, nei ceti che, a torto o a ragione, identificano il loro interesse con l’Unione Europea; geopoliticamente, lungo la direttrice nordeuropea, che rovescia la naturale direttrice mediterranea dell’interesse nazionale italiano. Con la testa nelle nuvole, l’Alto ha lasciato che il Basso si allargasse, si appesantisse, si depositasse sempre più in basso, ed ecco il risultato: Basso continuo, dalle Alpi a Capo Passero.

Il risultato è un enigma, perché non può esistere un Basso senza un Alto. Chi formerà il nuovo Alto di questo Basso, e come? Il quesito da risolvere è questo.

Una prima analisi del Basso italiano distingue tra un Basso nordista che sventola la bandiera del Lavoro e, ancora timidamente, la bandiera della Nazione; e un Basso sudista che sventola la bandiera del Soccorso e, ancora timidamente, la bandiera dell’Unione Europea. Il Basso nordista cerca di diventare Popolo liberandosi dal suo servaggio con lo strumento tradizionale del suo riscatto, la laboriosità; il Basso sudista si presenta per quel che è, Plebe; e se da un canto se ne inorgoglisce sfacciatamente (“uno vale uno” vuol dire “non siete meglio di noi”) dall’altro mendica da “Franza o Spagna” l’urgente soccorso di cui ha vero bisogno, il “reddito di cittadinanza”, il “purché se magna”.

Si ridisegnano, insomma, a centosettant’anni di distanza, le linee di frattura sociali e geografiche che non riuscì a saldare l’ “eroico sopruso” dell’unificazione nazionale italiana, e ci impongono un urgente esame di realtà, senza il quale non potrà sorgere un Alto che guidi questo Basso.

Ci hanno fornito le coordinate essenziali di questo esame di realtà tre dei maggiori interpreti della storia e dell’identità italiana, che tutti conosciamo dai tempi della scuola: Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Giovanni Verga. Il conte Manzoni dedica la sua opera maggiore alle vicende di un’operaia tessile e di un operaio qualificato che diventa piccolo imprenditore. Il conte Leopardi, in una delle sue poesie più luminose, si fa pastore errante, un marginale così isolato che gli tocca di parlare con la luna. Il rentier Giovanni Verga, nel suo romanzo migliore, ci racconta la storia di una famiglia di poveri pescatori e di un carico di lupini. Ciascuno a suo modo, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi e Giovanni Verga ci dicono una verità che noi italiani già sappiamo tutti, se appena ci riflettiamo e siamo onesti con noi stessi: che il modo di essere naturale, archetipico, dell’Italia e degli italiani è la povertà. Siamo stati la quinta potenza industriale del mondo, tuttora possediamo, neonati compresi, un paio di telefoni cellulari a testa, ma la povertà resta, nel bene e nel male, la nostra casa: finché ne avremo una. Povertà e ricchezza hanno ciascuna le sue virtù e i suoi vizi. Virtù e vizi della ricchezza – amore della gloria e della sfida, fiducia in se stessi, alterigia, distacco – non ci riescono bene. Siamo decisamente più a nostro agio con virtù e vizi della povertà. Le principali virtù della povertà sono: sapere, fin dentro le ossa e il midollo, che la sciagura esiste sul serio, nella vita quotidiana di tutti e non solo nei libri; la modestia del realismo; la dignità che ne consegue; e la laboriosità. I principali difetti della povertà sono: il sogno della ricchezza che divora tutto; la millanteria della grandezza; il vittimismo; e la tentazione ricorrente del melodramma, cioè a dire la tentazione di credere e agire come se i poveri e i deboli, solo perché poveri e deboli, fossero buoni e incolpevoli: come se la responsabilità di errori colpe e mali fosse sempre dei ricchi e forti, e soprattutto degli altri.

Per noi italiani la tentazione del melodramma – la tentazione di dare la colpa (e con la colpa, la responsabilità) agli altri – è oggi la più forte e la più pericolosa: e il Movimento Cinque Stelle ne è l’espressione politica schiettamente servile. Non è un caso fortuito che a fondarlo sia stato un comico. La posizione del comico è la posizione del servo, che nella zona franca della scena, dove gli spari non uccidono e le decisioni non impegnano, può salire in Alto e dire le sue ragioni. In condizioni normali, cioè se il centro simbolico, politico e sociale tiene, quando cala il sipario il servo riprende il suo posto nel mondo e torna in Basso. Oggi il centro non tiene, e il Servo si ritrova in primo piano sulla grande scena del mondo, dove le scelte hanno conseguenze, le decisioni impegnano, gli spari uccidono: e spaurito, incredulo, se ne esalta e sogna.

Che cosa sogna, il Servo-Movimento Cinque Stelle? Be’: continua a sognare, in forma semplificata, ingenua, caricaturale, il sogno che gli ha insegnato a sognare il suo padrone, il PD: il sogno dell’Europa “dove lavoreremo un giorno di meno e guadagneremo un giorno di stipendio in più”, secondo la gesuitica profezia di Romano Prodi; e lo riformula sognando che da Lassù, Qualcuno ci recapiterà lo stipendio senza che ci diamo la briga di lavorare neanche un’ora. Insensato? Certo che è insensato. E allora? A tanti italiani, specie al Sud, appare insensata l’ambizione di lavorare, crescere una famiglia, mettersi un tetto sulla testa e una lapide sulla tomba, insomma: appare insensata la vita. Perché non preferirle un sogno, altrettanto insensato ma lieto?

La Plebe del Sud che vuole sognare e il suo partito, il Movimento Cinque Stelle, sono dunque l’avversario politico naturale del Popolo del Nord, che vuole destarsi.  Se il Nord saprà proporre al Sud una via praticabile e una prospettiva sensata, vivibile anche da svegli, dal Basso del Nord e del Sud potrà sorgere un nuovo Alto, capace di ricomporre e guidare l’Italia intera. Se non ci riuscirà, l’Italia ne uscirà balcanizzata, e tornerà ad essere un’ “espressione geografica”, come la definì la celebre formula del principe Clemens von Metternich.

Si aprano le danze, di Giuseppe Germinario

Siamo all’apertura delle danze. L’esito degli esami corrisponde all’incirca ai voti di ammissione assegnati.

I resti di una classe dirigente che, rimossa senza troppe riflessioni la propria appartenenza di origine, ha governato senza gloria e imprimendo ferite indelebili al paese il dopo Tangentopoli senza trovar di meglio che rifugiarsi nella ridotta di Liberi e Uguali assieme ai paladini del diritto umanitario e della soluzione giudiziaria del conflitto politico, devono ormai riporre mestamente i remi in barca. D’Alema, Bersani avranno il privilegio di disporre di un caminetto e di poter punzecchiare qui e là, con le loro fondazioni e circoli, senza infastidire più di tanto e dopo aver strumentalizzato da par loro i resti di un movimento. Di Grasso e Boldrini ogni commento è superfluo, come superflua è stata la loro presenza politica in questi ultimi cinque anni ridotti come sono, specie l’ex terza carica, ad una caricatura.

I polli allevati in quella batteria, in particolare nel vivaio di Francesco Rutelli, li hanno scalzati appoggiandosi al Rottamatore, confidando in tal modo nella propria sopravvivenza. Un sodalizio, piuttosto una tregua concordata, durato appena tre anni. Ai primi segni di eccessivo carico di una nave in tempesta è stata la prima zavorra ad essere eliminata per salvare il comandante e la ciurma più fedele. La ripartizione dei posti nelle circoscrizioni elettorali è stato lo strumento di questa selezione con buona pace dei Franceschini e dei Cuperlo. Un modo, anche, per rendere ancora più impervia una successione non concordata con il monarca traballante.

E il monarca traballante, Renzi, pur dimissionario non ha alcuna intenzione di rinunciare alla partecipazione della tessitura. Pur di esistere è disposto a rimaneggiare ulteriormente la ridotta entro cui arroccarsi. Annuncia un nuovo congresso dove si chiariscano definitivamente rapporti di forza e linee politiche, quasi che il precedente appena celebrato non avesse già assolto ferocemente al compito. Fa il muso duro agli avversari interni ed esterni, soprattutto al M5S; nella sua determinazione, però, si riserva di “scandire i no ma anche i sì”, segno che le trattative prima o poi dovranno partire. Potrà, alla bisogna, nascondersi dietro la foglia di fico di un nuovo segretario prestanome, ma il solco comincia ad essere tracciato senza alcuna distrazione sul rispetto delle linee fondamentali portate avanti sino ad ora a dispetto delle batoste “democratiche”. Nelle more ci ha pensato l’insignificante risultato di Casapound a certificare la pretestuosità delle emergenze fasciste e razziste in agguato. Il nostro, ormai, rimane aggrappato ad una sola speranza: logorare il M5S e approfittare di una parte delle spoglie di Forza Italia. Il ventaglio delle opzioni e i margini di manovra si restringono ormai sempre più; l’ultimo appuntamento fruibile potranno essere le elezioni europee del ’19 sempre che la situazione non precipiti. Le sponde europee, a cominciare da Macron, non mancano. Un ipotesi quindi tutt’altro che peregrina. Allo stato, vista l’attuale composizione del gruppo dirigente, Renzi non ha rivali. Il pericolo potrebbe arrivare da chi ha scelto di non partecipare alla battaglia elettorale e di rimanere in attesa ai margini pur partecipando attivamente al dibattito. Una tattica della quale Renzi si è rivelato maestro. Si sa però che prima o poi un discepolo superiore in astuzia potrà superarlo. Da lì a riuscire a risollevare le sorti disperate di un partito però ce ne corre.

Nella guerra di posizione appena iniziata ci ha pensato una ragazza di trent’anni a seno nudo a sbattere in faccia a Berlusconi il suo futuro. “SEI SCADUTO” recitava l’epitaffio beffardo sui seni taglia due, giusto perché fosse più nitido e leggibile, della Femen. Un gruppo, quello delle Femen che non agisce mai di propria iniziativa; che obbedisce direttamente agli ordini del filantropo Soros; che è riuscito stranamente a violare, ancora una volta, il servizio di vigilanza personale dell’ex cavaliere. Tutta l’aria insomma di un oscuro e minaccioso avvertimento a mettersi da parte, vista l’inutilità del suo impegno.

L’avvento di Trump, infatti, ha contribuito in maniera determinante ad accelerare processi già in corso. Ha quantomeno indebolito e disarticolato l’azione dei potenti mentori americani dei personaggi politici europei ed italiani attualmente sulla via del tramonto; ha mostrato che non sono onnipotenti ed inattaccabili e di conseguenza incoraggiato movimenti alternativi; sta soprattutto articolando una diversa politica estera meno propensa a sostenere senza alternative istituzioni sovranazionali come la Unione Europea.

L’onda di rinnovamento è potente e profonda, cavalcarla è difficile, ma non ha ancora trovato una direzione precisa.

Il ricambio che si sta verificando in Italia, sia negli aspetti positivi appena abbozzati, sia in quelli trasformistici ancora del tutto prevalenti, sono quindi un aspetto di un contesto ben più ampio.

Nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord d’Italia ha assunto connotati diversi, ma va indirizzato.

Nel Nord c’è una spinta fortissima dei ceti produttivi. Una autocontemplazione delle aspirazioni, legata alla frammentazione imprenditoriale e a un fuorviante approccio tra pubblico e privato sono una barriera alla individuazione delle priorità, ivi compresi la difesa e lo sviluppo delle grandi imprese.

Nel Sud il deserto economico e sociale e la casualità delle isole di sviluppo pur presenti ha generato un movimento ancora più potente che per la fragilità e permeabilità della guida rischia di essere ricondotto rapidamente nel gioco classico del notabilato.

Una ragione in più per la costruzione di una solida e determinata guida politica.

L’avvertimento a Berlusconi sembra indicare che i portatori di questo trasformismo sono ormai altri, incompatibili con la sua persona e presenti in tutte le formazioni, alcuni nelle posizioni di comando altri momentaneamente in quiete ma pronti ad emergere alla bisogna.

Il M5S sembra essere il luogo e uno dei candidati principali a questa operazione gattopardesca anche a costo di un progressivo sacrificio degli attuali livello di consenso in tempi nemmeno così dilatati, visto lo sviluppo convulsivo degli eventi. I segnali di questa investitura cominciano ad essere numerosi. I fondamenti culturali ed ideologici del suo mutevole programma, la sua permeabilità e le prime preoccupanti indicazioni dei criteri di selezione della nuova classe dirigente sono lì ad inquietare e far vacillare le più genuine aspettative.

La cartina di tornasole sarà la propensione al cedimento delle sirene di una qualche forma di governo di larghe intese, connaturato per di più a questa legge elettorale.

Nel frattempo apprezziamo quanto meno gli spazi e i varchi che si apriranno, vista la maggiore difficoltà di perseguimento di tali mire e mettiamo a nudo la forza e le debolezze dei possibili attori e portatori di nuovi indirizzi. Le finestre di opportunità non durano all’infinito e il più delle volte non sono gli attori alternativi ad aprirle; per lo più essi devono essere pronti a coglierle.

L’importante è che il ballo cominci.

LE PAGELLE DI UNA CAMPAGNA ELETTORALE, di Giuseppe Germinario

Tempo di pagelle alla vigilia dell’esame e del verdetto!

Due mesi di campagna elettorale serrata seguita ad oltre un anno di guerra di posizione e di campagna elettorale strisciante hanno rivelato molto sulla condizione dei partiti, sulle loro mutazioni e sulla qualità dei loro gruppi dirigenti. C’è chi riesce a brillare nelle piazze. Meno il M5S rispetto agli anni scorsi, di più la Lega e Fratelli d’Italia rispetto al recente passato. I più avveduti sanno da tempo ormai che non esiste necessariamente corrispondenza diretta tra piazze piene e pienone di voti. La partecipazione ad esse infatti non comporta adesione automatica della stessa folla nelle urne; il voto di interesse e di opinione segue inoltre infiniti altri canali di espressione e subisce numerose altre modalità di influenza. Dopo questo breve preambolo qui di seguito un giudizio sui principali partiti con una precisazione: il voto non deve indurre ad una previsione del responso elettorale ad esso corrispondente. Sono due livelli di analisi diversi.

MOVIMENTO 5 STELLE: voto 8

Il suo gruppo dirigente è stato il protagonista di un ragguardevole miracolo al limite del funambolismo. È riuscito a mimetizzare quasi completamente una radicale operazione trasformistica del proprio programma e del proprio sistema di relazioni cercando di intaccare il meno possibile il totem costitutivo della propria forza persuasiva: la formulazione dal basso nelle decisioni e nell’elaborazione della piattaforma politica. A partire dal referendum sulle riforme istituzionali del dicembre 2016 è partita la caccia al grande sconfitto: il PD renziano. Da quel momento è partita la campagna di costruzione del personaggio Di Maio-uomo di governo. Una campagna per nulla estemporanea; costruita sapientemente passo dopo passo, con un dispendio di mezzi considerevole e con una inedita capacità, rispetto agli altri contendenti, di utilizzo dei sistemi mediatici tradizionali e più innovativi. È stato certamente agevolato dall’esistenza di un alter ego, Alessandro Di Battista, tutto intento a rassicurare e vellicare le pulsioni dell’anima movimentista del M5S. Ha potuto altresì godere dell’assenza di interlocuzione e di confronti diretti con i propri avversari. Un primo banco di prova che avrebbe potuto mettere a nudo le sue effettive capacità di sostenere uno scontro politico. Ha approfittato dello scarso spessore degli attacchi tutti incentrati sull’onerosità del programma economico, paragonabile a quella degli altri partiti e sulla scarsa moralità e sull’incompetenza del gruppo dirigente, quasi a voler trascinare tutti pretestuosamente nello stesso girone infernale. Un atteggiamento distruttivo, quello degli avversari, in realtà autolesionistico e incapace di offrire una prospettiva positiva al paese. Sta di fatto che il successo mediatico e la capacità di imporre i temi e di rovesciare la posizione di difesa dagli attacchi sono inequivocabili. Di Maio, soprattutto lo staff che ha sapientemente organizzato la campagna, è riuscito sin da subito a smontare i possibili argomenti di critica e di attacco più insidiosi. Recandosi negli Stati Uniti ha cercato sostegni e investiture nei circoli che indirizzano e condizionano la politica italiana. Un pellegrinaggio ostentato e evenemenziale da parte sua, assiduo e discreto da parte del suo staff, soprattutto il suo mentore Casaleggio. Portandosi, successivamente, nelle sedi dei “poteri forti” finanziari e istituzionali europei con un intento rassicurante riguardo alle proprie intenzioni. Costruendosi, in televisione, nei suoi numerosi viaggi mirati nelle realtà produttive del paese, persino nei rari comizi, l’aplomb di “uomo delle istituzioni”, sino al vero e proprio colpo di teatro della presentazione dell’eventuale governo in caso di vittoria elettorale. Una costruzione dell’immagine alla quale ha corrisposto un progressivo e per quanto possibile discreto spostamento degli originari indirizzi politici radicali in materia di politica estera, riguardo all’atteggiamento verso l’Unione Europea, la NATO, la Russia e di politica economica, sempre più di stampo meramente keynesiano, velleitaria rispetto agli attuali vincoli sottoscritti, ma compatibili col dogma del sedicente libero mercato sul quale si fonda l’attuale edificio europeista. È stato il modo quasi geniale con il quale si sono smontati sul nascere gli argomenti di critica degli avversari; sia di quelli ortodossi rispetto alla vulgata europeista e occidentalista sia di quella eretica, ma paralizzata dalla scelta di appartenenza allo schieramento di centrodestra. Si vedrà se tale modo di conduzione porterà al partito i frutti sperati. Di certo questi frutti si riveleranno ancora una volta avvelenati per il paese e rimanderanno ancora una volta la possibilità di costruzione di una classe dirigente capace di tirare fuori la nazione dalle sabbie mobili nelle quali è sempre più impantanata. Non si può nemmeno dire che si tratti di una vera e propria operazione trasformistica; consiste, piuttosto, in un adeguamento pressoché fisiologico degli indirizzi e obbiettivi politici alla visione di fondo del movimento legata alla illusione partecipativa predominante dal basso, al decentramento esasperato, alla sopravvalutazione delle tematiche dell’economia circolare e dell’ecologia, ad una visione dello sviluppo tecnologico slegato dal ruolo delle grandi imprese e delle strategie politiche dei centri di potere, per non parlare della questione dell’immigrazione. Tutti approcci perfettamente compatibili, anche nel loro velleitarismo, con gli attuali assetti istituzionali in Europa e nel mondo occidentale. Una strategia che ha condotto fisiologicamente il confronto elettorale verso i temi più congeniali, ma anche fuorvianti, al movimento: la moralità, l’onestà. La composizione del governo proposta da Di Maio è tutta lì ad attestare questo assestamento. Personaggi di seconda linea, scelta pressoché obbligata, visto il rischio personale di tale esposizione così azzardata. Personalità in parte legate al mondo della cooperazione internazionale; alcune con legami espliciti con le fondazioni di Soros e dei centri finanziari più potenti, altre con i centri culturali di emanazione europeista, altre ancora di centri universitari di seconda linea ma con legami internazionali e orientamenti spesso espliciti. Figure che danno una impronta di governo tecnico gestibile efficacemente solo grazie all’autorità assoluta del capo politico del Governo, pena l’eterodirezione della compagine. Una qualità tutta da dimostrare e sinora rimasta quanto meno in ombra nel leader emergente. Il voto è limitato ad otto per un motivo semplice quanto essenziale. Il completo successo di immagine avrebbe dovuto comportare la trasformazione di Di Maio e del Movimento in un soggetto capace di “dominare” autorevolmente le masse piuttosto che di esserne o fingerne di essere imbevuto dalle masse. “Le phisique du role” del personaggio è tutto lì a svelarne i limiti. Le conseguenze di queste impronte sono prevedibili. Un movimento sempre più terra di conquista di interessi particolaristici e di piccoli potentati locali; una direzione sempre più bisognosa di investiture esterne, piuttosto che di capacità egemoniche proprie. Il progressivo disvelamento dell’anima sinistrorsa più deleteria della dirigenza di quel movimento, legata all’antiberlusconismo moralistico, più volte segnalata negli anni da questo sito, è tutta lì a tracciare la direzione delle future scelte politiche del movimento. Taluni assimilano questa ascesa all’esperienza di Macron in Francia. L’opacità dei centri ispiratori, l’assenza di forti centri di potere endogeni promotori sono lì invece ad attestarne limiti e diversità.

LEGA DI SALVINI: voto 7

Le capacità tribunizie sono indubbie, come pure quella di trascinare il partito verso la costruzione di una immagine “nazionale”. La Lega infatti ha riscoperto, almeno nel Centro-Nord del paese, una capacità di mobilitazione ormai riservata ai ricordi della vecchia dirigenza. Il limite, però, è visibile nell’atteggiamento compiaciuto di “buon padre di famiglia” assunto, in realtà probabilmente connaturato al leader. Una veste che rende per il momento poco credibile la sua rivendicazione di uomo di governo, se non addirittura di Stato, portatore di una svolta radicale praticabile. Il retaggio della Lega Nord, con le sue impronte identitarie localistiche, antinazionali e spesso razziste, è ancora particolarmente pesante all’interno e presente nella memoria del paese. Il ripiego di fondare il partito nazionale sulla base di una alleanza dei “popoli italici” è di una tale ambiguità da compromettere ancora la solidità del nuovo edificio e da far rientrare dalla finestra i demoni accompagnati alla porta del nuovo partito. Un percorso analogo a quello che sta percorrendo il Fronte Nazionale francese. L’accordo elettorale nel centrodestra, un passo probabilmente obbligato dalla condizione interna del partito, si sta rivelando un capestro che ha impedito di mettere a frutto la diversità e l’alternatività di buona parte dei punti presenti nel programma elettorale rispetto agli avversari dichiarati del PD ed occulti interni del centrodestra e rispetto ai competitori del M5S. Le occasioni per smarcarsi e qualificarsi, anche in questa campagna elettorale, non sono mancate, a cominciare dai fatti di Macerata, della ritirata ingloriosa della nave dell’ENI dalle coste di Cipro, dalle pesanti intromissioni dei vertici della UE; ma non sono state colte se non parzialmente e in maniera inadeguata rispetto alla postura che Salvini vorrebbe assumere. Le oscillazioni, si vedrà se tattiche o strategiche, ma comunque tendenti alla normalizzazione, rispetto alla politica estera, alle politiche comunitarie, a quella industriale, come pure l’impronta data alle politiche di riforma istituzionale ne minano la credibilità. Denotano ancora una volta una colpevole sottovalutazione, comune per altro a tutte le forze di opposizione organizzate, del fatto che conquistare voti, prendere la maggioranza elettorale, assumere le redini del governo non significa conseguentemente avere la possibilità di esercitare effettivamente il potere e mettere in opera i programmi, per quanto ben intenzionati e costruiti. A controbilanciare parzialmente questi limiti e questa deriva rimangono alcune candidature significative come quella di Bagnai, ma ad una condizione: l’acquisizione di credibilità attraverso la rottura postelettorale della coalizione con Forza Italia e l’assorbimento di una parte delle sue spoglie. È probabilmente questo il motivo per il quale Salvini spera in una dèbacle solo parziale del PD e nella formazione di un governo di unità nazionale a lui estraneo, ma comprensivo di Berlusconi o del M5S. In alternativa si assisterà al rapido declino dell’ennesima promessa del firmamento politico italiano non proprio esaltante

FRATELLI d’ITALIA: voto 6

Valgono in buona parte le stesse valutazioni su Salvini ma con un margine più positivo rispetto alla coerenza politica ed autonomia di giudizio rispetto a Berlusconi ed uno più negativo rispetto al carattere un po’ casereccio della conduzione e dell’immagine, solo in parte compensato da figure come Crosetto, ma gravemente compromesse da quelle come Larussa.

FORZA ITALIA e PARTITO DEMOCRATICO: voto 5

La prima paga il segno evidente del declino irreversibile fisico, morale e di credibilità del leader Berlusconi. Un tramonto non legato alla moralità e alle vicende giudiziarie, spesso di carattere persecutorio, del personaggio. Collegato soprattutto alle scelte opportunistiche, di vera e propria sottomissione e trasformismo, sfociato in collusione, delle sue scelte di politica estera, comunitaria ed interna specie a partire dal 2010. Sta coronando il senso della sua esistenza, ormai al limite dell’inverecondia e un po’ penosa, viste le condizioni della persona, con l’estremo tentativo di bloccare l’affermazione di forze, ancora troppo premature da definire sovraniste, ma quantomeno più autonome e reattive nelle scelte politiche di conduzione del paese. Ormai si avvicina sempre più alla funzione del nobile decaduto ormai impegnato ad orientare, eterodiretto, la suddivisione delle proprie spoglie politiche in cambio di una probabile parziale salvaguardia di quelle economico-finanziarie. Da qui la conduzione di una campagna incapace di imporre i temi, un filo conduttore unitario e con lunghe pause di lucidità.

La sopravvivenza della dirigenza del PD e il suo possibile procrastinarsi al responso elettorale è ormai legata alla suddivisione di queste spoglie. Il tandem ipotizzato tra la forza tranquilla espressa da Gentiloni e Minniti e l’atteggiamento d’assalto e ultraottimistico di Matteo Renzi si è rivelato in realtà una corsa in parallelo tra due atleti. Tanto più che la riconduzione alla passiva ortodossia europeista e la rapida constatazione della inconsistenza della forza dei pugni battuti da Renzi al tavolo di Bruxelles ha privato il leader, ormai opaco e debilitato, della prospettiva di cui è stato capace Macron in Francia. Quelo che pareva un destino parallelo con il leader francese, appare ormai come un surrogato caricaturale che non porterà niente di buono al paese. La campagna elettorale è apparsa motivata più da ragioni pretestuose nei confronti degli avversari, che dall’offerta di una prospettiva credibile al paese, comprensiva dei successi e dei tanti insuccessi e risultati nefasti. Si tratta di una lotta ormai per la vita o la morte. C’è l’ambizione di rigenerarsi parzialmente raccogliendo le spoglie di chi sta ancora peggio; c’è però il rischio evidente di diventare esso stesso una preda, sia nelle parti nobili che in quelle in via di putrefazione. I travasi che si stanno verificando, specie nel Mezzogiorno, come pure le alleanze elettorali, come con la Bonino prodiga di finanziamenti e di impegno specie nei collegi esteri, segnalano ben poco di buono.

LIBERI e UGUALI: voto 4

La realtà politica ha rivelato rapidamente la sua natura. Una sommatoria di sigle in declino ed incerte sugli indirizzi concreti. Hanno nascosto la condizione dietro una sommatoria di rivendicazioni sindacali e redistributive con il cappello dei diritti umani, del legalismo giudiziario e della fantomatica lotta ai poteri forti finanziari dietro i quali giustificare le solite alleanze politiche sia internazionali, in specie con il Partito Democratico americano, che interne. Un manifesto pretestuoso utile a mascherare l’intenzione di logorare il PD renziano e di riproporsi tra i commensali dell’arco costituzionale. Una ambiguità che sta impedendo loro di recuperare la gran parte del popolo sinistrorso e di offrire una rappresentazione scialba e spesso infantile della propria identità a beneficio esclusivo, nemmeno certo, delle carriere al tramonto e pittoresche di personaggi come Boldrini o malinconiche e nostalgiche, quali quelle di d’Alema e Bersani. Il resto è pura appendice.

Questi sono i voti, del tutto personali. A presto l’esito degli esami, quello più oggettivo.

FASCISMO & ANTIFASCISMO: UNA PIETRA SOPRA, di Roberto Buffagni

FASCISMO & ANTIFASCISMO: UNA PIETRA SOPRA.

 

Il lettore ricorderà che Luca Traini, ultimata la sua rappresaglia collettiva per l’assassinio di Pamela Mastropietro, si è costituito alle forze dell’ordine. Per sacralizzare il suo gesto, si è avvolto nel tricolore ed ha atteso l’arresto sul Monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale. Che cosa c’entrano la Prima Guerra Mondiale e i suoi caduti con il gesto di Traini? Naturalmente, non c’entrano niente. C’entrano molto, invece, con le manifestazioni antifasciste che hanno risposto al gesto di Traini. C’entrano, perché non so se ci avete fatto caso, ma Monumenti ai Caduti della Seconda Guerra Mondiale, in Italia non ce ne sono proprio.

Monumenti ai Caduti Partigiani ce ne sono in ogni città italiana, grande o piccola. Nel migliore dei casi, sotto l’elenco dei caduti partigiani c’è una lista dei “caduti al fronte”, dove per “caduti al fronte” si intendono i caduti nel corso delle operazioni belliche 1940-1945, esclusi i caduti della Repubblica Sociale Italiana che non sono ricordati neanche con un post-it appiccicato nei cessi di un periferico autogrill. Ma monumenti ai Caduti della Seconda Guerra Mondiale, dove siano ricordati tutti i caduti italiani, salvo errore in Italia non ne esistono proprio[1]. Eppure, non sono stati pochi: secondo l’Ufficio dell’Albo d’Oro del Ministero della Difesa[2], i numeri sono i seguenti: Esercito, 246.432; Marina, 31.347;  Aeronautica, 13.210;  formazioni partigiane, 15.197;  forze armate della RSI, 13.021.

Risulta chiaro, dunque, che non è ancora possibile mettere la proverbiale pietra sopra, in forma di lapide monumentale, a una vicenda non secondaria della storia italiana. I caduti della Seconda Guerra Mondiale sono e restano caduti abusivi o tollerati, mentre i caduti della Repubblica Sociale Italiana sono e restano caduti illeciti e disonorati. Gli unici caduti italiani legittimi e onorati della Seconda Guerra Mondiale sono i caduti partigiani (circa il 5% del totale). Di conseguenza, quando Luca Traini ha voluto legittimare e sacralizzare il suo gesto presentandosi come un combattente per la nazione e per la stirpe italiana, non ha potuto che scegliere il Monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale: che però con l’assassinio di Pamela Mastropietro, con l’immigrazione, con il fascismo e l’antifascismo, se non altro per ragioni cronologiche c’entra zero.

Motivi ce ne sono, naturalmente. La Repubblica italiana si autodefinisce “antifascista” sin dalle sue origini, e “antifascista” fu la classe dirigente riunita nel CLN che la guidò, dopo la sconfitta militare e l’armistizio con le potenze Alleate. Il regime politico responsabile dell’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, e dunque della nostra sconfitta, fu senz’altro il regime fascista. Non facile sarebbe stato, per la nuova classe dirigente repubblicana, presentarsi agli italiani e al mondo come erede di una sconfitta. Più facile presentarsi come eredi di una vittoria: la vittoria dell’antifascismo sul fascismo. Il fatto, storicamente incontestabile, che a perdere la guerra era stato non solo il regime politico fascista ma l’Italia, e a vincerla sì l’antifascismo, ma innanzitutto le potenze straniere Alleate che l’Italia avevano sconfitto e invaso, e senza le quali il CLN e le formazioni partigiane non avrebbero vinto mai, fu passato sotto silenzio.

Non subito: nei primi anni dopo la fine della guerra, troppo bruciante e troppo chiara a tutti era la realtà della sconfitta, e troppo evidenti i rapporti di forza tra le formazioni partigiane e le potenze Alleate, liberatrici dal fascismo e insieme occupanti la nazione italiana. Alla conferenza di Pace di Parigi del 1946, infatti, l’antifascista Alcide De Gasperi così si rivolge alle potenze vincitrici: “Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.”

Poi nacque il mito, sottolineo mito della Resistenza; e nacque anzitutto per opera di Togliatti e del PCI, che con il mito della Resistenza e dell’antifascismo si accreditava quale partito democratico per eccellenza, nonostante la sua appartenenza al campo sovietico, che di democratico non aveva un gran che tranne il nome delle “democrazie popolari” del Patto di Varsavia. La guida culturale del campo antifascista fu presa, però, dagli eredi del Partito d’Azione. Piero Gobetti aveva definito il fascismo “autobiografia della nazione”, e gli italiani che avevano appoggiato il fascismo “popolo delle scimmie”. Fascismo come autobiografia della nazione significava, per Gobetti e per la cultura azionista, fascismo come risultante di tutte le “arretratezze” italiane: la mancanza di una riforma protestante, di una borghesia laica, di una rivoluzione industriale. Per farla breve: fascismo come effetto del mancato ingresso dell’Italia nella modernità europea e occidentale, della nostra incapacità di essere “un paese normale”, come dirà Massimo D’Alema tanti anni dopo. “Fascismo” veniva a significare il contrario di “progresso”; e per l’Italia, “progresso” diventava sinonimo di “assimilazione culturale ai paesi-guida della modernità”, in parole povere ai paesi anglosassoni. Scotomizzata dal paradigma/paraocchi mentale progressista, elementare e potentissimo, che divide il mondo in un avanti dove c’è ogni valore e un indietro dove c’è ogni disvalore, la cultura dell’antifascismo a guida azionista condivide il “pregiudizio favorevole”[3] nei confronti del comunismo: perché pur presentando qualche difetto, il comunismo è avanti.

Esempio preclaro di “pregiudizio favorevole”, Piero Calamandrei. Scrivendo a suo figlio Franco, allora (1955-6) corrispondente de “L’Unità” da Pechino, Piero, che sta preparando un numero de “Il Ponte” dedicato alla Cina, gli chiede quanto segue: “Ora vorrei una spiegazione da te, caro Franco, se puoi darmela[4]. In un articolo su ‘La Cina vista dall’Inghilterra’ del redattore del ‘Manchester Guardian’, l’autore che rifà la storia di come si è arrivati alla Cina popolare, dice a un certo punto: ‘C’è stato terrorismo politico: nel 1952 ministri del governo annunciarono che erano stati sterminati 2.500.000 nemici di classe.’ E’ esatta questa notizia? E’ controllabile? O è un’invenzione? Non so se tu sei in grado di rispondermi: in caso negativo, sia per non detto. Ciò non avrebbe importanza sul giudizio positivo sulla Cina attuale; le rivoluzioni sono rivoluzioni come le guerre. Ma se la notizia fosse falsa vorrei ribatterla[5].[6]

Oggi sappiamo che la notizia era vera, le cifre degli sterminati sono in quell’ordine di grandezza. Ma la cosa interessante è che Piero Calamandrei, persona intelligente, preparata e degna, di fronte a una cifra come 2.500.000 morti ammazzati non nel corso del conflitto guerreggiato ma dopo, a sangue freddo, a) non fa una piega b) non si chiede a chi e cosa corrisponda, nei fatti cinesi, il concetto di “nemico di classe” c) qualora il figlio lo accerti che la notizia è vera, addebita lo sterminio alla forza delle cose e al destino, tipo “per fare la frittata si rompono le uova” d) e dunque chiede verifica a Franco solo per cogliere una buona occasione di far polemica contro gli anticomunisti in caso la notizia fosse falsa.
Si noti che Calamandrei non era comunista, né aveva responsabilità politiche dirette nel movimento comunista (chi ha responsabilità politiche dirette tende inevitabilmente al cinismo pragmatico). Era un celebre e rispettatissimo studioso, certo politicamente schierato nel campo antifascista, ma non un agente del KGB, e nemmeno un membro dell’Ufficio Politico del PCI.

La cecità volontaria parziale di Calamandrei deriva da un pregiudizio ideologico, il “pregiudizio favorevole” al comunismo. Calamandrei non era comunista, ma un azionista antifascista. Con la svolta di Salerno, il PCI si era proposto come campione dell’antifascismo e della democrazia; e per complesse ragioni storiche e ideologiche, la proposta era stata accolta da tutte le forze componenti il CLN, sebbene il PCI antifascista lo fosse stato senz’altro, ma democratico mai (accettava di fatto la democrazia rappresentativa pluralistica perché questo era il quadro di Yalta, ma non l’accettava in linea di principio, e questo resterà vero fino a Berlinguer e oltre: è la celebre “doppiezza” togliattiana). Quindi, il PCI restava fuori dal governo in base a Yalta, ma sul piano ideologico e culturale il comunismo restava non solo accettabile per tutti gli antifascisti, ma una forza e una cultura nei riguardi della quale le forze ex CLN nutrivano un “pregiudizio favorevole”. Ragione di fondo: un tipo di interpretazione del fascismo (azionista e marxista, che convergono su questo giudizio per diverse vie) che lo vede come un pericolo permanente e ricorrente, contro il quale è indispensabile conservare l’alleanza antifascista anche quando il fascismo storico non esiste più perché sconfitto sul campo. A questo poi si aggiunga la solidarietà di interessi che sempre si stabilisce in una classe dirigente, e che prescrive quel che si può, e quel che non si può dire pena serie difficoltà nella carriera, sino all’ostracismo. Conclusione: a fronte del pericolo di risorgenza del fascismo eterno, i 2MLN e mezzo di morti cinesi contano zero, e vanno passati sotto silenzio perché a parlarne “si fa il gioco del fascismo”; come si fa il gioco del fascismo a parlare del terrore leniniano e staliniano, del dissenso sovietico, e del fatto che il mito della Resistenza è, appunto, un mito che non corrisponde alla realtà, come non corrisponde alla realtà la vulgata secondo la quale il fascismo è “l’invasione degli Hyksos” (Croce) o “l’autobiografia della nazione” di un “popolo di scimmie” (Gobetti) o “il braccio armato del grande capitale che quando è in difficoltà lo tira sempre fuori dalla cassetta degli attrezzi” (marxisti tutti); e quindi, non si può mai dire che il fascismo non è un errore contro la cultura tout court, ma “un errore della cultura”, e della migliore cultura italiana (Noventa).

Si faceva il gioco del fascismo anche se si parlava dell’adesione e collaborazione al fascismo, più o meno profondamente persuasa ma non solo forzata o motivata da inesperienza giovanile, di una larga parte della classe dirigente e degli intellettuali italiani antifascisti; tant’è vero che lo stesso Calamandrei, nel discorso tenuto il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico, alla presenza di Ferruccio Parri, ebbe a dire: “Il ventennio fascista…fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana…perché, sì, fu un’invasione che veniva da dentro, un prevalere temporaneo di qualcosa che si era annidato dentro di noi[7]”. L’oratore del Teatro Lirico era lo stesso medesimo prof. Piero Calamandrei che quattordici anni prima, nel 1940 (millenovecentoquaranta A.D.) era stato il principale collaboratore del Guardasigilli Grandi per l’elaborazione del nuovo codice di procedura civile, e che aveva steso per conto del ministro la Relazione al Re. Relazione che come di prammatica figura in premessa al testo del codice e ne proclama l’alta ispirazione fascista. “Sconcio illegalismo”?

Il comunismo e l’URSS non ci sono più. Ma nei partiti e tra gli intellettuali proUE italiani prevale una cultura largamente ispirata all’azionismo antifascista (omogeneizzato e banalizzato modello Scalfari); come del resto nell’intero paese, dove è irriflessa ma è diventata senso comune. Rinnegata, senza vero riesame, la prospettiva comunista dopo l’implosione dell’URSS, gli intellettuali progressisti proUE (cioè quasi tutti) hanno certo accettato la democrazia rappresentativa pluralistica e liberale, ma al “sogno di una cosa” comunista hanno sostituito, a svolgere la medesima funzione, il “sogno europeo”. Qual è, questa funzione? La stessa che con lodevole franchezza ci illustra Alberto Asor Rosa parlando della sua adesione al comunismo: “La promessa comunista ci apriva un orizzonte di cambiamento, la liberaldemocrazia no…eravamo dei marxisti conseguenti, noncuranti peraltro delle nostre azioni [sottolineatura mia]…Certo, inseguivamo un progetto ‘inverosimile’. Ma nel campo dei fenomeni intellettuali, ‘inverosimile’ non corrisponde automaticamente a ‘sbagliato’.[8] Insomma, il comunismo ci faceva sognare (e cos’è la vita senza sogni? direbbe Marzullo); inoltre, noi in quanto intellettuali non siamo responsabili delle conseguenze reali delle nostre idee.

Non mi pare ci voglia la scala dei pompieri per giungere a stabilire una fruttuosa analogia tra “pregiudizio favorevole” al comunismo e “pregiudizio favorevole” alla UE. Come il comunismo, la UE cortesemente fornisce, gratis, “la prospettiva di cambiamento”, cioè il “sogno” senza il quale la vita, anche intellettuale, è sciapa assai; come gli intellettuali comunisti, o pregiudizialmente favorevoli al comunismo pur senza aderirvi, gli intellettuali proUE non sono responsabili delle conseguenze delle loro idee; come nel caso del progetto comunista, il progetto UE è “inverosimile”, ma “nel campo dei fenomeni intellettuali, ‘inverosimile’ non corrisponde automaticamente a ‘sbagliato’ “. Si aggiunga poi, naturalmente, che l’adesione al progetto UE, come a suo tempo l’accettazione del “pregiudizio favorevole” al comunismo su base antifascista, a) garantisce la condivisione di oneri e onori elargiti dall’ufficialità b) favorisce la carriera e la cooptazione nella classe dirigente c) rasserena e rassicura la coscienza morale, perché come chi non aderiva al “pregiudizio favorevole” al comunismo “faceva il gioco del fascismo”, così chi non aderisce al “pregiudizio favorevole” alla UE “fa il gioco” del populismo, del nazionalismo, del razzismo: insomma, del presente avatar del fascismo eterno. E siccome la storia, conforme al detto marxiano, si presenta per la prima volta in tragedia, per la seconda in farsa, stavolta gli intellettuali e i politici antifascisti non hanno bisogno di far finta di non vedere (cosa non facilissima) stragi terrificanti di milioni di persone, campi di concentramento siberiani, colpi alla nuca nelle cantine della Lubianka, massacri a sangue freddo commessi da partigiani comunisti anni dopo la fine delle ostilità, testimonianze agghiaccianti e veritiere di dissidenti come Solgenitsin e Salamov, etc. Stavolta, agli intellettuali antifascisti, progressisti, proUE, basta far finta di non vedere un po’ di suicidi (e il suicidio ha sempre un fondo psicologico inscrutabile), una vasta disoccupazione (che comunque non costringe nessuno alla fame), una grave erosione della struttura industriale italiana (ma si può sempre emigrare e favorire gli investimenti esteri), un po’ di trucchetti più o meno leciti (ma sempre legali) per assicurare l’insediamento dei governi desiderati, una immigrazione di massa che provoca certo problemi (ma che è fattualmente inarrestabile e moralmente doveroso accettare), e il fatto, certo un po’ seccante, che il progetto UE è politicamente inverosimile e disfunzionale, perché la UE non potrà mai trasformarsi in vero Stato federale. Insomma: se gli intellettuali antifascisti con “pregiudizio favorevole” al comunismo della Prima Repubblica dovevano applicarsi sugli occhi spesse fette di salame, agli intellettuali antifascisti proUE della Seconda Repubblica basta incollarsi sulle cornee una fettina quasi trasparente di prosciutto San Daniele.

Quanto più il fascismo e l’antifascismo come ideologie si allontanano dalla realtà storica e filosofica, tanto più si ossificano e si semplificano in reazioni irriflesse e in tifoserie paracalcistiche, e dunque tanto più si prestano alle strumentalizzazioni politico-elettorali e alla psicotecnica propagandistica. E’ così che si spiegano due acting out[9] simmetrici quali la sommaria simbologia fascista usata da Luca Traini e la sommaria simbologia antifascista di chi ha manifestato, a Macerata e altrove, contro la sua azione criminale.

In ambito psicoanalitico, l’ acting out  viene considerato un meccanismo di difesa, caratterizzato da comportamenti aggressivi, messi in atto per scaricare una tensione generata da un conflitto emotivo interno del paziente. Qui il paziente sarebbe l’Italia, una nazione che non riesce a mettere una pietra sopra a un periodo chiave della sua storia. Non si stende una nazione intera sul lettino dello psicoanalista. Una cura però ci sarebbe: una cura arretrata (quindi forse fascista?) ma che varrebbe la pena tentare. Chi ne ha messo a punto il protocollo non è un medico: è un uomo politico, un economista, un militare e un drammaturgo. Va però rilevato che la sua casa fu scelta per ospitare la statua del dio Asclepio, inventore della medicina, in attesa che venisse completato il santuario di Epidauro a lui dedicato. La descrizione del morbo e il protocollo di cura sono contenuti nella sua tragedia Antigone, nella quale si chiarisce come i cittadini di una polis che si rifiutano di riconoscere e onorare con pubbliche esequie il proprio concittadino, benché nemico politico, e nemico politico sconfitto, violano una legge sacra non scritta, più antica e più fondamentale dei codici penale e civile: leggi che “non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove.”[10] La pena per chi tiene il concittadino/nemico politico sconfitto “senza onore e senza tomba, cadavere nefando” e non solo non ne ha il diritto lui, ma “neanche gli dei d’Olimpo” è molto grave: “le Erinni degli dei e degli inferi ti agguantano, perché tu perisca dei medesimi mali[11]. I “medesimi mali” sono: la discordia civile, il fratello che si leva in armi contro il fratello come Eteocle e Polinice, figli di Edipo e fratelli di Antigone, si erano affrontati in duello per il trono di Tebe.

La pietra sopra, insomma, sarebbe quel che oggi non c’è, e purtroppo non ci sarà domani: un Monumento ai Caduti, a tutti i caduti italiani della Seconda Guerra Mondiale. Ma “l’arroganza dei superbi, percossi da duri castighi, troppo tardi ammaestra la saggezza dei vecchi.[12]

 

 

[1] C’è il Sacrario Militare di El Alamein, sorto grazie all’opera di Paolo Caccia Dominioni, che ricorda i caduti in una battaglia che le forze armate italiane, in particolare le divisioni Folgore e Ariete, combatterono con luminoso eroismo. Però si trova in Egitto. https://www.difesa.it/Il_Ministro/ONORCADUTI/Sepolcreti/Pagine/ElAlamein.aspx

[2] https://www.difesa.it/News/Pagine/SULPORTALEDELLADIFESAL%27ALBOD%27ORO.aspx

[3] Vittorio De Caprariis, Il pregiudizio favorevole, in “Nord e Sud”, a. VIII, n. 11, novembre 1961

[4] Corsivo nel testo.

[5] Sottolineatura mia.

[6] Piero e Franco Calamandrei, Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956), Laterza 2008, p. 145

[7] Sottolineatura mia.

[8] ”Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, Laterza 2009, p. 20 e 29-30

[9] “Il termine acting out , letteralmente ‘passaggio all’atto’, indica l’insieme di azioni aggressive e impulsive utilizzate dall’individuo per esprimere vissuti conflittuali, inesprimibili attraverso la parola e comunicabili solo attraverso l’agito.”  https://www.psiconline.it/le-parole-della-psicologia/acting-out.html#VSLaWtRAdqsUVkyM.99

[10] Sofocle, Antigone, vv. 453-457, trad. mia. Prima rappresentazione alle Grandi Dionisie di Atene, 442 a.C.

[11] Tiresia a Creonte in Antigone, cit., passim.

[12] Ultime parole del Coro in Antigone, cit.

VOTARE: PERCHÉ SÌ, di Elio Paoloni

Qui sotto un’accorata filippica di Elio Paoloni con un appello finale. Lo scopo precipuo di questo sito è fornire uno spazio ad analisi e riflessioni politiche tese ad alimentare un dibattito partendo però da chiavi di interpretazione sufficientemente definite. Un dibattito che si spera possa aprire varchi anche negli ambienti più chiusi e ostili a questi punti di vista. Non è un sito di lotta politica legato alle scelte immediate e contingenti in particolare elettorali; il paese, il suo contesto politico sono ancora molto lontani da poter esprimere un ceto politico sufficientemente maturo e determinato nell’individuare e perseguire obbiettivi corrispondenti ai punti di vista espressi qui e in poche altre realtà che questo blog ha l’ambizione, per la verità, di mettere a confronto. E’ il motivo principale per il quale il blog evita di dare indicazioni esplicite di voto, anche se l’esplicitazione delle analisi lascia intuire il giudizio e la direzione delle scelte personali dei corrispondenti. Sulla stessa scelta di voto e sull’opportunità stessa di parteciparvi, come pure sul peso da dare all’azione nel carosello elettorale rispetto ad un’azione politica più complessa, i giudizi per altro divergono. Non sono, questi ultimi, certo punti di vista dirimenti per l’economia del blog e per l’ambizione, probabilmente la presunzione che ci anima nel poter contribuire alla formazione di un nuovo ceto politico e di una nuova classe dirigente con indirizzi e chiavi operative idonee ad affrontare con maggiore autonomia e convinzione un agone multipolare dai molteplici rischi, ma anche dalle molteplici opportunità a beneficio della condizione del paese e dei suoi componenti. Una traccia e una intenzione ben presente anche nel testo di Elio Paoloni. Giuseppe Germinario 

VOTARE: PERCHÉ SÌ

Elio Paoloni

La scorsa volta non ho votato. Non per convinzione ma per disgusto, disperazione: non tolleravo che si aggiungesse al danno la beffa, tutto qui. Non ne ho mai menato vanto, né ho fatto proselitismo, ho anzi ironizzato sugli amici che lo elevavano a fulgido atto politico,  clamorosa ed efficace protesta. La mancata partecipazione, sostenevano – e sostengono – avrebbe delegittimato i governi. Pia illusione: non riusciremo mai, nemmeno nelle più rosee previsioni, a raggiungere le percentuali di astensione delle storiche democrazie occidentali, i cui governi non si sentono per questo delegittimati anzi si considerano autorizzati a mettere a ferro e fuoco il pianeta. Figuriamoci se i nostri politici, che hanno la faccia come il …., perdono il sonno perché pinco pallino non li ha legittimati.

La vecchia ricetta del meno peggio, tuttavia, quella che tutti finiscono per adottare nel giorno fatidico, non mi convinceva. Il meno peggio non era individuabile. Sembra non ci sia neanche adesso: comunque vada questo voto – qui, credo, ne siamo tutti convinti – certo non vincerà il sovranismo. Gli scenari sono stati analizzati su questo sito ben più seriamente e dettagliatamente, ma la sostanza balza agli occhi di qualsiasi profano: quand’anche fosse eletto Bagnai nella Lega, che cosa si potrà concludere con un Berlusconi afferrato per gli attributi già da anni e pronto a tutto pur di evitare processi a sé e alle sue imprese? Un Berlusconi così ‘antieuropeo’ da ventilare un Draghi premier? Con una Meloni che nessuno, credo, oserebbe definire una statista di rango? Un improbabile governo pentastellato, d’altro canto, non si sognerebbe mai di uscire da questa Europa, per non parlare di affrancarsi dalla NATO (l’ortottero designato è già volato a rassicurare tutti i poteri che contano). Sul nostro suolo, come sempre, si svolgono tanto sanguinose quanto accuratamente celate battaglie di potenze opposte. Quelli che vediamo in TV sono quasi sempre burattini o utili idioti, privi di consistenza propria. Interscambiabili. Questo il motivo che spinge molti di noi a non votare.

MA.

Non è vero che sono tutti ugualmente dannosi. Le differenze saranno pure minime ma c’è una macroscopica discriminante: solamente il PD (insieme alle false alternative d’area: Insieme, Liberi e uguali, la criminosa + Europa) è davvero coeso, pervicace, determinato. I suoi componenti hanno una mission, sono addestrati da decenni a distruggere questo paese. Molti tra loro, probabilmente, credono davvero in una intrinseca superiorità morale. Nessun’altra formazione ha mai mostrato, o fa presumere, altrettanto accanimento nel perseguire quell’opera di distruzione del nostro tessuto sociale che va dalla svendita delle imprese statali e dei beni culturali all’abbandono dei settori strategici, dall’educazione gender alla distruzione della scuola, dall’immigrazione incontrollata alla persecuzione dei cittadini, dalla adesione bovina a tutte le spedizioni militari contro i nostri interessi alla imposizione di folli sanzioni a chi potrebbe solo aiutare la nostra economia. Il disinteresse per le sorti dei malati, dei terremotati, dei giovani lavoratori schiavizzati non è privo di precedenti ma sconcerta per la mancanza di mascheramento. Sono ascari della globalizzazione e se ne vantano. L’autorazzismo ha raggiunto vette di isteria che hanno probabilmente sgomentato i loro stessi burattinai.

Confrontiamoli con il centrodestra: da quella parte, tra tante anime, qualche patriota ci sarà, alcuni avversari dell’eurolager ci sono di certo, qualche sostenitore convinto della famiglia anche, di sicuro qualcuno che mastica economia. Potrebbe addirittura nascondersi tra loro qualcuno che conosca la storia e abbia una visione strategica. Per quanto possano in seguito tacere e mettersi d’accordo, non riesco a immaginare una reale compattezza su temi caldi.

E i grillini? Una marmaglia priva di cultura, di esperienza, di capacità. Ma, proprio perché “marmaglia”, ovvero coacervo di provenienze, di convinzioni, di “colori”, mancano di compattezza nel far danno. Non sono scafati, non ancora, non del tutto, e, se questo li rende facilmente manovrabili, può anche rendere molti di loro restii al peggio. L’inconsistenza del loro programma politico li renderà dannosi più per assenza di interventi che per azioni decise e irrevocabili. La quantità di questioni ‘da vedersi’, da sottoporre a referendum o a parere internettico dei militanti o a capriccio del momento potrebbe riservare qualche piacevole sorpresa o, almeno, lasciare in stallo questioni che i piddini forzerebbero di sicuro. Qualche pentastellato potrebbe anche capire davvero cosa sia il fiscal compact e smettere di contare i soldini della paghetta sulla punta delle dita.

Insomma, esiste un solo vero nemico, erede dei Ciampi, dei Prodi, dei Monti. Composto da maggiordomi diplomati, incapaci di opporsi non solo ai principali mandanti ma a chiunque faccia la voce grossa, si chiami Macron, Erdogan, Netanhyau. Il più insignificante dei burocrati europei li fa marciare come marionette.

Il PD può essere rimpiazzato, è ovvio: bastone e carota sono già stati apprestati per ogni candidato di questa tornata. Il tunnel non finisce qui. Non sarà uno scarabocchio sulla scheda a capovolgere le sorti del paese. Ci vuole ben altro. Saranno lacrime e sangue. Ma occorre sbarazzarsi  di certi slogan, di una insopprimibile arroganza, della neolingua che ci vanno imponendo.

L’astensione premia il PD, che ha il suo zoccolo duro di beneficati e di nostalgici convinti di votare ‘a sinistra’. Ogni voto dato ad altri, invece, ne diminuisce il peso.

 

APPENDICE

Dovendo scegliere

A – C’è un partito apprezzabile verso il quale dovrei, naturaliter, propendere: il Popolo della famiglia. Ma è un partito destinato all’insignificanza: anche se apparentemente destinato a grandi consensi per la sua trasversalità, un movimento con obiettivi limitati è destinato a squagliarsi, proprio come Aborto? No, grazie di Giuliano Ferrara, fondato al solo scopo di opporsi all’aborto. Fine lodevolissimo e inevitabile flop: un partito deve dare risposte alla globalità dei problemi. Gli obiettivi del programma di Adinolfi sono sacrosanti, li condivido interamente: reddito di maternità, aumento degli assegni familiari, incremento fondi per disabili e, ovviamente, abrogazione del divorzio breve, unioni civili e biotestamento oltre che lotta al gender e all’aborto. Ma come si propone di reperire le risorse per il suo ottimo programma? Con le solite favole belle: lotta all’evasione fiscale, alla corruzione e agli sprechi; dulcis in fundo confische alla mafia e ricorso ai sussidi europei. O non ha capito niente o non ha il coraggio di opporsi seriamente.

B – Esistono almeno due partiti dal programma davvero sovranista: il 90% del loro programma è identico benché i fronti siano fieramente opposti. Li definirebbero opposti estremismi. A me paiono ragionevoli convergenze.

 

ELEZIONI POLITICHE! UNO SGUARDO AI PROGRAMMI, di Giuseppe Germinario

articolo precedente sull’argomento 

http://italiaeilmondo.com/2018/01/31/a-carte-coperte_-renzi-berlusconi-di-maio-salvini-al-5-marzo-di-giuseppe-germinario/

Nella prima repubblica, quindi sino agli anni ’80, la distinzione tra i partiti avveniva analizzando soprattutto i loro programmi, in particolare quelli elettorali. Essi corrispondevano a peculiari rappresentazioni ideologiche e modelli di società. Erano le sintesi e i manifesti elaborati da gruppi dirigenti inquadrati, discussi nelle sezioni di militanti e proposti a segmenti relativamente stabili dell’elettorato. Le strategie, le tattiche, le trame e gli orditi avevano anche allora la preminenza ma erano tracciate entro perimetri più delimitati e con altra circospezione. I programmi, infatti, facevano riferimento a progetti, modelli di sviluppo e di governo del paese. Modelli per lo più fumosi e generici, privi di concretezza ma che rappresentavano, per lo meno, il tentativo di inserire le rivendicazioni secondo priorità e ambizioni di costruzione di un paese se non di una nazione. Le “riforme di struttura”, la programmazione, il “modello di sviluppo”, il ruolo delle partecipazioni statali erano la cornice positiva, per quanto generica e inconcludente, di costruzione di un paese e di una identità entro la quale inserire le politiche redistributive secondo le varie accezioni politiche. Attorno ad esse si coagulavano le iniziative e i conflitti assumendo una dimensione unitaria.

Le campagne elettorali del nuovo millennio hanno assunto progressivamente come guida, al contrario, alcuni principi fondatori dalla veste apparentemente più nobile quanto astratta: l’eguaglianza, il merito, l’ordine, la libertà, l’onestà. Ci si sarebbe aspettati un confronto politico da peripatetici; si è assistito, invece, ad un imbarbarimento, tipico delle battaglie politiche legate a principi assoluti, ma del tutto ipocrita e sempre più legato ad interessi particolaristici.

Le cause sono molteplici: la discriminante della lotta di classe, in verità sempre più sfumata e indeterminata, scissa da un’idea di emancipazione o costruzione nazionale; l’europeismo teso alla costruzione di una entità politica sulle ceneri degli stati nazionali ma priva, per manifesta volontà, incapacità e impossibilità, di un amalgama identitario sufficiente a tenere insieme in condizione autonoma un continente; l’identificazione dominante dell’idea di nazione e di sovranità con l’avventura nefasta del fascismo sono quelle che più hanno segnato le vicende politiche dell’Italia repubblicana. Sono per altro servite a nascondere il pesante retaggio della sua fondazione sino ad ora accuratamente rimosso: essere nata da una catastrofica sconfitta militare che ha liberato il paese dalla oppressione militare più odiosa, mantenendola però in una condizione analoga sotto gli attuali “liberatori”.

La campagna elettorale in corso rappresenta infine la definitiva trasformazione in mercato del bacino elettorale. Ne consegue la netta prevalenza degli aspetti redistributivi nei programmi elettorali e della campagna di denigrazione della credibilità e della coerenza ai principi delle forze politiche e dei leaders avversari.

Per esprimere un giudizio più ponderato si dovrebbe piuttosto concentrare l’attenzione su altri temi rimasti in ombra ma rivelatori dei limiti strategici dell’azione delle formazioni politiche: la riorganizzazione istituzionale, l’Unione Europea, la politica industriale e la coesione sociale.

LA RIORGANIZZAZIONE ISTITUZIONALE

È il grande buco nero creato dalla scellerata gestione delle riforme istituzionali ad opera del Partito Democratico di Renzi e culminata con la sonora sconfitta ai referendum del 2016.

È un tema dirimente perché una riforma efficace, quale non era quella proposta da Renzi, avrebbe consentito la formazione e l’operatività efficace ed incisiva di una classe dirigente attraverso una parziale ricentralizzazione e una ridefinizione della gerarchia di competenze, una responsabilizzazione dei quadri direttivi e una ridefinizione degli equilibri e della divisione dei poteri fondamentali.

Sarebbe stato un obbiettivo perseguibile solo se assecondato da un programma di rinascita nazionale e di ricostruzione identitaria sulla base dei quali compattare la formazione sociale e ricostruire i rapporti con i paesi europei più importanti. Una ambizione che sia il Partito Democratico sia Forza Italia, i due partiti nazionali superstiti, si sono costitutivamente rivelati incapaci di perseguire.

L’imbarazzo con il quale il tema viene riproposto e liquidato nel programma del PD è del resto del tutto evidente.

Non è nemmeno la mancanza più grave.

La sconfitta ha provocato naturalmente un moto opposto di reazione che ha reinnescato in particolare un confuso processo di decentramento di competenze alle regioni.

Un processo opaco e pericoloso perché poggia su una confusione ed una sovrapposizione di competenze; perché consente alle regioni la possibilità di scegliere ordinamenti organizzativi diversi su medesime attribuzioni; perché alcune pertinenze sono chiaramente al di fuori della portata e della opportunità di questi enti; perché non accompagnato da una indicazione di riduzione del numero delle regioni; perché è inserito in una consuetudine ormai consolidata di rapporti sempre più diretti e spesso concorrenziali rispetto alla Stato Centrale con gli organismi comunitari.

Per altri versi quell’esito può avere una influenza diretta sul processo di evoluzione dei due principali partiti attualmente di opposizione.

Riguardo alla Lega rischia di rallentare ed annacquare il processo di trasformazione in partito nazionale legittimando e offrendo ulteriori argomenti alla sua visione di Italia dei popoli; riguardo al M5S rafforzerebbe la sua concezione illusoria e fuorviante di istituzioni “tanto più democratiche ed efficaci quanto più prossime fisicamente e territorialmente ai cittadini”.

Un processo di evoluzione di per sé già fragile e precario per questi due partiti e in evidente regressione per gli altri vista, tra i vari aspetti, la debolezza assertiva dei programmi nella definizione dei livelli e delle procedure di competenza, nell’affermazione del ruolo di interposizione dello Stato Centrale nei rapporti tra UE e amministrazioni periferiche, nella individuazione e capacità di creazione di agenzie abilitate al coordinamento e all’assistenza tecnica in ambiti interregionali specifici come quello delle infrastrutture strategiche.

Ci sarebbero altri ambiti meritevoli di approfondimento, tra questi quello del rapporto e delle funzioni sempre più debordanti degli ordinamenti giudiziari; ma questi sembrano i più rilevanti soprattutto perché meno scontati rispetto alla coerenza ideologica delle varie formazioni politiche.

UNIONE EUROPEA

La politica europea rappresenta il contesto imprescindibile principale e prossimo entro il quale devono agire i governi nazionali.

In questo articolo si trascura coscientemente il ruolo di subordinazione della nostra collocazione atlantica entro il quale continua a delinearsi lo stesso processo unitario europeo. Questo perché è un tema del tutto ignorato o ricondotto opportunisticamente all’ordine, ancor più in questa fase cruciale, dalle forze politiche.

Sulla UE il divario tra l’enfasi retorica e le proposte politiche è netto soprattutto nel programma del PD.

Quest’ultimo, sulla scia dell’onda macroniana in Francia, ha riproposto l’obbiettivo ambizioso degli Stati Uniti d’Europa. I concreti passi principali sostenuti nel programma sono al contrario diretti al sostegno e alla partecipazione ai “rapporti di cooperazione rafforzata” tra i soli paesi effettivamente intenzionati ad accelerare i processi di integrazione; un modo di eludere così l’ostruzionismo e l’opposizione della gran parte degli altri, specie centrorientali.

Proclama di affidare agli organismi rappresentativi diretti dei cittadini europei la responsabilità e il controllo delle nuove competenze, soprattutto economiche e di finanza pubblica, quando in realtà sono i capi di governo degli stati nazionali a dover varare e gestire per lungo tempo queste competenze in un lungo processo di transizione e a doversi assumere l’onere delle garanzie e delle coperture di eventuali dissesti, ammesso che questo riesca ad andare avanti significativamente.

La parola magica attualmente in auge in casa democratica è “sublimazione” dell’interesse nazionale in quello europeo. Continua a significare in realtà che si prosegue nell’ottica di un interesse nazionale sacrificabile al superiore cospetto di un presunto interesse europeo; i restanti paesi, meschini, continuano ovviamente a vedere l’Unione Europea come un particolare campo di azione nella difesa degli interessi nazionali. Le delocalizzazioni, la vicenda Embraco, quella della sede dell’Agenzia Europea del Farmaco sono solo gli ultimi esempi di questa impostazione fallimentare che ha portato all’isolamento politico dell’Italia, alla distruttiva sottovalutazione per decenni della necessità di preservare presenze qualificate nei posti chiave delle strutture comunitarie e all’accecamento pervicace nella retorica europeista di ogni sussulto nazionale.

Le oscillazioni opportunistiche del M5S non consentono una valutazione attendibile e credibile del programma sull’argomento. I passi di avvicinamento ad un eventuale incarico di governo lo stanno effettivamente spingendo verso la progressiva accettazione dello statu quo e verso una fiducia sempre più riposta nelle capacità autoriformatorie del sistema e purificatrici dei rituali referendari e di democrazia rappresentativa senza popolo corrispondenti.

La Lega sembra avere un programma più lineare legato al recupero del principio di superiorità della giurisdizione nazionale rispetto alle deliberazioni della UE, del principio di autonomia di bilanzio rispetto ai limiti imposti dai vincoli europei. In nome dell’alleanza di centrodestra ha scelto la strada del perseguimento di trattative interne alla UE le quali consentano le modifiche di regolamenti, politiche e vincoli. Non è chiaro come questo sia possibile nell’ottica di una unione di tutti i paesi europei così discordi sulle prospettive del processo unitario e se questa trattativa sarà condotta più credibilmente sotto la spada di Damocle di una fuoriuscita dell’Italia dalla Unione. Quello che lascia perplessi è la sottovalutazione della tentacolarità del sistema comunitario e della ricchezza del campionario di politiche e strumenti in grado di garantirne l’operatività le quali vanno ben oltre il sistema monetario e i vincoli di finanza pubblica.

LA POLITICA INDUSTRIALE 

Le attività economiche, in particolare quelle industriali, sono la base creatrice della ricchezza e delle risorse necessarie alla forza e alla potenza di uno stato; uno dei fondamenti sui quali si articolano le differenziazioni di status e sociali e sui quali si base la coesione delle formazioni sociali. L’Italia negli ultimi quarant’anni ha visto logorarsi inesorabilmente l’equilibrio tra attività strategiche ed attività complementari, tra il peso e il ruolo guida della grande industria e quello delle medio-piccole, tra il controllo nazionale diretto e indiretto delle attività strategiche e lo sviluppo necessario delle capacità imprenditoriali a discapito dei primi rispetto ai secondi. Al lento e inesorabile declino dell’industria pubblica ha risposto rinunciando con leggerezza e indifferenza, in realtà con connivenza, al controllo dei settori strategici e alla quasi totalità della grande e media industria. Con questo ha esposto alla precarietà e alla subordinazione interi settori vitali per il paese, dall’agricoltura, alla distribuzione, ora al settore finanziario e a quelli trainanti nella chimica, elettronica e meccanica. Con questo ha rinunciato di fatto all’ambito più remunerativo dello sviluppo tecnologico e della ricerca scientifica; quello dell’applicazione collaudata in grande piattaforme industriali. È sempre più assente, per mancanza di soggetti e attori idonei, nei processi europei contrattati politicamente di fusione ed integrazione delle grandi imprese. Tutti i programmi di fatto ignorano o sottovalutano questi aspetti cruciali in grado di pregiudicare pesantemente il futuro del paese.

Si va dall’aperto disconoscimento del problema come deducibile dal programma del PD, salvo poi indignarsi a disastri in corso del carattere predatorio e “incivile” del comportamento delle multinazionali, come nel caso della Embraco e dell’insufficienza degli investimenti in ricerca e in prodotti innovativi. Calenda, nel caso, pur sapendo che l’accordo di tre anni fa con Whirpool prevedeva solo una deroga alla decisione di trasferimento, ha dimostrato di sape svolgere la funzione di prefica. Sta di fatto che il PD intende perseverare nella politica indifferenziata di incentivazione degli investimenti in tecnologia, utile tutt’al più a garantire al meglio la sopravvivenza e perpetuazione degli attuali settori nell’attuale suddivisione della divisione del lavoro, nonchè nell’atteggiamento di perfetta indifferenza, smentito a malincuore solo da alcune eccezioni, riguardo al controllo e vincolo nazionale di determinate imprese e settori. L’unico spazio concesso all’iniziativa politica riguarda le politiche fiscali e di infrastrutturazione. Un tema già ampiamente trattato in altri articoli.

Il programma del M5S non si distanzia di molto da questo approccio se non nell’enfasi riposta alle politiche ecologiche e di investimento nell’economia circolare e verde con riguardo al mero sostegno degli investimenti pubblici e con una considerazione pressoché inesistente della funzione della grande industria. Da stendere un velo pietoso riguardo all’attenzione sull’industria militare e sulla commistione tra ricerca scientifica militare e implicazioni nelle applicazioni civili. Decisamente approssimativo l’intento della istitituzione di di una banca per l’impresa senza una parola sul futuro di Cassa Depositi e Prestiti e senza un accenno sulla necessità di convogliarvi il risparmio nazionale. Che banca sarebbe, altrimenti? In sostanza un programmino diligentemente attinto e copiato qua e là dai vari centri studi.

La Lega di fatto si differenzia soprattutto per una enunciazione di principio sulla difesa della grande industria strategica senza ulteriori concrete considerazioni.

Colpisce, soprattutto, in tutti l’assoluta ignoranza dei pesanti influssi inibitori delle direttive comunitarie in materia di concorrenza, di investimenti in infrastrutture alla formazione di nuova grande imprenditoria nazionale. Una politica che di fatto favorisce lo statu quo degli assetti imprenditoriali e una politica di dumping fiscale dei paesi emergenti tesi ad attirare le attività senza possibilità di condizionare le scelte e la composizione imprenditoriale. Il discorso sarebbe molto lungo.

Una ignoranza del tutto comprensibile e consapevole per quanto riguarda il PD, scontata riguardo al M5S, colpevole riguardo alla Lega.

Tutto verte, quindi, su una politica di detassazione, di riduzione dei cunei fiscali, di alimentazione velleitaria della domanda interna grazie ad un trasferimento di risorse da pubblico ai cittadini, quasi che la spesa pubblica non alimenti anch’essa, almeno teoricamente, la domanda e quasi che la maggiore disponibilità dei privati alimenti di per sé gli investimenti.

LE POLITICHE DI COESIONE SOCIALE

Tralascio per mancanza di tempo l’esame su questi aspetti dei programmi di Forza Italia e di LeU. La prima perché molto simile a quella del PD, i secondi perché si riducono ad una sorta di bollettino di rivendicazione sindacale che ha come presupposto che i veri detentori del potere sono “quelli della grande finanza”.

Il discorso della coesione sociale meriterà di conseguenza un approfondimento apposito da riservare in un prossimo futuro.

Riguarda senza dubbio l’ambito culturale sedimentato e la rappresentazione ideologica di una comunità grazie al ruolo più o meno efficace svolto dalle élites nel plasmare un’identità e nel far accettare la “missione” e i modi di vivere comprese le differenziazioni, le selezioni e le particolari modalità di governo dei contrasti. Un aspetto sempre meno presente nelle enunciazioni man mano che lo sguardo politico si volge alla sinistra, ma comunque praticato vista la attenzione e il successo con i quali, nei decenni, le varie sue componenti hanno saputo egemonizzare gli spazi. Riguarda anche, ovviamente, l’ambito socio-economico, certamente più congeniale alla tradizione progressista.

Nell’intero ambito dell’arco costituzionale, con la parziale eccezione della Lega, si va facendo strada progressivamente una politica redistributiva che prescinde dal successo delle politiche industriali e dalla connessa autorevolezza politica di uno stato e di un paese che ne consentano lo sviluppo. Sulle pensioni, sul reddito di cittadinanza, sul salario garantito si sta assistendo all’affermazione di una concezione assistenzialistica e plebea, di appiattimento al ribasso della distribuzione di risorse sempre più sganciata dalla differenza di funzioni e di competenze e legata sempre più, nella articolazione, alle differenze di status e neocorporative. Sono politiche che vanno di pari passo con i processi di precarizzazione e di degrado legati alla riorganizzazione industriale specie nelle aree in declino.

Esiste certamente un livello di degrado talmente basso da pregiudicare le possibilità di rinascita di un paese; in questo caso una politica di prevalente redistribuzione egualitaria potrebbe contribuire a porre le basi minime di sviluppo e di emancipazione in una società. In una situazione di degrado seria ma non ancora generalizzata, quale quella dell’Italia, una piatta politica redistributiva contribuisce facilmente all’ulteriore declino delle motivazioni e allo sviluppo abnorme di una economia informale e precaria nemica di un paese e di una nazione forte, coesa e motivata. Sono politiche che abbiamo già visto all’opera spesso, ad esempio, nei paesi dell’America Latina con esiti alla lunga altrettanto disastrosi di quelle recessive. La grottesca fiera di promesse alla quale abbiamo assistito in questa campagna elettorale sono il segno appunto di questo declino e del carattere miserabile e ottuso della quasi totalità di questa classe dirigente. In questa condizione rischia di sopravvivere il gruppo dirigente più coeso, coerente e determinato, magari sotto mutate spoglie. C’è già pronto Macron ad offrire in Europa la necessaria nuova copertura politica.  Nella fattispecie, paradossalmente, rischia di essere appunto il gruppo dirigente maggiormente responsabile della attuale situazione del nostro paese.

Manca appena una settimana alla apertura delle danze. Non resta che aspettare trepidanti.

 

 

LA PARTICOLARE GESTIONE POLITICA DEI FATTI DI MACERATA, di Giuseppe Germinario

C’ è un limite alla capacità di orientamento dell’opinione pubblica per quanto sofisticate possano essere le tecniche di comunicazione e di manipolazione delle informazioni; è il crescente e reiterato stridore tra la rappresentazione offerta e il concreto evolversi degli eventi e delle situazioni. Lo si è visto durante le elezioni presidenziali americane e, nel nostro piccolo, nella rapida parabola che sta segnando i destini di tanti uomini politici nostrani, compreso il ruspante Matteo Renzi.

I fatti di Macerata, nella loro banale tragica casualità, rappresentano uno di quei momenti cruciali che possono innescare il collasso irreversibile di una classe dirigente inadeguata, ormai avulsa da gran parte del paese e, nel migliore e auspicabile dei casi all’affermazione di una nuova classe dirigente, nel peggiore a una condizione di degrado e instabilità endemica attorno alle cittadelle assediate dei centri di potere.

Una ricostruzione degli eventi e dei conseguenti comportamenti dei politici a partire dalla tragica uccisione di Pamela Mastropietro, avvenuta il 30 gennaio e della rappresaglia, fortunosamente meno tragica di Luca Traini del 3 febbraio, per quanto soggettiva può servire a fornire i primi elementi di giudizio.

  • Al rinvenimento del corpo meticolosamente sezionato e privo di alcune parti la prima imputazione dei giudici inquirenti è stata, al momento, la sottrazione e vilipendio di cadavere.
  • Il 3 febbraio scatta la rappresaglia xenofoba di Traini, con il ferimento di immigrati neri e l’ostentata consegna alle forze dell’ordine dell’autore dell’atto terroristico, avvolto nel tricolore davanti al monumento ai caduti della prima guerra mondiale.
  • Il sindaco e soprattutto il questore, la figura istituzionale abilitata, propendono per il divieto temporaneo di ogni manifestazione.
  • Dal Ministero degli Interni arriva a Macerata un funzionario di alto livello il quale spinge ad autorizzare la sola manifestazione antifascista.
  • Si fa strada l’ipotesi, in qualche maniera suffragata dalle dichiarazioni del medico legale incaricato dell’autopsia che il sezionamento del cadavere non fosse dovuto alla necessità di nascondere o far sparire il cadavere, ma fosse legato alla pratica, ancora in uso in numerose comunità tribali africane e riprese dalle organizzazioni mafiose nigeriane operanti in Italia, di riti sacrificali. Una tesi esplosiva in grado di compromettere definitivamente la residua credibilità delle attuali politiche migratorie e dell’intera classe dirigente di esse responsabile; contestualmente la Procura locale denuncia le enormi pressioni cui è sottoposta.
  • Il questore di Macerata viene rimosso improvvisamente e sostituito da un funzionario del Ministero vicino al Ministro Minniti. Non è il solo avvicendamento legato agli avvenimenti; viene sostituito il responsabile del Dipartimento Persone Scomparse. In contemporanea viene lanciata su stampa e telegiornali la notizia che in Italia scompaiono circa ottocento italiani e cinquantasettemila stranieri.

Avrebbe potuto essere una importante occasione per assurgere alla statura di uomini di Governo e ancor più di Stato, sia per il ceto politico attualmente al governo sia per quello che ambisce a sostituirlo.

Avrebbe dovuto essere il momento per affermare solennemente e praticare un principio fondante, basilare della convivenza civile e del confronto politico: lo Stato deve essere il detentore unico dell’uso della forza e non può accettare forme individuali e collettive di rappresaglia e l’esistenza di strutture di controllo politico e militare alternative ad esso come le organizzazioni mafiose e di malavita organizzata, tra esse quella nigeriana, secondo propri codici di comportamento e repertori di sanzioni.

Sin da subito le reazioni, nella quasi totalità dei casi, seguono invece il cliché naturale proprio di politicanti intenti a salvaguardare la propria fazione e intaccare la credibilità delle altre.

Già il giorno dopo il ritrovamento dei resti di Pamela, con grande enfasi mediatica, si assiste alla richiesta di perdono, probabilmente indotta se non orchestrata, rivolta ad una madre, imbarazzata e ignara del senso dell’iniziativa, ad opera di un nigeriano a nome dell’intera sua comunità di appartenenza. Una contraddizione enorme per una società fondata sul principio della responsabilità e della colpa individuale del cittadino e che ha spinto il punto di vista liberale sino all’estremo del disconoscimento o della incomprensione dei legami culturali, religiosi e ideologici propri di una comunità.  Una funzione disperatamente cacciata dalla porta della casa liberale, ma pronta pervicacemente a rientrare ad ogni occasione dalla finestra.

La campagna, però, inizia subito ad utilizzare argomenti più sofisticati e variegati quanto vario è il campo dei paladini dirittoumanitaristi.

Parte a spron battuto l’onorevole Boldrini la quale adombra il fatto che l’assassinio contemporaneo della ragazza di Milano ad opera di un ferrotranviere depravato rappresenta un atto di per sé equivalente se non più grave, perché legato apertamente ad un abuso sessuale quando invece il delitto di Macerata, enfatizzato, rischia invece di alimentare il razzismo.

Prosegue l’opera di imbonimento Giuliano Amato,https://www.youtube.com/watch?v=kciBzASA6Og  il “dottor sottile” il quale a furia di sottilizzare ci illumina sul corso dei secoli pontificando che l’Europa, le popolazioni europee sono la sintesi di una mescolanza di etnie e di culture più o meno aperte al confronto, le quali popolazioni hanno cominciato a rimarcare le differenze e le estraneità, le aperte ostilità sino al male assoluto dei genocidi a sfondo razziale, con l’avvento degli stati-nazione. La sottigliezza degli argomenti gli consente il margine necessario per qualche giravolta opportunistica tipica del personaggio; il senso rimane comunque quello del superamento degli stati nazionali e dell’appello ad un intenso processo di integrazione a scapito dell’evidenza storica delle macellerie che hanno interessato l’epoca moderna, quanto quella medioevale e le precedenti. Eppure il colto e raffinato Giuliano Amato saprà benissimo che sino a qualche secolo fa, in Europa, si riteneva che i vari organi del corpo umano fossero le sedi rispettivamente delle varie virtù umane; la tentazione di conseguenza di nutrirsene doveva essere forte. Concediamogli pure la misconoscenza che tale apprezzamento sia ancora in atto in larghe parti del pianeta, non troppo lontane da noi.

Conclude l’opera di imbonimento e sviamento il vescovo di Macerata, Monsignor Zamboni, http://www.famigliacristiana.it/articolo/il-vescovo-di-macerata-l-italia-e-davanti-al-fallimento-educativo-non-le-servono-miracoli-elettorali.aspxl il quale smarrisce la sua funzione di prelato e di pastore per assumere quella del sociologo attribuendo alla mancanza di senso della vita, al materialismo dell’arricchimento senza scrupoli, alla assenza di concrete politiche di integrazione l’origine del male. Uno smarrimento che spinge il prelato a dimenticare che l’idea di bene e di sacrificio offerta dal cristianesimo, in particolare dalla componente cattolica, si contrappone non solo ai problemi sociali ma ad idee di bene e di sacrificio, di rituali propri di società e comunità tribali; comunità dalle quali stiamo bellamente traendo “risorse” ignorandone completamente i retaggi culturali e le effettive possibilità di reale integrazione. Succede quando si riduce il problema dell’integrazione ad un mero aspetto economico, di dialogo e di giustapposizione multiculturale.

La rappresaglia di Traini rappresenta la classica ciliegina a conferma della costruzione di questo immaginario. Offre l’occasione inaspettata per nascondere sotto il vessillo consunto dell’antifascismo di maniera la polvere dei tanti problemi lasciati a marcire. Grazie ai quali e all’inesistenza di alternative politiche, soffocate queste ultime continuamente per decenni da questo manierismo, si finisce più o meno inconsapevolmente per rilegittimare e dare occasioni di rilancio proprio alle componenti fascistoidi, in quanto uniche potenziali forze di opposizione radicale. La strumentalizzano apertamente le forze sinistrorse più radicali sino alla aperta chiamata di correità di coloro che puntano a regolamentare e ridurre drasticamente i processi di immigrazione. In questo Boldrini e Grasso, ma anche Bersani e d’Alema quando tentano di ridurre a fascismo il sovranismo, sono le punte di lancia. Ma il resto degli iscritti “all’anagrafe antifascista” non sono da meno tranne che nella cautela di vedersi associati all’azione “militante” delle “guardie plebee” (cit. di Preve) dei centri sociali.

Da qui la fretta di celebrare il “sacrificio” di Traini e la tentazione di evitare o rinviare quello degli assassini di Pamela. Se finiranno male, questi ultimi saranno additati come mostri; in realtà non sono nient’affatto avulsi dalla loro comunità; non sono nemmeno troppo lontani dai rituali previsti da nostre comunità. L’aspetto più mefitico di queste dinamiche per il nostro paese rischia di essere proprio quello di una commistione e di una fusione. I segnali, andando in giro per la penisola, di certo non mancano. Dall’altro la riduzione e rimozione a “mostri” è funzionale alla sopravvivenza delle priorità di ordine pubblico e di politica giudiziaria stabilite dai pasdaran dei diritti umani: la persecuzione delle donne, la recrudescenza del fascismo e poi si vedrà. Un modo paradossale di relegare un problema di criminalità organizzata e di rituali annessi, anche se praticamente sconosciuto, in second’ordine rispetto ad un problema sociale in gran parte sovrastimato e comunque riguardante comportamenti individuali quale quello della persecuzione della donna e a un problema circoscritto, più politico in senso stretto che giudiziario, quale quello del fascismo.

Di fronte a questi strattonamenti si comprendono meglio lo smarrimento, i tentennamenti e le oscillazioni della magistratura inquirente.

L’inquietudine che si legge nei comportamenti del ceto politico al governo soggiace a motivi precisi e a retaggi inamovibili.

  • La retorica dell’accoglienza rappresenta un velo che nasconde la completa ignoranza della radicalità delle differenze culturali di gran parte degli immigrati sino all’ingresso di comunità di natura tribale. Una retorica che nasconde l’ambizione reale di gran parte delle schiere più recenti di immigrati; ambizioni che vanno al di là di una dignitosa esistenza in un contesto produttivo.
  • L’entità dei flussi e la condizione di crisi e di radicale riorganizzazione economica in un paese in evidente declino rende impossibile un assorbimento ed una integrazione economica propedeutica a quella culturale
  • La massiccia presenza dell’economia informale e di organizzazioni e sistemi malavitosi e mafiosi alternativi e compenetrati allo Stato offrono lo spazio all’importazione massiccia di strutture analoghe presenti all’estero. Forse uno dei pochi esempi riusciti di integrazione; con essi la mutualizzazione e l’ingresso di rituali largamente presenti e denunciati in quei paesi, ivi compresa la Nigeria. Del resto sono scene e rituali che non sono prerogative esclusive di quell’area. Li abbiamo visti in Siria, con i guerriglieri della libertà dediti ad assorbire le energie vitali del nemico mangiandone cuore e fegato. Anche da quelle parti stiamo attingendo a man bassa, con l’aggiunta dell’esperienza guerriera. Gran parte degli immigrati di quelle aree sicuramente hanno superato questi modelli di vita e ambiscono a qualcosa di meglio. La riproduzione di quelle comunità e di quelle strutture, in una situazione così precaria, rischia di ricacciarli inesorabilmente alle origini. Una precarietà, se proprio la si vuole legare ad una condizione sociale, legata molto più alla economia informale che alla condizione di clandestino. Un processo di regressione riscontrabile purtroppo anche nelle comunità di immigrati meno recenti. Un processo, per altro, che ha intaccato pesantemente la coesione di paesi ben più solidi come la Svezia, la Francia e la Germania. http://italiaeilmondo.com/2017/12/08/svezia-un-paese-sempre-piu-allineato-in-tanti-aspetti-intervista-a-max-bonelli/
  • Gran parte dei flussi sono legati a precisi disegni di destabilizzazione dei paesi fonte di emigrazione e di precarizzazione di gran parte delle economie occidentali, specie quelle in declino. Una destabilizzazione alla quale ha partecipato con ogni evidenza passivamente e senza sussulti l’intera classe dirigente nazionale. Lo stesso interventismo che si sta affermando nell’Africa Subsahariana rischierà di alimentare questa immagine nella misura in cui si offre lo stendardo di una crociata all’integralismo ad un conflitto al momento di tutt’altra natura, in particolare di origine etnica e di sistemi socioeconomici antitetici costretti in uno stesso stato

Sono ingombranti scheletri negli armadi che rischiano di uscire proprio nel momento delle elezioni a discredito definitivo di ciò che rimane della credibilità dei governanti.

Sarebbe stata l’occasione per la sedicente opposizione radicale di proporsi come classe dirigente alternativa credibile.

Lascio perdere per carità di patria i grillini.

Anche Salvini ha però di fatto scelto il silenzio e la speculazione strumentale.

Sarà stato senz’altro il timore, con l’esclusione dall’anagrafe antifascista, di vedersi assegnato nel girone dei reietti.

Molto probabilmente peserà soprattutto la sua inadeguatezza ad affrontare un tema così delicato in termini di sicurezza e di coesione sufficiente del paese e della formazione sociale.

Due atteggiamenti complementari che rischiano di far scivolare il problema della gestione compatibile dell’immigrazione in un problema di etnie, di bianchi e di neri. Da qui ad una rappresentazione razzista più o meno latente del processo il passaggio rischia di essere impercettibile quanto funesto http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/

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