IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A ROBERTO NEGRI

Abbiamo posto giorni fa ad Aurelien quattro domande alle quali l’analista ci ha rapidamente e compiutamente risposto. Abbiamo pubblicato il 23 agosto qui la sua replica.

Su suggerimento di alcuni lettori abbiamo esteso ad altri autori ed analisti l’invito a rispondere alle medesime. Proseguiamo con la pubblicazione del punto di vista di Roberto Negri. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 RISPONDE ROBERTO NEGRI

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Prima del – lungo – elenco di motivazioni, credo vada ricordato il loro sottofondo ideologico comune, l’eccezionalismo americano e la visione quasi messianica del ruolo degli Stati Uniti come elemento ordinatore e di governo del mondo, che anche in élite migliori di quelle attuali implica il rischio di ignorare il potenziale, e tanto più le motivazioni e la determinazione degli antagonisti. Su questo substrato si innestano una serie di circostanze ed eventi, fra cui un trentennio di dominio pressoché incontrastato; alcune prove di forza vinte facilmente contro avversari strutturalmente inferiori; il plauso servile degli alleati anche di fronte a operazioni sorrette da motivazioni smaccatamente artefatte e una conseguente convinzione di totale impunità che vediamo replicata anche oggi; una classe dirigente mediocre e incompetente, formata e perpetuata per cooptazione, eterodiretta da conglomerati economici, interessata soprattutto alla propria autoconservazione; un impoverimento culturale che non si limita alla sfera politica ed economica ma tocca anche quella militare e informativa, cosa in qualche misura inevitabile quando le verità scomode possono stroncare una carriera. In un quadro di questa natura non solo la sottovalutazione del potenziale economico, militare e industriale della Russia è una conseguenza quasi logica, ma soprattutto anche i margini per eventuali correzioni di rotta sono di fatto molto limitati.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

A mio modo di vedere, nel contesto che stiamo esaminando ogni errore tecnico è innanzitutto, e forse principalmente, un errore culturale latu sensu (vedi le considerazioni della risposta precedente). Non imputerei peraltro questa inadeguatezza alla sola classe dirigente, e non solo perché, con tutti i limiti che le democrazie del dopoguerra stanno evidenziando, i decisori formali sono pur sempre eletti dal popolo. Ad oggi, ad esempio, è senza dubbio vero che gran parte della popolazione mostra nei confronti della guerra in Ucraina un orientamento che spazia dal tiepido al francamente contrario; ma pensare che solo per gli Stati Uniti lo stile di vita occidentale non sia negoziabile è a mio avviso un errore, e questo rende possibile che, poste di fronte alle conseguenze concrete di una sconfitta strategica del blocco occidentale e in particolare alla fine del dominio postcoloniale su interi continenti e dei vantaggi economici da questo derivanti, le opinioni pubbliche occidentali si schierino alla fine al fianco di qualsiasi classe dirigente si proponga di arrestare o quanto meno rallentare questa evoluzione, che – mi pare valga la pena ricordarlo – non prevede alcun ritorno al business as usual. Insomma, ho l’impressione che la vita delle scelte strategiche di questa élite, magari con volti diversi e con minore rozzezza, sia ancora lontana dall’essere al termine.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Oltre all’assenza della volontà politica e della lucidità necessarie a prendere atto del fatto che il nostro modello di sviluppo illimitato non è più sostenibile né accettabile per chi finora ne ha pagato il costo, non credo che oggi il mondo occidentale disponga delle risorse culturali e intellettuali per invertire un processo che peraltro, anche in presenza di tali risorse, credo si sarebbe probabilmente comunque prodotto pur se in tempi e con connotati differenti. Quelle che ancora sopravvivono sono silenziose per scelta, costrizione o obliterazione da un dibattito pubblico la cui ragione sociale, spogliata dai fronzoli, sembra essere la distruzione di tutto quanto, pur fra errori e macchie a volte indelebili, ha dato un senso e un valore alla nostra storia, e di conseguenza anche delle risorse necessarie a invertire la rotta. Non fosse per la straordinaria mediocrità degli attori in gioco verrebbe quasi la tentazione di interpretare quanto sta accadendo ad ogni livello – economico, politico, culturale – come un cosciente cupio dissolvi dettato dalla consapevolezza di avere esaurito la nostra parabola, ma la realtà ci restituisce piuttosto l’immagine del proverbiale cavaliere che “andava combattendo, ed era morto”.

 4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Innanzitutto trovo significativo il fatto che Cina (che credo non abbia mai veramente abbandonato il proprio retaggio culturale) e Russia sembrano avere imboccato anche sotto questo aspetto una direzione diametralmente opposta alla nostra, che siamo al contrario apparentemente impegnati a distruggere qualsiasi pensiero non in linea con lo Zeitgeist imposto dall’agenda modernista. Senza dubbio, nel caso di questi due paesi, le rispettive tradizioni rappresentano un elemento ordinatore, identitario e di coesione, tanto più utile e funzionale di fronte a tempi che non saranno privi di difficoltà per nessuno, oltre che un presidio e un elemento di difesa contro le derive culturali di un Occidente che entrambi vedono come irrimediabilmente corrotto e fonte di possibile corruzione. Per rispondere invece alla domanda, anche senza necessariamente inclinare per l’antimodernismo del Pasolini di Difendi, conserva, prega bisogna innanzitutto chiedersi se la tradizione abbia ancora qualcosa da dire nel mondo contemporaneo che si sta profilando. Non dispongo degli strumenti filosofici per azzardare una risposta che sia qualcosa di più e di diverso da una posizione  personale; la mia, a maggior ragione in un mondo e un tempo che identificano erroneamente la modernità come progresso tout court, propende senz’altro per il si, se non altro come richiamo e punto di riferimento a un “altrove” culturale ed esistenziale che – non casualmente – si tenta quotidianamente di cancellare.

Il disadattamento delle élites occidentali. Intervista a Pierluigi Fagan

Abbiamo posto giorni fa ad Aurelien quattro domande alle quali l’analista ci ha rapidamente e compiutamente risposto. Abbiamo pubblicato il 23 agosto qui la sua replica.

Su suggerimento di alcuni lettori abbiamo esteso ad altri autori ed analisti l’invito a rispondere alle medesime. Proseguiamo con la pubblicazione del punto di vista di Pierluigi Fagan. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 PIERLUIGI FAGAN

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

  • Nella categoria “occidentali” distinguerei americani (anglosfera a traino) ed europei. Non credo di possa dire che questi secondi hanno deciso alcunché, forse si è persa memoria dei primi giorni di conflitto. Gli europei non davano proprio l’idea sapessero cosa stava succedendo e cosa sarebbero stati costretti a fare pur poi rivendicandola come propria volontà. La natura stessa delle decisioni che hanno fatto finta esser frutto della loro volontà, dice di quanto in effetti non lo fosse affatto vedi vari suicidi energetici. Quanto agli americani, il decisore ha tenuto conto certo di aspetti militari, tanto quanto politici ed economici; tuttavia, l’ordinatore dell’impianto di decisione è stato geopolitico, ovvero strategico. Sul fatto che si sia rivelato fallace ho però un diverso giudizio da quello contenuto implicitamente nella domanda. Gli americani avevano almeno quattro obiettivi come ho scritto dai primi giorni del conflitto: 1) coinvolgere la Russia in una lunga e defatigante guerra sul modello appreso con la Guerra fredda vs URSS. Il motivo ed obiettivo era vario, si poteva sperare (da parte loro) una implosione nel medio-lungo termine o quantomeno depotenziare l’unico vero competitor militare che hanno per via dell’ultima arma, l’arsenale nucleare. Si pensi all’intervento russo verso la fine del conflitto siriano. Ciò in vista di futuri, possibili, conflitti tra cui quello diretto e decisivo nelle regioni artiche dove, tra l’altro, i russi hanno un vantaggio forte, ad oggi. È più probabile che il vero obiettivo di questo primo punto fosse il secondo aspetto qui declinato ovvero sgonfiare un po’ o un po’ tanto il principale competitor militare impegnandolo un una lunga e costosa guerra, in quanto il primo confligge con la semplice numerica delle possibili truppe russe ed ucraine impiegabili nel medio-lungo periodo; 2) lo metto per secondo punto ma secondo me, in termini strategici era il primo ovvero la veloce annessione egemonica dell’intera UE. È il più importante perché se l’ottica è stata geopolitica, il gioco geopolitico dei prossimi trenta anni è Occidente (o G7 allargato) vs Resto del mondo. Se ti devi preparare a quel gioco, è congruo sia creare massa al tuo comando, sia evitare che gli europei vagheggiassero un ruolo speculativo nel nuovo assetto multipolare come già stavano facendo. Questo obiettivo è stato pienamente raggiunto, in poco tempo, senza se e senza ma, contro ogni evidente interesse obiettivo di Germania, Francia, Italia. Inoltre, hanno ben mosso le pedine euro-orientali e scandinave accerchiando ogni velleità euro-occidentale, il che peserà anche nei destini futuri della stessa UE e dell’euro. Questo punto è quello che mi fa dubitare più di ogni altro sul giudizio di fallimento che date nella domanda; 3) il terzo punto era iniziare, vertendo sullo sdegno per l’invasione russa, il gioco di ripartire il mondo tra stati per bene e stati canaglia o come dicono loro tra “democrazie” ed “autocrazie”. Questa ultima è una partizione debole sul piano strategico, lì dove certi consiglieri hanno esagerato nel credere il mondo dei valori e delle idee così importante fuori della propaganda occidentale e pure con ampie contraddizioni come sappiamo relativamente a vari rapporti scabrosi che gli stessi americani hanno in giro per il mondo. Ha avuto o potrebbe avere una funzione ideologica per il pubblico interno occidentale, proprio per i prossimi conflitti, tra cui quello con la Cina che sappiamo essere il principale e decisivo. Tuttavia, sembra anche ci abbiano davvero creduto visto che il concetto era già stato lanciato in campagna elettorale da Biden ed hanno comunque portato al voto l’ONU su due risoluzioni cercando di imporre inutilmente il format “o con noi o contro di noi”, una ri-bipolarizzazione per giocare al gioco che conoscono meglio; 4) infine, molti ragionano di geopolitica dimenticandosi che è strutturalmente collegata alla politica interna. Gli Stati Uniti sono stati in una qualche guerra per quasi tutta la loro storia, oltreché per eredità antropologica barbarica (T. Veblen), perché il loro ordinamento ha fisiologico bisogno di farla. Il sistema militar-industrial/commerciale-tecnologico-congressuale, sa che la guerra è la fonte principale sia di sfide tecniche le cui soluzioni hanno poi vaste ricadute, sia di fondi. Fondi che l’americano medio è renitente a concedere. Biden promise alle elezioni il ritiro dall’Afghanistan (per altro promesso anche da Trump a cui poi hanno spiegato come vanno le cose nel mondo reale) anche perché l’americano medio, ignaro di questa vocazione necessaria ad una qualche guerra, non vede di buon’occhio tali impegni. Impegni, nonostante la grande spesa storica, che crescono nel tempo come l’apparente ritardo nelle armi ipersoniche e gli aggiornamenti del complesso atomico. La violazione del principio sacro alla sovranità da parte di Putin, è stato uno splendido motivo (coltivato) per ridare all’America il suo conflitto ed esuberare nel finanziamento all’industria che poi sviluppa il ciclo. Sapendo che il punto regge e non regge nella mentalità media americana, Biden darà l’impressione di volerlo sospendere, tempo di fare le elezioni. Quindi il 2) e 4) sono stati perseguiti, il 3) è agli inizi e vedremo come continueranno a giocarselo anche se ormai il tema si è trasferito in Oriente, sul 1) vedremo come finisce, quando e se finirà.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

 

  • Non vedo quindi errori strategici, forse qualcuno d’inciampo tattico, dal punto di vista americano. Il terzo punto prima espresso, in particolare, mostra una decisa mancanza di realismo in termini di conoscenza del mondo e sue profonde dinamiche. Errori del genere, solitamente, provengono dall’area ideologica che veste il conflitto di valori e temi morali, cose che notoriamente non hanno nulla a che fare con la geopolitica e la strategia. Ma è tipico della scuola liberale di “relazioni internazionali” che in US è più rilevante del realismo in genere e dell’approccio geopolitico. Vedremo come e se finirà o continuerà, un trattato di pace lo vedo impossibile, la guerra congelata sarà collegata alle elezioni americane. Se vincerà Biden, poi riprenderà. Se fosse davvero fino all’ultimo ucraino, potrebbe durare qualche anno sempre che i russi accettino questo tipo di gioco. Mi permetto di aggiungere un altro aspetto. Gli americani non hanno poi così tante strategie possibili, la loro contrazione è fisiologica ed irrimediabile, la loro capacità di adattarsi positivamente a questo destino, che ben gestito sarebbe poi tutt’altro che funesto dato che hanno parecchi fondamentali positivi, sembra molto scarsa. Non se ne vede traccia in nessun aspetto della cultura americana, anche quella “alta”. Dovrebbero al contempo cambiare modo di vivere e di pensare nei grandi numeri e data l’indisponibilità delle loro élite tanto repubblicane che democratiche, non mi pare possibile. È ormai un sistema che s’è solidificato negli ultimi settanta anni, molto complesso cambiarlo stante che nessuno ne mostra la volontà, neanche teorica. Quanto agli europei, non mi sembrano in grado neanche di porsi davanti l’argomento, élite ed opinioni pubbliche con gli intellettuali in mezzo. La crescente anzianità media congiura a retrocedere il tema futuro ad argomento con poco pathos.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

  • Be’ il tema è un po’ troppo vasto per una risposta ad una domanda in questo formato. La crisi è ontologica, teoricamente affrontabile ma in pratica pare di no. I perché li rimandiamo perché dovremmo dettagliare “crisi” di cosa, da quando, in quale prospettiva ed anche per chi, gli Stati Uniti sono una cosa, lo stato-nazionale di taglia europea un’altra. L’Ue poi, non ne parliamo proprio. Propriamente è un argomento di categoria “storica” quindi assai complesso, irriducibile a poche battute.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

  • Mah, Russia e Cina amalgamano modernità e tradizione, siamo noi ad aver schematicamente assunto modelli semplificati basati solo sulla storia europea dando di modernità un certo concetto e di tradizione anche. Segnalo però che la Cina non ha mai, di fatto, abbandonato il confucianesimo, ci sono passi del libretto rosso di Mao che sono copia-incolla da Confucio propriamente detto (che attenzione, non è -sic et simpliciter- il “confucianesimo”), semmai ne ha sottomesso provvisoriamente parte del complesso ideologico al maoismo. È stato quindi molto semplice togliere alcuni eccessi di Mao per far risplendere l’antico impianto, direi che non credo sia proprio possibile avere una immagine di mondo in Cina che non risenta profondamente del confucianesimo. La cultura cinese è intrisa di vari tipi confuciani tanto quanto la nostra di platonici, magari a loro insaputa. Il problema è conoscere il confucianesimo che al suo interno è tanto plurale quanto lo è la tradizione di pensiero europea (o quasi). La categoria “reazionario” è europea ed applicare etichette europee a culture non europee non è sempre possibile. Per la Russia il discorso è differente ma poi neanche così tanto, tuttavia trattare problemi “storico-culturali” di questo tipo e di altri mondi, qui, non è possibile. La revisione delle posture e delle ideologie europee per adattarsi ai nuovi tempi comporta ben altre complessità che non essere un po’ meno “moderni” ed un po’ più “tradizionali”.

Il 2023 visto da uno storico del Medioevo, di Gabriel Martinez-Gros

Il 2023 visto da uno storico del Medioevo
Lo sguardo di Ibn Khaldun su Prigozhin e le periferie francesi
13 agosto 2023: qual è il legame, se non la coincidenza, tra la rivolta di Prigozhin in Russia e le nostre rivolte di periferia? In realtà, si tratta di fenomeni ampiamente simili, anche se con una notevole differenza. Ciò che hanno in comune è che tutto nel mondo deriva oggi dal progresso della “sedentarizzazione”, per usare le parole del grande pensatore arabo Ibn Khaldun (1332-1406)…

In termini moderni, la nostra “sedentarizzazione” è dovuta ai progressi fulminei, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, dell’urbanizzazione, dell’iscrizione a scuola e del controllo universale della fertilità delle coppie.

Tuttavia, questi sviluppi positivi stanno contribuendo a disarmare e dissociare la grande maggioranza delle società, in Russia come negli Stati Uniti, in Francia come in India e in Cina, in Brasile come in Turchia e in Iran. È questo movimento che crea, al contrario, una divisione “tribale” nelle parti meno disarmate e meno dissociate del territorio e della popolazione – le periferie, le prigioni, i cartelli della droga, questo o quel gruppo etnico periferico, come i curdi in Turchia o gli arabi del Darfur in Sudan… Prigojine viene da lì, e così i nostri rivoltosi…

Con la scomparsa della solidarietà, la grande maggioranza dei “sedentari”, che vivono sotto la benevola tutela dello Stato, sta perdendo il senso dell’autorità. Le nostre società mirano ormai solo alla realizzazione individuale, per la quale ogni autorità è un ostacolo. Per due secoli, le idee di nazione e di progresso hanno sostenuto le nostre repubbliche nella loro ricerca di prosperità e felicità. Oggi stanno scomparendo e nulla le sostituisce.

D’altra parte, è sbagliato lamentarsi della perdita di autorità ai margini delle nostre società. Le nostre istituzioni stanno crollando in spregio alle tribù che si stanno formando al loro interno – le nostre scuole, i municipi, i centri media e le stazioni di polizia stanno bruciando. Ma le tribù hanno il culto del leader brutale. Prima di trovare il suo padrone in Putin, Prigozhin era l’eroe radicale di una Russia marginale, come i boss della droga nelle nostre periferie o i leader dei grandi cartelli in America Latina.

Ma c’è una differenza fondamentale tra la Russia di Prigozhin e la Francia delle rivolte. Prigozhin, messo in minoranza, non ha un bastione etnico o ideologico su cui appoggiarsi. Era russo, come i suoi nemici capi dell’esercito, e non aveva un’ideologia diversa dalla loro, cioè il nazionalismo russo. Non esiste una “frattura tribale” duratura tra lui e i suoi avversari. Ecco perché le sue truppe lo hanno abbandonato nel giro di poche ore, praticamente, sembra, senza che i suoi avversari abbiano sparato un colpo. La fermezza di Putin ha prevalso facilmente. È lui il leader.

D’altra parte, i nostri rivoltosi hanno un rifugio: le differenze etniche (Nord Africa, Africa) e ideologiche (Islam o colore della pelle), che sono più una questione di ideologia che di “realtà”. Alcuni sottolineano il ruolo dell’Islam, della jihad, negli eventi delle ultime settimane. Molti dei rivoltosi dicono “Pardieu” – wa-llah – ad ogni occasione, che è diventato parte del linguaggio dei “quartieri”. È anche innegabile che l’Islam abbia storicamente dato ai suoi credenti un permesso di usare la violenza contro gli infedeli molto maggiore rispetto al cristianesimo o al buddismo, anche se oggi questa aggressione è usata solo marginalmente.

D’altra parte, il sentimento di differenza, di estraneità, di “separatismo”, per usare l’espressione di Emmanuel Macron, sta conquistando le minoranze, se non lo ha già fatto. Il Paese che sta bruciando non è del tutto, o per niente, il loro. Questa secessione di fatto può durare decenni e offre alle autorità violente di queste nuove tribù una possibilità di successo e di conquista, poiché la dissoluzione delle solidarietà e il disarmo delle maggioranze indeboliscono lo Stato.

Da questo punto di vista, ci troviamo in una situazione molto più grave e pericolosa della Russia.

Ibn Khaldûn (1332 – 1406)

Un penseur pour notre temps

Buste en bronze grandeur nature d'Ibn Khaldoun, Musée national arabo-américain, Michigan. Commandé par le Centre communautaire tunisien et créé par Patrick Morelli d’Albany, NY, en 2009, ce buste s’inspire de la statue d’Ibn Khaldoun érigée sur l’avenue Habib Bourguiba à Tunis (voir agrandissement).

Ibn Khaldun (o Ibn Khaldûn) è probabilmente l’unico grande pensatore storico non europeo, e innegabilmente il più grande storico del Medioevo. Nella sua opera principale, Il libro degli esempi, racconta la storia universale basandosi sugli scritti dei suoi predecessori, sulle osservazioni fatte durante i suoi numerosi viaggi e sulla propria esperienza di amministrazione e politica. L’introduzione, intitolata Muqaddima (Prolegomeni), espone la sua visione di come nascono e come muoiono gli imperi.

Ibn Khaldun proveniva da una grande famiglia andalusa di origine yemenita, cacciata dalla Spagna a causa della riconquista cristiana. Quando nacque a Tunisi nel 1332, i Marinidi dominavano il Marocco, mentre i Valois erano succeduti al trono in Francia. Pochi anni dopo, il Maghreb fu colpito dalla Grande Peste, così come la cristianità medievale.

Dopo una vita attiva come consigliere o ministro dei sovrani musulmani del Maghreb, Ibn Khaldun si ritirò all’età di 45 anni al Cairo, dove scrisse le sue opere e insegnò. Non potendo restare fermo, passò da Damasco nel 1401, poco prima che la città fosse assediata da Tamerlano. Il vecchio saggio riuscì a convincere il temibile conquistatore a risparmiare le vite degli abitanti.

Gabriel Martinez-Gros

Statue d'Ibn Khaldoun devant la cathédrale Saint-Vincent-de-Paul de Tunis.

Un pensatore della peste
Ibn Khaldûn (1332-1406) stupì la gente del suo tempo. Tanta insistenza sui meccanismi naturali del potere e così poca sui decreti insondabili di Dio potevano scioccare un lettore del XIV secolo. Ma Ibn Khaldun ci sorprende ancora di più di quanto abbia sorpreso i suoi primi lettori. Per una semplice ragione: non viviamo, per dirla in termini odierni, nello stesso “regime di storicità”.

Le Caire au XVe siècle, Chronique de Nuremberg. Agrandissement : Saint Louis visitant les victimes de la peste dans la plaine de Carthage, 1822, Abbeville, musée Boucher-de-Perthes.

Nonostante le nostre battute d’arresto collettive, tutti noi teniamo presente una storia “progressista”, nata dalla Rivoluzione industriale e dalla sua contemporanea Rivoluzione francese, e restiamo fermamente convinti che il mondo con noi, e dopo di noi, continuerà a progredire.

Ibn Khaldun nacque in un mondo che era stato generalmente stagnante per secoli, ma che fu improvvisamente colpito dalla peggiore catastrofe della storia – a parte lo sterminio delle popolazioni americane per shock microbico nel XVI e XVII secolo – ovvero la peste nera, le cui scosse mortali lo avrebbero seguito fino alla morte, avvenuta al Cairo all’inizio del XV secolo.

Aveva 16 anni, nel 1348, quando la peste raggiunse la sua città natale, Tunisi, uccidendo suo padre e due terzi dei suoi padroni. La popolazione del mondo mediterraneo diminuì di almeno un quarto prima della fine della sua vita, circa sessant’anni dopo. Ibn Khaldûn invecchiava e declinava con l’intera umanità. I villaggi scomparvero, le strade si persero e metà del Cairo fu abbandonata alla natura.

Le devastazioni della peste
Ecco cosa scrisse Ibn Khaldûn a proposito di questo flagello: “E così fu fino alla peste nera, che si abbatté sulla civiltà sia in Oriente che in Occidente a metà del nostro ottavo secolo (XIV secolo dell’era cristiana). Essa ha rosicchiato le nazioni, ha spazzato via una generazione e ha seppellito i benefici della civiltà fino a farne sparire ogni traccia. Colpì gli Stati nel momento della loro decadenza (…) e la terra civilizzata si ridusse con il numero degli uomini. Rovinò capitali ed edifici, cancellò strade e segni, svuotò accampamenti e villaggi, indebolì Stati e tribù. Le fondamenta del mondo furono cambiate (…) come se la voce dell’esistenza chiamasse il mondo a diventare più scuro e stentato, e come se si affrettasse a obbedire. Dio è l’erede della terra e di coloro che la abitano”.

Il giovane sopravvisse e naturalmente riprese la posizione che la sua famiglia aveva ricoperto per tanto tempo. I Banu Khaldûn erano nobili di origine yemenita, stabilitisi ad al-Andalus dopo la conquista araba, intorno al 740. Come spiegherebbe la sua teoria, essi svolsero inizialmente un ruolo guerriero, prima di sottomettersi al potere dei califfi omayyadi e poi dei governanti berberi che occuparono al-Andalus tra l’XI e il XIII secolo.

Abu Hafs Umar al-Murtada, calife almohade de 1248 à 1266, enluminure castillane du XIIIe siècle. Agrandissement : Vue d'ensemble de la Medersa Bou Inania de Fès, architecture mérinide du XIVe siècle.

Per generazioni, i suoi antenati erano stati finanzieri, avvocati, giudici e professori. Nel 1246, con l’avvicinarsi della riconquista cristiana, i Banu Khaldûn, radicati a Siviglia da cinque secoli, lasciarono la città per Tunisi, dove Ibn Khaldûn nacque nel 1332.

Nel Maghreb, le élite andaluse in esilio monopolizzarono le posizioni amministrative e intellettuali. All’età di 18 anni, Ibn Khaldûn fu chiamato alla sua corte dal sovrano marocchino, il più potente del Nord Africa. Per 25 anni servì i sovrani di Fez, Tlemcen, Costantino e Bougie nelle posizioni più alte.

Poi, improvvisamente, nel 1375 – all’età di 43 anni – si ritirò nella solitudine di una piccola fortezza araba sugli altipiani dell’attuale Algeria occidentale, dove nel giro di pochi mesi scrisse l’introduzione teorica, la Muqaddima, alla sua Storia universale – fonte della sua fama fino ad oggi. Nel resoconto della sua vita che ci ha lasciato, descrive il turbinio di pensieri che lo assalirono nel suo ritiro e che, dice, gli fecero capire tutto.

Grottes d'Ibn Khaldoun situées dans la commune de Frenda dans la wilaya de Tiaret en Algérie. Agrandissement : Vue panoramique des grottes de Taoughazout.

Governare è creare ricchezza
Che cosa ha capito, dunque? Innanzitutto che è inutile cercare di amministrare il Maghreb, che non può più essere amministrato. La popolazione di questi territori, tradizionalmente scarsa, è scesa con la peste a un livello così basso che è impossibile pagare le tasse, alimentare le città e sostenere la crescita di attività ad alto valore aggiunto, per così dire. Egli comprende quindi che lo Stato dipende dal numero di persone, e soprattutto dalla loro concentrazione, che è proprio ciò che l’autorità pubblica ha il compito di incoraggiare.

Les ombres de l'Est, illustration d'après des observations lors d'un voyage en 1853 et 1854, en Égypte, Palestine, Syrie, Turquie, Catherine Tobin, Londres, British Library. Agrandissement : Campement de bédouins, entre 1841 et 1851, Yale, centre d'art britannique.

Le società agricole, sia che pratichino l’agricoltura che l’allevamento, ignorano praticamente la crescita economica. Queste società, senza crescita né risparmio, consumano immediatamente tutto ciò che producono. Ibn Khaldûn le chiamava “beduini”. La peste ha fatto sì che la maggior parte del Maghreb tornasse a questo “beduinismo”, sia tra i nomadi arabi che tra i contadini cablè.

Per creare ricchezza, invece, occorre una popolazione in grado di pagare le tasse, i cui proventi si concentrano nella capitale, dove questa mobilitazione di risorse attira le competenze e le fa fiorire. L’espansione della domanda e la divisione del lavoro hanno dato vita a nuovi mestieri e a nuove raffinatezze. Nel mondo beduino, ognuno lavorava con i propri attrezzi di legno. Nei villaggi comparvero i falegnami, nelle grandi città i carpentieri e nelle città gli ebanisti.

L’aumento di produttività che ne è derivato ha arricchito sia le città sia le campagne che le hanno alimentate. Ne beneficiano tutti, anche coloro che inizialmente sono svantaggiati dal pagamento delle tasse, che possono apparire come un investimento il cui rendimento differito è superiore alla posta in gioco. Ibn Khaldûn definisce queste grandi popolazioni “sedentarie”, grazie alla protezione offerta dallo Stato e ai risparmi che esso consente al di là della pura sussistenza.

Bédouins au puits, Adolf Schreyer, XIXe siècle. Agrandissement : Eugène Delacroix, Chevaux à la fontaine, 1862, Philadelphia Museum of Art.

Tutto andrebbe bene se questo processo di “sedentarizzazione” fosse volontario. Ma non lo è. Le tasse sono l’erede della razzia delle prime guerre neolitiche, il tributo che il conquistatore esige dal conquistato. Essa umilia. I popoli liberi si rifiutano di pagarla e la loro resistenza frena il processo di sedentarizzazione, il progresso.

È qui che Ibn Khaldûn si separa dai filosofi dell’Illuminismo, ai quali il suo pensiero è talvolta così vicino. Per i filosofi, una volta che l’individuo si era deciso ad associarsi con i suoi simili per vivere meglio, non c’erano ostacoli all’unione di persone e forze. Le comunità crescono naturalmente dal villaggio alla piccola città, e dal villaggio alla capitale.

Joseph Heicke, Campement de bédouins, 1846, collection particulière. Agrandissement : Abraham Hermanjat, Campement de bédouins au crépuscule, XIXe siècle, Nyon, Fondation Abraham Hermanjat.

Questa è una visione sbagliata, dice Ibn Khaldûn. Le comunità naturali e “tribali” si fondano sul valore decisivo della solidarietà. In assenza di uno Stato, che queste società ignorano, la solidarietà è essenziale per garantire la sicurezza fisica, la cooperazione nel lavoro e il sostegno a vedove e orfani. Ma questa solidarietà spontanea, radicale e indiscussa si estende solo a un piccolo clan di poche decine o poche centinaia di individui.

Se una fortunata casualità demografica estende il gruppo oltre queste dimensioni – quelle della “tribù neolitica”, per dirla con Claude Lévi-Strauss – esso si divide per preservare la forza della solidarietà di ciascun clan. La crescita demografica della tribù, raramente osservata sul lungo periodo, non ha mai portato a un assembramento di popolazioni che autorizzasse la città, l’ascesa dello Stato e l’economia sedentaria.

Eugène Delacroix, Exercices militaires des Marocains, 1847, Montpellier, musée Fabre. Agrandissement : Les Derniers Rebelles, scène d'histoire marocaine, Benjamin-Constant, vers 1880, Paris, musée d'Orsay.

Disarmare

Lo Stato è un processo completamente diverso: non nasce dalla solidarietà, ma dalla coercizione. Può raccogliere le tasse da cui dipende la sua esistenza solo disarmando i suoi sudditi. È questo disarmo che caratterizza la sedentarizzazione. Implica la sottomissione delle popolazioni, a volte con la forza, ma più spesso con la pacificazione, la convinzione, l’educazione, l’insegnamento del rispetto della legge e persino l’infusione di un po’ di codardia nelle anime.

Secondo la metafora preferita di Ibn Khaldûn, i sedentari si affidano allo Stato come le donne e i bambini al capofamiglia. In cambio, godono dei piaceri della civiltà, della raffinatezza dei modi, dei costumi, degli oggetti e dei pensieri.

Ma disarmando le sue popolazioni, lo Stato le mette a rischio, e mette a rischio se stesso. È come se l’innesto dello Stato e della tassazione, essenziali per la prosperità, richiedesse l’abbassamento delle difese immunitarie della società. Numerosa, prospera e disarmata, la popolazione sedentaria forma un’oasi di ricchezza indifesa, circondata e vessata dall’avidità delle tribù beduine circostanti. Per difendere la sua mandria produttiva, lo Stato non può far altro che ricorrere ad alcune di queste tribù.

Moulay Abd-er-Rahman, sultan du Maroc, sortant de son palais de Meknes, entouré de sa garde et de ses principaux officiers, Eugène Delacroix, 1845, musée des Augustins de Toulouse. Agrandissement : Portrait équestre du sultan du Maroc, Eugène Delacroix, 1862, Zurich, Fondation et Collection Emil G. Bührle.

La naturale aggressività delle società primitive, le solidarietà claniche che la civiltà sedentaria fa scomparire nel proprio popolo trasformandole in lavoro, risparmio e pensiero, sono chiamate ad assumere le funzioni di violenza dello Stato – polizia ed esercito – e a specializzarsi in esse, come altri nella lavorazione del legno o del tessile.

Se non che queste funzioni danno accesso al potere e che questi beduini se ne impadroniranno inevitabilmente nel tempo. Sia che la società sedentaria acquisisca volontariamente la violenza beduina, sia che ceda all’invasione di tribù riunite dal richiamo del saccheggio, o di una causa religiosa eterodossa che la città ha rifiutato, il punto essenziale si può riassumere in poche parole: lo Stato è costituito dalla congiunzione del lavoro di una vita sedentaria produttiva e prospera e di una sovranità violenta, che difende il popolo sedentario come un padrone difende il suo gregge.

Una volta al potere, i governanti violenti paradossalmente proteggono l’ordine e la pace, perché la pace favorisce la prosperità, aumenta le entrate fiscali e quindi il potere e il godimento di chi governa.

Ma il processo non si ferma qui. I beduini vittoriosi, che avevano il controllo dello Stato e che erano stati costretti a uno stile di vita sedentario, ne hanno presto risentito. Lo Stato da loro controllato forniva sicurezza, giustizia e sostegno ai poveri, alle vedove e agli orfani molto meglio di quanto la tribù diseredata fosse stata in grado di fare. Tutto ciò che prima veniva fatto dalla solidarietà dei clan ora viene fatto dallo Stato, con maggiore efficienza.

La solidarietà diventa inutile e cade come un organo morto. Secondo Ibn Khaldûn, ci vogliono da tre a quattro generazioni, o da 100 a 120 anni, perché non rimanga nulla della coesione iniziale della tribù dominante e perché questa si dissolva nel bagno sedentario delle popolazioni sottomesse, lasciando il posto ad altri violenti ai vertici dello Stato.

Vue du Caire, Charles-Théodore Frère, XIXe siècle, Bagnères-de-Bigorre, musée Salies. Agrandissement : Vue sur le tombeau des califes avec les pyramides de Gizeh au loin, Hermann David Salomon Corrodi, XIXe siècle.

Il potere è straniero

Ciò che è più nuovo nel pensiero di Ibn Khaldun è l’intimo legame tra Stato e società, tra politica ed economia o demografia, che non è apparso in Occidente fino all’Illuminismo, o più probabilmente fino alle grandi costruzioni storiche del XIX secolo. Lo cercheremmo invano in Machiavelli, che a volte è stato paragonato a Ibn Khaldun.

Ma se lo confrontiamo con i pensatori dell’Illuminismo o della modernità europea, Ibn Khaldun si distingue per la dicotomia che scorge nel cuore dello Stato. Coloro che governano provengono dal violento mondo beduino. Sono pochi, uniti e coraggiosi. Quelli che governano sono infinitamente più numerosi, attivi, produttivi, individualisti – “isolati”, dice Ibn Khaldûn – disarmati e pusillanimi.

Alcuni usano la forza, altri il lavoro, i risparmi e la memoria. Naturalmente, i beduini hanno trionfato una volta che sono riusciti a raccogliere una massa critica di violenza – bastava appena l’1-2% delle popolazioni sedentarie. Questo è ciò che hanno fatto i Macedoni di Alessandro contro l’Impero persiano, i Germani che hanno invaso l’Impero romano nel V secolo, gli Arabi che hanno conquistato l’Iran e il Mediterraneo orientale nel VII secolo e i Mongoli che hanno sommerso la Cina e il mondo islamico orientale nel XIII secolo.

Per definizione, quindi, gli imperi sono fondati e governati da popoli estranei alla grande maggioranza delle popolazioni sedentarie. I governanti, nelle loro origini e in linea di principio, non parlano la lingua dei loro sudditi. Si trattava di lingue mongole o manciù in Cina, illiriche o germaniche negli ultimi secoli dell’Impero Romano, arabe e musulmane in un Oriente ancora cristiano agli albori dell’Islam, poi turche quando la lingua araba e la religione musulmana divennero la lingua maggioritaria dopo il XII-XIII secolo.

Voyages de François Bernier, docteur en Medecine de la Faculté de Montpellier. Contenant la description des Etats du Grand Mogol.Où il est traité des Richesses, des Forces, de la Justice, & des causes, Paul Marret, Amsterdam 1710.

In qualità di medico degli imperatori musulmani Mughal dell’India nel XVII secolo, François Bernier descrisse la casta dominante dei Mughal – appena 200.000-300.000 amministratori e soldati turchi, persiani o afghani per 150 milioni di indiani – come “stranieri, musulmani e bianchi di pelle”. Il primo termine, “stranieri”, sarebbe stato sufficiente. I Moghul erano musulmani perché gli indiani non lo erano, e di pelle bianca perché gli indiani non lo erano. Senza saperlo, Bernier ritorna alla teoria di Ibn Khaldun: il potere è beduino, la società dei sudditi è sedentaria.

Ma il coraggio si erode quando entra in contatto con una società sedentaria. Per Ibn Khaldûn, la storia è entropia: si riduce alla dissoluzione e alla scomparsa dell’identità beduina dominante nel magma sedentario, nell’arco di tre o quattro generazioni. I pronipoti dei conquistatori adottano i costumi dei loro sudditi, esaltano la memoria dei loro antenati guerrieri in lunghi poemi, sfoggiano cavalli pregiati e armi lucenti, ma non sono in grado di combattere per mancanza di coraggio e solidarietà.

American Progress, allégorie de la Destinée manifeste, John Gast, 1872, Los Angeles, Autry Museum of the American West. Agrandissement : L'histoire des plus grandes nations, de l'aube de l'histoire au XXe siècle, 1900, Edward Sylvester Ellis, Charles Horne, Université de Californie.

E l’Occidente?

Perché questo sistema, che senza dubbio ha governato per duemila anni la maggior parte delle popolazioni più dense e produttive del mondo, ci sembra così strano? Perché l’Occidente lo ha ignorato dalla caduta dell’Impero romano. La tassazione statale è scomparsa per quasi otto secoli, fino alla Guerra dei Cento Anni. La società si è “deconcentrata”, ruralizzando attorno a castelli e monasteri.

A partire dal XIV secolo, tuttavia, con l’inizio dello Stato moderno e il notevole aumento della tassazione nel XVII e XVIII secolo, in particolare in Francia, l’Occidente assunse una forma coerente con la teoria. Le capitali si gonfiarono, gli eserciti divennero professionali e i mercenari stranieri abbondarono.

Ma l’Occidente si salvò dalla teoria di Ibn Khaldun grazie alla sua invenzione produttiva: a partire dalla fine del XVIII secolo, la “rivoluzione industriale” – in realtà il più grande sconvolgimento scientifico, tecnico, agricolo, sanitario e medico della storia dell’umanità – creò ricchezza senza ricorrere in modo determinante alla tassazione. Di conseguenza, il disarmo dei popoli non è più necessario. Al contrario, la crescita della ricchezza e l’armamento dei popoli, con la nascita degli Stati nazionali, vanno di pari passo. Libertà e prosperità vanno di pari passo. Ibn Khaldun lo avrebbe ritenuto impossibile.

Le travail en usine vers la fin du XIXe siècle, Adolph von Menzel, 1875, Berlin, Alte Nationalgalerie. Agrandissement : Vue intérieure de la Galerie des Machines, Exposition universelle internationale de Paris 1889.

Abbiamo perso una chiara consapevolezza di questo: la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti e la Rivoluzione francese, che proclamavano la libertà e puntavano alla democrazia, hanno potuto farlo perché il mondo cominciava ad essere travolto da un movimento di progresso demografico, economico e materiale, che sollevava lo Stato dalla necessità di esercitare la tirannia sui suoi sudditi, che ora erano diventati cittadini.

La felicità è un’idea nuova in Europa”, disse Saint-Just dal palco della Convenzione. Ma è grazie alla scienza, a Newton, Jenner, Monge… e a Lavoisier, che fu giustiziato dal Tribunale rivoluzionario. Se non riusciamo a compiere progressi economici, la realtà della democrazia ci sfuggirà.

Già oggi una crescita anemica, e di conseguenza diseguale nella maggior parte dei vecchi Paesi sviluppati, non irriga più gran parte dei territori, dalle “periferie” alle “periferie rurali”. Popoli distinti, che non chiamiamo ancora “beduini” e “sedentari”, stanno forse emergendo. La nozione stessa di progresso è ora messa in discussione, in un momento in cui è indubbiamente più necessaria che mai. Speriamo di avere ancora la forza di mettere in dubbio una delle più potenti teorie della storia e della vita in società mai concepite da una mente umana.

https://www.herodote.net/Un_penseur_pour_notre_temps-synthese-3163-482.php

https://www.herodote.net/Le_regard_d_Ibn_Khaldoun_sur_Prigojine_et_les_banlieues_francaises-article-2908.php

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In un vicolo cieco. Dialogo tra Roberto Buffagni, Galli Cristiano, Roberto Negri, Persio Flacco

Qui sotto una interessante ed informale conversazione, tratta da facebook,  sulla constatazione e sugli eventuali motivi che hanno spinto i centri decisori statunitensi in un vicolo cieco dal quale sarà pressoché impossibile uscire senza traumi drammatici. Un tema che il sito ha sfiorato in più occasioni ma che dovrà diventare centrale nella propria ricerca. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Di recente ho dialogato con Roberto Negri e Persio Flacco intorno a una domanda che a mio avviso è LA domanda: “come mai gli Stati Uniti e in genere l’Occidente hanno commesso un errore di valutazione epocale, nel conflitto ucraino?” (hanno sbagliato il calcolo della correlazione di forze Occidente-Russia sul piano militare, economico e politico, in parole povere hanno sbagliato di grosso TUTTO). L’amico Cristiano Nisoli ha commentato “thread spettacolare”. Stimo Cristiano, a questo punto gli credo e riporto il thread in un apposito post.
Roberto Negri
Roberto Buffagni bazzicando regolarmente, soprattutto in quest’ultimo anno, pagine e analisti di cose militari, il concetto di rivoluzione del modern warfare è non solo ricorrente ma anche sempre più codificato, con qualcuno che, nonostante la bandiera stelle e strisce, si spinge fino all’ammissione che la dottrina militare russa è estremamente più avanti sotto questo profilo. Certo un trentennio di guerre contro avversari non probanti non aiuta, ma la pigrizia mentale (chiamiamola così per ora, in attesa di spiegazioni più convincenti che senz’altro ci saranno) delle alte sfere militari statunitensi, e non solo dei generali da rotocalco, continua ad apparirmi stupefacente.
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3 g
Roberto Buffagni
Roberto Negri Sì, è un enigma. Ci sto ragionando da un pezzo, salvo imprevisti ne voglio scrivere a cavallo di Ferragosto. È la domanda principale.
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Persio Flacco
Roberto Negri Una ipotesi potrebbe essere il sistema delle “porte girevoli” tra alti gradi delle FFAA e industria militare, e il sistema di finanziamenti condizionati che questa elargisce a Think Tank che elaborano strategie e dottrina militare.
In un certo senso si potrebbe dire che in occidente l’arte della guerra sia stata privatizzata e subordinata alle esigenze delle fabbriche di armamenti.
Alle quali importa primariamente rendere profittevoli i loro prodotti, ed è sulla base di questa priorità che commissionano le elaborazioni strategiche e tattiche che diventano poi dottrina nelle accademie militari e linee guida dello stato maggiore.
In Russia sembra essere il contrario: è l’industria che deve adattarsi alle strategie militari.
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Roberto Buffagni
Persio Flacco C’è sicuramente anche questo. Quello che a me interessa di più sono le “amiche sembianze” e le “reti” di cui si è servita la dea Ate per accecare gli occidentali. Ate, la dea che acceca, «da principio seduce l’uomo con amiche sembianze, ma poi lo trascina in reti donde speranza non c’è che mortale fugga e si salvi» (Eschilo, I persiani, 96-100)
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Roberto Negri
Persio Flacco Roberto Buffagni vero, ma tendo più a vedere questa innegabile dinamica come l’infrastruttura funzionale di scelte che in realtà dipendono da altre istanze (da esplorare meglio), anche se senza dubbio il sistema delle revolving doors, oltre a porle in atto, le amplifica e potenzia.
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Roberto Buffagni
Roberto Negri Secondo me la causa originale è culturale in senso proprio, il combo tra il presupposto illuministico che Kant così definisce, “«L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro.”, ossia la negazione del peccato originale (nel linguaggio simbolico della religione) e (in linguaggio laico) la negazione del mistero dell’uomo e della storia, del fatto che l’uomo è in larga misura ignoto a se stesso e che la storia non è razionalmente controllabile; più la specifica declinazione che questo principio illuministico assume negli Stati Uniti, ossia la sua ibridazione con l’eccezionalismo puritano e il senso di predestinazione a redimere il mondo che ne consegue, con l’effetto di maestosa eterogenesi dei fini che ne deriva. Se a questo combo tu aggiungi la condizione di possibilità di un experimentum storico-pratico, ossia l’impunità garantita dallo status di unica grande potenza mondiale che gli USA hanno goduto per trent’anni, allora vedi che in un certo senso illuminismo e sua declinazione occidentalista-americana “si conformano al loro concetto” per esprimersi con Hegel, cioè fruiscono della possibilità reale di diventare nella realtà effettuale quel che erano logicamente in potenza. Era la tutela dell’equilibrio di potenza, che costituisce il limite della realtà, a impedire che il suddetto combo si realizzasse compiutamente nell’effettualità storica (lo stesso accadde per il comunismo, anch’esso soggetto a una maestosa eterogenesi dei fini, che ha retto sinché si è ibridato con il nazionalismo russo di Stalin). Così è detto male e troppo frettolosamente ma sono abbastanza persuaso che il punto chiave sta lì.
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2 g
Roberto Negri
Roberto Buffagni premesso che non è detto affatto male, tendo a concordare. Del resto anche la semplice empiria ci dice che l’ultimo trentennio, rimaste immutate una serie di precondizioni antropologico – culturali, ha visto un’accelerazione e dispiegamento di dinamiche presenti in sottofondo ma che in qualche modo avevano trovato fino ad allora un limite, o forse semplicemente degli elementi di auto-moderazione. Detta malissimo, certamente è saltato un argine che però è, a mio modo di vedere, non solo materiale, come con ragione ma forse in modo eccessivamente semplificatorio si tende a riassumere. Il problema è che non vedo risorse intellettuali in grado, o forse più semplicemente nelle condizioni, di sollevare il tema nell’America di oggi. Ripensarsi è difficile per tutti, e per gli imperi in crisi probabilmente quasi impossibile.
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Roberto Buffagni
Roberto Negri Qualcuno c’è, mica tanti ma qualcuno c’è. Il punto culturale essenziale è, a mio avviso e se ho ragione dicendo che si tratta di un combo tra specificità americana e fondamento dell’Illuminismo, è che la critica alla specificità americana è relativamente facile, mentre è immensamente difficile la critica al fondamento dell’Illuminismo perché l’Illuminismo è il fondamento di tutto il pensiero degli ultimi due secoli (anche quello che vi si oppone ovviamente). Hai detto nulla! Ci sarebbe anche una specie di prova a contrario, ossia il fatto storico palese che le grandi due potenze emergenti, Cina e Russia, che hanno esperito direttamente uno degli esiti possibili dell’Illuminismo (il comunismo), una volta constatatane l’impraticabilità storica ossia una volta che si sono scontrate con l’eterogenesi dei fini da esso innescata, hanno fatto un salto culturale all’indietro, verso la loro tradizione pre-illuministica (o almeno ci provano, anche per usarla come teologia civile): per la Cina il confucianesimo (che è poi una versione essoterica del Taoismo) e per la Russia la cristianità ortodossa. Nessuno ovviamente ha idea se il moto all’indietro, letteralmente “reazionario”, di Cina e Russia potrà attecchire e funzionare, ossia ritrovare la falde acquifere delle due antiche tradizioni pre-illuministe in un contesto moderno, di civiltà industriale; ma il salto all’indietro c’è stato, questo è indubbio.
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Roberto Negri
Roberto Buffagni problema aperto/suggestione: a tuo modo di vedere gli Stati Uniti hanno un “altrove” fondativo a cui tornare come Russia e Cina? Il tema è straordinariamente interessante.
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2 g
Roberto Buffagni
Roberto Negri No. L’altrove fondativo degli USA, una volta scartato l’Illuminismo, è il puritanesimo protestante, che dal pdv religioso e culturale è già attivo nella forma della “Woke Church”. Più indietro ci sono le religioni degli autoctoni ma quelle direi che sono affatto impraticabili 🙂. Noi, inteso come noi europei, un altrove ce l’avremmo ed è la civiltà cristiana, “Europa oder Christenheit” di Novalis, ma non è in buona salute, nè nella versione protestante né nella versione cattolica. Però c’è. Specie nella versione cattolica, che integra parzialmente la civiltà classica greco-latina, ha discrete possibilità di essere resuscitata con successo.
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Roberto Negri
Roberto Buffagni concordo, per quanto distorto anche secondo me sono già nel loro ubi consistam. Ed è un problema. Quanto a noi, molti sembrano avervi rinunciato. Speriamo.
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2 g
Cristiano Nisoli – Discussioni
Roberto Negri thread spettacolare
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6 h
Roberto Buffagni
Cristiano Nisoli – Discussioni Grazie Cristiano
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6 m
Galli Cristiano
Interessante. Avevo scritto una analisi sinteticamente tecnica sulla credibilità della sedicente controffensiva Ucraina proprio un paio di giorni fa.
Riposto qui per comodità di lettura.… Altro…

Galli Cristiano

Premettendo che leggervi è sempre un immenso piacere e fonte di ispirazione critica, ma siamo proprio sicuri che gli US abbiano preso un abbaglio? Che abbiano commesso un errore?
Io non ne sono molto convinto. Badate bene … stabiliamo cosa intendiamo con “abbaglio ed errore”.
Se per errore intendiamo una strategia che metta a rischio l’intera umanità… concordo.
Se invece valutiamo come errore una strategia che penalizzi gli US .. molto meno d’accordo.
Valutiamo i vari fattori.
Gli US escono da un periodo di 70 anni di dominio dell’arena internazionale. Condivisa con l’URSS per una parte e poi di assoluto dominio unipolare.
Insomma, guardiamo all’aspetto psicologico, si sentono padroni e lo sono stati, de facto, per lunga parte della propria seppur breve storia.
Come afferma la Russia, non vale la pena di pensare ad un Mondo senza la Russia, altrettanto vale per gli US, pensano la stessa cosa. La differenza sta nel fatto che l’altrove Russo è più innestato, intrecciato e ramificato con la storia del Mondo di quanto lo sia l’altrove US, che praticamente non esiste. Questo da alla Russia una maggiore consapevolezza dei propri limiti e delle potenziali conseguenze di entrare in un conflitto nucleare. Se ci pensate, come quando Nadal e Federer si incontravano, si poteva respirare che Federe sapesse di poter perdere, Nadal no. E sappiamo che negli scontri a due, chi non pensa di poter perdere, spesso vince.
Passiamo alla strategia US. Da anni hanno deciso di disingaggiarsi direttamente dai teatri che gli hanno portato più rogne che altro, Medio Oriente, Afghanistan etc.
Al contempo, disingaggiarsi NON significa non influenzare, anzi. La strategia Bush, peraltro proseguita con le amministrazioni Dem, era di creare instabilità mirate, per governare i processi di ristabilizzazione. La strategia è stata fallimentare ed hanno cambiato approccio.
Ora la strategia è di alimentare le instabilità da attore esterno, attraendo altri nella palude della instabilità con le responsabilità di gestire la palude.
In sintesi, prima creavano i vuoti per riempirli a loro piacimento, ora creano i vuoti e lasciano che altri vengano attratti nel vortice da riempire.
Ma versante pensate che la disastrosa uscita dall’Afghanistan dia stata casuale?
Io non lo penso. Se io mi fossi dovuto ritirare da una casa diroccata, non avrei lasciato le cose in ordine, ma avrei lasciato tutto il più possibile incasinato, per lasciare che fosse la comunità dei vicini a doversi occupare del rudere.
Vediamo quindi per quale ragione ritengo le strategie US vincenti.
Limito la mia analisi al confronto US Russia, sapendo che questo si innesta nel confronto a più lungo temine con la Cina.
Partiamo dalla leva Militare del DIME. La potenza militare convenzionale e nucleare US è infinitamente più grande di quella Russa, pertanto è un loro punto di forza.
Non hanno scatenato loro la guerra in Ucraina, hanno creato i perfetti presupposti perché la Russia non avesse altra scelta che fare questa mossa. Questo li mette al riparo dall’impiego della propria forza convenzionale e li mette in una posizione di vantaggio dal punto di vista della deterrenza nucleare. Non scordiamoci che se la Russia dovesse decidere di usare il nucleare verrebbe colpita dalla ritorsione sul proprio territorio, mentre gli US, prima di cominciare a scambiarsi noccioline nucleari con la Russia avrebbe un ulteriore gradino da scalare nel processo di escalation.
I primo scambio di confetti nucleari avverrebbe in territorio Europeo e Russo, fra NATO e Russia e gli US starebbero tranquilli ad osservare mentre noi ci scanniamo.
Quindi … dal punto di vista militare gli US hanno solo che da guadagnare. Soldi alle proprie industrie di armi, maggiori contributi dei paesi europei alle spese militari della NATO e tempo per preparare le proprie forze convenzionali ad uno scontro su larga scala.
Passiamo alla leva Economica (DIME). Sempre ottime news per zio Sam. Come già detto, le industrie militari faranno soldi e questo fa bene al paese. Il declino del Dollaro era cosa risaputa, ma polarizzare il mondo in ‘sei con me” o “contro di me” li aiuta a ritardare questo declino. L’occidente rimane un grosso bacino di potete economico e tagliare i cordoni fra questo bacino e la parte più povera del mondo, gli torna utile, almeno nel breve medio periodo. Certo, il 50% della popolazione mondiale li vede come il fumo negli occhi, ma è il 50% più povero, quindi continuando a spremere il 50% più ricco, si sono ritagliati altri decenni di sopravvivenza egemonica.
Passiamo alla leva Informativa (DIME). Il Mondo 5 eyes rimane una potenza di intelligence superiore a chiunque altro, con l’alleato Israeliano … poi … stanno in una botte di ferro. Dal punto di vista dello scontro cognitivo, stanno comunque riuscendo a tenere botta alla narrativa degli “altri”. La loro potenza di fuoco comunicativa rimane molto forte. Leggo troppo spesso di ragazzetti europei più che ventenni infoiati di retorica di guerra dei buoni democratici contro i cattivi dittatori.
A noi che abbiamo qualche capello bianco e abbiamo visto e fatto le guerre degli ultimi 30 anni fa tenerezza, ma ritengo che la narrativa abbia presa, almeno fino a quando si dovessero cominciare a vedere bare e body bags rientrare in patria copiose.
Dal punto di vista Diplomatico (DIME), continuano ad essere forti. Ricordiamoci che il mondo che stanno spaccando in due (West… the rest), non è un mondo a geometria omogenea. Il West sta diventando una prigione cognitiva e relazionale. Nessuno nel West è più libero di fare affari con the rest. Tutto passa per gli US. Mentre il “the rest” non è così omogeneo. Innanzitutto la narrativa del the rest è una narrativa multipolare e multipolare significa che nessuno è impedito ad usare autonomia strategica. L’India NON condanna la guerra Ucraina, ma continua ad avere relazioni commerciali con gli US. Insomma, mentre essere nel the West significa essere appecoronati a ciò che decide il capo del the West, gli US, nel the rest è tutto più fluido.
In buona sostanza, ritengo che gli US stiano giocando una partita vincente, per sé stessi. Non hanno preso alcun abbaglio e non hanno fatto clamorosi errori strategici. Chiaramente, non tutto va come previsto, in maniera lineare, ma tutte le opzioni sul campo li stanno favorendo.
Ciò non toglie che ci sono fattori che potrebbero ribaltare la situazione. Un fattore è la potenziale vittoria di Trump alle elezioni del prossimo anno. Non è un caso che gli stiano facendo una guerra senza precedenti.
Altro fattore potrebbe derivare dall’uso del nucleare, ma come ho detto, anche se la Russia dovesse usare il nucleare tattico, questo avvantaggerebbe gli US. L’uso del nucleare isoletebbe veramente la Russia sul terreno diplomatico ed economico.
Altro fattore destabilizzante sarebbe l’intenzione Russa di scalare l’uso del nucleare fino a colpire gli US direttamente. Sarebbe un olocausto nucleare di cui non sappiamo gli esiti a lungo temine, ma sarebbe comunque una situazione estrema di parità nella distruzione. Se la Russia ci vuole arrivare deve essere disposta a sparire e con loro sparirebbero pure gli US.
Mi da molta tristezza pensarlo, ma ritengo che prima o poi, come disse Oppenheimer a Einstein, la reazione a catena è già iniziata e prima o poi ci si arriverà.
Non credo che una transizione da mondo unipolare a multipolare, con le armi nucleari presenti nello scenario, avverrà senza che si arrivi al loro utilizzo.
Questo è il mio più grande timore nel delirio di onnipotenza US.

 

Persio Flacco

Visto che si sta trattando di un “sistema complesso” (quello del “battito d’ali di una farfalla che genera uragani”, per intenderci) sarebbe prezioso il contributo di uno studioso della Complessità, come l’ottimo Pierluigi Fagan.
Per quanto mi riguarda, da quando ho iniziato a pedinare da vicino il tristemente noto “uccello padulo” tendo a interpretare certi effetti pratici del sistema complesso volando basso, dando peso magari eccessivo ad ammonimenti come “Follow the money”, o come l’evangelico “Dai loro frutti li riconoscerete”. 🙂
In aggiunta, tendo a prendere in seria considerazione il “battito d’ali” di certe organizzazioni riunite attorno a visioni del mondo che ai più possono anche apparire bislacche o residuali ma che per compattezza, determinazione e mezzi possono “generare uragani” nel sistema complesso.

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L’Occidente mangerà se stesso?_ di Aurelien

L’Occidente mangerà se stesso?
Sì. I derivati sono in discesa.

AURELIEN
5 LUGLIO 2023
Qualche settimana fa ho pubblicato un saggio sulla politica estrattiva che ha suscitato un certo interesse. In esso sostenevo che il modello estrattivo dell’attività economica moderna – la finanziarizzazione, l’asset-stripping, i derivati e così via – si era ora esteso ad altri settori, in particolare alla politica. L’idea di ottenere effettivamente qualcosa è stata sostituita dall’estrazione dei massimi vantaggi politici e finanziari da una determinata situazione.

In genere, inizio a scrivere questi saggi con in testa solo un’idea approssimativa di ciò che voglio dire, e quindi spesso mi vengono in mente idee per le quali non ho spazio, ma sulle quali voglio tornare in seguito. Mentre terminavo il saggio, ho guardato il conteggio delle parole e mi sono reso conto che c’era molto altro da dire, ma non c’era lo spazio per farlo, così ho deciso di ritornarci in seguito. Da qui questo saggio.

In effetti, la mentalità estrattiva è oggi la norma ovunque, e non può essere una coincidenza. In genere è caratterizzata da tre elementi. Il primo è l’abbandono di idee genuine di progresso, o anche di qualcosa di veramente nuovo. Al contrario, si assiste alla disperazione, al nichilismo e all’incolpazione competitiva degli altri. In secondo luogo, e come conseguenza, la promozione di novità banali e transitorie come se fossero veri e propri cambiamenti e miglioramenti. Terzo, l’estrazione compulsiva del passato, non come ispirazione o emulazione, ma semplicemente come materia prima da trasformare in qualcosa di vendibile o in qualcosa da cui trarre vantaggio politico. La nostra società sta quindi essenzialmente consumando se stessa.

Notate che ho detto “la nostra società” perché non credo che questo sia un problema della razza umana nel suo complesso. È un problema delle società moderne, occidentali e liberali, e ci sono stati segnali di questo fenomeno (anche se ampiamente ignorati) da un secolo a questa parte. Al contrario, le società di tutto il mondo che non hanno questo problema, o che lo hanno in misura minore (spesso quelli che chiamiamo “Stati civili”) sono oggetto del nostro odio e della nostra inimicizia perché sembrano fare cose nuove e progredire davvero, mentre noi facciamo a gara per incolparci a vicenda della nostra inerzia e della nostra incapacità di fare le cose.

Propongo quindi di fare un numero sufficiente di esempi di comportamento estrattivo per stabilire il punto, per poi fare riferimento a due (e fugacemente a un terzo) autori che credo ci aiutino a capire meglio cosa sta succedendo. I due pensatori principali che voglio invocare sono lo scrittore svizzero-tedesco (relativamente oscuro) Jean Gebser e lo scrittore britannico Ian McGilchrist. Vorrei anche fare un breve riferimento al defunto Julian Jaynes e alle sue teorie sulla rottura della mente bicamerale. Se non avete mai sentito parlare di questi autori, non preoccupatevi: non ho la competenza per discuterne in dettaglio. Voglio solo usare un paio di loro idee come trampolino di lancio per un po’ di teorizzazione personale.

Cominciamo con l’economia. Quando insegnavo economia, molto tempo fa, si riteneva che l’attività economica riguardasse la produzione. Mi è stato insegnato che un uomo d’affari prendeva in prestito denaro o vendeva azioni per raccogliere capitali per costruire una fabbrica, dando così lavoro e soddisfacendo le esigenze dei clienti, e quindi guadagnando profitti. Forse si trattava di una caricatura, ma rifletteva l’assunto generale dell’epoca secondo cui l’attività economica era finalizzata a qualcosa e doveva portare da qualche parte. Ed è certamente vero che la mia giovinezza era piena di storie sulla ricostruzione dopo la guerra, sulla costruzione di nuove case, di autostrade e treni ad alta velocità, sullo sviluppo dell’industria aerospaziale e dei programmi spaziali. Le banche erano luoghi noiosi e rispettabili, e c’era una cosa chiamata Borsa, dove spesso andavano i figli poco dotati dell’alta borghesia.

Ma tutto questo era sostenuto – in molti casi in modo esplicito – da una speranza e da un interesse per il futuro, e dalla convinzione che con l’impegno fosse possibile continuare a creare una società migliore. L’investimento, nel senso delle mie lezioni di economia, era quindi naturale e necessario. Ma quando non si crede più nel futuro, tutto ciò che si può fare è trovare il modo di monetizzare il presente e il passato, il che ha portato alla finanziarizzazione di tutto e all’ascesa dell’industria del patrimonio. E lo sminuzzamento del passato ha i suoi limiti: se ci sono segnali di una tendenza redditizia verso la nostalgia degli anni Novanta, non li ho ancora visti.

Per molti versi, quindi, l’economia di mercato liberale sta mangiando se stessa. Il liberalismo è sempre stato ostile al settore manifatturiero (gli operai in camice marrone) e i sospiri di sollievo del Tesoro negli anni Ottanta, mentre l’industria britannica affondava sotto le onde, erano chiaramente udibili. Ma il processo di decostruzione (di questo si tratta) deve fermarsi da qualche parte, semplicemente perché non ci sarà più nulla da decostruire, nulla da finanziarizzare. Siamo già preziosamente vicini a quel punto, e i due shock di Covid e della guerra in Ucraina hanno fatto capire alla gente che è troppo tardi per fare marcia indietro.

Ma, direte voi, questo è solo un settore, ed è una serie di errori catastrofici e scellerati. Non può essere così dappertutto. Ebbene, prendete l’esempio più lontano che vi viene in mente. Che ne dite della filosofia? Come ho sostenuto altrove, l’esistenzialismo sartriano rappresenta l’ultima scuola filosofica che ha preteso di affrontare questioni serie che interessano la gente comune. I filosofi in senso tradizionale esistono ancora oggi, ma lavorano in aree molto ristrette e tecniche e generalmente scrivono per altri filosofi. In effetti, oggi il filosofo medio scrive su altri filosofi, per altri filosofi e per gli studenti di filosofia che diventeranno filosofi. Concettualmente non è molto diverso dal trading di derivati delle banche.

Inoltre, almeno dai tempi del Circolo di Vienna, le tendenze della filosofia sono state essenzialmente distruttive. L’idea che l’unico argomento proprio della filosofia siano le proposizioni empiricamente verificabili, elimina sostanzialmente tutte le questioni importanti dell’esistenza, che rimangono di interesse per le persone, anche se, come sosteneva Wittgenstein, non sono affatto problemi reali. Ma la sua efficace difesa del misticismo apofatico (“se non possiamo parlarne dovremmo stare zitti”) tralascia piuttosto il fatto che ci sono cose di cui dobbiamo parlare se vogliamo vivere. Il linguaggio ha i suoi limiti, come ha dimostrato Wittgenstein (e se pensate che non sia abbastanza sfumato e complicato leggete Saul Kripke), ma è tutto ciò che abbiamo.

Questo, forse, spiega perché alcune religioni tradizionali persistono e, soprattutto, perché il buddismo, l’Advaita Vedanta, il taoismo e altri sistemi di pensiero orientali suscitano sempre più interesse, poiché affrontano i problemi fondamentali dell’esistenza, della conoscenza e dell’etica in un modo che la filosofia occidentale non pretende più di fare. È interessante e intellettualmente eccitante leggere Foucault e Barthes che decostruiscono il linguaggio, il discorso e il significato, ma credo che sarebbero inorriditi da ciò che le persone che hanno letto cattive traduzioni del loro lavoro hanno fatto negli ultimi quarant’anni. Come nel caso della finanziarizzazione, quando si è decostruito tutto (anche la decostruzione) si scopre che non c’è più nulla di cui parlare, perché non c’è più nulla. È più o meno la stessa cosa con la religione consolidata che, almeno dagli anni Sessanta, evita di parlare di qualcosa di così volgare come la fede. Ricordo ancora il leggero shock che provai nell’imbattermi nel libro del teologo Don Cupitt del 1980, Taking Leave of God, che sostanzialmente sosteneva che avremmo dovuto abbandonare l’idea di un Dio trascendentale e metafisico, per guardare invece dentro di noi. Cupitt finì per diventare qualcosa di simile a un postmodernista: tutto, compreso Dio, era solo linguaggio. Ora c’è una soluzione a tutti i nostri problemi morali ed etici. Non c’è da stupirsi che le persone si siano rivolte alle chiese evangeliche, ai resti della Chiesa cattolica pre-Vaticano II, o addirittura all’Islam. Queste persone vedono la religione come reale, non come un gioco intellettuale derivativo.

La cultura è migliore? Onestamente non credo. Non è che non ci siano novità, nuovi movimenti, incessanti manifesti e richieste di cambiamento, ma a un livello più profondo non è cambiato molto nell’ultimo secolo. Il cinema è stata l’ultima grande invenzione culturale (e no, non credo che i videogiochi possano essere considerati tali). In realtà, i grandi sviluppi culturali delle ultime generazioni hanno comportato essenzialmente un ritorno all’indietro, a qualcosa come la messa in scena originale delle opere di Shakespeare o le opere barocche di Lully. (Il Messiah della mia giovinezza, trasmesso ogni Natale, non ha nulla in comune con le rappresentazioni “d’epoca” che si trovano oggi nei cataloghi). E non riesco a ricordare quante produzioni o adattamenti derivati delle opere di Shakespeare ho visto che si sono proclamati “rilevanti” e “contemporanei” per poi essere dimenticati immediatamente e mai più riproposti. In effetti, Shakespeare è una risorsa inesauribile, ed è per questo che esiste persino un’industria di derivati dedicata a sostenere che le opere non sono state scritte da Will di Stratford ma dalla regina Elisabetta I, o da un comitato presieduto da Francis Bacon. Gran parte della cultura moderna, infatti, è effettivamente parassitaria rispetto alla cultura tradizionale: il nouveau roman francese, ad esempio, sarebbe stato impensabile se non come reazione contro il romanzo tradizionale già esistente.

Si può sostenere, credo, che il vero sviluppo della letteratura si sia in gran parte arrestato nel decennio successivo alla prima guerra mondiale. Di certo, Joyce e Proust avevano portato il romanzo realista tradizionale al limite del possibile e, in The Waste Land, Eliot anticipa molti poeti successivi producendo un poema che è tanto un’antologia con campionamenti quanto un’opera nuova. Il passo logico successivo è quindi Finnegans Wake, in cui Joyce si ritira in una forma d’arte del tutto personale e solipsistica, producendo un testo che forse solo lui ha mai compreso appieno e che, francamente, non merita l’enorme sforzo richiesto per l’infinita decodificazione. Questo non vuol dire, naturalmente, che la grande letteratura innovativa non venisse ancora prodotta (le prime poesie di Auden, dopotutto, furono pubblicate nel 1929), ma quella che noi consideriamo la letteratura “moderna” da un secolo a questa parte ha sempre più utilizzato la letteratura del passato come materia prima. Si obietterà che la letteratura ha sempre guardato alle forme del passato, ma credo che ci sia una differenza tra lavorare all’interno di una tradizione consolidata ed esserne semplicemente parassiti. È interessante che alcune delle opere più innovative della letteratura recente (Salman Rushdie ne è un buon esempio) siano state prodotte da autori con forti influenze esterne al cuore dell’Occidente, proprio come il realismo magico di Marquez e altri.

La natura derivativa della cultura popolare occidentale moderna è diventata essa stessa un cliché, da sfruttare per profitto intellettuale e finanziario. Ma il punto è valido e mi sembra legato alla fine dell’idea di futuro, di cui ha scritto il compianto Mark Fisher. Non c’è nuovo sviluppo, ma solo sfruttamento infinito del passato. Perché investire quando si possono sfruttare le risorse esistenti? Perché sviluppare un suono proprio quando si può semplicemente inventare un suono con riferimenti furbi e consapevoli ai suoni di altri nel passato? Oggi è forse difficile immaginare che la musica popolare possa essere stata innovativa, ma lo è stata. La musica popolare del 1920 era molto diversa da quella del 1940 o del 1960, in parte perché molta musica era ancora dal vivo e quindi in continuo sviluppo. E tra l’inizio degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, la musica popolare ha attraversato un periodo esplosivo di innovazione, per una serie di ragioni sociali e tecnologiche che sarebbe troppo lungo approfondire in questa sede. Di certo, chiunque abbia ascoltato i Beatles o Bob Dylan per la prima volta deve aver avuto la stessa reazione da brivido: che diavolo è? A queste sonorità innovative ne seguirono rapidamente altre: l’elettronica, l’heavy rock, il reggae, il folk revival, il jazz rock, il progressive di qua e di là, e naturalmente un numero spropositato di cantautori. Gran parte di tutto questo era inevitabilmente spazzatura, ma c’era uno zoccolo duro di innovazione sfolgorante che ancora oggi sta dando i suoi frutti per l’industria del campionamento.

Come nel caso della finanza, è stata la tecnologia a permettere alla musica popolare di cannibalizzarsi. Quando i Beatles usarono per la prima volta il campionamento in Sergeant Pepper, fu emozionante e innovativo, ma divenne rapidamente un cliché e un sostituto della vera creatività. I Beatles sono stati anche pionieri nella realizzazione di dischi che non potevano essere riprodotti dal vivo – anche se le canzoni potevano essere cantate – e hanno aperto la strada all’ormai quasi totale abisso tra suono registrato e performance dal vivo. Questo ha avuto l’inevitabile effetto di scoraggiare l’innovazione. E ora vedo che ci minacciano con artisti riportati in vita e che suonano canzoni che non hanno mai registrato, il tutto fatto dalla cosiddetta intelligenza artificiale. Spariremo tutti in ghetti artistici unipersonali, ognuno con una versione diversa dell’album che i Doors avrebbero registrato se Morrison non fosse morto, assemblata secondo i nostri criteri. E voi pensavate che le tribute band fossero un passo indietro…`

Si può fare essenzialmente la stessa critica al cinema, e si può aggiungere che quasi tutti i film popolari al giorno d’oggi sembrano essere per i bambini, che notoriamente non amano l’originalità e vogliono sentirsi raccontare sempre le stesse storie. Il cinema moderno cannibalizza i film e la letteratura del passato a scopo di lucro, non limitandosi a trovare ispirazione diretta con adattamenti e remake, ma succhiando la creatività del passato, senza aggiungere nulla. (Guerre stellari, da cui è iniziato il marciume, era essenzialmente la presentazione incoerente di una mitologia spogliata degli asset e del tipo di serial di fantascienza che proiettavano al cinema ogni settimana quando ero giovane. Non c’era un briciolo di originalità, ed è per questo che i bambini amavano così tanto quelle storie). Naturalmente, il cinema popolare può utilizzare miti e archetipi a proprio vantaggio, se i registi sono abbastanza abili e le storie hanno sufficiente risonanza. Così Incontri ravvicinati del terzo tipo è un’allegoria della nascita, della morte e della resurrezione di Cristo, così come 1917 di Sam Mendes è un’allegoria della sofferenza e della redenzione, ma nessuno dei due è solo una riproposizione di una storia familiare. Forse il cinema è condannato a mangiare se stesso in una spirale infinita di autoreferenzialità e revival. Questo approccio può produrre grande arte (ad esempio, C’era una volta a Hollywood), ma richiede un grande regista per farlo.

Sospetto che anche la battaglia contro l’uso inutile ma redditizio della tecnologia sia stata persa. La storia è nota: i primi utilizzi della CGI in film come Il Gladiatore e Il Signore degli Anelli erano sorprendenti e originali, ma man mano che i computer diventavano capaci di fare tutto, lo spazio per le abilità tradizionali di recitazione, scrittura di scenari e regia iniziava a essere marginalizzato a favore di effetti sempre più grandi. Da tempo sostengo che l’azienda capitalista ideale non avrebbe alcun dipendente. Si limiterebbe a incassare automaticamente i soldi, a ricavare una percentuale per i proprietari e a trasferire il resto. Temo che nel cinema potremmo essere molto vicini a questo, dove la cosiddetta IA sarà, almeno in teoria, in grado di svolgere tutti i ruoli.

Ho già parlato molto di politica qualche settimana fa, ma spero che ne vedrete le implicazioni. I partiti politici sono diventati simili ad aziende private e sono gestiti a beneficio dei loro leader proprio come le aziende sono gestite per i loro azionisti e manager. Non producono nulla, ma pagano dividendi politici sotto forma di posti di lavoro e denaro. I partiti politici non hanno più responsabilità nei confronti degli elettori di quanto non ne abbiano le aziende private nei confronti della società. Concludo quindi questa serie di esempi con i ristoranti. (Riflettendoci, però, cosa c’è di più adatto per una discussione sulla società che mangia se stessa). Di recente, guardando una serie di ristoranti e cercando di sceglierne uno, mi è venuto in mente qualcosa che mi era già capitato: il modo derivativo e dipendente in cui il cibo veniva preparato e descritto. Ora, il vocabolario della cucina francese è spesso molto fiorito e si traduce male in inglese. Ma mi ha colpito ancora una volta come molti piatti e stili di cucina siano stati “rivisitati”, “ripensati” o addirittura “ri-guardati” (sì, temo che esista un verbo francese relooker). Tutto, in altre parole, deriva dal passato, anche quando viene presentato come nuovo, e persino i ristoranti tradizionali vengono presentati come un “ritorno” al passato. L’innovazione vera e propria è fuori discussione: la Nouvelle cuisine risale agli anni ’70, dopotutto. E cos’è la “cucina fusion” se non un tentativo postmodernista di mescolare i generi e un’analogia con una fusione sfortunata tra aziende diverse con culture diverse?

Beh, basta con la cucina. Ma se quanto ho esposto sopra è ampiamente convincente, come dare un senso a tutto questo? Come ho indicato, cercherò di farlo facendo riferimento a un paio di libri e dando un’occhiata a un terzo, e amplierò le loro argomentazioni per suggerire che sono rilevanti per una società che sta impazzendo a causa dell’estrapolazione meccanica della razionalità, generando processi che non hanno un interruttore di spegnimento.

Il primo scrittore è il pensatore tedesco, poi svizzero, Jean Gebser, che fino a poco tempo fa era poco conosciuto nel mondo anglosassone. La sua unica opera, Ursprung und Gegenwart (1949), finalmente tradotta come L’origine sempre presente, è una discussione magistrale sullo sviluppo della coscienza umana attraverso diverse fasi: l’arcaica, la magica, la mitica, la mentale-razionale e (in futuro) l’integrale. Gebser sosteneva che stavamo vivendo nella fase “mentale”, dominata dalla logica, dalla parola scritta, da un concetto lineare del tempo e da una chiara distinzione tra l’io individuale e il mondo esterno. Egli riteneva che quest’epoca fosse iniziata intorno al 1225 a.C. e che ora stessimo vivendo nella sua fase finale, quella che egli chiamava la fase “deficitaria”, quando i progressi e i vantaggi di questo modo di pensare si erano esauriti e cominciavano a prevalere i problemi e gli svantaggi. Queste fasi non sono assolutamente distinte l’una dall’altra e si fondono l’una nell’altra nel corso del tempo, raggiungendo la maturità in momenti come il Rinascimento, per poi iniziare il declino. Gebser riteneva che “noi” (intendeva l’Occidente, e questo è importante) stessimo probabilmente andando incontro a una sorta di catastrofe, a meno che non riuscissimo in qualche modo a passare a uno stadio finale, “integrale”, in cui le intuizioni e le virtù delle diverse fasi potessero essere combinate.

Il secondo è Iain McGilchrist, psichiatra e filosofo, noto soprattutto per il suo poderoso volume The Master and his Emissary (Il Maestro e il suo Emissario) e autore di un seguito ancora più poderoso, che devo confessare di non aver ancora letto. Il sottotitolo è “Il cervello diviso e la formazione del mondo occidentale” e McGilchrist ripercorre con affascinanti dettagli la costante ascesa del cervello sinistro al predominio su quello destro. Si preoccupa di non semplificare eccessivamente l’argomento, utilizzando le ultime scoperte della psicologia sul rapporto tra gli emisferi. Ma la sua tesi di fondo è che, comunque, l’emisfero sinistro, sviluppatosi come “emissario” del destro, negli ultimi tempi è arrivato a usurparne il ruolo. Il cervello destro vede il quadro generale e il cervello sinistro si occupa del lavoro dettagliato. In gran parte della storia umana, sostiene McGilchrist, c’è stata una proficua cooperazione mista a tensione tra i due emisferi, ma a partire dalla Rivoluzione industriale, e più in particolare nell’ultimo secolo, l’emisfero sinistro è arrivato a dominare. Il risultato è la frammentazione: tutti i dettagli e nessuna visione, tutti i processi e le procedure ma nessun contesto, tutte le regole ma nessuno scopo. Tuttavia, McGilchrist rimane ottimista sulla possibilità di ritrovare una combinazione fruttuosa.

È evidente che i due autori stavano pensando in modo simile (anche se McGilchrist non dà alcun segno di conoscere il libro di Gebser). Entrambi individuano i problemi dell’eccessivo affidamento alla razionalità priva di contesto ed entrambi credono che qualcosa sia andato storto nel modo in cui guardiamo il mondo. E per completare l’elenco, mi limiterò a citare Julian Jaynes, la cui opera solitaria, altrettanto ambiziosa, The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind (L’origine della coscienza nella rottura della mente bicamerale) sostiene ciò che il titolo suggerisce: la coscienza, così come la intendiamo noi, è un’invenzione recente (non si trova in Omero, per esempio) e le voci degli dei che i nostri antenati sentivano in realtà provenivano dalla loro stessa mente, i cui emisferi funzionavano in modo completamente indipendente l’uno dall’altro. L’invenzione della logica, o addirittura del pensiero razionale di qualsiasi tipo, è quindi uno sviluppo recente”.

Non cercherò di riassumere ulteriormente perché non c’è spazio. Vi invito solo a leggere i libri che ho citato, che sono i più noti, ma non gli unici utili sull’argomento. Ma cosa ne facciamo di queste idee? È banalmente vero che i nostri antenati non erano come noi e che più si va indietro nella storia più questo è vero. In un certo senso il problema è mascherato da quello che ho chiamato cronicismo, la tendenza a guardare il passato con occhi contemporanei, a dare un voto su dieci a chi sembra assomigliare a noi e a concentrarsi su quelle parti del passato che possiamo comprendere. Ma se siamo seri, ci rendiamo conto che le visioni del mondo, del nostro posto in esso e delle relazioni tra gli individui, sono cambiate in modo incomprensibile nel corso dei millenni. La lettura del Timeo di Platone, ad esempio, non come opera letteraria o filosofica, ma come resoconto pragmatico della creazione del mondo e degli esseri umani, ci fa girare la testa. Pianeti e stelle come esseri viventi? Quattro elementi, tutti formati da triangoli? L’acqua compressa in pietra?

Sembra quindi del tutto possibile che, con la crescente complessità della vita individuale e collettiva, la coscienza umana abbia effettivamente iniziato a cambiare, e che questo cambiamento sia stato fortemente accentuato dall’Illuminismo e dallo sviluppo del capitalismo, portando al trionfo di quella che Gebser ha definito la fase “mentale-razionale” della coscienza. Questo può essere associato a una crescente dominanza del cervello sinistro e allo sviluppo della coscienza individuale, ma non c’è spazio qui per discutere il rapporto tra le varie tesi. Consideriamo comunque il suggerimento di Gebser, secondo cui la società occidentale sta andando incontro a un crollo catastrofico. Dalla sua morte, avvenuta nel 1973, questo tipo di pensiero è passato dai margini al mainstream e molte persone ora temono proprio questo, ma perché? Ricordiamo che non stiamo parlando direttamente del cambiamento climatico o dell’Ucraina, ma del cambiamento delle abitudini di pensiero. Perché dovrebbero provocare una catastrofe?

Torniamo all’inizio di questo saggio, dove ho esposto la tesi secondo cui la nostra società, in tutti i suoi aspetti, ruota ormai intorno a versioni del concetto di derivato e ha esaurito la sua capacità di fare cose nuove. In linea di massima, possiamo dire che il pensiero razionale, o cervello sinistro, si occupa dei dettagli, mentre il cervello destro, o pensiero mitico, si occupa del quadro generale. L’uno crede che raccogliendo tanti piccoli pezzi si possa arrivare a una verità più grande, l’altro che si possa partire da una verità più grande e scendere verso il basso. Non c’è dubbio pragmatico che la seconda alternativa sia più efficace. Il pensiero sinistro produce regole dettagliate e le aggiunge, mentre il pensiero destro produce linee guida generali. Entrambi sono necessari, naturalmente, ma credo che possiamo dimostrare che il pensiero razionale/sinistro ci è sfuggito di mano. Consideriamo alcuni esempi.

Un aspetto del pensiero razionale/sinistro è l’applicazione insensata di regole, poiché il cervello sinistro non è in grado di esprimere giudizi qualitativi e quindi non sa quando fermarsi. Se le vostre istruzioni sono di massimizzare il valore dell’azienda per gli azionisti e i proprietari, alla fine smetterete di investire e inizierete a cannibalizzare i vostri beni e le vostre persone. Potreste rendervi conto che questo è un suicidio a lungo termine, ma il cervello sinistro, come è noto, non ha il concetto di tempo: continua ad andare avanti. Se i derivati sono redditizi, perché non provare i derivati dei derivati, e i derivati dei derivati dei derivati, e così via all’infinito? Se tutto può essere decostruito, anche il decostruzionismo, che senso ha la decostruzione stessa? Perché scomodarsi a scrivere? Se Actors in Funny Costumes 4 è stato un successo, perché non fare le parti 5, 6, 7 8 e così via per sempre? L’insegnamento universitario, e in generale la conoscenza e la ricerca, non seguono le regole del cervello sinistro. Perciò le università reagiscono cercando di imporre loro le regole del cervello sinistro – citazioni, valutazioni, impatto della ricerca, ecc.

Questo tipo di pensiero apprezza la novità superficiale come liberazione dalla noia, ma non è in grado di produrre nuove idee: si rivolge quindi ai derivati di quelle esistenti. Reagisce alle battute d’arresto rifacendo la stessa cosa, ma in misura maggiore. Il suo motto quando le cose vanno male è “fallo ancora”: non si chiede mai se dovrebbe fare qualcos’altro. Aggiunge controlli, sorveglianza, strati di supervisione e gestione, perché non riesce a concepire un quadro generale. È sempre la prossima riorganizzazione, il prossimo livello di supervisione, a risolvere il problema. E quello successivo e quello successivo ancora. Per esempio, la corruzione, di cui ho scritto di recente, viene affrontata producendo sempre più regolamenti e sempre più strati di controllo e supervisione. La soluzione vera e propria, una cultura dell’onestà, non può essere misurata e riportata, ed esiste solo come concetto generale del cervello destro.

Questo ci ricorda, forse, che l’approccio razionale del cervello sinistro è intrinsecamente sospettoso, persino paranoico, perché non riesce a fare il salto per vedere il quadro generale. Per questo motivo, oggi le organizzazioni spiano i loro dipendenti e cercano disperatamente di far rispettare regole sempre più severe. Ma è stato sostenuto da scrittori come Lous Sass che la cultura moderna è in effetti vicina alla schizofrenia, non nel senso popolare di sdoppiamento della personalità, ma piuttosto l’incapacità di integrare le cose e gli eventi e di comprenderne la relazione, e un rapporto sospettoso e ostile con la vita e con gli altri.

Credo che lo si possa vedere nella cultura politica di oggi, che è irrimediabilmente derivativa: la realtà non conta, si tratta solo dell’ultimo tweet, di apparire bene nei notiziari televisivi e di godere di una breve spinta nei sondaggi d’opinione. Il nostro sistema politico è come uno schizofrenico, che non riesce a relazionarsi correttamente con la vita reale e cerca di ritirarsi da essa. Purtroppo, i leader politici hanno responsabilità reali e la realtà non può essere tenuta a bada con le droghe. Il che ci porta, inevitabilmente, suppongo, all’Ucraina.

Alla domanda “i nostri leader sono impazziti?” che viene posta ripetutamente in questi giorni, la risposta è “sì, sono impazziti”. O più precisamente, operano in una cultura politica che è diventata essa stessa folle. In particolare, non c’è la capacità di vedere il quadro generale, e nemmeno l’interesse per esso. Se ci pensate, fino a poco tempo fa la politica si basava principalmente su storie in competizione, quelle che Gebser chiamerebbe “miti” nel senso neutro del termine. Per la destra era il mito di preservare gli aspetti migliori del presente e di guardare al passato. Per la sinistra era il mito della conservazione degli aspetti migliori del presente e dell’orientamento verso il futuro. La fine dell’ideologia è anche la fine dell’approccio mitico e destro alla politica e il trionfo del cervello sinistro, della ricerca razionale e tecnocratica del semplice potere. E rappresenta anche il trionfo dell'”io” sul “noi”, poiché perdiamo di vista il quadro generale e persino gli interessi degli altri.

Il comportamento dei leader occidentali e soprattutto europei durante la crisi è esattamente quello che ci aspetteremmo da questo tipo di cultura politica. In particolare, vi è una totale incapacità di mettere in relazione i vari elementi e le conseguenze tra loro. Quindi, a un certo livello, i politici occidentali devono capire che il gioco è finito e che presto dovranno fare i conti con una Russia forte e arrabbiata. Ma questo coesiste con la convinzione che in qualche modo l’Occidente vincerà, se solo continuiamo a fare le stesse cose, basandosi in gran parte sul pensiero derivativo: sicuramente tutti quegli esperti e tutti i leader nazionali che incontro non possono sbagliarsi? La loro mancanza di conoscenze effettive su qualsiasi cosa, comprese le banalità come le forniture energetiche, le catene di approvvigionamento globali, la produzione e l’approvvigionamento militare e, se vogliamo, la guerra stessa, fa sì che il “dibattito” stesso si svolga a livello derivativo, su chi ha detto cosa quando e se era abbastanza antirusso. Se il sistema politico sia effettivamente in grado di accettare la realtà, e cosa succederà se non ci riuscirà, sono cose su cui dobbiamo iniziare a riflettere ora.

Ironia della sorte, i critici della guerra e di avventure simili cadono negli stessi errori, nel disperato tentativo di imporre un’interpretazione razionale e di sinistra a qualcosa che è un pasticcio incoerente causato da un sistema politico impazzito. Una volta abbandonato il tentativo di interpretare il comportamento dei leader occidentali come se fosse basato sulla razionalità, non è più necessario costruire elaborati e complessi piani regolatori perseguiti per decenni, nel tentativo di imporre agli eventi un’unità che non possiedono. Né abbiamo bisogno di imitare il comportamento degli schizofrenici, per i quali ci sono significati nascosti e minacce ovunque.

Tutto questo suona piuttosto deprimente, ed è vero che non esiste un modo immediatamente evidente per tornare a un approccio più sano. Ma sia Gebser che McGilchrist sostengono che esiste almeno la possibilità di una nuova sintesi e di una proficua collaborazione tra diversi modi di coscienza o diversi lati del cervello, come avveniva in passato. Dopotutto, abbiamo bisogno della modalità mentale/razionale e del cervello sinistro, che devono solo rimanere sotto controllo. Verso la fine della sua vita, Gebser trovò conforto nei fiorenti movimenti di spiritualità alternativa e nel crescente interesse per il misticismo orientale. Gran parte di questo, ovviamente, è degenerato in un’attività derivativa per fare soldi, ma basta dare un’occhiata alle librerie, ai canali Youtube e ai podcast per vedere una popolazione occidentale inquieta, vagamente consapevole che qualcosa non va e che cerca di andare oltre i tentativi di ottimizzazione personale guidati dall’ego. Al di là delle sciocchezze dei costosi corsi di yoga online e delle lezioni di mindfulness per i trader obbligazionari, credo che negli ultimi cinquant’anni ci sia stato un graduale allontanamento dall’eccessiva concentrazione sull’egoismo razionale del cervello sinistro che, ammettiamolo, non ha fatto molto bene a molte persone, anche se ha portato benefici a una piccola minoranza. Concludo con due possibilità che mi danno un po’ di speranza, anche se la prima potrebbe non sembrare immediatamente molto promettente.

La mentalità razionale del cervello sinistro non è in grado di affrontare i cambiamenti fondamentali, quasi per definizione, perché si occupa di processi e non di contenuti, quindi quando i contenuti cambiano si perde. Questo è il motivo per cui i governi e le forze armate tendono a cambiare il personale quando iniziano le guerre, per esempio. Penso che sia abbastanza probabile che una combinazione di effetti collaterali dell’Ucraina, del cambiamento climatico e della continuazione di Covid o di un suo parente stretto, avrà un effetto cumulativamente traumatico sulle classi politiche e mediatiche. Non impareranno nulla, perché non possono, ma se vogliamo che le nostre società sopravvivano, i nostri attuali governanti dovranno andarsene. Non credo che ci saranno forconi per le strade (anche se non si sa mai), ma credo che assisteremo a qualcosa di simile a un esaurimento nervoso o a un episodio psicotico da parte della nostra classe dirigente, che si lamenterà che non posso farlo! E’ troppo difficile! Sospetto che assisteremo a una forte ri-nazionalizzazione delle economie, a una ri-localizzazione degli sforzi e a un maggior numero di organizzazioni basate sulle comunità (ve le ricordate?), se non altro perché l’alternativa è troppo orribile da contemplare.

In secondo luogo, l’aumento della posizione e dell’influenza culturale di Cina e India, e forse anche della Russia, costringerà l’Occidente a prendere sul serio società che non si basano sul perseguimento razionale dei desideri egoistici del cervello sinistro, ma hanno una coesione sociale e un’etica collettiva molto maggiori. In passato, l’Occidente ha potuto adottare un atteggiamento à la carte nei confronti della cultura asiatica (i manga e lo zen giapponesi, per esempio) e ignorare ciò che non trovava attraente o non poteva essere commercializzato. Ma a un certo punto ci si renderà conto che queste culture hanno punti di forza che noi non abbiamo e ci si chiederà se non ci siano idee da trasferire.

L’idea fondamentale, che noi avevamo ma che abbiamo perso, è il radicamento nella società, nella storia e nella cultura, e la conseguente capacità di comprendere ciò che l’altro sta dicendo. Se avete lavorato professionalmente in Asia, sarete rimasti colpiti dal modo in cui le persone si presentano e da quello che dicono i loro biglietti da visita. Un uomo d’affari occidentale potrebbe presentarsi dicendo: “Sono Darth J Vader, Chief Engulfment Officer della Megagreed Corporation”. Ma un uomo d’affari giapponese potrebbe dire qualcosa che si potrebbe tradurre come “Il Vice Direttore Generale Saito della Honshu Bank di Tokyo Ginza Branch è (qui)”. La seconda non solo è meno egoistica, ma è anche molto più utile e informativa, perché permette all’interlocutore di collocarsi immediatamente rispetto a voi. Naturalmente la nostra società non sarà mai come il Giappone e la Cina (il che può essere un bene), ma se vogliamo sopravvivere, dovremo prendere in considerazione la possibilità di far rivivere alcune idee e atteggiamenti del passato che erano più vicini al modo in cui funzionano queste società (e molte altre). Altrimenti temo che impazziremo tutti.

Questi saggi sono gratuiti e intendo mantenerli tali, anche se più avanti nel corso dell’anno introdurrò un sistema per cui le persone possono effettuare piccoli pagamenti, se lo desiderano. Ma ci sono anche altri modi per dimostrare il proprio apprezzamento. I “Mi piace” sono lusinghieri, ma mi aiutano anche a valutare quali argomenti interessano di più alle persone. Le condivisioni sono molto utili per portare nuovi lettori, ed è particolarmente utile se segnalate i post che ritenete meritevoli su altri siti che visitate o a cui contribuite, perché anche questo può portare nuovi lettori. E grazie per tutti i commenti molto interessanti: continuate a seguirli!

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INVECCHIARE MALE, di Pierluigi Fagan

INVECCHIARE MALE. La chart mostra lo sviluppo progressivo della Shanghai Cooperation Organization, nata nel 2001, l’anno dell’entrata nel WTO della Cina e del 11/9. Originariamente fondata da Cina, Russia ed i quattro “-stan” centroasiatici, ha poi aggiunto India e Pakistan tra i membri, più una periferia a gironi. Ci sono Stati in procedura di cooptazione (Iran e Bielorussia), osservatori (Mongolia, Afghanistan) e partner di dialogo (oggi ben 14 tra cui Turchia, Egitto, quasi tutto il Medio Oriente). Al momento, rimane fuori il vivace sud est asiatico (ASEAN), ma non cedo rimarrà tale a lungo per ragioni di logica materiale.
L’Asia, complessivamente, conta oggi il 60% della popolazione mondiale, quasi il 50% del Pil mondiale, per circa 50 Stati. Sono, in media, Stati grandi e massivi, tant’è che in numero sono praticamente pari a quelli europei (49 a 45), con la differenza che l’Asia conta 4,5 miliardi di persone mentre l’Europa ne conta solo 750 milioni, ma ci sono vari modi contare (ad esempio in queste cifre la Russia è contata come europea perché fino ad oggi in geografia così s’è ritenuto di fare, ma si può dubitare così si continuerà a fare).
Questa la statica. La dinamica mostra un futuro incremento di popolazione per l’Asia ed un ancor più pronunciato incremento della percentuale di Pil mondiale, consenso unanime di tutti gli analisti. Eccetto il Giappone, tutti gli stati asiatici hanno adottato le forme dell’economia moderna (tecnoscienza-mercato-capitale), solo dal dopoguerra e progressivamente rispetto anche allo sviluppo del lento processo di de-colonizzazione. La Cina, ad esempio, s’incammina lungo i percorsi di economia moderna solo da fine anni ’70, l’India anche dopo.
Quest’ultimo punto va meglio spiegato. Lo sviluppo portato dall’utilizzo dei principi di economia moderna è una curva. Poiché è fatto storico relativamente recente (XIX secolo, in Europa e Stati Uniti), nessuno ha mai chiarito se tale curva che indubbiamente mostra una linea ascensionale più o meno pronunciata, arriva poi ad un tetto, lì rimane un po’ e poi tende a calare o come i più implicitamente pensano, scambiando la logica della fisica con quella metafisica, cresce all’infinito. Purtroppo, questo argomento è viziato dalle ideologie e l’economia è oggi il campo preferito delle ideologie che si sono dichiarate morte in politica, per altro assai prematuramente. Nei fatti, i fatti si misurano in dati (numero-peso-misura), la crescita delle principali economie moderne (o capitalistiche o OCSE o peggio ancora G7), negli ultimi cinquanta anni, tende a flettere in intensità, a volte in assoluto. Sembrerebbe quindi che, come logica delle curve logistiche impone, quello dell’economia moderna sia un ciclo che per lunga fase iniziale sviluppa, poi si ferma, poi tende a sgonfiarsi. Si può discutere se si possa allungare come e quanto il raggiunto livello del momento ottimale, ma pare che l’idea di una crescita e sviluppo infinito è inconsistente, come ben sanno i fisici che quando trovano “infiniti” nelle equazioni, sanno che stanno sbagliando qualcosa.
Tutto ciò non ha solo direttamente a che fare con le obiezioni sulla crescita infinita fatte già negli anni ’50 da un economista della complessità (Kenneth Boulding) e ripetute poi da decrescisti armati di Secondo principio della termodinamica. Ha a che fare col “sottostante” dell’economia, del ciò che compone il fare economico. L’economia produce beni e servizi, ma la quantità di beni e servizi utili o quasi utili o superflui ma piacevoli, fino ai superflui insensati come la televisione 3D o i monopattini elettrici, è comunque tendente alla saturazione, ad un limite. Si dirà: ma il desiderio umano è un motore infinito, già, ma forse la sua conversione in prodotti e servizi che promettono di soddisfarlo (in realtà non soddisfacendolo mai altrimenti il sistema collassa), no. A dire che se prendete in storia sociale dell’economia l’Europa dell’inizio del XIX secolo, scorrete fast-forward il film, vedrete spuntare edifici, palazzi, strade, fogne, ferrovie, porti, aeroporti, macchine, moto, televisioni, radio, computer, ogni altro ben di dio materiale e molti servizi connessi poi -ad un certo punto- vi accorgerete che c’è già più di tutto e non si vede cos’altro manchi per trainare la curva in su. Non che non ci sia più nulla da inventare o produrre, certamente si può fare ancora molto ad esempio in termini di economia pubblica piuttosto che privata, ma quando andrete a fare i conti, non troverete più le vivaci condizioni di possibilità che c’erano nella fase ascensionale della curva. Tutto ciò lo stiamo scoprendo, a fatica, ora, poiché è la prima volta nella storia che si presenta il fenomeno dell’economia moderna. Quasi tutti, liberali non meno che keynesiani ovvero teorici interni il campo “economia moderna”, danno per scontata l’infinità della curva prodotta dall’utilizzo dei principi e delle forme di economia moderna. Ne consegue la loro difficoltà esistenziale ad ammettere che la curva non è infinta e quando comincia a flettere occorrerebbe ripensare non solo le forme dell’economia in generale, ma il suo ruolo nell’ordinamento delle nostre società.
Quest’ultimo punto però porterebbe a dover la lasciar il campo ai teorici socio-politici e questo per un economista non si dà. O quantomeno ad un fertile dialogo multidisciplinare per capire “quanto” si deve lavorare (lavoriamo più o meno secondo gli standard fissato nella convenzione internazionale del 1919, pensate un po’ quanto è assurdo il mondo), chi e come, con quale reddito, con quali servizi pubblici, dedicando a cosa il restante tempo etc. La questione non è solo tecnica ovvio, è l’ordine complessivo della società e dei poteri che finirebbe con l’essere trasformato, da cui una certa resistenza ad accettare la realtà.
Tutta questa lunga digressione, per sottolineare come l’Asia sia complessivamente nella fase iniziale della curva di sviluppo, noi nella fase terminale. Loro con sotto 4,5 miliardi di produttori-consumatori giovani che hanno spesso ancora bisogno dei fondamentali, noi con 0,7 miliardi di tendenzialmente anziani, sempre meno produttivi, annegati nel superfluo ma anche meno consumanti visto che le aspettative passano dalla spider ai pannoloni.
Tutto ciò in novelle condizioni perigliose quanto ad ambiente, ecologie e clima ovvero stato del tavolo di gioco.
Tutto ciò è un problema? Non lo so, so che è un fatto ed a ogni fatto dello stato del mondo in cui viviamo, ci si dovrebbe adattare. Come ci adattiamo? Revochiamo la globalizzazione per impedire che la loro crescita ci superi, li trattiamo come paria perché non sono bianchi, profumati e democratici, eleviamo sanzioni per correggere la loro endemica tendenza al dispotismo asiatico, aumentiamo la spesa in armi, espandiamo le nostre alleanze militari e riempiamo le nostre popolazioni di cazzate emesse a banda larga 24/7. Così, a naso, non mi pare una grande strategia.
A poker, non so se l’espressione è valida in tutta Italia, si dice “piatto ricco mi ci ficco” a dire che quando il piatto promette vincite consistenti, varrebbe la pena di rischiare e stare al gioco. Noi che siamo nella curva flettente, sia dell’esistenza che dello sviluppo economico che, forse, della nostra stessa civiltà, invece di partecipare allo sviluppo asiatico, alziamo muti, barriere, emaniamo fatwe, ostracizziamo, ci armiamo. Invecchiamo male, acidi, rancorosi, ottusi.
Di solito, in Storia, va sempre così e nonostante ciò -credo di non spoilerare nulla di inaspettato-, di solito finisce molto male. Regoliamoci.
PEACE WITHOUT LOVE. [Post lungo]. Come esseri umani siamo un amalgama di razionalità e sentimento. E’ culturale la divisione che facciamo tra i due modi di essere che condividiamo come umani. Significa che facciamo questa divisione in descrizione, più o meno accentuata e problematica, ma tale distinzione in natura non c’è affatto.
Nulla più che la politica e di conseguenza la geopolitica (ed altri casi tribali come il calcio), eccita entrambi i modi umani. Tuttavia, ci sono buone ragioni per suggerirci di tenere a bada questa commistione o meglio, la sua parte emotiva.
In effetti, se la politica è il trovare il modo di convivenza entro un popolo, la geopolitica potrebbe essere il trovare il modo di convivenza tra i popoli. A livello epistemologico non è esattamente così, geopolitica va sovrapposta ad un’altra disciplina, le Relazioni Internazionali e forse anche altre più normative, per ampliare il suo statuto da descrittivo a prescrittivo. Tuttavia, regge l’idea che come la politica cerca di trasformare conflitti e caos potenziale in un regolamento per le relazioni interne, “geopolitica” -nel senso più ampio datole- dovrebbe cercare di trovare il modo di gestire conflitto e caos potenziale nelle relazioni esterne.
Messa così, che sia politica interna o politica estera, le discipline che studiano le relazioni interne esterne delle poleis (gli Stati), dovrebbero essere razionali e governare l’emotività intrinseca che ci connota e che viene eccitata quando abbiamo a che fare con “l’Altro”.
Da quando siamo finiti a vivere assieme agli estranei, agli albori della civiltà cinque-seimila anni fa circa, s’è posto questo problema del trovare ordine interno ed esterno, problema che prima non c’era. Prima non c’era questo problema quanto agli ordini interni perché i gruppi umani, la vita associata, era basata su longeve interrelazioni tra persone che si conoscevano bene, figli e figlie di altri che si conoscevano bene. Questo “conoscersi” significava -di minima- sapere cosa aspettarsi dall’altro, se non avere un congruo set di comuni valori, mentalità, tradizioni unificanti. Ordine, insomma, in senso ampio. Non così nell’andare a vivere con “estranei” quindi “diversi” come accadde quando sorsero le prime città con decine di migliaia di reciproci estranei.
Quanto alle relazioni esterne, prima della civiltà e per lo più, c’era abbastanza spazio che divideva i gruppi umani, non troppo e quindi favorevole all’interrelazione e scambio (idee, persone, cose), non troppo poco da farli urtare l’un con l’altro. In più, il rapporto tra dotazioni di sussistenza dei territori ed esigenze dei gruppi umani e soprattutto loro dimensione, era ben bilanciato e quindi non c’era il conflitto per lo “spazio vitale”.
L’avvento della “civiltà” che non fu una condizione piovuta da non si sa dove, ma il compimento di una serie di traiettorie soprattutto demografiche ed ecologiche (che nulla avevano a che fare con l’invenzione dell’agricoltura che risale a millenni prima dell’avvento della civiltà), ci mise però in altra condizione. Appunto, trovare regolamenti di convivenza interni ai gruppi umani ed esterni tra gruppi umani. I gruppi non si auto-organizzavano più per eccesso di complessità. Per cinquemila anni, questi due regolamenti dell’interno e dell’esterno, prevalentemente, sono stati forme interne di stretta gerarchia, con un piccolo gruppo di maschi anziani di potere a capo e per lo più la guerra tra gruppi umani, intervallata da periodi di relazioni pacifiche a base di scambi di idee, persone e cose per l’esterno.
La guerra, nonostante gli sforzi di certi “scienziati” bio-sociali anglosassoni che dominano la formazione della nostra immagine di mondo, gente capace di scriverti un libro sul “gene delle guerra” o tirar fuori improbabili teorie sull’aggressività primate trasferita a noi, non è un istinto umano, anche perché mette a rischio la vita e tutta la nostra complessione raffinata in più di tre milioni di evoluzione e cambiamenti, è fatta per evitare la morte il più a lungo possibile. E’ fatta anche di continuo affinamento della capacità di gestire gli istinti, per altro. Da cui la razionalità.
Non solo siamo emotivamente avversi a correre rischi di morte, ma dotati di razionalità, dovremmo esserlo anche sul piano della consapevolezza cosciente. L’aggressività animale a livello inter-individuale, che senz’altro c’è, non porta di per sé all’aggressività di gruppo se non sollecitata intenzionalmente. Tant’è che il registro etno-antropologico è pieno di casi di conflitto tra gruppi simulato, non veramente agito, senza vero spargimento di sangue. Se non mediazioni a base di scambi fino all’andare a vivere da un’altra parte. Negli studi storici, poi, si può apprezzare la sofisticata fantasia narrativa con cui i vari gruppi di potere hanno convinto o costretto i propri giovani ad andar a morire per motivi spesso assai bizzarri.
Tuttavia, l’estrema primitività del nostro grado di civiltà (si ricordi che il genere homo ha tre milioni di anni, il sapiens trecentomila, la “civiltà” solo cinquemila, lo 0,16% del tempo totale) è ancora basata sul fatto che le oligarchie che dominano l’ordine delle nostre società, tali sono per via di sistemi di ordine interno che richiede spesso il dominio esterno, il che porta a conflitto. Il fenomeno non si forma per libera decisione razionale a livello di popolazioni, è formato per via emotiva, l’odio per l’Altro diretto dall’alto.
Molti storici della mentalità hanno osservato sbigottiti la repentina trasformazione di pacifici idraulici e ragionieri europei in quel dei primi del Novecento, in esagitati e schiumanti belve pronte all’assalto con la baionetta. Ancora ci si domanda come sia potuto avvenire nel cuore della “civiltà europea”, Francia, Germania ed altri.
Alcuni che non hanno le idee molto chiare, i “pacifisti” in genere, sono per principio contro la guerra e quindi il conflitto esterno, ma ne deducono improvvidamente la necessità di amare l’Altro. In genere, solo gli stessi che dicono di amare l’Altro che viene occasionalmente a vivere con loro, lo “straniero” o il “migrante”. Meglio senz’altro delle élite conflittuali, non c’è dubbio, ma temo che tali atteggiamenti non aiutino a risolvere il problema della “convivenza con gli estranei”.
In Svezia hanno “amato” democraticamente l’Altro migrato da loro, fino a che questi non hanno raggiunto una massa critica, si sono determinati in enclave culturalmente diversa, creando attriti e potenzialità di conflitto interno. Capita così che la media della popolazione cominci a soffrire di mille piccoli attriti di convivenza con estranei, arriva un partito post-fascista che dice loro “avete ragione! Ora mettiamo ordine, con le buone o con le cattive!” e dopo decenni di serena social-democrazia, vince le elezioni. Che poi, ironia della sorte storica, questo evento di politica interna, è sincronico ad uno di politica estera ovvero la rinuncia allo stato di neutralità che la Svezia ha coltivato per ben due secoli, a partire dalle guerre napoleoniche. Paura, politica della paura, usata da politici diversi, per intenti diversi.
Fare politica o geopolitica coi sentimenti non è buona guida. Con la razionalità, invece, si possono ottenere risultati molto migliori come quelli che ottenne Kissinger che portò il suo presidente, un ultra conservatore americano, a Beijing a stringere la mano a Mao Zedong, pur di dividere la comunista Cina dalla comunista Unione Sovietica che preoccupava gli americani ben di più, impensabile oggi.
Così anche nei problemi di convivenza interna non c’è da amare o da odiare l’Altro, c’è solo da provare e riprovare a trovare una forma di utile convivenza gestita, gestita come lo scopriremo provando e riprovando formule varie. Formule non semplici e naturali, c’è da saperlo senza scandalizzarsi ed accendere l’emotività, farla facile o farsi prender dalla scoramento. Quanti stranieri, di che tipo, in quale congiuntura economica, studiando spesso questioni culturali che i più ignorano, come ad esempio non far finanziare le moschee da sauditi e qatarioti (centri di reclutamento al Qaida e Isis nel primo caso, Fratelli musulmani nel secondo). Se si decidesse di ospitare musulmani sarebbe meglio finanziarle noi le moschee, magari a prestito pluridecennale, il 98% dell’islam non è affatto salafita, basta andare in Oriente per notarlo. Con-vivenza non è né assimilazione, né ostracismo, è lenta e paziente mediazione razionale.
Tutto ciò a seguito della lettura di alcuni commenti sul mio ultimo post a sua volta ripostato da alcuni di Voi sulla propria pagina. Ho letto di gente che pensava esser l’autore del post un amico di Putin o Lukashenka o Xi Jinping o Bin Laden o forse il diavolo in persona, probabilmente anche un po’ razzista e xenofobo con venature orbaniane e criptofasciste, il che per un democratico radicale è ben curiosa misinterpretazione.
La misinterpretazione non credo sia colpa di ciò che scrivo, ma di ciò che molti si sono fatti ficcare in testa. C’è una crescita di sentimenti di odio, interni alla comunità e sincronicamente esterni. Sulla stampa di oggi si trova: a Samarcanda si riunisce il club dei dittatori che vogliono distruggere l’Occidente, il Sauron di Mosca è avido del nostro sangue, Il subdolo cinese ci vuole irretire coi suoi involtini primavera ma poi tirerà fuori la scimitarra per far volar le nostre teste democratiche (dopo aver invaso Taiwan), ci sono addirittura gli iraniani! Se non li odi allora vuol dire che li ami! Principio di non contraddizione applicato a vanvera.
Ricordate, la storia mostra che ogni volta un ordine interno sta per crollare, si irrigidisce internamente (l’Inquisizione non è un fenomeno del pieno Medioevo, solo della sua lunga fine) ed esternamente, il che porta alla guerra.
Per i livelli tecnologici applicati alle armi che abbiamo raggiunto, questa volta la guerra sarebbe da evitare in ogni modo. C’è da trovare il come, non facile. Ma impossibile se non stiamo attenti a sospendere i sentimenti di odio e di amore per l’Altro e non trattiamo la faccenda in modo razionale.
[Non sono sicuro esista davvero in Senegal questo proverbio, ma dovevo mettere una immagine ed è trovato questa che mi sembrava ben precisa rispetto al post]

Anthony M. Esolen, Sex and the unreal city. La demolizione del pensiero occidentale, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Anthony M. Esolen, Sex and the unreal city. La demolizione del pensiero occidentale, Il Timone, Milano 2021, pp. 233, € 22,00.

Come scrive l’autore “ora, in questa nostra epoca così apparentemente illuminata, abbiamo dichiarato che restare ancorati alla realtà sia una cosa da condannare. Perciò non abbiamo semplicemente finito col credere in alcune falsità”, ma alla falsità, compreso il non essere, inteso al minimo come ciò che non esiste, anzi ciò che ragionevolmente non può esistere. La diffusione di tale credenza è sorprendente, e contraddice la pretesa di essere, nel contempo, dei “fedeli della ragione”. Perché credere in una cosa che non è ma addirittura non può essere, serve solo ad illudersi o ingannare gli altri. Come scrive Dante “ti fai grosso / col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti, se l’avessi scosso”. Così una volta creduto nell’irrealtà, si deve conseguentemente svincolarsi dalla logica e dall’esperienza. Scrive Esolen: “Uno dei sintomi dell’irrealtà è sicuramente l’incapacità di riconoscere la propria stupidità… Tutti, in qualche maniera, siamo degli sciocchi: ci sono gli sciocchi che lo sanno, e gli sciocchi che, non sapendolo, sono ancora più sciocchi”, scrive l’autore descrivendo la parabola delle università americane popolate, del tipo umano homo academicus saecularis sinister.

Nell’illudersi un’importanza decisiva ha il linguaggio “Una delle strane caratteristiche della Città Irreale è l’ossessione simultanea per il linguaggio e un rifiuto generale di riconoscere a cosa serve il linguaggio”. Nomina sunt coinsequentia rerum dicevano i romani: invece oggi, precisa l’autore “Vogliamo creder che le nostre parole possono alterare la realtà”. Solo che questo significa creare il falso: un uomo che afferma di essere una donna, e pretende di essere considerato e chiamato tale, continua ad essere un uomo. D’altra parte secondo un noto detto il Parlamento inglese poteva fare qualsiasi cosa, tranne che cambiare l’uomo in donna; tale limite non c’è per i creatori e fedeli di certi idola, tendenzialmente creduli nell’onnipotenza (delle parole).

Il che somiglia assai più che a un ragionamento a un desiderio che si trasforma in obiettivo, in un quid da realizzare. Senza però chiedersi se sia realizzabile. Con ciò presupporrebbe una potenza (o onnipotenza) che non è nelle disponibilità umane. Basta all’uopo constatare – a livello macroscopico – qual è stata la sorte del comunismo, il cui esito era la società comunista o senza classi. Già nel giovane Marx il comunismo era indicato come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia. Ossia la formula per cambiare la natura umana mutando i rapporti di produzione. L’instaurazione della società senza classi avrebbe comportato l’estinguersi dello Stato e del politico. Solo che non c’era un esempio nella storia che ciò si fosse verificato. I presupposti del politico, cioè l’insopprimibilità (la costanza) del comando/obbedienza, del pubblico/privato, dell’amico/nemico, risultavano dati in ogni comunità umana conosciuta (l’uomo è zoon politikon). Il resto della parabola dimostra che il comunismo realizzato (cioè il socialismo reale) ha retto solo perché (contrariamente alle intenzioni) ha potenziato le tre costanti. Ha creato dittature sovrane, società che hanno quasi completamente annichilito il “privato”, ha avuto nemici (la borghesia, ecc.) come qualsiasi altro regime politico.

Dopo poco più di settant’anni (al massimo, per l’URSS) il tutto è finito per implosione, dato che la stessa classe dirigente non credeva più nel sistema e della società senza classi non si sentiva il profumo, neanche alla lontana. Il tutto può ripetersi in utopie/illusioni che presentino caratteri analoghi: obliterare la realtà per andare appresso all’immaginazione di essa. Cosa che, come scriveva Machiavelli, porta alla “ruina sua”.

E causa di quella ruina è aver creduto all’impossibile. Cioè alla fuga dalla realtà e dalle costanti che la governano.

Teodoro Klitsche de la Grange

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