INIMICIZIA, CONFLITTO E BLOCCO SOCIALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

INIMICIZIA, CONFLITTO E BLOCCO SOCIALE

1. In relazione all’esito delle elezioni presidenziali americane è stata ripetuta la tesi – formulata oltre vent’anni fa da Christopher Lasch – che le élite dirigenti sono vieppiù separate dal popolo; e che queste non riescono a comprenderlo, né a capire le ragioni per cui ciò è avvenuto, né perché il tutto permane. La frattura ormai è consolidata: il giudizio, condiviso da tanti, che Trump ha perso le elezioni ma il trumpismo è quanto mai in buona salute (a differenza di quanto avviene per altri movimenti populisti – come i 5 Stelle) lo corrobora.

La tesi di Lasch (e di altri) è essenzialmente sovrastrutturale, e cioè relativa a differenze nei modi di pensare, negli stili di vita, nei valori di riferimento della classe dirigente e del popolo, più che strutturale, cioè dipendente dai rapporti di produzione o economici in genere. Il che caduca comunque la distinzione marxiana della lotta di classe nell’età capitalista come conflitto economico tra proletariato e borghesia.

Se comunque è condivisibile la tesi della caducazione/neutralizzazione della lotta borghesia/proletariato come distinzione politica prevalente nel “secolo breve”(ora non più)1 occorre vedere se, nell’attuale contrapposizione emersa (e in parte emergente) globalisti/populisti ci sia un conflitto d’interessi economici che se non determina, rafforza ed enfatizza un contrasto cui concorrono vari elementi sovrastrutturali di guisa da trasformarlo – congiuntamente – in discriminante politica prevalente.

2. Scriveva Berlinguer in un noto saggio, di poco successivo al golpe di Pinochet contro il Presidente Allende che “tra proletariato e la grande borghesia – le due classi antagoniste fondamentali nel regime capitalistico – si è infatti creata, nelle città e nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «ceto medio»” e che “per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica” (il corsivo è mio); ne deduceva la necessità di una strategia di alleanze (con i ceti medi): “la strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia di alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno”. La politica di alleanze inizia con la ricerca di punti di convergenza tra la classe operaia e le altre forze sociali “di modo da non sospingere in posizione di ostilità vasti strati di ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione… Questo è certamente uno dei problemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari” (i corsivi sono miei). Concludeva con la proposta del “compromesso storico” e il rifiuto di un’alternativa di sinistra.

3. In quel saggio del segretario del PCI oltre a Marx c’è tanto altro, Gramsci soprattutto, con la sua teoria del blocco storico e dell’egemonia, esercitata attraverso la direzione ideale e il consenso che la classe dirigente riscuote, e non solo nel potere praticato attraverso gli apparati coercitivi statali. Quanto al blocco storico (maggioritario) questo è il sistema di alleanze sociali della classe operaia che guarda, nello specifico della situazione italiana (di allora), ai contadini del Nord e del Sud. Il proletariato, scriveva Gramsci «può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle masse contadine»”. Tale blocco storico (operai del nord – contadini del sud) era speculare a quello dirigente, composto da industriali del nord ed agrari del Mezzogiorno. Per Gramsci il blocco storico è collegato alla concezione del Partito come “moderno Principe” e (ancor di più) alla funzione dell’intellettuale organico, peraltro di difficoltosa applicazione alla situazione italiana contemporanea, caratterizzata da partiti sicuramente più leggeri di quello bolscevico (e anche del Partito comunista di Gramsci); e neppure giovantesi dell’opera di intellettuali organici (semmai di non – o poco – intellettuali e neppure tanto organici). Tuttavia appare abbastanza coeso un “blocco sociale” o almeno socio-politico di orientamento sovran-popul-identitario, largamente maggioritario, che perdura ed ha una continuità a dispetto delle vicende e degli insistenti tentativi – interni ed anche internazionali – di dividerlo, così da ridurne la capacità d’incidenza.

4. Il tutto è evidente da quanto capitato negli ultimi decenni in Italia. Dopo il risultato delle politiche del 2018, i partiti che esprimevano le aspirazioni dei gruppi sociali riconducibili al “blocco” (grillini, leghisti e Fratelli d’Italia)2 hanno avuto un elettorato costante e fidelizzato più che al singolo partito, all’insieme di appartenenza. Se le somme dei tre “attori” principali – ancorché qualche punto in più lo si ottiene sommando le liste minori – era alle politiche 2018 di circa il 55%, alle europee del 2019 del 57,5%, mentre nelle successive elezioni regionali e sondaggi è all’incirca pari alle europee, il totale complessivo è costante, anzi in lieve aumento. Accompagnato, negli ultimi sondaggi, da un trasferimento di gradimento dalla Lega e dal M5S a Fratelli d’Italia, ormai oltre il 16%3. Consegue da questi dati che la base sociale dei partiti “populisti” è fluida al loro interno, ma solida verso l’esterno. D’altra parte a fare la somma dei partiti globalisti, cioè essenzialmente PD + LEU+ FI e minori, la somma non oltrepassa mai un terzo (abbondante) dell’elettorato: anch’essa è relativamente stabile, attestata su un’inferiorità di almeno 20 punti percentuali rispetto agli avversari.

In questa situazione, la mossa di far nascere il Conte-bis staccando il M5S dall’alleanza è, come ho ripetuto, l’applicazione di una delle regole fondamentali della politica: dividere gli avversari. Da sempre praticata, dal divide et impera dei romani al “mai la guerra su due fronti” del Quartiere generale tedesco del secolo scorso4.

Tuttavia, anche in tal caso, la persistenza dello schieramento anti-establishment è continuata, con: a) il progressivo svuotamento del M5S a favore dei partiti affini più coerenti nella contrapposizione all’establishment b) nelle difficoltà del governo, almeno a prendere decisioni incidenti sul crinale discriminatorio (v. MES e “aiuti europei”). Né cambia molto che, attualmente, Lega e Fratelli d’Italia siano alleati di un partito disomogeneo allo schieramento populisti versus globalisti come FI, perché il di esso ridimensionamento costante e progressivo lo rende meno rilevante, nè è facile per Berlusconi, indicato per un ventennio come l’arcidiavolo dalla sinistra (ora sostituito, nel ruolo, da Salvini), raggiungere un accordo con gli storici avversari5.

È interessante, anche in rapporto a situazioni non dissimili di altri paesi occidentali, chiedersi le ragioni di tale persistenza e in che misura rifletta la differenziazione economico-sociale tra i rispettivi elettorati.

5. Mi è capitato più volte di notare come, dopo il crollo del comunismo, il discrimine politico, nel senso della distinzione amico-nemico, era passato da quello marxiano (nel secolo breve) cioè borghesia/proletariato a un altro, non percepito come economico – almeno in gran parte – ma socio-culturale, come anticipato da Lasch. Tuttavia, senza trascurare i voti degli operai bianchi americani, (passati, secondo quanto si legge, da un voto – in maggioranza – ai democratici a quello a Trump – v. risultati negli Stati della Rustbelt) la “crescita” economica italiana, successiva al crollo del comunismo, è stata la peggiore dell’area UE come dell’area euro.

Il ristagno dei redditi, delle aspettative di vita (e molto spesso la loro riduzione), politiche economiche volte a favorire il capitale (finanziario, in primo luogo), il trasferimento di capitali, l’importazione di manodopera a basso costo (le migrazioni), la delocalizzazione, l’aumento (e la distribuzione) degli oneri fiscali ha provocato, in Italia (e non solo, ma soprattutto) una serie di cambiamenti nell’ultimo trentennio i quali, negli aspetti più rilevanti sono: elevato tasso di disoccupazione, incremento della pressione fiscale (e para-fiscale), peggiore distribuzione della stessa, contrazioni delle prestazioni previdenziali e assistenziali, oltre alla consueta scarsa efficienza dell’apparato amministrativo.

In gran parte dovute a scelte che colpiscono soprattutto (o soltanto) i ceti medi e gli strati popolari (ossia a basso reddito)6.

E il tutto evidentemente, non è molto distante da quanto praticato in altri paesi, se la tesi che le élite dirigenti in occidente hanno “tosato” i ceti medi e popolari è stata, in modo non tanto dissimile espresso da molti: dal filosofo spagnolo Dalmacio Negro Pavon, il quale ha affermato come la crisi economica, successiva al 2008 è stata fatta pagare ai ceti medi, al socialista proudhoniano francese Jean Claude Michéa, per il quale (come per molti altri) sono stati i “perdenti della globalizzazione”, ossia quell’80-90% della comunità che non fa parte delle élite né del loro seguito sociale a sostenere il costo.

6. In Italia abbiamo avuto la sfortuna del governo Monti, il cui pregio maggiore è di aver svolto la politica più coerente nell’accollare ai “perdenti della globalizzazione” gli oneri, senza peraltro riuscire ad avviare una ripresa, anzi, peggiorando il deficit (e così facendo da levatrice all’alternativa).

Restano i fatti: l’IMU – con gettito quasi triplicato rispetto all’ICI – colpisce gran parte della popolazione, essendo gli italiani – a leggere le statistiche – all’80% proprietari di casa; le pensioni “d’oro” e “d’argento”, così sono denominate rispettivamente, le pensioni superiori agli € 2.500 e a € 1.300,00 (netti) mensili, sono bloccate o semi-bloccate da ormai 8 anni, a carico quindi dei ceti medi (e non solo); l’aumento del prelievo fiscale che all’epoca del governo “tecnico” raggiunse il livello più alto; la legislazione volta a dilazionare i pagamenti pubblici (questa e il precedente praticati anche da gran parte dei governi della “seconda repubblica”) il c.d. “rigore” che riduceva, oltre alla possibilità di ripresa anche l’occupazione. E si potrebbe continuare con molto altro, praticato da Monti (e, in misura minore, dai governi successivi)7 ispirato dalla medesima filosofia. Il tutto condito dalle consuete litanie o meglio, paretianamente – derivazioni – (ce lo chiede l’Europa…così fan tutti, ecc. ecc.), una delle quali è – in particolare – rivelatrice dell’espediente tattico d’indicare ai contribuenti il nemico cui addebitare il prelievo: l’evasione fiscale. Pertanto attribuita, dai salmodianti (al servizio delle élite) ai lavoratori autonomi. Così il nemico, il rapace predatore non è l’esattore, ma l’idraulico, il ragioniere, il geometra, il medico. Manifesto artifizio volto a dividere l’opposizione sociale e politica e a sterilizzarnene preventivamente la resistenza.

Di fronte a ciò le misure economiche del governo Conte 1 costituivano – anche se nella durata breve di tale esecutivo – un limitato, quanto deciso cambio di direzione. Le modifiche alla legge Fornero e l’aumento della soglia del prelievo forfettario ai lavoratori autonomi hanno dato un sollievo ai ceti medi (e non solo); il reddito di cittadinanza a quelli più disagiati come i disoccupati. Tutti tartassati o trascurati dai governi precedenti, e in qualche misura, rappresentati dalle due componenti del governo; Lega e M5S.

E preconizzava così un nuovo “blocco storico” al governo, fondato sull’alleanza tra classe media e ceti popolari. Data la dimensione di tali gruppi sociali, la maggioranza elettorale era (ed è tuttora) assicurata. Di qui l’esigenza vitale di dividerli e la nascita del Conte 2.

7. Le vicende successive – in cui un ruolo perturbatore è stato svolto dalla pandemia – stanno dimostrando tuttavia che, sia pure riuscito il processo di divisione al vertice, non lo è altrettanto alla base. L’elettorato sta semplicemente trasmigrando dai grillini agli anti-establishment più conseguenti. L’opposizione politica e sociale alle élite non demorde e nemmeno si attenua. I provvedimenti (spesso discriminatori) presi dal governo PD-grillini, a quanto pare, la stanno attizzando.

Il carattere discriminatorio degli – effettuati ed annunciati – “ristori” relativamente protettivi per i lavoratori dipendenti, molto meno per le imprese (termine che ricorre con preoccupante frequenza nelle dichiarazioni al miele dei politici), e quasi nulli per i lavoratori autonomi (che spesso sono piccole imprese) conferma l’espediente di dividere il blocco sociale; ma come detto, almeno finora, al culmine della “seconda ondata” del Covid, pare non riuscito. Anzi è socialmente diffusa una diffidenza e crescente insofferenza, rappresentata dalla stampa mainstream come (addirittura) negazionista (della pandemia, del virus, ecc. ecc.), ma in effetti rivolti contro le insufficienti misure – perché a carattere non generale, più che economicamente insufficienti. Si aggiunge a ciò che, per alcune categorie il ristoro è pieno (o quasi); anzi tenuto conto della pratica dello smart-working la prestazione lavorativa è così ridotta e/o più comoda8; pertanto a parità di retribuzione, il lavoro prestato è minore.

8. È comunque evidente che, a con-causare la contrapposizione, è anche un conflitto economico-sociale9. Conflitto antico, almeno quanto quelli enumerati nell’apertura del “Manifesto” di Marx ed Engels, e spesso considerato in epoca moderna, dai pensatori italiani (e non solo): quello di appropriazione delle risorse tra governanti e governati10.

All’uopo è utile ricordare che studiosi italiani di scienze delle finanze da Pantaleoni in poi distinguono i rapporti economici tra governanti e governati in tre categorie: tutoriali, quando le scelte dei governanti sono orientate alla salvaguardia dell’interesse di tutti; parassitari (i governati sono sottomessi e sfruttati al fine di procurare durevole vantaggio a favore della élite dirigente e delle categorie da questa preferite); predatori (dove prevale l’interesse delle classi dominanti ad aumentare il proprio utile, in particolare “a breve periodo”), laddove l’appropriazione delle risorse è sregolata e soprattutto depressiva della ricchezza della comunità.

Nella c.d. “seconda repubblica”, le cui forze politiche prevalenti sono quelle ora in costante diminuzione elettorale, l’andamento è stato predatorio più che parassitario. L’aumento fiscale rispetto al PIL è stato tra i più alti in Europa ossia +3,2%, più del doppio della zona euro (+ 1,5%); nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%11. Nello stesso periodo l’aumento del reddito individuale degli italiani è stato mediamente dello0,3% l’anno, ma è crollato dopo il 2008, aiutato nella discesa dalle politiche “rigorose” del governo Monti (e successive).

Dalla persistenza e dalla irreversibilità da ciò derivano due conseguenze: dalla stagnazione/recessione che il reddito degli italiani è stabilmente in calo; all’altra che il prelievo fiscale è, altrettanto stabilmente in aumento.

La somma di tali risultati è che gli italiani – salvo minoranze privilegiate – sono più poveri12. Il rapporto debito/PIL che sarebbe stato il motivo per le politiche rigorose poi è sempre in aumento, ad onta della scienza e tecnica profuse per ridurlo.

Tanto e durevole sconquasso non poteva sfuggire alla maggioranza degli italiani malgrado gli sforzi fatti per nasconderlo o edulcorarlo, sviando così l’attenzione. Piuttosto, di fronte all’argomento decisivo dei governi di centro-sinistra che i lavoratori autonomi evadono di più (paghiamone meno, paghiamole tutti) pare che gli italiani, sospettino che se grandi imprese nate e cresciute in Italia mettono la sede in Olanda, qualche beneficio societario e fiscale lo dovrebbero avere, altrimenti sarebbero amministrate da minus habentes. Ma un beneficio legale a favore di colossi economici a quante evasioni di “partite IVA” corrisponde? A qualche centinaia di migliaia cadauno?13. Non è da escludere che l’elusione fiscale di grandi imprese sia pari a centinaia di migliaia di contribuenti. E che l’aumento delle imposte e l’istituzione di nuove sia dovuta – anche – a ciò.

9. Ciò stante occorre, per concludere, chiarire la “natura” del conflitto, e non solo delle cause – plurime – che l’hanno indotta e alimentata.

Miglio sosteneva che il concetto marxista di classe è di limitata utilità per spiegare il conflitto politico14. Con un giudizio che ricorda Gramsci (oltre Hegel) scrive “La verità è che una classe diventa traente – qui uso il concetto in senso hegeliano – una classe diventa ‘generale’ in un processo storico, quando riesce a trascinare anche le altre”15; e le classi sociali “sono protagonisti ‘occasionali’ della storia. Di fatto, protagonista della storia è invece soltanto la classe politica, con le sue frazioni e il loro continuo alternarsi… le classi economico-sociali contano in quanto diventano seguito di frazioni di classe politica e operano nella storia essenzialmente come seguiti di classe politica”16; ma la classe sociale, non è tanto costituita dall’appartenenza a un gruppo (imprenditori, operai, redditieri, ecc. ecc.) ma dalla rappresentazione da parte dei componenti dell’appartenenza stessa, ossia “l’autoascrizione e la consapevolezza, in cui giuoca l’elemento politico dell’identificazione”. Se si sviluppano queste valutazioni di Miglio a determinare il blocco storico è principalmente e politicamente la condivisione del nemico, interno ed esterno17.

Per l’Italia del XXI secolo, le élite della seconda repubblica hanno, con le loro politiche, alimentato l’ostilità (a loro) di vasti strati sociali – largamente maggioritari – come sopra (brevemente) ricordato. Con l’emergenza Covid il tutto è peggiorato: basti notare che, se altre categorie sono state appena toccate (gli impiegati pubblici); altre relativamente protette (i dipendenti privati); altre ancora risarcite al minimo come i lavoratori autonomi18, infine taluni – qualche trascurabile milione di cittadini – non ha ricevuto né riceverà nulla (neanche le mascherine gratuite). É significativo notare poi che per le categorie più trascurate, si provveda non a cali d’imposte, ma a rinvii per pagare le medesime. Come a dire che comunque i gruppi sociali alimentati dall’apparato pubblico (tax-consommers) e che non sono solo i dipendenti, ma, soprattutto, i beneficiati dalle spese, devono essere salvaguardati al meglio (ossia, in realtà, alla meno peggio); gli altri assai meno, e, talvolta, niente.

In questa situazione di crisi nella crisi e (in parte conseguente alla stessa) di contrapposizione occorre concludere se si tratti di un conflitto concausale (politico – economico – culturale) o di altro in che misura sia componibile (istituzionalizzabile).

Quanto al primo quesito, il conflitto populisti/globalisti è concausale – cioè a cause plurime. Resta comunque evidente che è politico, coinvolgendo essenzialmente e complessivamente situazioni di tale natura (e intensità). Ad esempio: la stagnazione e poi la contrazione del PIL e del reddito individuale negli ultimi trent’anni in Italia è un fatto non soltanto economico, perché se, come sosteneva Miglio, l’oggetto dell’obbligazione politica e la garanzia del futuro19, a lungo andare di futuro per la comunità e gli individui non ce ne sarà o sarà un futuro di miseria ed asservimento.

Analogamente può dirsi per il calo demografico mutatis mutandis; in prospettiva si vede la fine dell’esistenza comunitaria. Se la politica è soprattutto un’attività di garanzia dell’esistenza e lo scambio politico, come scriveva Hobbes è tra protezione (dei governanti) e obbedienza (dei governati) l’affare è a perdere. Così per i modi di esistenza e gli stili di vita, che coinvolgono la cultura, già attentamente evidenziato non solo da Lasch, ma anche da qualche film italiano (negli aspetti di costume).

Il fatto che la distinzione amico-nemico sia originata da una pluralità di cause concorrenti, non la depotenzia, ma semmai la rafforza. Se il nemico è non solo colui che mi opprime e/o mi minaccia, ma anche mi sfrutta economicamente, sottraendo risorse, e pretende di farlo perché ha la laurea e sa come ci si comporta in società, il senso di alterità e di contrapposizione è potenziato20.

D’altra parte la politicità e la robustezza della contrapposizione nell’aver cementato gruppi sociali differenti è data dalla di essa solidità, a scapito (e a differenza) dei movimenti politici che la rappresentano e la organizzano. La sorte del movimento 5 stelle è emblematica: ha perso circa metà dei propri voti, quasi tutti a favore della LEGA, con il governo Conte 1, perché Salvini si è dimostrato assai più determinato, energico e coerente nel combattere il nemico e perseguire obiettivi condivisi; col governo Conte 2, originato da un ribaltone con il principale partito globalista, ne ha perso almeno un altro terzo abbondante (v. risultati elezioni regionali e locali). Già si legge che il M5S sarà non la nuova DC (come taluno credeva 2-3 anni orsono) ma il prossimo Partito radicale (soprattutto per le dimensioni).

In qualche misura questa indifferenza tra comportamento della base sociale rispetto alla (propria) rappresentanza politica da alla prima una coerenza e persistenza che ne fa un soggetto (movimento sociale) autonomo il quale (diversamente dal blocco storico di Gramsci) prescinde dalla (propria) istituzionalizzazione (in strutture sia politiche-partitiche che statali).

Probabilmente questa solidità della base sociale è stata prodotta più dalla comunanza dell’avversario che dal resto; d’altra parte l’effetto unificante del nemico su un gruppo sociale è cosa risaputa da Eschilo in poi. Per questo appare di efficacia assai modesta e non risolutiva il modello di reazione praticato dagli avversari, connotato dal personalismo e dalla divagazione (varia, morale come estetica, etico-legalitaria come di costume ecc. ecc.); anche se la manovra può riuscire con Salvini (come con altri da Berlusconi a Trump), non risolve il problema, essenzialmente politico. In sostanza perché morto un populista, il movimento sociale ne genera un altro. E l’opposizione continua.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Su cui, per esposizione più dettagliata mi sia consentito rinviare ai miei scritti… Identitari e globalisti (Italia e il mondo); Sentimento ostile, Zentragebiet y criterio de lo politico, in Ciudad de los Césares n. 110 (2017), entrambi in rete.

2 Quest’ultimo, geneticamente non di matrice populista, appare però sicuramente contrapposto alle élite in declino – v. seguito.

3 I sondaggi – tutti – lasciano spesso perplessi, specie negli ultimi decenni, per la costante tendenza a sottovalutare i partiti poco graditi alle élite e sopravvalutare quelli ortodossi (non solo in Italia). Dato il cambio di maggioranza col governo Conte bis, i grillini sono stati trasferiti: da nemici a quasi amici. L’attribuzione a loro negli ultimi sondaggi del 15% dei suffragi, quando alle elezioni regionali del 2019-2020 hanno riportato, a seconda delle Regioni, da un terzo alla metà dei voti conseguiti alle europee 2019, appare quanto mai dubbio, atteso che basandosi su detti risultati il Movimento dovrebbe oscillare tra il 6% e il 10%.

4 Che infatti, non osservandola, la Germania perse le due guerre mondiali.

5 Il che, come tutte le cose in politica, dati gli esempi storici di rovesciamento di alleanze, è poco probabile, ma non da escludere del tutto.

6 Un efficace sintesi di ciò si può leggere nel libro di L. Barra Caracciolo Lo strano caso Italia, Roma 2020, Ed. Eclettica, pp. 109/143. In particolare la riduzione della progressività dell’IRPEF ha fatto sì che “in questi ultimi 26 anni lavoratori dipendenti e pensionati abbiano pagato proporzionalmente più dei ricchi: riducendosi il numero delle aliquote e aumentando l’aliquota minima (dal 10 al 23% del 2007) in proporzione al reddito basso mostrato…, i lavoratori hanno sostenuto l’80% degli introiti di tutta la tassazione diretta” anche se con deduzioni e detrazioni che “serve ormai soprattutto a coprire i redditi degli “incapienti”, ossia di quei lavoratori e pensionati al di sotto della soglia della povertà assoluta”. E aggiungiamo noi, serve anche all’ “illusione finanziaria”

7 Come l’ultimo aumento IVA al 22%, deciso dal governo Letta, nell’ottobre 2013.

8 Più volte il prof. Cassese ha – giustamente – chiamato vacanza (o pausa) tale pratica nelle P.P.A.A.; l’argomento a sostegno, semplice e ineccepibile, è la proroga, decisa – e ripetuta – dal governo, dei termini dei procedimenti amministrativi.

9 Senza scomodare la lotta di classe e la celeberrima apertura del “Manifesto del partito comunista”, che la storia è la storia delle lotte di classe (nella sua perentorietà e universalità non condivisibile) è utile ricordare che Marx ed Engels poche righe dopo affermavano “Nei periodi della storia anteriori al nostro, noi incontriamo quasi da per tutto una completa spartizione della società in ordini e ceti” e subito dopo “Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha già distrutte le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche”.

10 È inutile ricordare tanti che se ne sono occupati (economisti, sociologi, politologi). Onde ci si limita ai più noti oltre al classico di A. Puviani L’illusione finanziaria, ai (diffusi e ricorrenti) passi di V. Pareto, G. Fortunato, ricordiamo M. Pantaleoni Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia, Firenze 1904; C. Cosciani Istituzioni di Scienza delle Finanze, 1953, p. I, cap. I; F. Forte Manuale di scienza delle finanze, Milano 2007, p. 32 ss., in internet v. G. Dallera La scuola italiana di scienza delle finanze; P. Vagliasindi Questioni generali di finanza pubblica. Da ultimo è da ricordare G. Miglio Lezioni di politica 2, Scienza della politica (a cura di A. Valle) Bologna 2011 – che tante e interessanti pagine vi ha dedicato.

11 Fonte Sole 24 Ore.

12 La confluenza delle due serie (meno reddito + pressione fiscale) è, probabilmente, unica in Europa). Ad andare a vedere le statistiche di altri Stati europei, quanto all’incremento del PIL abbiamo: Svezia 41,7%, Francia 20,7%, Germania 28,7%, Spagna 23,9%, Grecia 13,5%, Portogallo 19,1%, Italia 1,9% (fonte Termometro politico).

13 È noto che FCA e Mediaset hanno portato le loro sedi ad Amsterdam (FCA quella fiscale a Londra). Ovviamente anche tante medie imprese sono scappate dal fisco italiano. Si dubita che l’abbiano fatto per il profumo dei tulipani. E ancor più, che rispetto alla situazione di venti-trent’anni orsono, le imposte così eluse siano state poste a carico di coloro che sono rimasti a produrre (e soprattutto pagare) in Italia.

14 Il giudizio è esposto in Lezioni di politica 2, Scienza della politica, Bologna 2011, pp. 392 ss., le ragioni addotte da Miglio sono varie.

15 Op. cit., p. 396

16 op. cit., p. 399

17 Ovviamente “nemico” e ”inimicizia” vanno intesi non nel senso comune, di colui cui si muove guerra, ma come li impiega Schmitt; ossia come colui contro il quale si conduce la lotta, la quale può essere incruenta, ed all’interno come all’esterno della sintesi politica. “Nemico – scrive Schmitt – è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere” (Der begriff des Politishen, trad. it. ne “Le categorie del politico”, Bologna 1972, pp. 111), anche in politica interna “All’interno dello Stato in quanto unità politica organizzata, che, come tutto, avoca a sé la decisione sull’amico-nemico, esistono, sempre però accanto alle decisioni politiche primarie e in difesa della decisione scelta, molti concetti secondari di ‘politico’” ed anche qui “continua ad essere essenziale per il concetto di ‘politico’ un contrasto o antagonismo all’interno dello Stato, anche se esso risulta relativizzato dall’esistenza dell’unità politica dello Stato stesso che è comprensivo di tutti gli altri contrasti” (op. cit., pp. 112-113); la guerra stessa non è l’unica conseguenza dell’ostilità ma “la ultima ratio del raggruppamento amico-nemico” (op. cit., p. 117 – nota); inoltre “guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico” (op. loc. cit.).

18 É interessante quanto si legge che in Germania la cattivissima Merkel avrebbe previsto “ristori” pari al 70% del calo del fatturato. In confronto gli indennizzi “a scacchiera” (e minimi) del governo Conte bis sono misera cosa.

19 V. op. cit., p. 156.

20 In alcune canzoni rivoluzionarie francesi si prendevano in giro gli aristocratici per il bon ton, così come oggigiorno lo si fa per i populisti che sbagliano i congiuntivi e non usano le cravatte.

Storia, Geopolitica e conflitti: appunti didattici, di Giuseppe Gagliano

Storia, Geopolitica e conflitti: appunti didattici.

È evidente che la lettura degli eventi storici può essere attuata attraverso approcci metodologici differenti. Per quanto mi concerne, nella mia attività di docente a Como, sono partito da una interpretazione che pone l’enfasi sul conflitto.

La storia è determinata infatti da una permanente e incessante conflittualità di natura politica, economica e militare, conflittualità cagionata da una lotta di potere per l’egemonia culturale, politica, economica(come mi ha insegnato Christian Harbulot direttore della Scuola di guerra economica di Parigi che è stato non a caso allievo di Braudel).

La storia, insomma, si muove sotto il segno di Ares. Il compito del docente è quello di dare ai discenti strumenti storiografici di alto livello per capire le linee di forza di questa dinamica conflittuale per comprendere, avrebbe detto Machiavelli, “la verità effettuale”.

Un altro aspetto che ho cercato di sottolineare con le mie studentesse di terza è il contributo dato da Carlo Maria Cipolla che, per esempio, sottolinea come i cinesi e gli arabi furono tecnologicamente all’avanguardia fino al XV secolo. Ma fu solo verso la metà del XVI secolo che l’Europa occidentale cominciò a prendere il sopravvento. Il carattere innovativo dell’Occidente derivò da due fonti. La prima era di natura culturale poiché incoraggiava il dominio sulla natura grazie alla sperimentazione, alla ricerca scientifica e alle ricompense riconosciute al capitalismo.

La seconda era la natura competitiva del mondo occidentale in cui stati abbastanza potenti da lanciarsi il guanto di sfida-Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Stati Uniti-si contesero in vari fasi il predominio sull’Europa. Ma a rivaleggiare nel contesto della civiltà europea non erano soli Stati. Banchieri e commercianti si facevano concorrenza e incoraggiavano la competizione tra re e Stati.

È insomma tra il XV e il XVIII secolo, come hanno dimostrato altri storici come Geoffrey Parker (storico militare sia Cambridge che a Yale) e Daniel R Headrick (docente di storia alla Università di Chicago), che la superiorità tecnologica europea si è manifestata sotto forma di navi e cannoni».In altri termini la
competizione economica, militare e tecnologica nella realtà storica sono elementi strettamente intrecciati.

Facciamo un altro esempio. Come sottolinea Peter Hugill, docente di geografia all’Università del Texas nel suo splendido saggio “Le comunicazioni mondiali dal 1844” (Feltrinelli), il primo importante stato mercantile, l’Olanda, si era formata come potenza europea verso la fine del 1500 introducendo importanti innovazioni come la centralizzazione del sistema bancario, la facilitazione del credito e la condivisione dei rischi attraverso la multiproprietà delle navi mercantili.

Per difendere l’immenso potere commerciale prodotto della sua flotta mercantile, l’Olanda investì massicciamente una flotta da guerra. Verso la fine del seicento, l’Inghilterra, nel tentativo di subentrare all’Olanda, riprese perfezionandole quelle innovazione.

I Navigation Act ,ideati per contrastare il potere commerciale dell’Olanda negando alle sue navi libero accesso ai porti britannici, costituirono un’altra importante innovazione così come l’adozione del principio mercantilistica con cui veniva data preferenza ai commerci con le colonie britanniche rispetto al libero mercato.

Seguendo l’esempio olandese, l’Inghilterra, a partire dalla metà del seicento, investì massicciamente per aumentare la potenza della sua flotta. Questa riflessione ,ad esempio, estrapolata dal saggio di Wende sull’impero britannico è stato concretamente utilizzata in una mia classe quarta facendo riferimento soprattutto ad Oliver Cromwell.

Insomma il ruolo della potenza militare ed economica ha svolto un ruolo essenziale nella dinamica conflittuale della storia.Infatti nella realtà storica hanno giocato, e giocano, un ruolo fondamentale. Basti pensare solo alla Cina e alla sua trasformazione in un potenza in grado di rivaleggiare alla pari con gli USA. Ad ogni modo facciamo, ancora una volta, due esempi storici. Il primo relativo alla espansione marittima dell’Europa.

Come dimostra Cipolla il veliero armato inventato dall’Europa atlantica nel corso dei secoli XIV e XV rese possibile l’espansione europea perché si trattava di uno strumento eccezionalmente efficiente che poteva navigare con un equipaggio relativamente ridotto capace però di controllare inusitate masse di energia inanimata per movimento distruzione. Insomma, grazie alle caratteristiche rivoluzionarie delle loro navi da guerra, gli europei in pochi decenni stabilirono il loro predominio sugli oceani.

A tale proposito, questo brano estrapolato dal saggio di Cipolla, mi è servito per fare comprendere alle studentesse di una terza liceo le differenti forme di crescita fra Europa e paesi extraeuropei. Ebbene, l’espansione marittima dell’Europa fu una delle circostanze che prepararono il terreno alla rivoluzione industriale e ,d’altra parte, la rivoluzione industriale stimolò a sua volta l’espansione europea. Una delle tesi alle quali giunge lo storico Cipolla, assolutamente condivisibile, è che il popolo tecnologicamente più progredito è destinato a prevalere, indipendentemente dal suo grado di civiltà.Il secondo esempio è relativo alla potenza economica della Spagna del cinquecento.

Infatti, su quale fondamento si basò la potenza economica, ed anche militare, della Spagna del ‘500? Uno di questi furono certamente le miniere di Potosì e di Zacatecas che diedero l’oro di cui la Spagna aveva bisogno per la sua proiezione di potenza come illustra magnificamente Cipolla nel saggio “Conquistadores, pirati, mercanti “(il Mulino)».

Anche allo scopo di verificare la credibilità di questa impostazione metodologica ho posto alle studentesse di una quarta liceo di Como queste domande:

Secondo il vostro punto di vista quale ruolo ha il conflitto, per esempio quello tra poteri, all’interno della storia?

Secondo la vostro opinione qual è il ruolo della globalizzazione commerciale nella storia studiata durante il quarto anno?

Il ruolo della tecnica, secondo la vostra opinione, ha avuto un ruolo rilevante nel predominio dell’Occidente o ha invece avuto un ruolo marginale?

L’intreccio tra potere militare, economico e politico ha svolto un ruolo fondamentale nella storia studiata quest’anno?

Le risposte date sono state uniformi. In particolare per la prima domanda è stata posta la giusta attenzione sul ruolo del conflitto nel contesto della Rivoluzione inglese e francese; per quanto concerne la seconda domanda l’attenzione è stata rivolta al ruolo del colonialismo nel seicento e nel settecento e, in particolare, al ruolo del commercio triangolare anche facendo riferimento ai contributi storiografici di Reinhard.

In relazione alla terza domanda ovviamente l’enfasi non poteva che essere posta sulla rivoluzione industriale interpreta prevalentemente a partire dalle riflessioni di David Landes e Christofer Hill. Infine, nella ultima domanda, il riferimento fatto è stato quello alla modernizzazione militare posta in essere da Pietro il Grande e alla proiezione di potenza di Caterina sul Mar Nero.

Giuseppe Gagliano

10 domande sulla guerra, di Elio Paoloni

Domande assolutamente ben poste da Elio Paoloni. Sia per il merito delle motivazioni e degli argomenti che le legittimano, sia per il momento scelto. Conoscendo Elio e la sua posata inquietudine, deve averci rimuginato parecchio. Il suo appello ad intervenire sull’argomento è probabilmente il segno di una crescente apprensione riguardo alla situazione e alle dinamiche che stanno avviluppando il mondo, quello a noi apparentemente lontano e quello prossimo, all’interno stesso della nostra casa. I vecchi equilibri stanno rapidamente saltando come pure le prassi e le chiavi di interpretazione che ci hanno guidato e ingabbiato sino ad ora; con essi stanno cambiando stati d’animo e modalità di reazione non solo delle classi dirigenti ma anche di strati sempre più larghi di popolazione. A partire dal secondo dopoguerra le classi dirigenti italiche, più di ogni altra, hanno accuratamente rimosso questi temi. Una pesante cappa di conformismo ha oppresso sino a poco tempo fa quasi inavvertitamente il mondo intellettuale. Eppure il paese in passato ha conosciuto tra i propri figli il capostipite moderno, Machiavelli e ha conosciuto giganti, come Pareto e Gramsci, del realismo politico e della teoria politica. La catastrofe politica della seconda guerra mondiale e la successiva progressiva erosione del concetto stesso di difesa dell’interesse nazionale hanno prodotto una classe dirigente, a partire soprattutto dagli anni ’90, sempre più priva di radicamento identitario, abile a cogliere e vellicare soprattutto le debolezze di un popolo, del tutto incapace di assumere un qualsiasi ruolo attivo nell’agone europeo e mondiale. La condizione perfetta per trascinare nell’inconsapevolezza e nell’impreparazione generale ancora una volta una nazione tra i flutti di un mare geopolitico sempre più intricato. Qualche reazione inizia ad emergere. La fretta frenetica legata all’urgenza e all’accavallarsi degli eventi rischia di spingere a soluzioni forse peggiori, avventuriste e cialtrone, analoghe a quelle che ci hanno trascinato allegramente nella seconda guerra mondiale. Non sono mancate nel frattempo menti fertili e motivate, anche nell’oggi stesso; i più però conoscono l’ostracismo silenzioso, l’omertà e le blindature degli ambienti istituzionali. Italia e il mondo accoglie volentieri l’invito alla discussione di Elio Paoloni. E’ nata con queste finalità. Spera che sia colto negli ambienti cui il sito si rivolge ed anche oltre. Non pretende esclusive nella pubblicazione dei contributi; chiede semplicemente che ci siano trasmessi per fare di questo spazio un terreno concreto di confronto_Buona lettura_Giuseppe Germinario

 

 

10 domande sulla guerra

Diciamo subito che non si tratta qui di introdurre tesi pacifiste: si dà per scontato che chiunque non tragga direttamente vantaggi dalla guerra (non appartenga cioè a quella minoranza che non viene mai direttamente toccata da lutti e rovine) e non sia né fanaticamente indottrinato né patologicamente violento, desidera la pace; parimenti scontato è che questo non ha mai impedito le guerre. Rovesciando la nota formula di von Clausewitz, del resto, sia Carl Schmitt che Michel Foucault ebbero ad affermare che è la politica (la pace) ad essere continuazione della guerra con altri mezzi. Oppure vanno di pari passo, come notava argutamente Thomas Friedman: “La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno visibile. McDonald’s non può diffondersi senza McDonnel Douglas, il fabbricante di F- 15”.

 

Partiamo dunque da una incontrastabile verità: la guerra è ineliminabile, con buona pace dei pacifisti d’ogni tempo (non proprio di tutti i tempi dato che per secoli la categoria dei pacifisti non è esistita) i quali fanno bene a cercare di evitare questa o quell’altra guerra – folle chi non lo tenta – ma errano cercando di evitarla ‘ad ogni costo’, a prescindere. Chi davvero vuole la pace neppure la nomina. Prepara la guerra o fa finta di prepararla. “Tutte queste teorie sulla pace universale, le conferenze per la pace, ecc. – notava G. I. Gurdjieff –  non sono che pigrizia e ipocrisia. Se si costituisse effettivamente un gruppo sufficiente di uomini desiderosi di arrestare le guerre, essi comincerebbero a fare la guerra a coloro che non sono della loro opinione. Ed è ancora più certo che farebbero la guerra a uomini che vogliono anch’essi impedire le guerre, ma in un altro modo”.

 

Un terribile amore per la guerra, di James Hillman, si apre con una scena del film sul generale Patton, che passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, il generale esclama: «Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita». Per Hillman la guerra è una pulsione primaria della nostra specie, dotata di una carica libidica non inferiore a quella delle pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano: l’amore e la solidarietà. Hillman spazza via la retorica degli adagi progressisti – basati su una lettura caricaturale della «pace perpetua» teorizzata da Kant – risalendo al carattere mitologico di tale ambivalenza: l’inseparabilità di Ares e Afrodite. Ma soprattutto, ricorrendo a dettagliati rapporti dal fronte, a lettere di combattenti, ad analisi di esperti in strategia – oltre che a tutti gli scrittori e tutti i filosofi che alla guerra hanno tributato meditazioni decisive, da Twain a Tolstoj, da Foucault a Hannah Arendt – Hillman ci rammenta la scandalosa verità: più che un’incarnazione del Male, la guerra è in ogni epoca – come mostrato dalla contiguità tra le descrizioni omeriche e i reportage dal Vietnam – una costante della dimensione umana. O meglio, troppo umana.

 

Non è il caso di insistere sugli aspetti antropologici, psicologici, sociologici della guerra, benché non si possa fare a meno di considerarli, sia pure di riflesso. Le pulsioni, gli istinti, i condizionamenti che inducono l’uomo alla violenza sono stati abbondantemente sviscerati, compresa quella, apparentemente nobile, della scoperta di sé: La guerra – scriveva Norman Mailer – è la prova di tutte le prove. È in guerra – sostiene – che un uomo va fino in fondo a se stesso e sa veramente chi è. L’idea che la guerra sia una cartina di tornasole per un uomo è antichissima ma la guerra è profondamente cambiata e, vivendo una fase di guerra per bande su scala planetaria, si partecipa in effetti a molti conflitti e forse – più o meno consapevolmente – lo stiamo già facendo, senza sottoporci, per ora, ad alcuna prova. Tuttavia l’alpinismo, o l’apnea profonda, potrebbero costituire un test meno pernicioso.

Per Erich Fromm la guerra reca vantaggi anche alla salute morale di una nazione: risveglia i valori di altruismo e di solidarietà… porta in luce i sentimenti essenziali… con la presenza della morte, dà un enorme valore alla vita… sarebbe molto utile nella nostra società in cui impera la crisi di identità e nella quale – a causa dell’impossibilità della guerra dovuta alla deterrenza nucleare – assistiamo all’aumento di criminalità, suicidi, problemi della droga e nevrosi. Salutare, insomma, come certe malattie, dopo le quali riscopriamo la bellezza della vita e l’importanza dei valori. I morti tuttavia non riscoprono un bel nulla.

 

Questa ricognizione tralascia in ogni caso l’atteggiamento del singolo violento o indottrinato, che non si rende conto quasi mai delle conseguenze delle sue azioni. E’ stata anche indagata, a dire il vero, la somiglianza tra i comportamenti del singolo e quelli di un organismo complesso. Ma si tratta del comportamento delle masse – che amplifica proprio le pulsioni più distruttive – quello descritto da Joseph de Maistre ne Le serate di San Pietroburgo: “L’uomo, colto all’improvviso da un furore divino, estraneo all’odio e alla collera, avanza sul campo di battaglia senza sapere quel che vuole e nemmeno quel che fa. Che cos’è dunque questo terribile enigma? Niente è più contrario alla sua natura e nulla gli ripugna di meno: compie con entusiasmo atti che lo fanno inorridire. Non avete notato che sul campo di morte l’uomo non disubbidisce mai? Potrà massacrare Nerva o Enrico IV; ma il più vergognoso tiranno, il più insolente macellaio di carne umana non sentirà mai pronunciare sul campo di battaglia la frase: Non vogliamo più servirvi. L’angelo sterminatore gira come il sole attorno a questo infelice globo e non lascia respirare una nazione se non per colpirne altre”. In effetti la jacquerie fu una rivolta contro il fisco, non contro la leva.

 

Nel suo carteggio con Freud sulla necessità di evitare la guerra, Einstein citava i mezzi con i quali una minoranza può asservire alla propria cupidigia le masse (scuola e stampa innanzi tutto) ma era incredibilmente perspicace – e controcorrente – anche nell’individuare il bersaglio più facile: non le masse incolte bensì la cosiddetta “intellighenzia” che cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata. Stigmatizza proprio quello che oggi viene da più parti definito ‘ceto medio semicolto’. Più pessimista – o realista – Freud non credeva alla possibilità di evitare le guerre. Non lo riteneva, in fondo, neppure auspicabile: Le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita, fiorente. Ma sa anche che i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano. Un altro che credeva a una qualche utilità delle guerre, o almeno alla loro inevitabilità.

 

Per Julien Freund l’uomo può cambiare vita ma non cambiare la vita. Conducendo vita pia sul piano privato può sottrarsi al male (o al demoniaco) ma non può sconfiggere, sul piano pubblico, la vita stessa, ovvero l’impulso vitale volto all’accrescimento del potere: “Questo impulso di vita, nulla può esorcizzarlo, né una contabilità di tutti i morti di tutte le guerre, né i dipinti dell’orrore delle rivoluzioni”.

Ecco, questo termine così neutro, contabilità, è il denominatore degli interrogativi che seguono. Domande che riguardano pragmaticamente proprio l’utilità, ovvero gli aspetti economici e il rapporto costo/benefici, anche applicato, brutalmente, alle perdite umane. In particolare la soglia di perdite e distruzioni che i decisori ultimi si prefiggono nel momento di intraprenderla. E soprattutto il reale vantaggio che ne trae il paese vincitore ovvero la valutazione più difficile da farsi. La famosa definizione della guerra come ‘levatrice della storia’ presuppone un andamento lineare della storia, pur con temporanei arretramenti e deviazioni, in un progresso costante. Il nostro mondo è migliore di tutti quelli precedenti, sostengono tutti, tranne, a volte, gli sconfitti. Non vi è mai controprova, naturalmente. Ma anche ammesso che questo mondo sia migliore, chi ci dice che non avrebbe potuto essere ancora migliore senza la guerra che lo ha creato?

Nella storia non esiste possibilità di comparazione, purtroppo: l’ucronia è roba da romanzieri, non da storici.

Per gli storici – scriveva Elias Canettile guerre sono come sante: esse, simili a temporali utili o inevitabili, irrompono dalla sfera del sovrannaturale nell’ovvio e comprensibile corso del mondo. Io odio il rispetto degli storici dinanzi a una cosa solo per il fatto che è avvenuta, i loro criteri falsi, a posteriori, la loro impotenza che striscia dinanzi a ogni forma di potere.

Diversi storici – per amor del vero – hanno provato a riflettere sul “se invece”. Se un banale episodio può cambiare il corso di una vita, come in Sliding doors, figuriamoci una guerra. Non sarà scientifico supporre cosa sarebbe successo se avesse vinto Hitler (un classico) ma chiederselo è un’esigenza umanissima e potente. E’ ovvio che le narrazioni riguardanti il capovolgimento del corso delle guerre risultino più avvincenti. Ma sarebbe ben più utile immaginare cosa sarebbe successo se le guerre, molto semplicemente, non fossero state combattute. E’ possibile? E quanto è possibile avvicinarsi a quella che sarebbe stata la realtà senza quella guerra? Non è semplice curiosità, fatuo arzigogolare: riguarda in fondo proprio la possibilità di una valutazione razionale della lotta. Chi stila una dichiarazione di guerra deve pur avere in mente degli scenari.

 

La definizione futurista (sola igiene del mondo) mi è sempre sembrata stupida: se darwinianamente in guerra muore il più debole, si tratta della frangia debole del settore in ogni caso più forte: giovane, sano, dotato di abilità. Troviamo infatti del tutto naturale che a crepare sia il meglio della popolazione, gli unici che potrebbero davvero essere utili anche nella ricostruzione. E’ stata un’amica a farmelo notare, con buon senso tipicamente femminile. Perché piangere sulla morte dei vecchi e degli invalidi? E quei fior di giovani? Sono veloci, resistenti, manipolabili: ovvio che siano loro a dover essere spediti in battaglia. Ma a qualcuno è venuto mai in mente di mandare avanti un reggimento di vecchiardi? La Vecchia Guardia di Napoleone non fa testo, era una riserva, un corpo pretoriano.

Anch’io però, devo confessarlo, sono vittima dell’ipocrisia che porta a compiangere le vittime civili, categoria che ormai comprende solo vecchi e bambini, dato che le soldatesse (ammesso che desinenze del genere siano ancora consentite) hanno ottenuto – a partire dagli Stati Uniti – la facoltà di recarsi in prima linea, cancellando l’irragionevole discriminazione che permetteva loro di accoppare solo per interposto guerriero. Dal secondo conflitto mondiale, in effetti, assistiamo alla guerra totale, nella quale la popolazione viene coinvolta direttamente nella guerra (terroristicamente, con bombardamenti privi di qualsiasi interesse bellico) mentre in precedenza veniva coinvolta sì pesantemente ma solo dopo – o durante – la conquista di territori.

In ogni caso la Grande Guerra dette un’energica sfoltita anche agli esponenti del movimento futurista e Boccioni, prima di morire, fece in tempo a coniare l’equazione guerra=insetti+noia. Io mi sarei tenuto un gigante come Boccioni e avrei lasciato al nemico parecchie ettari di pietraia insieme ai tirolesi, che dobbiamo pure ricoprire d’oro. Così, a proposito di costi/benefici.

 

Vero è che la pulizia bellica serve a regolare l’equilibrio tra popolazione e risorse, anche se le nuove tecniche di coltivazione e allevamento smentiscono Malthus e i suoi nipotini. D’altro canto ogni paese spera che la diminuzione della ‘domanda’ avvenga a scapito dell’avversario. Nessuno troverebbe opportuno ridurre la propria di popolazione. Almeno in passato: oggi ormai la maggior parte dei conflitti è scatenata da una categoria di persone prive di reali radicamenti su un territorio, cosmopoliti di fatto, stranieri anche a se stessi, incapaci di patriottismo o di empatia con qualsivoglia popolo.

Di sicuro quella frase va riferita allo spazzar via istituzioni fatiscenti per far nascere un uomo nuovo, una società completamente diversa, anche tecnologicamente più progredita. “La guerra ha sempre promosso la mobilità sociale – notava Erich Fromm – infatti le classi dinamiche sono sempre a favore della guerra”. E siamo alle solite: occorrerebbe valutare, caso per caso, se le istituzioni ‘nuove’ nate da questa palingenesi siano state davvero auspicabili. Vi è una forte corrente di pensiero che ritiene aprioristicamente di sì. Io mi permetto di dubitarne ma gradirei il conforto del parere di persone non necessariamente reazionarie. Ambrose Bierce scrisse che Dio usa le guerre per insegnare la geografia alla gente. Qualcuno, di certo, le usa per divertirsi a disegnare cartine geografiche nuove. Onnipotenza 2.0.

 

Non prenderei in considerazione le rivoluzioni: scatenate da una classe sociale, o da un’etnia, hanno obiettivi sufficientemente chiari, per quanto finiscano vittime anch’esse, forse ancor di più, dell’eterogenesi dei fini. I rischi sono valutati con sufficiente accuratezza: cosa si ha da perdere (spesso, come da celeberrimo aforisma, solo le proprie catene), cosa si può ottenere. Le rivoluzioni, come i colpi di stato, riescono o falliscono, non sono soggette ad escalation. L’assalto al Palazzo d’Inverno costò cinque morti, anche se occorrerebbe considerare il lungo strascico contro le armate bianche. La lunghezza della lotta di Mao non fa testo perché spezzettata da guerre e coinvolgimenti diretti di potenze straniere.

 

La domanda fondamentale, a ben vedere, è questa: alea a parte, quanto conta la valutazione realistica e quanto, invece, gli organismi decisionali di un paese (ma anche di una grossa fazione, o di una minoranza, o di una banda criminale) ovvero le élites meno influenzabili, anzi deputate a influenzare, coloro insomma che conoscono bene le conseguenze, coloro che agiscono freddamente, episodicamente o per mestiere, e sanno valutare le probabilità di uscirne indenni, con vantaggio, possono a loro volta essere influenzati da pulsioni inconsce, da riflessi pavloviani, dall’orgoglio, da ogni genere di retaggio?

Carl Schmitt sosteneva che non esistono guerre condotte per motivi puramente religiosi, o puramente morali, o puramente giuridici, o puramente economici. Può sembrare che alcune siano state scatenate unicamente per l’uno o l’altro motivo, ma solo se vi era la possibilità di inserire tali motivazioni in una riconoscibile dicotomia amico/nemico. Distinzione che il giurista tedesco pone alla base di ogni agire politico, come si trattasse di un dato sociologico, ma che ci riporta, in fondo, alla psicologia del profondo.

Esistono dunque decisioni puramente razionali? Normalmente no: nessun individuo è un essere puramente razionale. Esattamente come le folle. Ma gli organismi che di solito decidono le guerre dovrebbero essere in grado di formulare quanto di più vicino a una decisione razionale. Raramente si tratta della decisione di un singolo: anche un dittatore o un monarca assoluto hanno consiglieri, ministri, gran vizir; interpellano generali che hanno conoscenze specifiche; spesso devono tener conto delle valutazioni di sostenitori, finanzieri, boiardi. E’ vero che ognuna di queste figure ha interessi personali – e non solo – da tutelare e che ognuno di loro è condizionato da fattori non razionali, tuttavia l’insieme di queste valutazioni, contemperandosi, dovrebbe condurre – viene da pensare – a una decisione informata, avveduta, logica; di sicuro al male minore.

Succede davvero questo?

 

Qualcuno ha fatto notare che la politica statunitense verso la Russia è stata dettata per decenni dalla russofobia di un ex polacco, Zbigniew Brzezinski e dalla volontà di rivalsa di Madeleine Albright, una cecoslovacca. Sciocchezze? Le decisioni sono in realtà prese da ampi organismi supportati da stuoli di esperti, consulenti, teste d’uovo? Sarà. Ma una cosa che ho imparato – da profano – è che la pervicacia e la furbizia di un singolo ben introdotto nei gangli di comando può determinare qualsiasi evento. La più grave eredità di un marxismo forse malinteso è quella di averci costretto a pensare solo in termini di masse, di forze, di condizioni oggettive: i protagonisti sono solo portati in carrozza da queste forze e ognuno di loro avrebbe potuto essere sostituito. E’ l’opportuno contrappeso a una storiografia affollata unicamente da biografie di re e condottieri, tuttavia, portata alle estreme conseguenze, ha effetti grotteschi. L’Italia del dopoguerra, ad esempio, era affollata da traditori, voltagabbana, vigliacchi e, soprattutto, avidi arrivisti; qualsiasi funzionario messo a capo di un ente pubblico si sarebbe adagiato nel tran tran. Non Enrico Mattei, patriota e grande statista (anche se non si occupò ufficialmente di politica e di governi). In compagnia di un gruppo di gitanti Lenin si impossessò in un batter d’occhio di un paese immenso. E Stalin ne ha fatto una potenza industriale e militare in pochi decenni. Condizioni oggettive? Nel bene e nel male l’abilità di un uomo e soprattutto le sue reali intenzioni, la sua devozione agli interessi della patria, fanno davvero la storia. E viceversa: un vigliacco, un folle, un venduto, possono distruggere una nazione in men che non si dica.

 

Tutti noi abbiamo ben impresse nella memoria immagini spaventose e. soprattutto, numeri spaventosi. Ma poniamo per un istante che a un soggetto avveduto, potente e scaltro, riesca una guerra lampo. Cominciamo col dire che occorrerebbe diffidare delle riuscitissime guerre lampo, spesso seguite da lutti decennali, come ebbero ad imparare Adolf Hitler, Saddam Hussein e poi Bush insieme ai suoi successori. Ma restiamo nel solco delle ipotesi più rosee: chi ci dice che la vittoria sarà un successo? Sembra un gioco di parole ma riguarda l’aspetto cui si accennava sopra: se ogni guerra è levatrice occorre attendersi qualche novità. Chi può assicurarci che saranno ancora importanti le risorse a cui il paese tendeva, magari rimpiazzate da altre conquiste della tecnologia? Non dimentichiamo che mentre ancora si combatteva sanguinosamente per la conquista delle piantagioni di caucciù si iniziavano a produrre i primi pneumatici in gomma sintetica. Come essere certi che i guadagni che una lobby si attendeva non saranno vanificati da variazioni finanziarie, monetarie, legislative? O che le mire della classe sociale che ha appoggiato quella guerra andranno in fumo perché una nuova classe si affermerà in seguito a quella guerra? Ripensiamo a un episodio: per ottenere un po’ di consenso i generali argentini si impossessarono di quattro isolette davanti casa e nel giro di pochi mesi perdettero ogni potere. Certi andazzi fanno venire in mente i versi di una canzone di Enzo Jannacci, “Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale/per vedere come stanno le bestie feroci/e gridare aiuto, aiuto è scappato il leone/e vedere di nascosto l’effetto che fa”. Qualcuno è andato allo zoo per segare davvero le sbarre e ha poi scoperto che quando i leoni scappano non ti puoi nascondere: ti buttano giù le torri, ti accoppano l’ambasciatore, ti sgozzano i giornalisti.

L’eterogenesi dei fini è un fenomeno ricorrente nella storia – come pure in ogni singolo atto quotidiano – ma alla fine di una guerra non è solo ricorrente: è matematico. Questo dovrebbe inibire le smanie di ogni potente, ancor più del rischio di una vittoria di Pirro, con danni e decimazioni tali da impedire qualsiasi trionfo. Ma non succede.

Troppi i fattori da considerare: chi decide cosa è irrinunciabile? Esistono prassi consolidate, naturalmente: ci sono apparati che sanno perfettamente cosa una determinata nazione deve considerare vitale. Non si tratta mai però di un solo fattore, e già decidere la gerarchia di essi è complicato: competenza e capacità di previsione non sono sufficienti. E se ci sono buone probabilità che la guerra asfalti il paese, che senso ha opporsi? Tanto vale salvare delle vite. Non tutti pensano che salvare la pelle sia la cosa più importante, ma a certi livelli non si può davvero immaginare di poter fare la conta per verificare quanti cittadini la pensano così, per cui si torna sempre allo stesso punto: quali saranno le priorità in tempi bellici dei governanti, solitamente eletti in tempi di pace per occuparsi dei bilanci economici e non dei bollettini delle perdite umane?

 

Poniamo allora le domande che tutti si sono posti almeno una volta, sforzandoci di evitare che risultino retoriche. E rammentando che difficilmente sarà un generale a illuminarci: in fondo non sono i militari a prendere la decisione fondamentale (come da ammonimento di Clemenceau: La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari). Neppure un economista avrà le risposte. Perché non può esserci un valore comune, oggettivo, di ‘mondo migliore’. Perché non c’è alcuna possibilità di calcolare l’equivalenza tra il costo di una vita umana e quello di un barile di petrolio, tra la frustrazione di un popolo e due palmi di territorio, tra la vita apparente dei reduci e le rosee prospettive commerciali. Oppure sì?

Difficile trovare risposta a domande che mescolano valori quantitativi a valori qualitativi. Sarebbero necessari gli sguardi di un sociologo, di un teologo, di un moralista, di un ingegnere, di uno storico e di uno storico dell’arte. Certe risposte sono appannaggio forse solo dei filosofi, o di grandi menti non specializzate. Magari dei poeti. Ma un ampio ventaglio di intervistati potrebbe darci di sicuro qualche lume.

 

 

 

 

1 – Quante volte, davvero, i costi economici di una guerra (vinta, s’intende) sono stati sopravanzati dai benefici? Joseph E. Stiglitz ha scritto sull’Iraq che una volta pagato il prezzo di questa guerra, il debito nazionale americano sarà aumentato di tremila miliardi di dollari. Quanto se ne può guadagnare con quel po’ di petrolio in più a buon prezzo a disposizione? Quanto ci guadagneranno le industrie belliche? Ma, soprattutto, quanti di quei soldi saranno pagati dalle industrie beneficiarie – sotto forma di tasse e di occupazione – e quanti invece dal contribuente medio? Si possono contabilizzare i vantaggi derivanti dall’impoverimento degli altri paesi, che avranno meno accesso – o accesso più caro – alle risorse petrolifere? E, soprattutto, queste stime chi è in grado di farle? Già, sono tante domande, però collegate.

 

2 – Il polpo sacrifica i tentacoli per salvarsi, come la lucertola la coda. Accessori che ricrescono. Quanti milioni di euro costituiscono la coda di una nazione? Quanti milioni di cittadini ne costituiscono un tentacolo? Quanti tentacoli può perdere un polpo senza morire? C’è un numero di morti accettabile per un paese? Anzi per un pianeta, visti gli attrezzi disponibili?

 

3 –  Forse il solo indiscusso merito della guerra dei cent’anni è stato quello di fornire agli storici, con la sua cessazione, un comodo spartiacque per indicare la fine del medioevo. Lo sfacelo economico e le sofferenze per la popolazione (in particolare per i sudditi continentali, i cui sovrani potrebbero essere considerati gli ‘aggressori’) sono indescrivibili: 116 anni di saccheggio sistematico, deliberato, ininterrotto; fame, malattia, stupri, degradazione, morte. Il Pangloss di turno opporrà che, nonostante la bancarotta di tutto un continente, alla fine il sistema feudale era stato sorpassato, la Pulzella aveva ricompattato i patrioti francesi (e purtroppo diviso i cattolici, dato che anche i nemici, all’epoca, erano cattolici) e il mondo entrava in una nuova era. Ma non si viveva meglio in un feudo pacifico e florido che sotto un sovrano avido, spietato, lontano? E, ammesso che così non fosse, i vari sovrani impegnati nella contesa hanno mai pensato, per un solo momento, a questi ipotetici – e in ogni caso puramente casuali – vantaggi per il popolo?

 

4 – Si pensa alle guerre come unico motore del progresso. Forse perché le ricerche militari impegnano velocemente grandi risorse nei miglioramenti tecnologici. Ma non basterebbero le gare di Formula 1? O l’industria aeronautica (la cui storia iniziò nel ‘700 per il puro diletto dei nobili) o astronautica (che nasce forse in un orizzonte militare ma è, appunto, orizzonte, non guerra guerreggiata, tant’è che americani e russi nello spazio ci vanno insieme)?

 

5 – Quanto migliore deve diventare un paese per giustificare la distruzione dei tesori d’arte, simboli della cultura e della religione del popolo che ha guerreggiato? Strade e ponti si ricostruiscono, certo, anche più moderni. Forse è per questo che dicono che è un mondo migliore. Magari più somigliante a quello del vincitore. Ma il Senso, l’Identità, la Dignità possono sopravvivere a certe demolizioni? Ammetto che questo aspetto è il meno quantificabile di tutti. Non è questione di numeri: c’è oro (o mucchio di diamanti, visto l’argomento) sufficiente a compensare la demolizione – operata dagli inglesi stessi durante la seconda guerra mondiale – del Crystal Palace di Londra, la prima struttura realizzata completamente in vetro, considerata uno dei più begli edifici mai costruiti, perché le sue rilucenti vetrate erano un pericoloso punto di riferimento per i bombardieri nazisti? O la distruzione del tempio di Gerusalemme, la violazione del Sancta Sanctorum, la sottrazione dell’Arca dell’Alleanza? Anche se, a pensarci bene, qualcuno potrebbe sostenere che la diaspora va vista come un fausto evento, avendo diffuso il genio ebraico nelle varie nazioni.

 

6 – Non è un caso che siano i giovani a dover combattere: tradizionalmente erano le ‘teste calde’, affascinate dall’avventura, desiderose di mettersi alla prova, di sfuggire alla monotonia borghese. Ma sono proprio i giovani, in Occidente, a infoltire le schiere dei movimenti pacifisti. Mollezza dell’Occidente o presa di coscienza?

 

7 – L’impero di Bisanzio, uno dei più lunghi e prosperosi di tutti i tempi, è stato anche quello che ha guerreggiato meno di tutti. Un mix di intimidazione, lusinghe, corruzione di funzionari stranieri, istigazione ai conflitti tra gli altri stati, li ha tenuti lontani da guerre vere per secoli. Possibile che solo i bizantini abbiano avuto questa capacità? Ci sono aspetti irripetibili, esclusivi di quell’Impero?

 

8 – ­Il modo più veloce di finire una guerra è perderla (George Orwell). Pare che così la pensassero gli ammiragli italiani durante la seconda guerra mondiale. Ma nella Grande Guerra, invece, si poteva fare una pace dopo i primi massacri di trincea, quando fu chiaro, come scrisse Mario Praz, che si trattava soltanto di un’agonia di animali in agguato? In quanti hanno capito che nessuno in realtà l’avrebbe ‘vinta’? E non parlo solo dello scarso – e controproducente – bottino italico. O i morti in realtà non contano (almeno finché non si prospetta una rivoluzione, come per la Russia nella prima Guerra Mondiale) e conta solo il ‘non perdere la faccia’?

 

9 – Ogni guerra è disputa di cani sopra un mucchio di croccantini. Inevitabile che ci si azzanni per la razione quotidiana (la razione K) ma alcuni cani vogliono anche un’altra razione. Giusto, è la scorta per domani. Poi c’è quella di dodopomani. Quando le pretese diventano eccessive? Quanto grano, o banane, o rame possono bastare a tenere in vita un paese? D’accordo, le risorse sono limitate per definizione; ciascuno vorrebbe averne l’accesso esclusivo. Ecco la guerra. Ma esiste una linea oltre la quale ci si sta accapigliando per il superfluo. E’ percepibile questa linea a chi aggredisce? Sa che è una guerra immorale? O a un certo punto la nozione stessa di superfluo viene meno?

 

10 – Finora ci siamo occupati di chi ha possibilità di decisione. Ci sono paesi che non hanno molta scelta: subiscono l’aggressione e basta. Forse anche loro avrebbero avuto qualche possibilità di evitarla accettando una razione di croccantini. Il punto è sempre lo stesso: la quantificazione. Quanti rospi si possono ingoiare? La sopravvivenza è accettabile a qualsiasi condizione? Tra le rigorose condizioni di legittimità morale che la Chiesa richiede per la legittima difesa si ritrova questa: “che ci siano fondate condizioni di successo”. Quando i Vietcong iniziarono la lotta pensavano davvero alla vittoria o bastava loro sapere che la reazione all’oppressione era giusta e onorevole, anche se fossero stati annichiliti? Il debole, dunque, deve subito capitolare? Oppure una sconfitta gloriosa (ma anche umiliante come quella di Sedan) potrebbe rinsaldare i sopravvissuti per secoli alimentando il revanscismo fino al riscatto?