L’Italia, l’Europa e gli squilibri della fase multicentrica, a cura di Luigi Longo

Si propongono tre letture sugli squilibri mondiali nella fase multicentrica, lentamente e scompostamente in cammino. Gli squilibri si fanno più consistenti e gravi venendo a mancare sempre più quella sorta di centro di coordinamento mondiale rappresentato dagli Stati Uniti.

Le letture: uno stralcio dell’articolo del generale Fabio Mini apparso sulla rivista Limes n.4/2017 e due articoli del geografo e giornalista Manlio Dinucci apparsi sul quotidiano il Manifesto, il primo il 15/8/2017, il secondo il 13/9/2017. Si riporta inoltre una cartografia di Limes illuminante sulla capacità di dominio (di coercizione e di consenso) degli USA e del loro spettro: la Russia.

E’ importante osservare come, nella fase multicentrica, le sfere militare, politica e istituzionale assumono sempre più un peso specifico per la costruzione del blocco di dominio sociale, mentre nella fase monocentrica giocano un ruolo fondante le sfere economica, politica, istituzionale, culturale, eccetera.

Trovo sorprendente l’articolo del generale Fabio Mini che fa una lettura critica sulla servitù italiana ed europea alle strategie di dominio USA. Una critica fatta da un Generale che ha avuto un ruolo di rilievo sia nelle Forze armate italiane sia nella Nato assume un rilievo interessante._ Luigi Longo

 

USA-Italia. Comunicazione di servizio

di Fabio Mini

 

 

[…] L’America non è più un << modello virtuoso >> e nemmeno vincente e molti paesi << minori >> non sono disposti a obbedire ciecamente a un leader anche se ben armato e neppure a stare assieme per favorirne gli interessi. Può essere un problema strategico, non tanto perché tali paesi possono scegliere di stare con la Russia o la Cina, ma perché possono scegliere di non stare con nessuno creando così l’esigenza di una complessa rete di relazioni bilaterali difficile da gestire […]

Gli Stati Uniti pretendono dagli alleati e dai sottoposti nazionali ed esteri un << servizio >> che sia utile e riescono a convertire qualsiasi utilità in moneta. Ma il servizio richiesto è anche << obbligatorio >> per cui sono previste sanzioni o ritorsioni economiche e militari a qualsiasi inadempienza o manifestazione d’insofferenza […] A questa presunzione ne corrisponde un’altra ugualmente distorta: la convinzione che quasi tutti i paesi del mondo, comunque quelli di tutta l’Europa in particolare, << debbano >> qualcosa agli Stati Uniti. In alcuni accenni contenuti nei trattati bilaterali che stabiliscono i termini dello status delle Forze armate statunitensi ( Sofa, Status of Forces Agreement) o della permanenza di basi e infrastrutture militari nei vari paesi, il richiamo all’amicizia e alla cooperazione suggerisce sempre la sussistenza di un debito. Un debito permanente e inestinguibile. Anche le espressioni di gratitudine per << per l’ospitalità >> e la collaborazione che gli americani ripetono sorridenti in ogni occasione di incontro con i partner nascondono l’ironia, se non proprio l’ipocrisia, tipica di chi si sente in credito. In genere l’ospitalità di truppe straniere sul proprio territorio non è mai volontaria, è imposta. I contributi sono richiesti e quelli non richiesti sono anticipati per pura piaggeria. Il debito di riconoscenza reclamato dagli Stati Uniti è qualcosa di molto simile al concetto di tributo all’impero da parte dei vassalli e al concetto di debito delle società mafiose. […]

Gli Stati Uniti si ritengono creditori infiniti di tutto il mondo per la loro missione divina di preservare la democrazia, la libertà e i diritti umani di tutti. In particolare, sono ritenuti loro debitori tutti i paesi << liberati >>, con le armi o le operazioni coperte, dal fascismo, dal nazismo, dal comunismo, dalle dittature (spesso instaurate da loro stessi) e dal terrorismo. In termini ideologici, la riconoscenza dovuta per tali << liberazioni >> è impagabile. Non c’è modo di tramutarla in moneta o corvèe o di eluderla. Nella pratica, però, si può evitare che la riconoscenza si tramuti in sindrome con tutte le conseguenze. Tutti i presunti debitori degli Stati Uniti ci sono riusciti, la maggior parte con qualche sforzo e sacrificio e altri non ponendosi neppure il problema. A eccezione dell’Italia.

L’Italia ha dovuto e voluto accettare un debito infinito rifugiandosi nella sindrome della riconoscenza. Ben consapevole della sottile linea che separa l’erta del servizio dal baratro della schiavitù ha cercato di spacciare l’accettazione della servitù per semplice questione di gratitudine, di affetto, di passione e di amore: tutte cose che da noi hanno un valore anche politico mentre per altri, compresi americani, inglesi, tedeschi e francesi non contano nulla. Giustamente.

Pensando di essere furba, e forte della propria esperienza di sei secoli di dominazioni straniere, la << serva Italia di dolore ostello >> ha tentato di usare il debito di riconoscenza per legarsi per sempre più ai forti di turno, agli Stati Uniti, sperando in un rapporto privilegiato o nella magnanimità dell’alleato in caso di gaffe e intemperanze. E così in effetti è stato, ma al costo della rinuncia della sovranità nazionale.

Oggi, dai reciproci abbracci, baci e pacche sulle spalle non traspira aria di affetto e rispetto, ma la solita deprimente realtà: la politica italiana è da oltre settant’anni vittima consapevole e felice dell’ingerenza degli Stati Uniti ed è stabilmente al << servizio >> dei loro interessi. […]

Spesso la Nato viene individuata come il luogo del potere americano sugli alleati. E’ vero solo in parte e per la parte più politicamente corretta. Il gioco pesante e spesso sporco avviene nei singoli paesi. Il controllo americano sull’Italia è gestito in Italia. Da settant’anni, il nostro paese si presenta nelle organizzazioni internazionali come Onu, Nato, G7, G8 e G20, Osce e Unione Europea con un’agenda già concordata all’ambasciata Usa di Roma. Molte volte non è neppure necessario concordare nulla perché ogni tassello dirigenziale politico, amministrativo e militare è allineato sulle posizioni degli interessi americani. Qualunque sia il partito al governo. Agli << americani di Roma >>, funzionari d’ambasciata, addetti commerciali, culturali, politici, addetti alla pubblic diplomacy (un modo elegante per pilotare la comunicazione italiana), forze speciali sotto copertura, agenti della Cia, della Dia e dell’Fbi sparsi a gruppi di ventine in tutta Italia, si aggiungono gli << americani nostrani >>. Sono di tutte le specie: politici convinti ( il presidente Cossiga si riteneva uno di questi e si definiva << amerikano >>), politici voltagabbana, diplomatici, giornalisti, informatori, complottisti, piduisti, pseudo-esperti e intellettuali, militari, massoni e cattolici, vecchi mercenari e neo-contractors che, agendo in qualsiasi ambito nazionale e pontificando da qualsiasi pulpito, alimentano le già numerose lobby pro-americane e sono i più accesi sostenitori delle ragioni oltre che difensori degli errori statunitensi. […]

Nel nostro paese l’opposizione al servilismo è invece prettamente ideologica. Si limita alla critica per partito preso e non per cognizione di causa. E’ rimasta agli schemi della guerra fredda e per questo anacronismo si squalifica da sola. Di fatto, contribuisce a rafforzare il già radicato americanismo servile. Da noi si applica appieno l’amara constatazione di un filosofo cinese: << Ci sono stati periodi in cui il nostro desiderio di essere schiavi è stato soddisfatto e altri no >>. Da noi il << periodo no >> deve ancora arrivare. In sostanza, dal 1945 a oggi non abbiamo fatto altro che andare in America per mendicare, implorare, rinnovare il patto di sudditanza e fare il pieno di stupidaggini, dagli slogan elettorali ai gadget pubblicitari. Anche noi abbiano i nostri twitter-in-chef (soprannome di Trump) che cinguettano, felici di essere al sicuro, in gabbia. […]

Infine la questione delle basi: i numeri vanno aggiornati e la genesi rivista. I militari americani sono circa 14 mila, le installazioni oltre 110, comprendendo ogni struttura anche soltanto tecnica. I cosiddetti << accordi bilaterali di lunga data >> non sono scaturiti soltanto dell’appartenenza italiana alla Nato: quasi tutte le installazioni militari statunitensi in Italia non sono nemmeno sotto copertura atlantica. Le basi sono la naturale continuazione delle esigenze militari delle forze di occupazione statunitensi e alleate in Italia. Alla fine della guerra nel nostro paese i centri di potere erano polverizzati. Il governo monarchico, il governo d’occupazione degli Alleati e quello dei Comitati di liberazione nazionale si sovrapponevano e contrastavano. La commissione alleata aveva diritto di veto su qualsiasi attività nazionale e le basi militari italiane o ex tedesche erano territorio occupato. Gli inglesi hanno continuato a usare la base di Aviano fino al 1947. Gli accordi bilaterali successivi all’ingresso dell’Italia nella Nato (1949) hanno soltanto rilegittimato la presenza statunitense d’occupazione sotto il nuovo cappello Nato che comunque era assunto dal Comando Alleato in Europa (Usa) con il nome di Supremo Comando Alleato d’Europa. Da allora, la denominazione Nato è stata spesso usata per indicare la base appartenente a un paese membro dell’Alleanza Atlantica, non necessariamente per scopi della Nato. Nella sostanza, la presenza militare americana in Italia è un fatto prettamente bilaterale e la disponibilità delle basi per altre forze Nato, comprese quelle italiane, anche in esercitazione, se non diversamente stabilito, è una prerogativa esclusiva degli Stati Uniti. […]

Per settant’anni abbiamo obbedito ai consigli, alle imposizioni, alle ingiunzioni e alle minacce degli Stati Uniti nella politica, nell’amministrazione, nella giustizia e nella sicurezza senza chiedere e ricevere nulla in cambio se non il fatidico ombrello di protezione (che proteggeva i loro assetti) e la pacca cordiale di solito riservata ai cagnolini, tipo << pet service >>, appunto. In ambito militare e industriale, ci siamo legati a vita a programmi di armamenti a condizioni di strozzinaggio, abbiamo dovuto e voluto copiare parola per parola manuali e dottrine palesemente indirizzate a riempire il carrello della spesa delle industrie americane e di quelle nostre affiliate. Abbiamo assimilato concezioni politiche e militari inadatte alle nostre condizioni ed esigenze. Insostenibili e inutili. Abbiamo elevato ai vertici dello Stato, delle industrie e delle imprese di Stato e delle Forze armate personaggi anche validi, ma soprattutto opportunamente indicati dagli ambasciatori statunitensi. Raccomandati o graditi. I vertici della Difesa hanno fatto anticamera per essere ricevuti da un colonnello addetto militare e i nostri ministri sono stati convocati in ambasciata da camerieri o poco più. […]

A partire dai primi giorni del dopoguerra ci siamo vincolati anima e corpo a un rapporto di servitù in termini bilaterali che prescindeva sia dagli impegni del Piano Marshall sia da quelli della Nato. Ma nemmeno questo è stato fatto bene. Subito dopo il periodo di << amministrazione controllata >> del dopoguerra e ai primi segni della guerra fredda, abbiamo accettato una divisione politica interna innaturale e deleteria che ha consegnato il potere centrale a politici succubi e corrotti, il potere periferico a formazioni filo-sovietiche e l’opposizione a eversivi nostalgici, fascisti, comunisti e frammassoni. Tutti gestiti e manovrati dai << liberatori >> americani e sovietici impegnati in una guerra fredda che da noi è stata sempre calda. Quando gli equilibri politici sembravano deviare dal corso prestabilito ci siamo dilaniati con le insurrezioni armate, i tentativi di colpo di Stato e il terrorismo politico. […]

Non siamo mai stati così apertamente velleitari nel seguire le istruzioni americane alla Nato e al di fuori di essa come nei periodi di governo delle sinistre. Non abbiamo discusso di niente e obiettato su niente, neppure sulle guerre intraprese in aperta violazione del diritto internazionale. Ci siamo accontentati di cambiarle il nome. Negli ultimi vent’anni abbiamo continuato a parlare di fedeltà nei confronti degli alleati Nato e in particolare degli americani mentre, in realtà, abbiamo tradito tutti non ottemperando al primo dovere degli alleati veramente fedeli e leali: contrastare gli avventurismi e mettere i partner in guardia dalle possibili conseguenze. Non abbiamo neanche sfruttato le salvaguardie della sovranità nazionale garantite dagli stessi trattati bilaterali e internazionali. La Nato decide all’unanimità e l’opposizione di un membro qualsiasi, dagli Stati Uniti al Lussemburgo, fa abortire qualsiasi progetto. Non abbiamo mai detto no e non abbiamo nemmeno cercato d’influire sulle strategie. Gli accordi bilaterali per loro natura riconoscono e preservano la sovranità dei sottoscrittori e, sempre per loro natura, prevedono benefici per entrambi. Se al beneficio di uno non corrisponde equo e congruo beneficio dell’altro il trattato configura una servitù la cui natura deve essere specificata e giustificata. Da settant’anni, gli Stati Uniti in Italia esercitano de facto un regime di servitù nazionale e militare non previsto da nessun rapporto bilaterale. Non è una loro prevaricazione. In realtà fanno il loro mestiere e lo fanno bene: per i loro interessi. Dovrebbe essere un problema nostro. In altri paesi del mondo le basi americane sono state chiuse dalla sera alla mattina per violazioni vere o presunte della sovranità molto meno gravi di questa. Da noi non è mai stato un problema semplicemente perché la classe politica di qualsiasi segno, la classe industriale e quella militare hanno voluto accettare le servitù anche se non previste e nemmeno richieste. Da noi le installazioni statunitensi vengono chiuse e aperte, trasformate e cambiate di destinazione d’uso nell’esclusivo interesse di una parte, sempre quella. La rinuncia ai nostri diritti di Stato sovrano e ai doveri di leale alleanza ha contribuito in maniera sostanziale all’egemonia americana nel mondo. A gratis. Anzi all’ulteriore costo di dignità: siamo utilizzatori forzati di tecnologie già forzate, di terza mano, e delle informazioni di scarto americane che beviamo come elisir di lunga vita perché è questo che esattamente dobbiamo fare: continuare a vivere a lungo in uno schema preconfezionato di informazioni incontestabili perché incontrollabili (e guai a pretendere di farlo). […]

All’<< indiscutibile >> missione escatologica degli Stati Uniti si unisce l’altrettanto indiscutibile convinzione che l’America ci serva, che ci sia necessaria e utile. In questo campo si può però obiettare senza rischiare di essere blasfemi.

Mentre in ogni paese del mondo si sta ridiscutendo la storia dell’ultimo secolo a partire dalla prima guerra mondiale, da noi prevale la vulgata dell’America di Giustizia, Democrazia e Libertà. La missione assunta dagli Stati Uniti di portare questi valori in tutto il mondo e di agire con le armi contro chiunque non li riconosca viene richiamata e confermata in ogni circostanza. E’ qualcosa che nessun paese può discutere specialmente se annoverato tra i perdenti della seconda guerra mondiale. La mannaia di antiamericano cala con eguale intensità di quella di antisemita.

Tale missione parte infatti proprio dal periodo postbellico, quando il linguaggio politico statunitense cominciò ad essere infarcito di slogan sul tipo del << Dio lo vuole >> delle storiche crociate. Linguaggio che non cessa di esaltare la nazione americana, specialmente se associato all’idea che << lo vuole l’America >>, produttrice di tutti i fenomeni d’intolleranza politica e razziale dal maccartismo al trumpismo. Eppure, è ormai storicamente assodato che nel dopoguerra l’Unione Sovietica non aveva alcuna intenzione d’invadere l’Europa. Non voleva però che fosse minacciata o toccata la propria sfera influenza. Lo stesso Kennan, che aveva dato modo a Truman di forgiare la strategia del contenimento con il suo telegramma da Mosca del 1946 e il successivo articolo del 1947, ha voluto precisare come l’espansione sovietica non fosse il problema. In un’intervista televisiva del 1996 disse che la distorsione del senso del suo articolo << veniva da una frase nella quale dicevo che qualora i leader sovietici si fossero confrontati con noi in maniera ostile in qualunque posto del mondo, noi avremmo dovuto fare il possibile per contenerli e non lasciarli espandere ulteriormente. Avrei dovuto però spiegare che non sospettavo i sovietici di progettare un attacco contro di noi. La guerra era appena finita, ed era assurdo supporre che essi avrebbero attaccato gli Stati Uniti. Non pensavo di dover spiegare una cosa del genere, ma ovviamente avrei dovuto farlo >>. Kennan aveva intuito che il sistema sovietico era destinato a collassare da solo per le spinte interne e per l’incapacità di tenere al giogo i propri alleati. Sapeva, e questo lo disse fino alla morte (all’età di 101 anni) che il contenimento non poteva essere solo militare. Il vero problema sovietico era impedire il processo di sfaldamento centrifugo che l’Occidente avrebbe potuto e voluto sfruttare. Processo ritardato di quarant’anni ma puntualmente presentato con il tentativo fallito di aprirsi a riforme istituzionali e sociali.

La guerra fredda non era affatto necessaria. Non c’era nessuna invasione alle porte e nessuna necessità di sfoderare i missili nucleari prima ancora di rimuovere le macerie. Non era necessaria la Nato e di conseguenza non sarebbe stato necessario nemmeno il Patto di Varsavia. La difesa europea si sarebbe potuta sviluppare anche come pilastro continentale del rapporto transatlantico senza provocazioni e mire espansionistiche. Ma la storia non si fa con i << sé >> e la guerra fredda c’è stata. E allora occorre ragionare per quali interessi è stata combattuta. […] Durante la guerra fredda l’America non ha fatto gli interessi dell’Europa, ma ne ha fatto il campo di battaglia permanente convenzionale e nucleare. Il Piano Marshall (European Recovery Plan, Erp) ha aiutato più l’America che i paesi europei. E’ vero, senza aiuti esterni la ricostruzione sarebbe stata più lunga, ma è anche vero che senza la formula dell’Erp e senza un intero continente a fungere da consumatore dei surplus produttivi, l’America non sarebbe mai uscita dalla crisi economica iniziata nel 1929. In Europa e in Asia la guerra fredda è servita a evitare la prevista smobilitazione militare che avrebbe riportato in America centinaia di migliaia di persone in cerca di lavoro e di reduci in cerca di cure e compensazioni. Con lo schieramento all’estero e la presunta minaccia del blocco sovietico, l’apparato militare-industriale ha graduato il processo di riconversione di molti settori bellici all’economia di pace e insieme si è imposto come settore fondamentale della politica e dell’economia prima ancora che della sicurezza. In compenso, le economie e la politica dei paesi aiutati sono state drogate dagli stessi aiuti e dalle ingerenze: come in Grecia, Turchia e Italia. E d’altra parte non si deve certo alla minaccia sovietica la serie di sconfitte militari subite dagli Usa dal 1950 a oggi.

Se la cosiddetta protezione americana non ci è servita durante la guerra fredda è molto dubbio che ci serva oggi. Non solo perché la minaccia è remota (come giustamente dice il nostro Libro Bianco), ma perché anche quella probabile non può essere contrastata con gli assetti strategici che verrebbero messi a disposizione. Se si parla di Iraq, Siria e Libia, si parla di guerra a sassate. Scomodare i bombardieri strategici B2 per i voli non stop di 32 ore dalla base del Missouri al deserto libico completamente libero da qualsiasi minaccia aerea e contraerea con 80 bombe di precisione teleguidate su un gruppetto di fanatici non è solo un overkilling, ma un test di dubbio valore geopolitico e militare. Potevamo credere sulla parola che l’operazione sarebbe stato un << successo >>, ma il suo effetto rimane irrilevante nel contesto caotico della Libia come di tutti gli altri teatri di guerra in atto. E se in futuro si verificassero le condizioni per una copertura strategica di quel tipo, possiamo essere certi che l’intervento ci sarebbe anche senza richiederlo. Sarebbe più nel loro interesse che nel nostro. Come al solito.

Tutti noi europei e in particolare noi italiani non << dobbiamo >> assolutamente niente e anche la gratitudine dal calore e sapore mediterraneo va pesata in relazione a quanto abbiamo già dato in termini di sovranità, dignità e instabilità politica (compresa la stagione della sovversione e del terrorismo), che gli americani in Italia e quelli d’Italia non hanno certo contribuito ad evitare. Fino a qualche tempo fa, l’ufficio Contabilità del Congresso americano (Gao) valutava in dollari i contributi di tutti i paesi del mondo alla sicurezza degli Stati Uniti. L’Italia, solo tra basi e previdenze per i soldati americani in Italia, era sempre in cospicuo avanzo. Il Gao non ha ancora monetizzato i << contributi >> italiani degli anni passati, ma mentre il rituale del fair play è sempre in vigore le richieste di maggiori risorse alla Nato sono più pressanti. […]

Da parte sua, il ministro degli esteri Alfano il 21 marzo scorso ha tenuto un breve discorso all’Atlantic Council, autorevole think tank di Washington, durante il quale ha elencato tutti i servizi militari e diplomatici resi agli Stati Uniti e alla Nato (forze, missioni eccetera) ha assicurato che in Iraq ci siamo e ci resteremo, che siamo protagonisti in Libia, Libano e Balcani, ha richiamato l’esigenza di una difesa europea ed ha assicurato che gli europei hanno recepito l’esigenza di maggiori risorse per la difesa militare e s’impegnano al mantenimento dei vincoli transatlantici. Ed è questo che gli americani amano sentirsi dire, anche se non ne dubitano affatto. Rimane da vedere come l’Italia possa passare dalle parole ai fatti richiesti da Trump e dai suoi: e quindi passare dai 27 ai 54 miliardi di dollari/euro da destinare alla difesa. […]

Trump riprende con vigore una richiesta rivolta da tutti i presidenti americani ai partner della Nato negli ultimi trent’anni. Solo che oggi nessun paese alleato crede veramente in una minaccia russa per l’Europa e i paesi che ne sbandierano l’eventualità in realtà vogliono una frattura tra Europa e Russia. Una frattura che porti alla rinazionalizzazione dell’Europa già aperta da Wolfowitz o alla formazione della << Europa delle regioni >>, la quale farebbe delle centinaia di microregioni europee, dall’Atlantico agli Urali, altrettanti bacini di esportazione e militarizzazione.

 

 

 

Così gli Usa «rassicurano» l’Europa

di Manlio Dinucci

 

Nell’anno fiscale 2018 (che inizia il 1° ottobre 2017) l’amministrazione Trump accrescerà di oltre il 40% lo stanziamento per la «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa» (Eri), lanciata dall’amministrazione Obama dopo «la illegale invasione russa dell’Ucraina nel 2014»: lo annuncia il generale Curtis Scaparrotti, capo del Comando europeo degli Stati uniti e quindi per diritto Comandante supremo alleato in Europa.

Partito da 985 milioni di dollari nel 2015, il finanziamento della Eri è salito a 3,4 miliardi nel 2017 e arriverà (secondo la richiesta di bilancio) a 4,8 miliardi nel 2018. In quattro anni, 10 miliardi di dollari spesi dagli Stati uniti al fine di «accrescere la nostra capacità di difendere l’Europa contro l’aggressione russa». Quasi la metà della spesa del 2018 – 2,2 miliardi di dollari – serve a potenziare il «preposizionamento strategico» Usa in Europa, ossia i depositi di armamenti che, collocati in posizione avanzata, permettono «il rapido spiegamento di forze nel teatro bellico». Un’altra grossa quota – 1,7 miliardi di dollari – è destinata ad «accrescere la presenza su base rotatoria di forze statunitensi in tutta Europa».

Le restanti quote, ciascuna nell’ordine di centinaia di milioni di dollari, servono allo sviluppo delle infrastrutture delle basi in Europa per «accrescere la prontezza delle azioni Usa», al potenziamento delle esercitazioni militari e dell’addestramento per «accrescere la prontezza e interoperabilità delle forze Nato».

I fondi della Eri – specifica il Comando europeo degli Stati uniti – sono solo una parte di quelli destinatati all’«Operazione Atlantic Resolve, che dimostra la capacità Usa di rispondere alle minacce contro gli alleati».

Nel quadro di tale operazione, è stata trasferita in Polonia da Fort Carson (Colorado), lo scorso gennaio, la 3a Brigata corazzata, composta da 3500 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi, 144 veicoli da combattimento Bradley, oltre 400 Humvees e 2000 veicoli da trasporto.

La 3a Brigata corazzata sarà rimpiazzata entro l’anno da un’altra unità, così che forze corazzate statunitensi siano permanentemente dislocate in territorio polacco. Da qui, loro reparti vengono trasferiti, per addestramento ed esercitazioni, in altri paesi dell’Est, soprattutto Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania e probabilmente anche Ucraina, ossia vengono continuamente dislocati a ridosso della Russia.

Sempre nel quadro di tale operazione, è stata trasferita nella base di Illesheim (Germania) da Fort Drum (New York), lo scorso febbraio, la 10a Brigata aerea da combattimento, con oltre 2000 uomini e un centinaio di elicotteri da guerra. Da Illesheim, sue task force vengono inviate «in posizioni avanzate» in Polonia, Romania e Lettonia. Nelle basi di Ämari (Estonia) e Graf Ignatievo (Bulgaria), sono dislocati cacciabombardieri Usa e Nato, compresi Eurofighter italiani, per il «pattugliamento aereo» del Baltico.

L’operazione prevede inoltre «una persistente presenza nel Mar Nero», con la base aerea di Kogalniceanu (Romania) e quella addestrativa di Novo Selo (Bulgaria).

Il piano è chiaro. Dopo aver provocato col putsch di Piazza Maidan un nuovo confronto con la Russia, Washington (nonostante il cambio di amministrazione) persegue la stessa strategia: trasformare l’Europa in prima linea di una nuova guerra fredda, a vantaggio degli interessi degli Stati uniti e dei loro rapporti di forza con le maggiori potenze europee.

10 miliardi di dollari investiti dagli Usa per «rassicurare» l’Europa, servono in realtà a rendere l’Europa ancora più insicura.

 

 

 

 

Russia e Cina contro l’impero del dollaro

di Manlio Dinucci

 

Un vasto arco di tensioni e conflitti si estende dall’Asia orientale a quella centrale, dal Medioriente all’Europa, dall’Africa all’America latina. I «punti caldi» lungo questo arco intercontinentale – Penisola coreana, Mar Cinese Meridionale, Afghanistan, Siria, Iraq, Iran, Ucraina, Libia, Venezuela e altri – hanno storie e caratteristiche geopolitiche diverse, ma sono allo stesso tempo collegati a un unico fattore: la strategia con cui «l’impero americano d’Occidente», in declino, cerca di impedire l’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.

Che cosa Washington tema lo si capisce dal Summit dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) svoltosi il 3-5 settembre a Xiamen in Cina. Esprimendo «le preoccupazioni dei Brics sull’ingiusta architettura economica e finanziaria globale, che non tiene in considerazione il crescente peso delle economie emergenti», il presidente russo Putin ha sottolineato la necessità di «superare l’eccessivo dominio del limitato numero di valute di riserva».

Chiaro il riferimento al dollaro Usa, che costituisce quasi i due terzi delle riserve valutarie mondiali e la valuta con cui si determina il prezzo del petrolio, dell’oro e di altre materie prime strategiche. Ciò permette agli Usa di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale.

Lo yuan cinese è però entrato un anno fa nel paniere delle valute di riserva del Fondo monetario internazionale (insieme a dollaro, euro, yen e sterlina) e Pechino sta per lanciare contratti di acquisto del petrolio in yuan, convertibili in oro.

I Brics richiedono inoltre la revisione delle quote e quindi dei voti attribuiti a ciascun paese all’interno del Fondo monetario: gli Usa, da soli, detengono più del doppio dei voti complessivi di 24 paesi dell’America latina (Messico compreso) e il G7 detiene il triplo dei voti del gruppo dei Brics.

Washington guarda con crescente preoccupazione alla partnership russo-cinese: l’interscambio tra i due paesi, che nel 2017 dovrebbe raggiungere gli 80 miliardi di dollari, è in forte crescita; aumentano allo stesso tempo gli accordi di cooperazione russo-cinese in campo energetico, agricolo, aeronautico, spaziale e in quello delle infrastrutture.

L’annunciato acquisto del 14% della compagnia petrolifera russa Rosneft da parte di una compagnia cinese e la fornitura di gas russo alla Cina per 38 miliardi di metri cubi annui attraverso il nuovo gasdotto Sila Sibiri, che entrerà in funzione nel 2019, aprono all’export energetico russo la via ad Est mentre gli Usa cercano di bloccargli la via ad Ovest verso l’Europa.

Perdendo terreno sul piano economico, gli Usa gettano sul piatto della bilancia la spada della loro forza militare e influenza politica. La pressione militare Usa nel Mar Cinese Meridionale e nella penisola coreana, le guerre Usa/Nato in Afghanistan, Medioriente e Africa, la spallata Usa/Nato in Ucraina e il conseguente confronto con la Russia, rientrano nella stessa strategia di confronto globale con la partnership russo-cinese, che non è solo economica ma geopolitica.

Vi rientra anche il piano di minare i Brics dall’interno, riportando le destre al potere in Brasile e in tutta l’America latina. Lo conferma il comandante dello U.S. Southern Command, Kurt Tidd, che sta preparando contro il Venezuela l’«opzione militare» minacciata da Trump: in una audizione al senato, accusa Russia e Cina di esercitare una «maligna influenza» in America latina, per far avanzare anche qui «la loro visione di un ordine internazionale alternativo».

senso accerchiamento russia

Fonte: Limes n.16/2016.

12° Podcast _ UNA DINASTIA IN BILICO, di Gianfranco Campa

Questa volta i riflettori puntano a illuminare un altro angolo del palcoscenico a stelle e strisce; quello sino ad ora riservato ai Clinton. Protagonisti, nell’ombra e in primo piano, in questi ultimi venti anni, ma con una pesante ipoteca riguardo al loro futuro politico segnato dalla drammatica sconfitta elettorale alle presidenziali americane. Gli attacchi forsennati a Trump dell’intero vecchio establishment hanno impedito la resa dei conti postelettorale nel Partito Democratico. La sua progressiva normalizzazione tranquillizzerà probabilmente la vecchia classe dirigente e la spingerà a regolare i conti al proprio interno e a gestire in qualche maniera il ricambio. Il contesto geopolitico e sociopolitico è, però, radicalmente mutato rispetto ad appena dieci anni fa. Gli Stati Uniti in qualche maniera devono prendere atto della presenza di altri attori di peso nello scacchiere internazionale; all’interno le basi di consenso dei due partiti tradizionali sono cambiate con una erosione delle basi elettorali e un significativo spostamento di opinione di importanti settori di ceto popolare e medio, come per altro sta avvenendo in maniera più confusa anche in Europa. Sullo sfondo una radicale polarizzazione che impedisce a tutte le forze di assumere il ruolo di forza politica in grado di garantire la coesione del paese. Le emergenti non riescono ancora a sedurre almeno una parte significativa dei settori di punta e più avanzati del paese; le altre sembrano ancora del tutto sorde ai richiami del loro elettorato tradizionale.La paralisi programmatica e progettuale di queste ultime appare sempre più evidente. Come se non bastasse, la possibile formazione autonoma di un nuovo movimento politico, come conseguenza della defenestrazione dei sostenitori originari dallo staff presidenziale, potrebbe catalizzare definitivamente questi settori ed avviare ad una crisi profonda se non irreversibile prima il Partito Repubblicano e poi quello Democratico. Non a caso la componente radicale, più legata ai ceti professionali, del Partito Democratico stesso si è rivelata molto più cauta e sconcertata nei confronti di Trump. Nelle intenzioni della famiglia Clinton questa dovrebbe essere una fase di transizione generazionale, ma con le stesse dinastie come protagoniste; nei fatti Hillary Clinton potrebbe rivelarsi il capro espiatorio perfetto da offrire in cambio della definitiva defenestrazione di Trump e con questo pregiudicare le ambizioni della progenie e di qualche adepto rimasto impigliato in qualche parte del mondo. Fantapolitica? Molto probabile! Questi due anni sono stati però effervescenti e sorprendenti. Le trappole disseminate nello scacchiere internazionale iniziano a stringersi e gli armadi di gran parte di questi esponenti politici, cresciuti e formatisi in altri contesti, sono ricolmi di scheletri pronti alla riesumazione. Lo scontro è apertissimo _ Giuseppe Germinario

FIN(e)CANTIERI, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il testo apparso sulla rivista “Difesa Online”  con una valutazione molto critica dei contenuti dell’accordo che si va profilando tra l’italiana Fincantieri e la francese STX riguardo al settore della cantieristica navale. Già quattro anni fa in un paio di articoli avevo trattato di un “misterioso documento”, redatto da una inesistente Lisa Jeanne, riguardante le problematiche e il futuro di Finmeccanica, compresa la divisione cantieristica navale. ( http://italiaeilmondo.com/2017/09/13/astri-nascenti-stelle-cadenti-mine-vaganti-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-pubblicato-sul-sito-conflittiestrategie-it-il-28112013/  in particolare il paragrafo “LE ASPIRAZIONI NASCOSTE DI LISA JEANNE”). Già da allora si paventava il declino inesorabile e il rischio della perdita di controllo della gestione di una azienda strategica; una delle poche capaci di sviluppare tecnologia, di garantire un minimo di autonomia produttiva nel sistema della difesa e di trasferire nel produzione civile le competenze acquisite. Da allora sono stati compiuti ulteriori decisivi passi indietro nella cessione di queste competenze tecniche e nel controllo delle produzioni del complesso militare. Una scelta colpevole già anni fa, addirittura masochistica e criminale in una fase di incipiente multipolarismo nella quale l’ambito della produzione militare strategica, compreso quello navale, non solo viene sempre più tutelato dagli stati decisi a salvaguardare in qualche maniera la propria autonomia decisionale, ma risulta decisivo, grazie alle crescenti commesse e ai maggiori margini economici, al mantenimento della stessa cantieristica civile e delle stesse produzioni civili ad alto contenuto tecnologico. L’Italia, al contrario, con la cessione della Avio, del Nuovo Pignone, con l’assorbimento di Selenia era già sulla strada di un inesorabile declino e una inevitabile sudditanza. Altri settori apparentemente estranei a questi ambiti, come quello della ceramica e della siderurgia specializzata, seguivano la stessa strada. Da allora il cammino è apparso inarrestabile. Ad esso si aggiunge, in conclusione, l’intenzione di Leonardo di concentrarsi sulla sola elicotteristica civile ed ora di Fincantieri nella costruzione di navi commerciali, settori i quali consentono produzioni dai margini ben più ridotti, poco compatibili con livelli elevati di ricerca. Con il rischio sempre più tangibile di vedere ridimensionati, nel medio termine, anche questi settori. Questo dovrebbe essere uno dei temi fondamentali da trattare per chi volesse realmente costruire una forza politica di interesse nazionale, contrapposta alla palude crescente del nostro scenario politico. Altri temi, come quello dell’immigrazione, pur importanti, dovrebbero fungere da corollario. Sarebbe finalmente il discrimine qualificante tra una forza politica in grado di formare una classe dirigente seria, capace di governare e indirizzare un paese ed una invece esposta e vittima di facili demagogie. Qui sotto il testo e il link di riferimento:

 

FINCANTIERI: THE FRENCH CONNECTION E L’ITALIAN JOB

( http://www.difesaonline.it/evidenza/lettere-al-direttore/fincantieri-french-connection-e-litalian-job )di Damiano Trieste)
11/09/17

L’accordo è ormai cosa fatta. I titoli Fincantieri sono infatti in salita da alcuni giorni ed è ricominciato il mantra celebrativo della nascita del polo franco-italiano della cantieristica militare. Il compito è convincere gli italiani che quella che promette di essere una sonora sconfitta in realtà sarà una luminosa vittoria del nostro capitalismo di Stato. I dettagli non sono ancora noti. Ci avventuriamo però in un’ipotesi (sperando di essere in errore), basata sul pessimismo che la storia recente del nostro Paese e dei suoi centri di potere impone. La nostra sfera di cristallo dice che la soluzione adottata, dopo i proclami indignati dei nostri governanti come reazione per la rimessa in discussione da parte di Macron degli accordi già sottoscritti, privilegerà la Francia a scapito l’Italia, nel senso, per essere concreti, del nostro Pil, dei livelli occupazionali, etc..

Ecco quindi la mossa del cavallo con cui Macron farà scacco matto all’Italia (magari con lo zampino di qualche “fraterno” amico italiano): dare vita a un Polo europeo della cantieristica, suddiviso in due rami. A Fincantieri la gestione, ancorché sotto tutela del governo francese (che non cede la maggioranza della proprietà), del nuovo gruppo industriale Saint Nazaire-Fincantieri per il mercantile; alla francese Naval Groups il controllo del ramo militare di Fincantieri (quello redditizio).

L’impresa che tanto ci aveva inorgogliti, finalizzata alla conquista di un pericoloso concorrente francese, si sta trasformando nel soccorso, con fondi pubblici, ai cantieri di Saint Nazaire per non farli fallire e nella cessione al gruppo francese Naval Groups del controllo della nostra Industria Navalmeccanica militare, con conseguenze pesanti anche per Leonardo. Un bel colpo di scena, non c’è che dire.

Considerato il rapporto di forza fra Naval Groups e Fincantieri militare, la prima capacità a essere anemizzata (come sempre è accaduto nei casi precedenti di merger fra aziende italiane e gruppi francesi) sarà quella progettuale, per ridurci al ruolo di semplici subfornitori. Poi seguirà la dismissione di alcuni cantieri italiani destinati a costruire navi militari, considerati esuberanti rispetto a quelli del nuovo gruppo franco-italiano. Il primo a cadere sarà lo storico cantiere di Castellammare di Stabia, su cui peraltro Fincantieri non ha investito da tempo, seguiranno gli altri. Con buona pace dei Sindacati e dell’indotto industriale italiano, Fincantieri non solo continuerà a trasferire ai cantieri Vaard in Romania carichi di lavoro da Riva Trigoso e dal Muggiano, ma si avvarrà anche dei cantieri francesi, a scapito di quelli italiani, per onorare gli impegni sottoscritti per il mantenimento dei livelli occupazionali di Saint Nazaire. Si prepari quindi Monfalcone, Ancona e poi Palermo (che possiede il più grande bacino in muratura del Mediterraneo in grado di ospitare navi da 350.000 tonnellate – foto).

Sul fronte militare, oltre alle conseguenze negative per l’occupazione nella cantieristica e dell’indotto, fra i danni collaterali ci saranno anche i livelli occupazionali delle aziende di Leonardo. Visto che Thales, il suo principale concorrente possiede il 15% di Naval Groups, è evidente che come conseguenza della leadership francese sul ramo militare, i sistemi d’arma e di comando e controllo di Thales saranno privilegiati sulle nuove navi, rispetto a quelli di Leonardo. Considerato che quasi il 50% del valore economico di una nave militare è rappresentato dai suoi equipaggiamenti, il danno in termini di Pil e di occupazione per l’Italia è evidente. Ancora peggiore potrebbe essere lo scenario se il Governo avesse offerto anche Finmeccanica nel pacco dono ai francesi. In questo caso anche Leonardo verrebbe ridotta progressivamente al ruolo di sub-fornitrice dell’Industria francese.

Il Governo italiano riducendo sempre più il bilancio della Difesa ha demolito non solo le potenzialità operative delle Forze Armate, ma con loro ha impoverito la capacità d’innovazione e più in generale la forza dell’industria ad alta tecnologia della Difesa, rendendola sempre più vulnerabile e meno competitiva sui mercati esteri. Esattamente l’opposto di quello che ha fatto la Francia, che ora si appresta ad assorbire anche le nostre ultime capacità autonome nel settore della Difesa.

È inoltre opportuno chiarire che nonostante i proclami per la creazione di un nuovo Airbus Navale, in grado di accelerare l’integrazione della Difesa Europea, Macron non metterà a sistema Europa tutti i suoi cantieri, ma solo quelli in difficoltà di Saint Nazaire, tenendo per la Francia i cantieri navali a più alto contenuto tecnologico, ovvero quelli in grado di costruire le unità militari più sofisticate fra cui i sottomarini, esattamente come già accaduto con l’Airbus Aeronautico. Anche in il quel caso la Francia tenne separati da Airbus, in mani esclusivamente francesi, gli stabilimenti della Dassault, da cui provengono gli ottimi caccia multiruolo Rafale (foto), con cui la Francia ha fatto, spesso con successo, concorrenza al consorzio europeo Eurofighter.

Una volta di più la Francia accorperà sotto la sua leadership un fastidioso concorrente europeo, mantenendo tuttavia nelle sue mani i gioielli di famiglia. Quindi Europa si, ma a guida francese.

Per il settore mercantile, la mancanza della maggioranza della proprietà non consentirà a Fincantieri, probabilmente con suo grande sollievo, di adottare piani industriali aggressivi per rilanciare Saint Nazaire, potendo scaricare sul suo maggior azionista (lo Stato Italiano) i debiti del cantiere francese, che devono essere davvero poderosi, considerato il prezzo irrisorio di 80 milioni di euro a cui sono stati acquistati. Un prezzo fantastico per un affare convenientissimo. Strano che all’asta si sia presentata, unica fra tutti i grandi gruppi cantieristici del mondo, fra cui il colosso tedesco ThyssenKrupp, solo Fincantieri. Possibile che Bono sia stato l’unico a fiutare l’affare?

Ai meno ingenui tutta l’operazione appariva sin dall’inizio come il salvataggio di Saint Nazaire e non un’acquisizione per eliminare un pericoloso concorrente nel segmento delle grandi navi passeggeri, come veniva raccontato al pubblico italiano. Sarebbe stato assai più vantaggioso per Fincantieri lasciare che i cantieri di Saint Nazaire fallissero, senza accollare alla nostra finanza pubblica anche questo fardello. Anche la giustificazione addotta in merito alla mancanza di spazi per costruire navi passeggeri da 200.000 tonnellate non ha senso, visto che Fincantieri possiede a Palermo (foto) un bacino in muratura in grado di contenere navi di grandissimo tonnellaggio (300.000 tons.) molto superiore a quello richiesto per le nuove pur grandi navi passeggeri. Sarebbe bastato investire risorse nel cantiere siciliano invece che all’estero, per disporre di uno stabilimento in grado di reggere la concorrenza sulle navi passeggeri di grande taglia , sempre più richieste dagli armatori internazionali.

Del resto anche la proposta fatta dal ministro dell’economia francese La Maire di dare vita a un Airbus nel settore navale, per vincere le resistenze del governo italiano, è farina del sacco di Bono (facile la verifica sul web), sinora non decollata per le conseguenze negative sull’insieme delle aziende della Difesa italiana. Perché allora è la Francia a proporla e non il nostro Governo, se l’idea era dell’amministratore delegato del gruppo italiano? Un fatto è sicuro, dopo che La Maire ha garantito che l’amministratore delegato e il presidente del nuovo gruppo Franco Italiano nel settore passeggeri sarebbero stati espressione di Fincantieri, anche senza la maggioranza della proprietà, l’atteggiamento di Fincantieri è tornato estremamente collaborativo. Dopo tale annuncio si sono ritrovati Francia e Fincantieri alleati a spingere per far accettare la proposta francese e dall’altra, il Ministro Calenda e Padoan che cercavano di resistere per ottenere maggiori tutele per l’interesse italiano. Ma Fincantieri non era di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, cioè dello Stato Italiano?

Che le conseguenze dell’accordo possano essere nefaste per l’interesse dei cittadini italiani, qualora dovesse essere configurato come anticipato da noi (nella speranza di aver sbagliato), lo dimostrano i precedenti delle fusioni industriali con i francesi, nello spazio e nella missilistica. La Selenia Spazio ad esempio era un’eccellenza mondiale nella costruzione dei satelliti. Da quando è entrata in gioco Thales come sua partner di maggioranza, l’azienda italiana è scomparsa dai radar.

Alla fine dei conti, per la politica italiana la scelta sarà combattere il blocco Francia/Fincantieri o piegarsi, evitando il conflitto con avversari potenti, cercando di salvare la faccia con il racconto dell’Airbus Navale. Si tratta in fondo di arrivare all’elezioni d’Aprile. Si potrà comunque raccontare la favola della vittoria Italiana, perché avremmo ottenuto dai francesi (anche se su proposta francese, ma questa è una sottigliezza) di dare vita al polo industriale europeo per la difesa comune. Diremo anche che non conta chi comanda, ma è lo spirito europeo che miriamo a rafforzare. E poi meglio avere Fincantieri come amica in tempi di elezioni che come nemica. D’altra parte i danni li subiranno gli italiani, ma non subito, fra qualche tempo, a elezioni passate. Un altro settore produttivo strategico sembra quindi destinato a cadere in mani straniere, nell’indifferenza complice dell’opposizione e dei Sindacati.

Se dovesse finire così, Macron avrebbe vinto alla grande. Sarebbe riuscito a non dare agli italiani la proprietà di Saint Nazaire e a prendere il controllo tramite Naval Groups del comparto industriale italiano dedicato alla costruzione di navi militari. Se ciò non fosse già abbastanza, tramite Thales potrebbe assorbire in un abbraccio mortale anche le aziende di Leonardo. In sintesi tutto il settore dell’industria della difesa italiana passerebbe sotto leadership francese. Macron avrebbe fatto il suo dovere nei confronti del popolo che l’ha eletto, quello di difendere gli interessi nazionali francesi. Ma anche noi italiani abbiamo un vincitore: il Dott. Giuseppe Bono. Invece di andare in pensione, dopo 12 anni di regno su Fincantieri, a cui era approdato dopo un periodo a Finmeccanica e prima ancora in Efim, a 73 anni conquisterà un’altra prestigiosa poltrona che gli consentirà di rimanere in sella, con tutti gli annessi e connessi del caso, almeno sino a 77 anni. Vassallo del Re di Francia e non più monarca assoluto di Fincantieri, è vero, ma a 73 anni, quando la maggioranza dei coetanei è in pensione da tempo, si può senz’altro accontentare.

E all’interesse nazionale? Ci penserà qualcun altro.

Oppure no.

(foto: Présidence de la République française / Fincantieri / U.S. Air Force)

11° Podcast_LA FORTEZZA ASSEDIATA, di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa conferma con cognizione di causa ciò che lui stesso e questo sito avevano analizzato e previsto in tutti questi mesi. Il vecchio establishment è riuscito a riprendere il controllo integrale degli strumenti di governo. Gli strumenti di potere no, quelli li ha sempre detenuti, anche se profondamente intaccati nella loro efficacia e nella loro credibilità. Hanno ripreso il fortino, ma hanno dovuto scoprire gran parte dei loro sistemi di difesa e di attacco Lo scotto pagato per conseguire la vittoria è stato pesante. Hanno dovuto a malincuore includere Trump, il portabandiera e allontanato, ma non annientato i veri artefici dell’incursione alla Casa Bianca i quali intendono riprendere piena libertà di azione, forti degli strumenti e del consenso del nocciolo duro e compatto sul quale Trump ha basato la propria campagna elettorale. Hanno però messo a nudo l’artificiosità del gioco democratico di questi ultimi decenni evidenziando la sotterranea connivenza tra i vertici dei due partiti contendenti;  infatti sia buona parte della dirigenza del Partito Democratico che la quasi totalità di quello Repubblicano ne escono screditati sino a veder minacciata, quest’ultima, la propria stessa sopravvivenza. Hanno compromesso in maniera duratura la credibilità e l’efficacia del sistema di informazione. Hanno dovuto vellicare i peggiori istinti del repertorio dirittoumanitarista e del politicamente corretto sino a legittimare la furia iconoclasta che sta alimentando a dismisura le profonde divisioni nel paese e provocare reazioni altrettanto retrograde, utili però a strumentalizzare e demonizzare il profondo movimento di dissenso che cova sotto le ceneri. Hanno dovuto mettere in campo, nella gestione dell’esecutivo, soprattutto un intero staff militare. Le implicazioni circa la credibilità di questa fondamentale istituzione dello Stato e le particolari modalità di conduzione del gioco politico non tarderanno a manifestarsi pesantemente. In sostanza, lo scontro politico nel merito non si è concluso, ma spostato su un altro terreno in modo altrettanto radicale. Se i vincitori attuali riusciranno a riportare nell’ombra i meccanismi veri del potere potranno vincere definitivamente; in caso contrario lo scontro si annuncerà ancora più duro e pesante. Buon ascolto, con tanta attenzione_ Giuseppe Germinario

Qui sotto il link

11https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-11

Meno due, meno uno……, a cura di Giuseppe Germinario

bannonsteve_trumpdonald_gorkasebastian_gnCon le dimissioni di Sebastian Gorka dallo staff presidenziale americano, la presenza del nucleo originario di sostegno che ha portato all’elezione e all’insediamento di Trump si riduce al solo Peter Navarro, rimasto per altro al di fuori del Consiglio Nazionale. Una funzione, praticamente, di mera testimonianza. La lettera ha evidenziato chiaramente i termini del dissenso, in aggiunta e in maniera più secca rispetto alla lettera di dimissioni di Bannon. La lotta all’islamismo radicale avrebbe dovuto essere la base su cui costruire un accordo di vicinato con l’attuale leadership russa. Una ambizione resa però chimerica dall’inclusione di Hamas, tra le organizzazioni terroristiche, in buona compagnia dei Fratelli Musulmani, sostenuti dalla Turchia; dall’elezione dell’Iran a principale avversario dichiarato nello scacchiere mediorientale. La revisione dell’accordo con l’Iran avrebbe dovuto riguardare soprattutto, nelle intenzioni iniziali, la parte economica, giudicata poco favorevole agli interessi americani; con il passare del tempo, grazie anche alla sommatoria di opzioni scaturite dal conflitto interno alla dirigenza americana, ha assunto sempre più un peso geopolitico. Una dinamica la cui inerzia sta risucchiando la politica estera americana verso il classico sodalizio israelo-saudita indebolito però dalla crisi della dinastia dei Saud. Una impostazione che sta ricacciando progressivamente gli Stati Uniti dalla posizione di arbitro-giocatore a quella di compartecipe pur essenziale. In questo il pragmatismo dichiarato di Trump e del nuovo staff di cui si è circondato, o per meglio dire che lo ha circondato e messo sotto tutela, sembra avere decisamente la meglio con il risultato di riportare in auge, su scala più ampia e coinvolgendo direttamente gli stati nazionali, l’interventismo “caotico” privo però, almeno al momento, della copertura ideologica dirittoumanitarista. Il coinvolgimento esplicito dell’India, l’inclusione possibile dei Talebani, di parte di essi, nella riorganizzazione dell’Afghanistan successiva al nuovo intervento americano, esplicitato per la prima volta in forma ufficiale, lasciano intravedere nuove articolazioni per altro già tracciate sul finire della Presidenza di Obama, ma anche nuovi spazi ai disegni geopolitici concorrenti. Non a caso, tra le varie cose, l’attuale Governo Afghano ha offerto proditoriamente ai russi il ruolo di mediatori e di forza di intermediazione. Una impostazione che sta riportando rapidamente la politica americana dall’intenzione di ridimensionare direttamente la Cina attraverso soprattutto l’induzione di una sua crisi finanziaria, come teorizzato dal gruppo ormai sconfitto all’interno della Casa Bianca al classico canovaccio che vede nella Russia l’avversario da battere e la Cina la potenza da contenere e da inglobare in qualche maniera. Con il tramontare, pur anche agli albori, di questa nuova strategia rimane comunque un ruolo più diretto ma più circoscritto degli Stati Uniti e della sua stessa diplomazia. Quest’ultima, spesso e volentieri, vedi anche l’Ucraina, rimaneva defilata salvo agire per vie traverse sabotando o reinterpretando accordi sottoscritti da altri. Fallisce, probabilmente, l’obbiettivo prioritario di ridare coesione alla formazione sociale americana attraverso una politica di massiccio reinsediamento industriale e produttivo a scapito dei tanti paesi economicamente emergenti sulla base del deficit commerciale americano da perseguire attraverso un rivoluzionamento del sistema di accordi commerciali e finanziari. Il punto di compromesso tra le forze originarie residue sostenitrici di Trump e la parte del vecchio establishment disponibile, almeno all’apparenza, ad un accordo sarà probabilmente un parziale riequilibrio delle compensazioni commerciali che non metta in discussione l’impianto delle relazioni economiche e finanziare e del sistema delle relazioni internazionali. Un compromesso che, probabilmente, risulterà insufficiente a ricomporre le divisioni e la disgregazione che sta colpendo quel paese, al pari di tanti altri soprattutto del blocco occidentale. Da qui la considerazione che la battaglia politica non sia affatto conclusa nei termini così aspri e cruenti manifestatisi ultimamente. Il rientro di Gorka a Breibart e il programma di rifondazione del sito sono lì a testimoniare la determinazione. Resta da vedere quanta parte delle élites dissidenti sono disposte a seguirli. Da lì si vedrà se lo scontro assumerà le forme di una riproposizione o assumerà tutt’altre conformazioni e chiamerà nuovi leader alla ribalta. Giuseppe Germinario

Sebastian Gorka • Trump Comrade

Sebastian Gorka • Trump Comrade

Le intenzioni e le dichiarazioni di Bannon e Gorka sono tutte lì a testimoniare, pur nel residuo ossequio formale al Presidente, come pure però le grandi contraddizioni irrisolte di quel movimento che meriteranno una riflessione a parte, soprattutto alla luce delle possibilità di azione politica nel nostro paese che si potranno creare.

Qui il link con il testo integrale delle dimissioni di Sebastian Gorka

http://www.breitbart.com/big-government/2017/08/28/in-full-dr-sebastian-gorkas-explosive-white-house-resignation-letter/

 

tf78gy9uhoijpQui sotto la traduzione (utilizzando un traduttore)

Il dottor Sebastian Gorka, che da gennaio ha servito come vice assistente del presidente Donald Trump, si è dimesso dall’amministrazione della Casa Bianca venerdì sera, dicendo: “è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa di MAGA (Make America Great Again)sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca. “

Breitbart News ha ora ottenuto una copia completa della sua lettera di dimissioni:

Caro Signor Presidente, 

È stato un mio grande onore servire nella Casa Bianca come uno dei tuoi Vice Assistenti e Strategisti.

Negli ultimi trent’anni la nostra grande nazione, e soprattutto le nostre élite politiche, mediatiche ed educative, si sono allontanate così lontano dai principi della Fondazione della nostra Repubblica, che abbiamo affrontato un futuro triste e ingiusto.

La tua vittoria dello scorso novembre era veramente un “passaggio di Ave Maria” sulla via per ristabilire l’America sui valori eterni sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione di Indipendenza.

Per me è dunque più difficile sostenere le mie dimissioni con questa lettera.

La tua presidenza si dimostrerà uno degli eventi più significativi della politica moderna americana. L’8 novembre è il risultato di decenni durante i quali le élite politiche e mediatiche hanno ritenuto di sapere meglio di quelle che li hanno eletti in carica. Non lo fanno, e la piattaforma MAGA ha permesso di ascoltare finalmente le loro voci.

Purtroppo, al di fuori di te, gli individui che hanno più incarnato e rappresentato le politiche che “faranno di nuovo grande l’America” sono state contrastate internamente, rimosse sistematicamente o minacciate negli ultimi mesi. Questo è stato fatto chiaramente ovviamente mentre leggevo il testo del tuo discorso su Afghanistan questa settimana.

Il fatto che chi ha formulato e approvato il discorso abbia rimosso qualsiasi menzione di “islam radicale” o “terrorismo islamico radicale” dimostra che un elemento cruciale della vostra campagna presidenziale è stato perso. 

Semplicemente preoccupante, quando discuteva le nostre azioni future nella regione, il discorso ha elencato gli obiettivi operativi senza definire mai le condizioni di vittoria strategiche per le quali stiamo lottando. Questa omissione dovrebbe disturbare seriamente ogni professionista della sicurezza nazionale e qualsiasi americano insoddisfatto degli ultimi 16 anni di decisioni politiche disastrose che hanno portato a migliaia di americani uccisi e trilioni di dollari dei contribuenti spesi in modi che non hanno portato sicurezza o vittoria.

L’America è una nazione incredibilmente resiliente, la più grande sulla Terra di Dio. Se non fosse così, non avremmo potuto sopravvivere attraverso gli anni incredibilmente divisivi dell’amministrazione Obama, né assistere al tuo messaggio per sconfiggere in modo sconfitto un candidato che ti ha spedito in modo significativo con il suo complesso industriale di Fakenews è al 100%.

Tuttavia, dato gli avvenimenti recenti, è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa MAGA sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca.

Di conseguenza, il modo migliore e più efficace per poterti sostenere, signor Presidente, è al di fuori della Casa del Popolo.

Milioni di americani credono nella visione di rendere l’America ancora grande. Essi contribuiranno a riequilibrare questa sfortunata realtà temporanea.

Nonostante il trattamento storicamente senza precedenti e scandaloso che hai ricevuto da parte di coloro che sono all’interno dell’istituzione e dei principali media che vedono perenne l’America come il problema e che vogliono re-ingegnerizzare la nostra nazione nella loro stessa immagine ideologica, so che tu resterai sicuramente per il bene di tutti i cittadini americani.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta nei tuoi uffici a New York, nell’estate del 2015, è stato immediatamente chiaro che amate la Repubblica e a questo non dovrai mai rinunciare una volta che ti sei impegnato nella vittoria.

Quando si tratta dei nostri interessi vitali della sicurezza nazionale, la tua leadership garantisce che il terrorismo islamico radicale sarà eliminato, che la minaccia di un Iran nucleare sarà neutralizzata e che le ambizioni egemoniche della Cina comunista saranno contrastate in modo robusto.

I compatrioti ei stessi lavoreranno all’esterno per sostenere te e il tuo team ufficiale quando torniamo l’America al suo luogo giusto e glorioso come la splendida “città su una collina”.

Dio benedica l’America.

In gratitudine,

Sebastian Gorka

Qui sotto l’estratto di un interessante documento sulla possibile evoluzione del conflitto politico-sociale negli Stati Uniti (dovete però tradurvelo):

Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 1 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

Founded in 1972. Formerly Defense & Foreign Affairs Daily Volume XXXV, No. 42 Friday, August 18, 2017 © 2017 Global Information System/ISSA.
Early Warning The Impulse in the US Toward Civil War Analysis. By Gregory R. Copley, Editor, GIS/Defense & Foreign Affairs. Yes, there is a civil war looming in the United States. But it will look little like the orderly pattern of descent which spiraled into the conflict of 1861-65. It will appear more like the Yugoslavia break-up, or the Russian and Chinese civil wars of the 20th Century. It will appear as an evolving chaos. And the next US civil war, though it yet may be arrested to a degree by the formal hand of centralized government, will destabilize many other nation-states, including the People’s Republic of China (PRC). It may, in other words, be short-lived simply because the uprising will probably not be based upon the decisions of constituent states (which, in the US Civil War, created a break-away confederacy), acting within their own perception of a legal process. It is more probable that the 21st Century event would contage as a gradual breakdown of law and order. The outcome, to a degree dependent on how rapidly order is restored, would likely be the end, or constraint, of the present view of democracy in the US. It would see a massive dislocation of the economy and currency. It would, then, become a global-level issue. Humans mock what they see as an impulse toward species suicide among the beautiful lemming clan of Lemmus lemmus.1 In fact, these tiny creatures have a societal survival pattern which seems more consistent than that of their human detractors. The pattern of human history shows that civilizations usually end through internal illness rather than at the hand of external powers. It is significant that the gathering crisis in the United States was not precipitated by the November 7, 2016, election of Pres. Donald Trump, and neither was the growing polarization of the United Kingdom’s society caused by the Brexit vote of 2016. In both instances, the election of Mr Trump and the decision by UK voters for Britain to exit the European Union were late reactions — perhaps too late — by the regional populations of both countries to what they perceived as the destruction of their nationstates by “urban super-oligarchies”.
Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 2 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

The last-ditch reactions by those who voted in the US for Donald Trump and those who voted in the UK for Brexit were against an urban-based globalism which has been building for some seven decades, with the deliberate or accidental intent of destroying nations and nationalism. It is now crystallizing into this: urban globalism sees nations and nationalism as the enemy, and vice-versa. The battle lines have been drawn. The urban globalists — the conscious and unconscious — have thrown their resources behind efforts to avert a return to nationalism, particularly in the US and UK, but also in Europe, Canada, Australia, and the like. Urban globalists control most of the means of communications [is this new “means of production”; the 21st Century marxian dialectic?] and therefore control “information” and the perception of events. “Nationalists”, then, are operating instinctively, and in darkness. There is little doubt that the US, despite the evidence that economic recovery is at hand, could spiral into a self-destructive descent of dysfunction, dystopia, and anomie. The path toward a “second civil war” has significant parallels with the causes of the first US Civil War (1861-65). Both events — the 19th Century event and a possible 21st Century one — saw the polarization of a fundamentally urban, abstract society against a fundamentally regional, traditional society. In some respects, it is a conflict between people with long memories (even if those memories are flawed and selective) and people to whom memories and history are irrelevant. Equally, it is a conflict between identity and materialism, with the abstract social groups (the urban populations) the most preoccupied with short-term material gain. I have covered the US for 50 years, and my earliest view of it was, a half century ago, that its populations would inevitably polarize into protective islands of self-interest, surrounded by seas of unthinking locusts. What is ironic is that the present islands of wealth and power — the cities — have come to represent short-term materialism, as cities have throughout history. But what is interesting is that, despite the global attention on the political/geographic polarizations occurring in the US and other parts of the Western world, there has been a reversion in other parts of the world to a sense of Westphalian or pre-Westphalian nationalism. The fact that “the West” may have ring-fenced Iran, Russia, and so on, with sanctions and other forms of isolation may well be what ensures their enduring status. They have avoided the contagion of globalism. Russia, indeed, recovered from the Soviet form of globalism in 1991. An urban globalist “victory” over Trump and Brexit would trigger that meltdown toward a form of civil societal collapse — civil war in some form or other — as the regions disavow the diktats of the cities. That would, in turn, bring about the global economic uncertainty which could impact the PRC and then the entire world.
Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 3 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

But such a conflict — physical or political — could, equally, lead to a victory for nationalism over globalism, and to the protection of currencies and values. We have seen this cycle repeated for millennia. It is the eternal battle. Footnotes: 1. See, Copley, Gregory R.: “The Lemming Syndrome and Modern Human Society”, in UnCivilization: Urban Geopolitics in a Time of Chaos. Alexandria, Virginia, USA, 2012: the International Strategic Studies Association.

 

REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO, CRISI UCRAINA, PER LA CRITICA DELLA VIOLENZA DI WALTER BENJAMIN ED EPIFANIA STRATEGICA, di Massimo Morigi

Prosegue la pubblicazione delle spigolature di Massimo Morigi tesa ad arricchire il contenuto del suo “repubblicanesimo geopolitico”
«Nella sua forma paradigmatica la violenza mitica è pura [bloße] manifestazione degli dei. Non mezzo per i loro scopi, quasi neppure manifestazione della loro volontà, ma innanzitutto manifestazione del loro esserci. La leggenda di Niobe ne è un esempio eminente. Potrebbe sembrare che l’azione di Apollo e Artemide sia solo una punizione. Ma la loro violenza, più che punire la trasgressione di un diritto preesistente, istituisce un diritto nuovo. L’orgoglio di Niobe le attira la sventura, non già perché offenda il diritto, ma perché sfida il destino a una lotta in cui esso deve necessariamente vincere – e solo nella vittoria, casomai, promuove la nascita di un diritto nuovo. Quanto poco la violenza divina fosse, nel senso antico, quella che conserva il diritto attraverso la punizione lo dimostrano le saghe in cui l’eroe, per esempio Prometeo, sfida il destino con notevole coraggio, lotta con esso con alterne fortune mentre la saga non lo lascia senza speranze di apportare un giorno un nuovo diritto agli uomini. Un eroe siffatto e la violenza giuridica del mito nato con lui è quel che il popolo cerca ancora oggi di figurarsi ammirando il delinquente.». (1)

Riproponendo oggi per l’ “Italia e il Mondo” a più di tre anni di distanza i cinque interventi che scrissi per “Il Corriere della Collera” a commento della crisi Ucraina (in stretta successione cronologica con i rispettivi URL diretti e con i loro “congelamenti” su Webcite: “Per capire l’economia internazionale occorre leggere Von Clausewitz”: https://corrieredellacollera.com/2014/02/17/per-capire-leconomiainternazionale-leggete-von-clausewitz-e-per-capire-la-geopolitica-occorre-leggereadam-smith-di-massimo-morigi/, http://www.webcitation.org/6sZ7zs5SU e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2014%2F02%2F17%2Fper-capire-leconomia-internazionale-leggete-vonclausewitz-e-per-capire-la-geopolitica-occorre-leggere-adam-smith-di-massimomorigi%2F&date=2017-08-08; “Crisi ucraina, strategia del caos USA e Repubblicanesimo Geopolitico”: https://corrieredellacollera.com/2014/03/03/cosasignifica-la-crisi-ucraina-per-la-geopolitica-italiana-di-antonio-de-martini-emassimo-morigi/, http://www.webcitation.org/6sZ8Bygpp e
http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2014%2F03%2F03%2Fcosa-significa-la-crisi-ucraina-per-la-geopolitica-italianadi-antonio-de-martini-e-massimo-morigi%2F&date=2017-08-08; “Ancora su Ucraina, Italia, Stati uniti (ma scomodiamo Carl Schmitt, lo jus publicum europaeum e la grande bellezza, scegliete”: https://corrieredellacollera.com/2014/03/08/ancorasu-ucraina-italia-stati-uniti-ma-scomodiamo-carl-schmitt-e-la-grande-bellezzascegliete-di-antonio-de-martini-e-massimo-morigi/, http://www.webcitation.org/6sZ8TWZyl e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2014%2F03%2F08%2Fancora-su-ucraina-italia-stati-uniti-ma-scomodiamo-carlschmitt-e-la-grande-bellezza-scegliete-di-antonio-de-martini-e-massimomorigi%2F&date=2017-08-08; “Crisi ucraina: il signor Wolfowitz nel paese degli ignoranti ha fatto scuola”: https://corrieredellacollera.com/2014/03/13/crisi-ucrainail-signor-wolfowitz-nel-paese-degli-ignoranti-ha-fatto-scuola-di-antonio-de-martinie-massimo-morigi/, http://www.webcitation.org/6sZ8efRIz e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2014%2F03%2F13%2Fcrisi-ucraina-il-signor-wolfowitz-nel-paese-degliignoranti-ha-fatto-scuola-di-antonio-de-martini-e-massimo-morigi%2F&date=201708-08; “Lenin, l’imperialismo fase suprema del capitalismo, il nuovo scontro USA Russia in un mondo sempre più multipolare e il ruolo del Repubblicanesimo Geopolitico”: https://corrieredellacollera.com/2015/03/27/tra-usa-e-russia-si-staverificando-una-inversione-dei-ruoli-avuti-nella-prima-guerra-fredda-una-ripetizionea-rovescio-sarebbe-grottesca-di-antonio-de-martini-e-massimo-morigi-2/, http://www.webcitation.org/6sZ8sk28B e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2015%2F03%2F27%2Ftra-usa-e-russia-si-sta-verificando-una-inversione-deiruoli-avuti-nella-prima-guerra-fredda-una-ripetizione-a-rovescio-sarebbe-grottescadi-antonio-de-martini-e-massimo-morigi-2%2F&date=2017-08-08), in sede di riflessione su questi vecchi interventi la citazione in effige, oltre a restituirci in tutta la sua pregnanza la “teologia politica” di Walter Benjamin, introducendoci a Per una critica della violenza non solo ci permette di approfondire i motivi profondi che hanno attraversato la crisi Ucraina (come del resto anche altre crisi di legittimità dei sistemi politici ritenuti – più o meno a ragione – autoritari a favore dei regimi ritenuti – con ancor meno ragione – “democratici”) ma anche ci permette di individuare nel pensiero politico moderno una delle più smaglianti definizioni della Gestalt che deve assumere l’ obiettivo limite del Repubblicanesimo Geopolitico, vale a dire la da noi più volta enunciata ‘epifania strategica’. Ma andiamo con ordine. Si è appena affermato che il brano in esergo si presenta come modello
esplicativo delle ragioni profonde della crisi ucraina e di altre consimili, tipo primavere arabe – nel caso in specie rivoluzioni colorate – et similia (al di là ovviamente di quanto puntualmente illustrato negli articoli in questione: in primis, la solita strategia del caos statunitense che per dominare un mondo sempre più multipolare non trova nulla di meglio che esportare l’ideologia democratica allo scopo – contrariamente a quanto accadeva durante la guerra fredda – non di stabilizzare il quadro internazionale, impresa ormai impossibile in un mondo sempre più multipolare, ma di “caotizzare” ulteriormente questo scenario; il tutto, ovviamente, all’insegna del sempiterno ed immarcescibile divide et impera) (2) ma questo modello esplicativo deve essere inteso nella sua negazione, il che significa che proprio perché l’attuale sensibilità politica dei popoli retti da democrazie rappresentative o vogliosi di essere governati da questa forma di dominio è sideralmente e polarmente lontana da quella espressa dal brano in esergo si possono spiegare vicende come quella Ucraina. Quale dunque la fondamentale acquisizione teorica che oggi non solo i popoli delle ex rivoluzioni colorate e le sparute minoranze che nelle primavere arabe sinceramente ed ingenuamente credevano nella c.d. “democrazia” ma che anche la scienza politica mainstream liberaldemocratica ha totalmente dimenticato (veramente possiamo volentieri concedere il marchio dell’insipienza politica ai popoli e ai gruppi, veri e propri agenti omega-strategici, testé nominati, ma non proprio agli “scienziati” politici, protagonisti scientemente della mai tramontata e sempreverde trahison de clercs) e che ci viene restituita con inusitata forza e chiarezza nella “teologia politica” di Per una critica della violenza? Questa fondamentale acquisizione consiste che con Per una critica della violenza Walter Benjamin è andato oltre il machiavelliano “il fine giustifica i mezzi” (mai detto dal Segretario fiorentino ma che, inteso dialetticamente, ben esprime una parte fondamentale e non rimuovibile della Weltanschauung del suo pensiero e per chi teme che così giudicando il più grande pensatore politico di tutti i tempi si possa macchiarne il suo repubblicanesimo, consiglio caldamente di dedicare la propria vita di studio all’ incidente di Roswell …) (3) per dirci che nella politica i mezzi sono anche il fine, per dirci cioè che se apparentemente il ruolo del potere è quello di dare ordine e domare la violenza (e quindi per ottenere questo risultato anche metodi violenti sarebbero consentiti, con conseguente un “fine che giustifica i mezzi” violenti), in realtà i mezzi violenti sono l’espressione nascente e primigenia del potere, mezzi violenti, quindi, che sono il potere allo stato nascente e unica ed esclusiva natura vera – ancorché celata dalla legge e dall’ideologia politica, nel caso ucraino in questione, dall’ ideologia democratica – e vero e proprio “cuore di tenebra” del potere stesso.
«La leggenda di Niobe ne è un esempio eminente. Potrebbe sembrare che l’azione di Apollo e Artemide sia solo una punizione. Ma la loro violenza, più che punire la trasgressione di un diritto preesistente, istituisce un diritto nuovo. L’orgoglio di Niobe le attira la sventura, non già perché offenda il diritto, ma perché sfida il destino a una lotta in cui esso deve necessariamente vincere – e solo nella vittoria, casomai, promuove la nascita di un diritto nuovo.». (4)
Niobe, nella versione della leggenda datane in Per una critica della violenza, viene punita dagli dei non perché abbia commesso un terribile delitto ma perché questo delitto è un atto di suprema violenza e come tale rischia di fondare una nuova legge diversa da quella che garantisce il potere degli dei, perché detto ancor più direttamente, questa violenza rischia di essere l’embrione di un nuovo potere nascente e quindi gli dei per garantire la loro stessa sopravvivenza devono provvedere con un pronto aborto, la punizione di Niobe. Con Per una critica della violenza, scritto giovanile di Walter Benjamin, il pensiero realista di matrice machiavelliana giunge così a piena maturazione, una piena maturazione che molti anni dopo, in finale di vita di Benjamin, troverà un altro altissimo momento nelle Tesi di filosofia della storia, nelle quali Walter Benjamin darà espressione al suo (anche se la locuzione non è benjaminiana ma risale interamente alla responsabilità teorica dello scrivente) ‘iperdecisionismo’, iperdecisionismo, che assieme alla compiuta e matura visione del potere espressa già in Per una critica della violenza, costituisce uno dei capisaldi del Repubblicanesimo Geopolitico.
E un pensiero come il Repubblicanesimo Geopolitico, definito in dottrina anche come ‘Lebensraum Repubblicanesimo’ (5) (repubblicanesimo dello spazio vitale, spazio vitale inteso però dialetticamente e principalmente in funzione culturale e politicosimbolica) e in cui l’obiettivo sociale limite è l’ ‘Aumentato e Diffuso Dominio Repubblicano Comune’ (‘Republican Increased Common Domination’ o RICD) nella sua visione del potere non come limite della libertà ma come unico momento generatore della stessa non può che sentire profondissime assonanza con la visione intimamente strategica del rapporto fra violenza e potere espressa in Per la critica della violenza: «La funzione della violenza nell’istituzione del diritto è, infatti, duplice. Da una parte l’istituzione del diritto mira come a suo scopo, con la violenza come mezzo, a ciò che viene instaurato come diritto, dall’altra parte, nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito, non licenzia (abdankt) la violenza, ma solo ora ne fa in senso stretto e immediato una violenza istitutrice di diritto. Così facendo, con il nome di potere, essa insedia come diritto non già uno scopo esente e indipendente da violenza, ma necessariamente e intimamente legato ad essa. Istituzione di diritto è istituzione di potere e in questa misura atto che manifesta
immediatamente la violenza. Giustizia è il principio di ogni istituzione divina di scopi, potere è il principio di ogni istituzione mitica di diritti. L’applicazione mostruosa e gravida di conseguenze di tutto ciò si sperimenta nel diritto pubblico, nel cui ambito l’istituzione di confini – così come è attuata dalla “pace” di tutte le guerre di epoca mitica – è il paradigma di violenza istitutrice di diritto. Qui si evidenzia nel modo più chiaro che quanto la violenza istitutrice di diritto deve garantire non è il guadagno anche ingente di possedimenti ma il potere [in sé]. Dove si fissano confini, l’avversario non viene semplicemente annientato, anzi, se il vincitore è strapotente, gli sono riconosciuti anche dei diritti. E in modo demoniacamente ambiguo pari diritti. Entrambi i contraenti non devono superare la stessa linea. [Ma chi traccia la linea? Il vincitore, naturalmente] Dove appare in tutta la sua temibile originari età la stessa mitica ambiguità delle leggi che si non possono “trasgredire”. Anatole France ne parlava in senso satirico, dicendo che le leggi vietano allo stesso modo ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti. ». (6)
Benjamin definisce mostruoso il fatto che sia la violenza ad istituire il diritto e qui quasi si percepisce una sorta di suo tremare di fronte alla terribilità demoniaca di questa consapevolezza, una Stimmung benjaminina ben rappresentata dal riferimento ad Anatole France e alle leggi che “vietano allo stesso modo ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti”, segno che, anche se in Critica per la violenza il realismo, da punto di vista della pura elaborazione teorica di Benjamin, ha già raggiunto la piena maturazione, a questo maturo realismo teorico manca ancora la pars construens, momento edificatore di una linea di riscrittura delle “categorie del politico” e quindi di azione politica che ritroveremo molti anni dopo nelle Tesi di filosofia della storia ed in particolare nell’ VIII tesi col suo ‘iperdecionismo” che la anima.
«Venendo meno la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade. Di questi tempi un esempio è dato dai parlamenti, che presentano il noto e desolante spettacolo, avendo perso coscienza delle forze rivoluzionarie, cui devono la loro esistenza. In particolare in Germania anche le ultime manifestazioni di questa autorità è rimasta senza effetti sui parlamenti. Manca loro il senso della violenza che instaura il diritto in essi rappresentata. Non c’è da meravigliarsi che non arrivino a conclusioni degne di quell’autorità ma curino in via compromissoria un modo di trattare gli affari politici supposto senza violenza. Ma,“pur disdegnando la violenza aperta, il compromesso rimane un prodotto interno alla mentalità della violenza, perché la motivazione al compromesso non è motivata da dentro ma da fuori, addirittura dalla motivazione opposta. Anche se liberamente accettato, ogni compromesso è impensabile senza carattere coattivo. ‘Sarebbe meglio diversamente’ è il sentimento al fondo di ogni compromesso” (Unger, Politik und Metaphysik, Berlin 1921, p.8).». (7)

Abbiamo appena affermato che in Per la critica per la violenza Walter Benjamin sembra quasi ritrarsi con orrore dalla conclusione di identificare il potere con la violenza e quindi si potrebbe concludere che per quanto Per la critica della violenza rappresenti una pietra miliare nello sviluppo della dialettica del pensiero realista che nella modernità ha per punto di riferimento Machiavelli non ha ancora maturato in pieno il concetto di quell’ ‘epifania strategica’ che verrà manifestato in pieno nelle Tesi di filosofia della storia ed in particolare all’ VIII tesi. (8) Il passo appena citato ci dimostra che questa ultima parte del ragionamento non risponde assolutamente a verità. In questo ultimo luogo benjaminiano se sono chiare le suggestioni che potevano provenire dal tumultuoso ed inconcludente Reichstag dei primi anni Venti della Repubblica di Weimar, è di tutta evidenza che si tratta di considerazioni che potrebbero essere traslate non solo agli attuali parlamenti delle democrazie rappresentative delle moderne società industriali ma anche ai quei popoli e gruppi, vedi caso ucraino, che abbindolati dalla propaganda occidentale rischiano un degrado sociale, politico, economico e culturale perché ormai del tutto dimentichi del sempiterno legame fra potere e violenza, (9) essendo quindi altrettanto di tutta evidenza che già in Per la critica della violenza è presente in Benjamin una vera e propria ‘epifania strategica’ tale che, anche se in maniera esplicita manca la sua pars construens, cioè non è ancora chiaramente esplicitata l’idea di portare questa ‘epifania strategica’ a conoscenza delle masse per farne il motore e l’idea stessa della rivoluzione (questo verrà fatto nelle Tesi di filosofia della storia con tutta la sua carica dialettica antipositivistica e antiriformistica), essa è già totalmente formata, se non espressamente come proposta politica operativa, come concetto costruttore di tutto il suo pensiero politico.

Insomma, possiamo affermare che partendo già dalla sua prima elaborazione giovanile sulla politica rappresentata da Per una critica della violenza, Walter Benjamin ha cominciato a sviluppare, sulla linea realistica che ha nella modernità il suo massimo rappresentante in Machiavelli e nell’antichità Tucidide, una sorta di ‘iperrealismo politico’, un iperrealismo politico che, dialetticamente elaborando il machiavelliano “il fine giustifica i mezzi” nei “mezzi sono anche il fine” che chiaramente riluce in Per la critica della violenza, manifesterà nelle Tesi di filosofia della storia la sua piena entelechia, manifesterà cioè la totale forza e completezza della sua ‘epifania strategica’ attraverso l’ ‘iperdecisionismo’ particolarmente evidente all’VIII tesi. (10) Abbiamo detto all’ inizio che Per la critica della violenza contiene gli elementi per comprendere le ragioni profonde del perché parte del popolo ucraino si sia fatto abbindolare dalle promesse universalistiche e democraticistiche della propaganda occidentale e statunitense e pensiamo che questa semplice esposizione dei suoi passi principali possa giustificare questa affermazione. Ma assieme all’indicazione del fatto che fra i fattori principali della vicenda Ucraina è stata la mancanza totale da parte di una sezione importante della sua popolazione di una qualsiasi sensibilità strategica, bisogna anche rettificare il titolo di uno dei cinque articoli che allora parlarono di questa vicenda. Uno di questi titoli recitava nel modo
seguente: “Crisi ucraina: nel paese degli ignoranti il signor Wolfowitz ha fatto scuola”. Ora è di tutta evidenza che gli ignoranti non albergano sono in Ucraina ma pullulano addirittura in tutto il mondo occidentale ed in particolare in Italia ed è ancora più evidente che per fare sì che l’ ‘epifania strategica’ conformi il comportamento politico degli agenti omega-strategici (per gli alfa-strategici alla Wolfowitz non c’è bisogno di nessun aiuto: con o senza teoria di supporto se la cavano benissimo da soli), sarà sempre più indispensabile elaborare pensieri e strategie di azione che si informino se non alla lettera allo spirito dell’ ‘iperrealismo politico’ di Walter Benjamin. Si tratta insomma di avere l’umiltà di comprendere che – come direbbe Bernardo di Chartres – non siamo altro che nani sulle spalli di giganti che si chiamano Tucidide, Machiavelli, Hegel, Marx, Lenin, Antonio Gramsci e Walter Benjamin e con la sua particolare – ma non esclusiva, come abbiamo visto – ‘epifania strategica’ (11) il Repubblicanesimo Geopolitico non si propone altro che essere uno dei più umili maieuti di questa rivoluzionaria e dialettica interpretazione e costruzione della società.

Ravenna, 12 agosto 2017

NOTE
1) Walter Benjamin, Per la critica della violenza (1920-1921?), traduzione italiana dal tedesco di Antonello Sciacchitano, p.10 (documento agli URL http://www.sciacchitano.it/Pensatori%20epistemici/Benjamin/Per%20la%20critica%20della %20violenza.pdf, http://www.webcitation.org/6sYjQJ8Za e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.sciacchitano.it%2FPensatori %2520epistemici%2FBenjamin%2FPer%2520la%2520critica%2520della%2520violenza.pd f&date=2017-08-08), traduzione eseguita su Idem, Gesammelte Schriften, vol. II.1, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, pp. 179-204. Nonostante la non ortodossia della citazione bibliografica pure costretta a servirsi di URL internettiani (ma con il congelamento dell’URL originale tramite WebCite pensiamo almeno di aver posto rimedio alla volatilità delle fonti internet), ho deciso di ricorrere alla traduzione di Antonello Sciacchitano di questo testo benjaminiano rispetto ad altre che possono vantare un traduttore più chevronné per il semplice fatto che la versione di Schiacchitano, col suo essere scritta in un italiano più scorrevole (e, in definitiva, migliore) permette meglio di apprezzare la portata politica e teorica di Per la critica della violenza. Valeva quindi assolutamente la pena di rischiare di passare, anche se solo a livello di citazione bibliografica, per non ortodossi. Con la presente comunicazione si spera però di essere incorsi nel peccato di non ortodossia non solo per questioni così formali.

2) Sulla strategia del caos statunitense, principale strumento USA per continuare ad operare in un mondo sempre più multipolare e, soprattutto, sul conflitto strategico fra dominanti reso ancor più evidente da questo sempre maggiormente frammentato quadro internazionale, non si può fare a meno di rinviare a tutta la magistrale opera degli ultimi vent’anni di Gianfranco La Grassa, alla quale con caldo consiglio di attento ed appassionato studio rinviamo ma
senza ulteriori precisazioni visto che tutta l’opera teorica del professore di Conegliano, nessuna parte di essa esclusa e nessun periodo escluso, deve essere attentamente percorsa e studiata non solo per comprendere il mondo multipolare post caduta muro di Berlino ma anche per smascherare gli idola theatri non solo delle ideologie che si proclamavano marxiste ma di quelle, da vera e propria fine della storia, che oggi si dichiarano liberali e liberiste (e quindi con un bel salto logico, vedi un po’, democratiche …).

3) Schianto di Roswell che pur non essendovi direttamente trattato può, fuor da ogni facezia, essere debitamente inquadrato dal punto filosofico e politico attraverso la lettura di Massimo Morigi, La Democrazia che sognò le Fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico), sul Web.

4) Ibidem.

5) Sul concetto di ‘Lebensraum repubblicanesimo’ vedi in particolare i primi contributi pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” sul Repubblicanesimo Geopolitico.

6) Ibidem.

7) Ivi, p. 6.

8) «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. »: Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (VIII tesi), citato da Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola, p. 5, documento agli URL https://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico. LoStatoDi_459 e https://ia601609.us.archive.org/32/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesi moGeopolitico.LoStatoDi_459/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopo litico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-Neomarxismo.pdf .

9) Riportiamo senza commento L’Europa arretrata e l’Asia avanzata, articolo di Lenin pubblicato sulla“Pravda” nel maggio 1913: «La contrapposizione di queste parole sembra un paradosso. Chi non sa che l’Europa è avanzata, e l’Asia arretrata? Eppure le parole che formano il titolo di quest’articolo racchiudono in sé un’amara verità. L’Europa civile ed avanzata – con la sua brillante tecnica sviluppata, con la sua cultura ricca e multiforme e la sua Costituzione – è giunta a un momento storico in cui la borghesia che comanda sostiene, per tema del proletariato che moltiplica i suoi effettivi e le sue forze, tutto ciò che è
arretrato, agonizzante, medioevale. La borghesia moribonda si allea a tutte le forze invecchiate e in via di estinzione per mantenere la schiavitù salariata ormai scossa. Nell’Europa avanzata comanda la borghesia che sostiene tutto ciò che è arretrato. Nei nostri giorni l’Europa è avanzata non grazie alla borghesia, ma suo malgrado, poiché il proletariato, ed esso solo, alimenta ininterrottamente l’esercito formato dai milioni di uomini che combattono per un avvenire migliore; esso solo serba e diffonde un odio implacabile per tutto ciò che è arretrato, per la brutalità, i privilegi, la schiavitù e l’umiliazione inflitta dall’uomo all’uomo. Nell’Europa “avanzata” solo il proletariato è una classe avanzata. La borghesia ancora in vita, è pronta invece a qualsiasi atto brutale, feroce e a qualsiasi delitto per salvaguardare la schiavitù capitalista che sta per perire. Non si saprebbe fornire un esempio più impressionante di questa putrefazione di tutta la borghesia europea che quello del suo appoggio alla reazione in Asia per i cupidi scopi degli affaristi della finanza e dei truffatori capitalisti. In Asia si sviluppa, si estende e si rafforza ovunque un potente movimento democratico. Là la borghesia marcia ancora col popolo contro la reazione. Centinaia di milioni di uomini si svegliano alla vita, alla luce, alla libertà. Quale entusiasmo suscita questo movimento universale nel cuore di tutti gli operai coscienti, i quali sanno che il cammino verso il collettivismo passa per la democrazia! Quale simpatia sentono tutti i democratici onesti verso la giovane Asia! E l’Europa “avanzata”? Essa saccheggia la Cina e aiuta i nemici della democrazia, i nemici della libertà in Cina! Ecco un piccolo calcolo, semplice ma istruttivo. Il nuovo prestito cinese è stato contratto contro la democrazia cinese: l’ “Europa” è per Yuan Sci Kai, che prepara una dittatura militare. Ma perché lo sostiene essa? Perché fa un buon affare. Il prestito è stato contratto per una somma di quasi 250 milioni di rubli, al corso dell’84 per cento. Ciò significa che i borghesi d’ “Europa” versano ai cinesi 210 milioni mentre ne fanno pagare al pubblico 225. Eccovi di colpo, in qualche settimana, un beneficio netto di 15 milioni di rubli! Non è, in realtà, un beneficio veramente “netto”? E se il popolo cinese non riconoscerà il prestito? In Cina c’è la repubblica, e la maggioranza del Parlamento non è forse contraria al prestito? Oh, allora l’Europa “avanzata” leverà alte grida a proposito della “civiltà”, dell’ “ordine”, della “cultura” e della “patria”! Allora farà parlare i cannoni e schiaccerà la repubblica dell’Asia “arretrata”, in alleanza con l’avventuriero, il traditore e amico della reazione Yuan Sci Kai! Tutta l’Europa che comanda, tutta la borghesia europea è alleata con tutte le forze della reazione e del Medio Evo in Cina. In compenso la giovane Asia, vale a dire le centinaia di milioni di lavoratori dell’Asia, ha un alleato sicuro nel proletariato di tutti i paesi civili. Nessuna forza al mondo sarà capace di impedire la sua vittoria, che Libererà sia i popoli d’Europa che i popoli d’Asia.»: Lenin, Opere Scelte, vol. 1, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, pag 536-537.

10) ‘Iperdecisionismo’ benjaminiano per il quale rinviamo ancora a Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola.

11) L’opera di tutti questi autori è connotata da un profondo “momento strategico”. L’apporto del Repubblicanesimo Geopolitico a questo “momento strategico” consiste nel fatto che, oltre ad essere del tutto favorevole che la mentalità strategica sia condivisa a livello di massa (alcuni di questi autori, quelli più di “sinistra” e rivoluzionari la pensavano in questo modo, i rimanenti non sono favorevoli a questa ampia e rivoluzionaria condivisione), esso ritiene che questa impostazione strategica di massa abbia anche come ineludibile premessa pure la consapevolezza, sempre di massa, della natura dialettico-strategica non solo della realtà
politica, sociale, economica, storica e culturale ma della realtà tutta, cioè anche della realtà fisica e biologica.

Ravenna, 11 agosto 2017

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Seguono i 5 articoli pubblicati dal “Corriere della Collera” PER CAPIRE L’ECONOMIA INTERNAZIONALE OCCORRE LEGGERE VON CLAUSEWITZ

Di Massimo Morigi
Riguardo la presente crisi economica che ha colpito il mondo retto dal Washington consesus, un elemento accomuna tutte le analisi siano di matrice neoliberista o neokeynesiana o più di destra o più di sinistra per le politiche sociali da adottare: la più completa e totale assenza di un pur minimo inquadramento geopolitico. La visione dell’economia di tutti questi più o meno illustri osservatori (viene da dire più o meno somari commentatori), in fondo non si discosta dalla visione che ne ebbe a suo tempo il padre fondatore della moderna dottrina economica, Adam Smith, secondo il quale sul mercato la migliore allocazione delle risorse e l’incontro della domanda e dell’offerta è assicurata da una sorta di “mano invisibile”, la quale deve essere lasciata agire indisturbata al fine di assicurare la massima efficienza economica. Non è questa la sede per discutere nel dettaglio la attuale fallacia di questa affermazione ma può essere, invece, l’occasione per sottolineare, al di là dell’ambito strettamente tecnico, i guasti “ideologici” che nell’odierno pensiero politico – di destra come di sinistra – derivano dall’impostazione smithiana. A proposito della comprensione dei mercati oligopolistici, l’economista Kurt W. Rothschild ebbe a osservare che piuttosto che compulsare come fossero sacre scritture i testi degli economisti, meglio sarebbe stato rivolgersi al manuale di Carl von Clausewitz Sulla Guerra (Vom Kriege). Detto in altre parole, Kurt W. Rothschild sosteneva che considerando i soli parametri economici, l’economia era del tutto incomprensibile e che, se si vuole avere sull’argomento un qualche barlume di comprensione, bisogna mettere nel conto lo scontro fra le unità politico-territoriali di cui l’economia non è che una delle sue espressioni, nemmeno quella più importante e decisiva.
Il panorama che i mass media occidentali vogliono invece offrire alle masse intorpidite dei loro paesi non è altro che un’incomprensibile e postmoderno fluttuare
nell’aria di incomprensibili coriandoli di informazione: in Siria combattenti per la libertà lottano contro un regime dispotico che non si perita di usare i gas per imporre il suo regime dittatoriale, in Ucraina un popolo unito come un sol uomo lotta per raggiungere gli alti standard politici e di rispetto dei diritti umani che vigono all’interno dell’Unione europea (evidentemente la lezione greca avrebbe bisogno di un po’ di ripasso) e per unirsi alla stessa Unione europea in una sorta di abbraccio fraterno. Ma nel frattempo, la storia è veramente cinica e bara, l’Egitto che prima della cacciata di Mubarak era toto corde schierato con gli Stati uniti, acquista, con l’aiuto dell’Arabia Saudita, una consistente partita di armi dalla Russia (e di solito il commento non va al di là del risibile che il nuovo Rais egiziano Al-Sissi e Putin vanno d’accordo perché entrambi dittatori …) e ciliegina sulla torta accade, come puntualmente rilevato nel post di de Martini “PAESI BRICS CON SVALUTAZIONI SELVAGGE ( Brasile, India, Cina , Sud Africa)”, che gli Stati uniti riducono la loro liquidità in circolazione per colpire i BRICS (questa notizia, per la verità, dalla maggioranza dei mezzi di informazione e dai commentatori non viene nemmeno data o viene commentata non collegandola col quadro geopolitico generale). E trionfo del politically correct (e del politicamente ridicolo), ci viene detto che Putin è tanto cattivo perché nel suo medievale paese si permettono di trattenere per qualche ora il suo omonimo transgender italico perché in Russia (orrore degli orrori che fa impallidire le velleità belliciste statunitensi passate, presenti e future) ci sono leggi che proibiscono la propaganda dell’omosessualità. Se su un piano generale si può sempre dire che volere imporre i propri valori e stili di vita nasconde sempre una volontà di dominio, nei casi appena citati c’è da rilevare che, a differenza dell’epoca colonialista, la volontà di dominio non è solo rivolta contro i popoli da colonizzare ma nella presente epoca è rivolta anche contro le popolazioni delle metropoli sviluppate, che dal non riconoscimento del feticcio ideologico dell’esistenza di un’economia pura svincolata dal dato strategico della geopolitica (che fa il paio con l’altro imbroglio del politically correct) hanno tutto da perdere.
Studiare quindi Von Clausewitz anche per far uscire l’Italia dalla sua terribile crisi? Il Repubblicanesimo Geopolitico non è altro, in fondo, che il tentativo di diffondere acquisizioni e conoscenze che, a livello di programmazione strategica delle grandi potenze politiche ed economiche, sono il normale strumento di lavoro (e di scontro). La convinzione che lo anima è che la difesa e l’avanzamento della libertà debba abbandonare il terreno delle fairy tales per approdare ad una adulta consapevolezza dove libertà significa, innanzitutto, una concreta autonomia (a livello geopolitico come a livello delle formazioni socio-politiche all’ interno dei vari paesi per giungere al singolo individuo) dalle potenze in perpetua lotta per il dominio (un processo che, tanto per essere chiari, significa per quanto riguarda l’Italia che il nostro paese deve dare inizio ad una decisa riappropiazione di sovranità a tutti i livelli.
Altrimenti la propria prosperità rimarrà tristemente affidata nelle mani di coloro che si ostinano a non vedere alcun legame fra economia e geopolitica e la libertà rimarrà appannaggio, sempre più deperendo, ai cantori delle “gaie scienze”.

“Il Corriere della Collera”, 17 febbraio 2014

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CRISI UCRAINA, STRATEGIA DEL CAOS USA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO

Di Massimo Morigi

Se non fosse per gli aspetti di transizione epocale dell’attuale situazione internazionale, mettendo in confronto la crisi siriana con quella ucraina, verrebbe proprio da concordare su quanto scriveva Marx nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte
che la storia si ripete sempre due volte: “la prima come tragedia, la seconda volta come farsa”. Gli Stati uniti non contenti dei sanguinosi e disastrosi effetti (disastrosi per i loro interessi) delle da loro eterodirette rivoluzioni arabe, con la crisi ucraina stanno infatti cercando di applicare, con altro evidente insuccesso e – per fortuna – almeno per ora nessun altrettanto copioso spargimento di sangue, la stessa strategia del caos, la cui filosofia può essere riassunta nel seguente modo: siccome abbiamo sempre più difficoltà ad esercitare il ruolo di unica superpotenza, dobbiamo rinunciare al compito di egemonizzare con una sorta di pax americana tutto il mondo ma ci dobbiamo accontentare di portare il caos non solo all’interno del perimetro dei nostri avversari (vedi Siria ed ora Ucraina) ma anche dentro il nostro perimetro (vedi destabilizzazione USA dell’ Egitto e vedi pure il brillante risultato finale della vendita di armi da parte della Russia a quel paese). Insomma, se non si riesce più a essere i primi in un mondo più o meno ordinato, forse si può continuarlo ad esserlo in un mondo frammentato e tornato in una sorta di stato di natura alla Hobbes di tutti contro tutti. Anche se non si può negare che “c’è del metodo in questa follia” (e il metodo consiste nel fatto che l’esercizio del primato statunitense in questa fase di passaggio da un mondo unipolare ad uno multipolare non può che essere esercitato facendo saltare tutto il tavolo delle attuali relazioni internazionali, la cui evoluzione, se non si fa qualcosa, sarà inevitabilmente il suo ulteriore consolidamento in uno schema policentrico dove gli Stati uniti avranno sempre meno voce in capitolo), la follia, come è noto, deve fare i conti, prima o poi, con la realtà.
E la realtà, come in Siria così come in Ucraina, si chiama Russia, la quale solo i mentecatti che attualmente ispirano l’attuale politica obamiana potevano pensare che il paese guidato da Putin avrebbe potuto accettare questo agognato ridemensionamento geopolitico che contempla, tuttalpiù, una Russia solo stolto rifornitore per l’Occidente di riserve energetiche, un servo sciocco da essere affidato in tutela, come ulteriore sfregio per i suoi trascorsi storici, al nuovo maggiordomo degli americani che va sotto il nome di Repubblica federale di Germania. Si sta vedendo come stanno andando le cose. La Russia non accettando di essere ridimensionata ha mandato le sue truppe in Crimea (con la giustificazione “per difendere i nostri interessi” che, nella sua disarmante semplicità, fa meravigliosamente giustizia di tutte le fandonie lessicali e concettuali politically correct dell’attuale amministrazione Obama e dei suoi servi occidentali); la Germania, evidentemente impaurita per la piega che hanno preso le cose, offre i suoi buoni uffici per raffreddare la situazione. Siamo passati quindi dalla tragedia siriana alla – meno male – farsa ucraina. Ma questa farsa non ci deve però far dimenticare la dimensione tragica dell’attuale situazione, una situazione caratterizzata da uno scontro strategico degli Stati uniti contro tutte quelle forze – avversari ed anche alleati, poco importa – che vorrebbero
una stabilizzazione entro un quadro multipolare in progressiva e – più o meno – ordinata evoluzione verso una situazione policentrica. In questo quadro, un discorso a parte merita l’Italia. Il nostro paese, nell’ambito della strategia del caos statunitense, non ha nessun ruolo da giocare e, al limite, come è già successo per altri paesi amici degli Stati uniti, può diventarne addirittura una vittima.
Appare quindi di tutta evidenza che un suo spostamento verso posizioni neutraliste che lo mettano al riparo da quegli agenti strategici che puntano sull’attuale caos del quadro internazionale se, apparentemente, potrebbe sembrare una mossa avventata, alla lunga potrebbe rivelarsi come una delle fondamentali carte da giocare non solo perché il nostro paese possa riprendersi dall’attuale terribile crisi (ricordiamo ancora quello che disse l’economista Kurt W. Rothschild, per il quale piuttosto che studiare i testi degli economisti classici era meglio leggere il manuale di Carl von Clausewitz sull’arte della guerra e su quanto l’attuale crisi finanziaria sia stata assai poco finanziaria ma molto pesantemente politicamente eterodiretta nell’ambito dello scontro strategico internazionale, un aspetto quest’ultimo della situazione geopolitica generale che c’è da augurarsi divenga presto di appannaggio non solo degli addetti ai lavori) ma anche perché possa preservare la sua unità territoriale (come si è visto, la strategia del caos nella sua hubris retorica sui diritti umani, non bada certo alle irrisorie conseguenze che per perseguire questi alti obiettivi, gli stati possano anche polverizzarsi, con tutte le “insignificanti” conseguenze del caso …). In questo quadro che passa dalla tragedia alla farsa ma che si svolge, comunque, entro un orizzonte di crescenti scontri strategici, compito del Repubblicanesimo Geopolitico non è solo far comprendere i terribili pericoli insiti in un mondo non più monocentrico ma anche mettere in risalto le grandi potenzialità di un sistema internazionale in evoluzione verso il policentrismo. Una evoluzione che, però, non dovrà essere accompagnata solo da distaccate analisi sulla situazione ma dovrà vedere, da parte di tutti coloro che condividono questa analisi, la costruzione di concrete alleanze politiche fra tutti coloro che si oppongono alla strategia del caos. Per quanto riguarda l’Italia, lo ripetiamo, la posta in palio nel cogliere la giusta impostazione geostrategica, oltre a preservare la sua unità territoriale (come si è visto, la strategia del caos nella sua hubris retorica sui diritti umani, non bada certo alle irrisorie conseguenze che per perseguire questi alti obiettivi, gli stati possano anche esplodere, con tutte le “insignificanti” conseguenze del caso …) e saldare le alleanze politiche favorevoli, non è solo la sua libertà e prosperità ma anche la sua stessa esistenza.

“Il Corriere della Collera”, 3 marzo 2014

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ANCORA SU UCRAINA, ITALIA, STATI UNITI (MA SCOMODIAMO CARL SCHMITT, LO JUS PUBLICUM EUROPAEUM E LA GRANDE BELLEZZA. SCEGLIETE)

Di Massimo Morigi

Sebbene l’offerta di un miliardo di dollari fatta dal segretario di Stato John Kerry appena giunto in Ucraina richiami alla mente analoghe transazioni messe in atto dai nascenti Stati uniti verso i nativi americani o quelli delle potenze coloniali europee nella prima penetrazione e successiva colonizzazione del continente africano e benché tornando ai giorni nostri, non balzi alla mente, per contrasto, che quando un paese in termini geopolitici conta meno del due di coppe (vedi Grecia) questo può bellamente morire di fame aiutato solo da prestiti concessi con umilianti procedure e con tassi di interesse che non fanno che peggiorare la situazione, non ci si deve fermare a queste valutazioni – pur giuste dal punto di vista etico e realistiche dal punto di vista fattuale – ma è possibile, invece, trarne indicazioni che possano informare le valutazioni geopolitiche dei prossimi anni. Punto primo, che riguarda un giudizio sugli attori operanti sulla scena ucraina. Sulla strategia del caos statunitense abbiamo già detto ma, nonostante il giudizio estremamente negativo che ne abbiamo dato dal punto di vista della sua efficacia strategica, risulta veramente difficoltoso comprendere come l’amministrazione Obama possa essere così goffa nell’applicazione di questa pur discutibilissima strategia. Volendo escludere l’insipienza come giustificazione di queste lunga serie di malaparate di cui la crisi ucraina è solo l’ultima della serie (intendiamo insipienza da parte di quegli agenti strategici che portano avanti questo approccio caotico alle relazioni internazionali, perché, se guardiamo i singoli portavoce di queste forze,
insipienza ed hubris la fanno da padrone), quello che emerge è che la politica estera statunitense, oltre ad avere un approccio teorico ‘caotico’ è pure caotica in merito a chi debba esercitare la leadership di questa politica. Detto in altre parole: anche se, da un punto di vista di consolidata dottrina sarebbe necessario fare ammenda dell’ipostasi che quando si parla di uno stato questo lo si debba intendere come una sorta di persona che agisce animato da volizioni paragonabili a quelle umane ma, invece, sarebbe più realistico considerarlo come il manifestarsi vettoriale di forze strategiche contrastanti che trovano di volta in volta la risultante di incontro/scontro all’interno come all’esterno di ogni singolo paese, oggi, come mai non era accaduto in passato, appare evidente che per comprendere il percorso e la Gestalt dello scontro fra i vari agenti strategici statunitensi, (non tanto per prevederlo, ovviamente) è più utile ricorrere a metafore tratte dalla psichiatria (cioè pensare alla politica estera americana come il comportamento di una persona affetta da schizofrenia) piuttosto che ricorrere a schemi euristici tratti dalla scienza fisica (come vorrebbe il vecchio ed anche ormai datato realismo che ha sempre preferito schemi più meccanicisitici).
Di questa schizofrenia USA i vari governanti dei paesi alleati agli Stati uniti dovrebbero tenerne conto, e ne tengono conto, vedi l’ambiguità della Germania nel caso ucraino che partendo da un atteggiamento di supporto all’aggressività americana nello svolgimento della crisi ha cercato poi di sfilarsi.
Da questo punto di vista, l’atteggiamento italiano di estrema prudenza nella crisi ucraina non deve essere lodato, perché è di tutta evidenza che non è certo prodromo ad un auspicabile processo di collocazione in campo neutrale del nostro paese. Si tratta, più banalmente, di semplice buonsenso alla Sancho Panza di fronte alle follie del padrone d’oltreoceano. Punto secondo, una analisi che cerca d’andar oltre i pur evidenti problemi dell’amministrazione Obama e dei configgenti agenti strategici americani che attualmente operano sotto la copertura nominale di questa amministrazione. In fondo, quando parliamo di strategia del caos statunitense e imputiamo questa strategia alla volontà americana di reagire al suo fallito tentativo di egemonia unipolare post caduta del muro di Berlino compiamo, in un certo senso, un errore di prospettiva storica, un errore perché questa tendenza caotica nelle relazioni internazionali era già stata individuata agli inizi degli anni Cinquanta da Carl Schmitt nel suo Il Nomos della Terra nel Diritto Internazionale dello Jus Publicum Europaeum. In estrema sintesi, Carl Schmitt sosteneva che l’affermazione novecentesca su piano globale delle potenze marittime, prima l’Inghilterra oggi gli Stati uniti, aveva comportato il deterioramento del diritto pubblico europeo, con la conseguenza che nel nuovo diritto internazionale veniva gradualmente svanendo la personalità dei singoli stati, così come era stata concepita in seguito all’assetto westfaliano, per
essere sostituito da una visione privatistico-commerciale e della guerra e dei rapporti internazionali. Siamo quindi ritornati a John Kerry che offre un miliardo di dollari agli indianiucraini, in spregio del fatto che il governo verso il quale dimostra tanta generosità è frutto di un illegale colpo di stato e che come legittimità, tuttalpiù, non è maggiore a quella di una privata assemblea di condominio (che fra l’altro decida di deliberare in spregio alle vigenti norme del codice civile).
Che poi le conseguenze di questo operare caotico, o meglio, in spregio dell’assetto formalmente personalistico degli Stati in accordo allo Jus Publicum Europaeum, sia il rischio dello smembramento dell’Ucraina, poco importa. O almeno poco importa agli agenti strategici statunitensi. Agli agenti strategici italiani, invece, dovrebbe importare e molto. Costoro devono stare molto attenti perché per l’Italia la posta geopolitica dei prossimi anni non è tanto quale agente strategico nazionale sarà più abile a presentarsi come cameriere degli Stati uniti – per questo ruolo ne servono altri più strutturati di noi, vedi la Germania – ma a quale agente, distrutta de facto l’Italia come entità statuale, sarà data l’opportunità di esibirsi – come un tempo agli indiani nel circo di Buffalo Bill e come oggi nelle riserve – per il divertito passatempo degli agenti strategici americani. Ed è inutile sottolineare che il Repubblicanesimo Geopolitico per quanto non intenda astoricamente sposare un ritorno sic et simpliciter allo Jus Publicum Europaeum (il problema delle libertà politiche e civili era del tutto ignorato se non avversato dal giuspubblicista fascista di Plettemberg), intende battersi con tutte le sue forze sia dal punto dell’analisi che da quello delle alleanze politiche perché lo schizofrenico caos strategico statunitense non significhi per l’Italia la riduzione ad una condizione simile a quella delle riserve indiane dove magari, al posto della danza della pioggia, vengano officiati riti e litanie in onore della sua “grande bellezza”.

“Il Correre della Collera”, 8 marzo 2014

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CRISI UCRAINA: IL SIGNOR WOLFOWITZ NEL PAESE DEGLI IGNORANTI HA FATTO SCUOLA
Di Massimo Morigi
Anche se c’è da nutrire seri dubbi che gli agenti strategici e i centri decisionali istituzionali della politica estera statunitense nella loro attività di destabilizzazione caotica portata avanti a livello globale siano stati ispirati, oltre che da un pensiero che risulta da un mix di geopolitica e una visione del mondo e dell’uomo di stampo hobbesiano, da suggestioni di tipo letterario, nella vicenda Ucraina – come del resto in altre consimili: un caso con profonde analogie operative di tentato rovesciamento dei poteri legittimamente alla guida del paese, il Venezuela prima e dopo la morte di Chavez – questa certezza sembrerebbe per un attimo vacillare. In fondo cosa hanno cercato – e tentano tuttora – di fare gli Stati uniti con l’Ucraina? Molto semplicemente hanno cercato di replicare quanto il grande scrittore ucraino Gogol aveva immaginato nelle Anime morte attraverso la creazione del suo immortale antieroe Cicicov, il quale attraversava la Russia in lungo e in largo per acquistare i nomi dei defunti servi della gleba che, in seguito, avrebbero dovuto essere
truffaldinamente esibiti alle autorità per potere ottenere dei cospicui finanziamenti. E se certamente l’attività di acquisto e di corruzione da parte degli Stati uniti dei settori più disperati e di quelli gangsteristicamente più vocati della società ucraina richiama veramente l’idea di una compravendita di “anime morte” da esibire di fronte al mondo per giustificare il definitivo passaggio al Washington consensus dell’Ucraina, quello che sorprende non è tanto che gli agenti strategici statunitensi dimostrino di non conoscere come va a finire l’immortale romanzo di Gogol (Cicocov non riesce nel suo intento e l’ignobile furbata viene scoperta) ma di non aver preso nemmeno per un attimo in considerazione l’immancabile e scontata reazione della Russia che mai avrebbe accettato – e mai accetterà – il proposito americano di annientarla in quanto superpotenza (ed anche di progressivamente contrarla e sminuzzarla pure territorialmente facendo leva sulle sue varie componenti etnico-culturali). Nel caso specifico della crisi ucraina, la reazione russa a questa impostazione statunitense Grand strategy americana che non è una nostra elucubrazione ma che ha trovato già da più di due decenni una sua elaborazione esplicita nella cosiddetta dottrina Wolfowitz, vedi all’indirizzo http://work.colum.edu/~amiller/wolfowitz1992.htm – WebCite http://www.webcitation.org/6oxfFKkIl e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwork.colum.edu%2F~amill er%2Fwolfowitz1992.htm&date=2017-03-14 – urtext della politica estera statunitense dopo la fine della guerra fredda, della quale il primo commento fu fatto dal New York Times l’8 marzo 1992 con il significativo titolo, come da documento agli URL di cui sopra, U.S. Strategy Plan Calls for Insuring No Rivals Develop A One-Superpower World. Pentagon’s Document Outlines Ways to Thwart Challenges to Primacy of America) anche se parimenti del suo rivale americano nulla deve alla letteratura, forse qualcosa deve ad una visione certamente più creativa e meno nichilistica di quella portata avanti dagli agenti strategici del caos americani. Con l’indizione del referendum che staccherà la Crimea dall’Ucraina (dagli USA e dai suoi accodati alleati giudicato – parole evidentemente emesse senza il permesso del cervello ma sotto la convincente pressione del portafoglio – illegale), la Russia mostrando una sorta di astuzia luciferina e di machiavelliana noncuranza (cosa c’è infatti di più sacro dal punto di vista delle liberaldemocrazie e soprattutto dal punto di vista americano, del principio di autodeterminazione dei popoli: vedi il nefasto ruolo del presidente americano Wilson alla conferenza di pace di Parigi nello smembrare – con l’assai poco previdente appoggio delle principali potenze vincitrici – alla luce dei suoi “Quattordici punti”, senza alcun ritegno e logica geopolitica – se non una già allora incipiente “strategia del caos” – l’impero asburgico e vedi l’accusa americana incessantemente reiterata durante tutta la guerra fredda che l’Unione sovietica non permetteva la libera espressione dei popoli sottoposti al patto di Varsavia), ha dato
alla truffa Stati uniti/Cicicov una soluzione che non sarebbe dispiaciuta nemmeno all’autore delle Anime morte.
Quale soluzione? Molto semplicemente la Russia dice questo agli Stati uniti (e ai suoi alleati). Se volete, tenetevi pure le vostre anime morte (una Ucraina fallita economicamente e che dopo essere stata accolta a braccia aperte dall’Occidente diverrà preda dei mortali aiuti internazionali, Grecia docet), noi ve le lasciamo volentieri e, se ci riuscite, traetene pure un profitto. Noi, da parte nostra, ci limitiamo ad offrire una alternativa a coloro che non vogliono accettare di essere acquistati (la Crimea russofona) come una sorta di “anima morta” dalla truffa del novello Cicicov americano. La morale finale della storia vale non solo per quegli ucraini (chi in buona fede e chi direttamente pagati) si sono fatti trattare come carne da cannone in omaggio alla strategia del caos americana ma anche per quegli alleati di una superpotenza che ha ormai perso ogni ritegno nella sua hubris imperialistica. Al contrario che nel romanzo di Gogol, per le anime morte della strategia statunitense c’è una possibilità di ritorno alla vita. Dubitiamo fortemente che questa possibilità sia ancora a disposizione di un’Ucraina territorialmente integra. Il Repubblicanesimo Geopolitico crede fermamente invece che lo sia per quei paesi i cui agenti strategici abbiano un loro lungo e sedimentato passato che non può essere ridotto – come evidentemente nel caso ucraino – ad una triste ed opaca storia di famiglia di vecchie corrotte burocrazie di partito in cannibalesca ricerca di un agognato riciclaggio “democratico” e che, al contrario dell’Ucraina, si siano nel tempo legati allo sviluppo di forti appartenenze, tradizioni e culture nazionali. E dove in questo atlante geopolitico di forze ed agenti strategici che alla luce delle storie di “lunga durata” delle loro vite nazionali cercano una fuoruscita dagli idola theatri e dalle pratiche del Secolo breve sia la futura naturale collocazione dell’Italia è, pensiamo, persino offensivo accennarlo.

“Il Corriere della Collera”, 13 marzo 2014
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LENIN, L’IMPERIALISMO FASE SUPREMA DEL CAPITALISMO, IL NUOVO SCONTRO USA RUSSIA IN UN MONDO SEMPRE PIÙ MULTIPOLARE E IL RUOLO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO Di Massimo Morigi

Col proposito di fornire il quadro economico che aveva fatto da sfondo allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1915 Lenin iniziò a scrivere “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, il cui capitolo VII, “L’imperialismo, particolare stadio del capitalismo”, si presta sia al commento della crisi Ucraina dopo che il referendum ha ricongiunto la Crimea con la Russia sia a riflessioni teoriche, di natura politica e geostrategica, che investono in pieno il ruolo che deve svolgere il repubblicanesimo geopolitico nell’attuale fase. Scriveva dunque Lenin nel capitolo VII dell’ Imperialismo fase suprema del capitalismo: «[…] Quindi noi […] dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo, che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e cioè: la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di una oligarchia finanziaria; la grande importanza acquisita dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.» Dal punto di vista dell’analisi, queste parole di Lenin come rappresentano una pietra miliare per inquadrare la situazione geoeconomica che preluse allo scoppio della prima guerra mondiale, sembrano pure scritte per descrivere l’attuale situazione di scontro multipolare, con particolare riferimento alla vicenda Ucraina. Una vicenda, quella Ucraina, in cui come in nessun altra crisi è apparso chiaro il terribile ed immenso sforzo delle potenza imperialistica egemone di accaparrarsi con tutti i mezzi, in primo luogo tramite le immense risorse del capitalismo finanziario, quest’area vitale per la permanenza della Russia nel novero delle grandi potenze e per la possibilità di contrastare la potenza statunitense. Generalmente, quando si parla delle “inframmettenze” statunitensi in Ucraina, se si possiede un po’ di memoria storica, ci appaiono alla mente fra i principali missionari
dell’esportazione della democrazia marca USA nella terra di Gogol la figura di quel singolare personaggio che va sotto il nome di Gene Sharp e del suo Albert Einstein Institute. Per farla breve. Sia o non sia un agente della CIA o emanazione più o meno diretta di qualche altro agente od ente strategico statunitense (quello dell’appartenenza diretta di Sharp all’agenzia di intelligence statunitense fu tesi sostenuta a suo tempo da Chavez ed è anche convinzione condivisa dall’Iran; noi – non necessitati alle semplificazioni propedeutiche alla mobilitazione delle masse contro il nemico ma non per questo non consapevoli che in politica i complotti esistono, eccome – ci limitiamo a dire che per essere al servizio di un qualche agente strategico non è necessario esserne direttamente e consapevolmente al soldo), Sharp è autore di un libro From dictatorship to democracy. A conceptual framework for liberation (per chi vuole consultarlo nell’originale versione in inglese agli URL http://www.aeinstein.org/wp-content/uploads/2013/09/FDTD.pdf; Internet Archive: https://archive.org/details/FromDictatorshipToDemocracy-GeneSharp_921 e https://ia601500.us.archive.org/33/items/FromDictatorshipToDemocracyGeneSharp_921/FromDictatorshipToDemocracy-GeneSharp.pdf) che, sotto il pretesto di essere semplicemente una guida per combattere regimi dittatoriali sotto qualsiasi forma si presentino è storicamente risultato, a tutti gli effetti, non essere altro che un manuale scritto con pretta mentalità organizzativa militare per abbattere tramite la mobilitazione delle masse i regimi invisi agli Stati uniti. Ciò ha avuto pieno successo in Serbia, dove le istruzioni del manuale di Sharp sono state fondamentali, tramite l’emanazione locale dell’Albert Einstein Institute, l’Otpor, per la deposizione di Milosevic ed ha avuto poi una ancora più vasta applicazione su scala globale con il CANVAS (Center for Applied Nonviolent Action and Strategies), una diretta emanazione dell’ Otpor, che invece che sulla Serbia ha messo il suo zampino in tutte quelle aree, Ucraina compresa, dove gli Stati uniti hanno applicato i loro processi di strategia del caos quando attuati attraverso mezzi di intervento non diretto ma, piuttosto, di sobillazione delle masse eterodirette e più o meno non violente (vedi ruolo del CANVAS anche nelle primavere arabe). Ma se ci si limitasse alla semplice indicazione di sigle e di più o meno quinte o seste colonne che agiscono all’interno di alcuni paesi, che possono essere quelli che si oppongono al Washington consensus (ma non solo, vedi Egitto di Mubarak) ma alle quali si potrebbe ribattere con altrettanti nomi e sigle che rispondono – con diverso grado ed intensità – sotterraneamente ad agenti strategici del campo avverso – quello delle spie e degli agenti provocatori è uno strumento della politica internazionale che viene dalla notte dei tempi e non caratterizza certo l’attuale fase imperialistico-multipolare –, ciò non ci avvicinerebbe affatto al quadro disegnato da Lenin nel suo Imperialismo fase suprema del capitalismo. Più che la stretta elencazione di questi agenti, se vogliamo
comprendere quanto nella situazione ucraina (e quindi anche nelle altre aree di crisi dove le summenzionate quinte colonne hanno avuto la possibilità di agire) abbiano contato le oligarchie finanziarie indicate da Lenin per tentare di accaparrarsi quest’area geopolitica, è ancor meglio ascoltare le parole pronunciate pubblicamente dall’assistente segretario di stato per gli affari europei ed euroasiatici Victoria Nuland. Ebbene il 13 dicembre 2013, in una conferenza tenuta a Washington, Victoria Nuland ha affermato che a partire dal 1991 in Ucraina gli Stati uniti hanno finanziato organizzazioni politiche e non governative per un ammontare di 5 miliardi di dollari («Since Ukraine’s independence in 1991, the United States has supported Ukrainians as they build democratic skills and institutions, as they promote civic participation and good governance, all of which are preconditions for Ukraine to achieve its European aspirations. We’ve invested over $5 billion to assist Ukraine in these and other goals that will ensure a secure and prosperous and democratic Ukraine»). Chi si vada a leggere il testo integrale di questa conferenza (per il quale si rimanda agli URL http://iipdigital.usembassy.gov/st/english/texttrans/2013/12/20131216289031.html; Internet Archive: https://archive.org/details/AssistantSecretaryNulandAtU.s.ukraineFoundationConference e https://ia601504.us.archive.org/15/items/AssistantSecretaryNulandAtU.s.ukraineFoundationConference/AssistantSecretaryNulandAtU.s.ukraineFoundationConference_IipDigital.html), potrà avere contezza non solo di queste “candide” affermazioni che ci fanno capire quanto in Ucraina – e di riflesso negli altri paesi che rifiutano il Washington consensus – sia stato immenso l’apporto di risorse che, attraverso il capitale finanziario, gli agenti strategici della principale potenza su piazza hanno riversato sulle quinte colonne alla Otpor o alla CANVAS per sovvertire “pacificamente” i governi che si volevano opporre agli Stati uniti ma potrà anche vedere il grado di arroganza usato dagli Stati uniti contro i governanti ucraini per costringerli all’adesione all’Unione europea e per accettare gli aiuti del Fondo monetario internazionale ( sempre citando dalla conferenza di Victoria Nuland: «As you all know, and as I’m sure you just heard from Anders and other colleagues, Ukraine’s economy is in a dire state, having been in recession for more than a year and with less than three months worth of foreign currency reserves in place. The reforms that the IMF insists on are necessary for the long-term economic health of the country. A new deal with the IMF would also send a positive signal to private markets and would increase foreign direct investment that is so urgently needed in Ukraine. Signing the Association Agreement with the EU would also put Ukraine on the path to strengthening the sort of stable and predictable business environment that investors require. There is no other path that would bring Ukraine back to long-term
political stability and economic growth»). Se fin qui l’analisi leniniana sulla situazione che fece da sfondo allo scoppio della prima guerra mondiale si rivela fondamentale per fotografare non solo la dinamica degli agenti strategici e finanziari operanti in Ucraina ma più in generale su tutto lo scacchiere internazionale, l’esperienza storica sta però a dimostrarci – al contrario di quanto sperava il marxismo ed in genere tutti i movimenti ad alto tasso di millenerarismo – che la speranza nelle “ultime fasi”, oltre a essere strettamente collegata ad una mentalità propensa al totalitarismo, è anche una previsione del tutto sbagliata (e di questo Lenin ne era anche inconsciamente avvertito: se il titolo del suo libro richiamava la fase terminale del capitalismo, nel titolo del capitolo da noi citato, l’imperialismo veniva degradato a “fase particolare” del capitalismo). Detto in parole semplici e tradotto ad uso del Repubblicanesimo Geopolitico. 1) L’attuale sconfitta che gli agenti strategici statunitensi stanno subendo nella loro strategia del caos attuata attraverso la leva del capitale finanziario e l’impiego sul campo delle masse eterodirette dallo smart power delle NGO modello Otpor o CANVAS non prelude affatto ad una loro uscita di scena (non prelude affatto, cioè, ad una loro “fase finale” ma semmai ad un rimodulazione del loro modus operandi, con un possibile ritorno a pratiche destabilizzanti muscolari dell’era Bush: Obama attenzione guardati alle spalle, i tuoi agenti strategici non sono molto contenti del tuo operato …) ma, semmai, ad un passaggio dalla fase unipolare post caduta del muro di Berlino ad una policentrica molto più travagliata di quella che – ingenuamente – da parte della stragrande maggioranza degli osservatori ci si era aspettati all’indomani della prima elezione di Obama. 2) Se nel suo vedere la “fase finale” del capitalismo Lenin dovette pagare il pegno al profetismo chiliastico del marxismo, la sua mentalità strategica, o meglio geostrategica, comprese benissimo che la lotta contro i monopoli poteva avvenire ed avere successo in quei paesi che costituivano “l’anello debole” di questa evoluzione del capitale finanziario. Dimostrazione della correttezza di questa visione strategica leniniana di puntare sull’anello debole delle nazioni capitalistiche per far vincere la rivoluzione (e con questo successo che però non poté tramutarsi nel sogno comunista ma nell’edificazione “solo” di una moderna superpotenza, l’Unione Sovietica, anche dimostrazione della successiva impossibilità storica e teorica di realizzare la rivoluzione proletaria) fu la Russia con l’abbattimento dello zarismo ed il successo della rivoluzione bolscevica.
Certamente, alla luce del referendum che ha ricongiunto alla grande madre Russia la Crimea, un anello debole della strategia americana di invasione del mondo col suo capitale monopolistico si è dimostrata l’Ucraina. Ciò è certamente un punto segnato da Putin che, degno successore di Lenin, ha sempre dimostrato di sapere colpire al momento opportuno e con inusitata efficacia gli “anelli deboli” della strategia del
caos statunitense. Il punto molto semplice è però che, visto che le “fasi finali” delle transizioni da uno stato unipolare a uno multipolare – come quelle, per fortuna, del passaggio millenaristico e definitivo dal capitalismo al comunismo – appartengono al mondo dei sogni e non alla realtà dello scontro fra agenti strategici, gli spazi di libertà che sono la naturale conseguenza della messa in crisi della potenza ancora attualmente egemone non possono essere affidati in un unico appalto a chi ora contesta, e con successo, questa potenza. Qui sta il compito del Repubblicanesimo Geopolitico: alla luce di un quadro ormai brulicante di “anelli deboli” del Washington consensus, diffondere la consapevolezza che un aumento degli spazi di prosperità e libertà dell’Italia e del suo popolo sia nell’accettare con coraggio la nascente fase multipolare. E nell’altrettanto forte consapevolezza, che in definitiva ci viene proprio da Lenin, che nella scelta degli alleati, interni ed internazionali, che rendano possibile questo passaggio, le “fasi finali” appartengono al mondo delle fate o, per esprimerci in termini politici, a quello delle ideologie. Proprio come stanno a provare nella loro pelle gli ingenui ucraini trattati come carne da cannone dall’ UE e dagli USA, nella scelta delle alleanze e dei compagni di viaggio, di tutto abbiamo bisogno tranne che ripercorrere meccanicamente e solo in senso contrario quello che è già stato fatto negli ultimi cinquant’anni.
“Il Corriere della Collera”, 26 marzo 2014
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Mutazioni alla Casa Bianca, di Giuseppe Germinario

Qui sotto il link di una intervista a Steve Bannon, ormai prossimo ad uscire dallo staff presidenziale. Non ho il tempo per offrire una versione in italiano, ma con un buon traduttore, si può cogliere appieno la rilevanza ed il significato dei suoi argomenti. La normalizzazione di Trump procede ormai a passo sostenuto. In particolare è ormai evidente:

  • la divergenza in politica estera riguardo alla rilevanza prioritaria della Cina come avversario strategico;
  • la divergenza sulla gestione della crisi coreana vista l’insostenibilità di uno scontro militare dall’esito catastrofico e suscettibile di alimentare il peso della Cina;
  • la strumentalità delle accuse di simpatia e connivenza con la destra suprematista e razzista che investiranno sempre più Bannon;
  • il velleitarismo, a mio parere, della scelta di operare piazzando all’esterno dello staff presidenziale, non si sa con quale mezzi, i portatori di una politica di opposizione decisa alla Cina;
  • la speranza di aprire contraddizioni anche nel campo democratico sulla base di un nazionalismo estraneo alle tentazioni etnico-razziali
  • alla base del confronto la considerazione se l’attuale sistema di relazioni, in particolare economiche, sia in grado di garantire la coesione della formazione sociale statunitense

Dopo l’intervista a Bannon, segue una dichiarazione di Roger Stone, il principale artefice dell’elezione di Trump, precedente all’intervista e critica delle scelte di Bannon. Molto significative le sue critiche a Bannon, vista anche la consolidata amicizia. Appena possibile cercherò di fornire una trascrizione anche di questa. Alla luce di quanto esposto assume ancora più importanza il podcast di Gianfranco Campa del 15 agosto che invito a riascoltare

il primo link

http://prospect.org/article/steve-bannon-unrepentant

il secondo link

Report: White House Chief Strategist Steve Bannon Out

10° Podcast _ DALLAS o WATERGATE? Tertium datur: l’avventurismo, di Gianfranco Campa

Sono poche le voci in grado di fornire informazioni e soprattutto interpretazioni fondate sugli avvenimenti cruciali che da quasi un anno investono e si dipartono dalla Casa Bianca. Gianfranco Campa, con la sua partecipazione emotiva, ci conduce nelle stanze dove si sta consumando una battaglia politica di insolita cruenza. Raramente il conflitto politico tra gruppi dirigenti assume contorni così espliciti. Gli obbiettivi e le intenzioni sono adattati alle strategie e alle tattiche, se non sacrificati alle esigenze di sopravvivenza di uno dei contendenti. La distinzione che i teorici più accorti fanno tra regnanti, governanti e dominanti appare a tratti anche agli osservatori meno esperti. Una cosa mi pare ormai certa. Il vecchio establishment, dovesse prevalere, non potrà più tornare alle vecchie tattiche e appare incapace di intravedere nuove strategie; la permanenza di questo conflitto nei termini così acuti rischia di trascinare l’intera classe dirigente americana in una condizione caotica di stallo in grado di innescare una condizione di declino e pregiudicare ulteriormente la coesione di quella formazione sociale. Si vedrà sino a che punto i paesi rivali saranno in grado di approfittare di questa situazione. Giuseppe Germinario

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (2a parte)

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (1a parte)

LA RIMOZIONE DI UN EVENTO EPOCALE

Entrambi i limiti interpretativi pagano lo scotto di una rimozione o, nel migliore dei casi, di una valutazione del tutto parziale delle implicazioni di un evento politico epocale cruciale: la sconfitta militare, l’occupazione territoriale, la distruzione di un regime istituzionale, per altro odioso, la riduzione e lo smembramento territoriale della Germania.

La dimensione catastrofica di quella resa consentì ai due vincitori, l’URSS e gli USA, di decidere delle sorti di quel paese. Per quel che ci riguarda più direttamente, in quanto forza di occupazione gli Stati Uniti determinarono il carattere federale oltre che parlamentare del regime nella sua parte sud-occidentale, il suo carattere antisovietico, la limitazione drastica delle forze armate, in particolare quelle terrestri e l’infiltrazione e l’organizzazione delle principali istituzioni e sistemi.

Il carattere di occupazione di quella presenza non ancora risolto definitivamente nemmeno dagli accordi che hanno sancito negli anni ‘90 l’unificazione tedesca.

Una modalità di dominio non risolvibile con il controllo di una parte limitata delle élites dominanti del paese sconfitto e con azioni complottistiche tese a determinare direttamente le azioni dei vertici politici; piuttosto una azione altamente sofisticata e persuasiva tesa soprattutto ad orientare ed indurre, addirittura a creare delle dinamiche inerziali capace di attirare e integrare progressivamente in un sistema occidentale le varie formazioni sociali e i vari stati nazionali caduti nella rete dei liberatori. Un sistema fortemente attrattivo, capace nel rispetto delle gerarchie fondamentali, di offrire sviluppo ed una relativa libertà di azione, ma proprio per questo ancora più pervasivo. In questa trama la Germania Federale ha assunto un ruolo importante, superiore alle stesse aspettative delle élites tedesche emerse dalla sconfitta militare, in parte per merito proprio, soprattutto per scelta del vincitore. Accantonate rapidamente le tentazioni, vellicate soprattutto da Francia e Regno Unito, di ridurre il paese ad una condizione preindustriale, senza nulla cedere sulla capacità di controllo, si optò per un rapido sviluppo che stabilizzasse un paese alleato ai confini cruciali della propria zona di influenza, contribuisse economicamente e produttivamente al sostegno della macchina bellica e neutralizzasse le residue ambizioni egemoniche di Francia e Gran Bretagna. Il pegno da pagare in termini di sovranità fu estremamente pesante con un sistema di controllo e infiltrazione particolarmente intricato e insindacabile, per altro sancito, che riguardava non solo l’intelligence e le forze armate, ma anche il sistema politico, amministrativo e comprendente anche, un aspetto del tutto ignorato dai redattori di Limes come da gran parte dei giornalisti e studiosi, gli organi di informazione e le strutture economiche.

In settant’anni le cose possono cambiare; ma non è questo, sostanzialmente, il caso della Germania.

Le tentazioni e qualche timido e sporadico tentativo di affrancamento non sono certo mancati. Durante la guerra fredda il tentativo più coerente fu portato avanti negli anni ‘70 con l’ “oestpolitik”. Si trattò in realtà di una “interpretazione” troppo estensiva del processo di distensione, più che altro un riconoscimento meno precario delle rispettive zone di influenza, inaugurato dalle due superpotenze. Per ricondurre alla mansuetudine nell’ovile della pecorella inquieta, agli americani fu allora sufficiente assecondare i timori francesi di un rigurgito delle ambizioni tedesche e la loro conseguente improvvisa conversione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea e innescare una politica di riarmo missilistico. Con la crisi e la caduta del blocco sovietico si presentò un contesto apparentemente più favorevole a vellicare ambizioni più audaci.

SUSSULTI DI EGEMONIA

Il tentativo più organico e strutturato avvenne nella seconda metà degli anni ‘80 quando, percepita la crisi imminente del blocco sovietico e forte dei legami più o meno circospetti stretti con quella parte della loro classe dirigente legata al commercio e al finanziamento del debito estero, una parte dell’establishment tedesco tentò per alcuni anni di organizzare e sostenere il sistema bancario dei paesi dell’Est-Europa per favorire la ristrutturazione economica e salvaguardare buona parte di quella classe dirigente. Fu l’atto e il momento che suscitò, nei confronti dell’élite tedesca, le stesse premure dedicate a quella italiana. Il luogo di raccolta degli accoliti fu diverso; con gli uni si scelse il Panfilo di Sua Maestà, al largo di Roma; con gli altri un più modesto albergo bavarese. Anche il numero di convitati differiva; ben più numeroso sulla prestigiosa imbarcazione, limitato a meno di dieci persone nel gasthof. Non si è trattato, probabilmente, di un mero omaggio alla italica convivialità rispetto alla proverbiale essenzialità teutonica; deve aver influito la diversa funzione che i comprimari, inglesi nell’una e francesi nell’altra, hanno assunto nell’iniziativa; soprattutto, è stata la perdurante e progressiva frammentazione politica ed istituzionale dell’Italia rispetto alla Germania a determinare le diverse caratteristiche dell’iniziativa, i diversi sviluppi e gli esiti opposti pur in una comune riconfigurazione della subordinazione politica all’alleato d’oltreatlantico.

Il tentativo più intraprendente fu posto in atto durante la guerra civile in Jugoslavia conclusasi, al momento, con la frammentazione di quel paese e con una conflittualità latente pronta a riemergere. L’iniziale spinta propulsiva alla divisione fu data soprattutto dalla Germania sino ad essere rapidamente assorbita pur con qualche attrito significativo da quella americana. L’evento bellico rappresenta comunque una svolta significativa che vede il gruppo dirigente egemone in Germania passare da una politica di cooptazione e sostegno delle vecchie classi dirigenti riformate dei paesi del blocco sovietico ad una di progressiva aperta ostilità verso la Russia e tesa a favorire la liquidazione delle stesse nei paesi dell’Europa Orientale e nei Balcani. Una scelta indubbiamente vantaggiosa nell’immediato perché ha consentito di riprendere e perseguire una politica di influenza ed integrazione economica esattamente lungo i corridoi tracciati dai colonizzatori tedeschi nel corso dei secoli sino alla metà del ‘800 senza dover contestare i legami di subordinazione con lo stato egemone americano e indebolendo vistosamente la posizione politica ed economica dei due altri grandi paesi fondatori della UE, la Francia e l’Italia. Una scelta deleteria dal punto di vista strategico nel caso la Germania dovesse aspirare ad una maggiore e decisiva autonomia politica che richiedesse un avvicinamento duraturo e stabile alla Russia di Putin proprio perché troverebbe nei più importanti paesi dell’Europa Orientale e della penisola scandinava i più fieri oppositori a tale svolta con scarse possibilità di un loro ricambio con centri politici più duttili.

I messaggeri in quell’albergo bavarese devono evidentemente essere stati particolarmente persuasivi anche se assecondati dalle circostanze propizie della morte violenta dei due nuovi paladini della ostpolitik, Herrhausen di Deutsche Bank e Rohwedder di Treuhandanstalt.

Da questi due eventi a cavallo della riunificazione si è dipanata la condizione di un paese ormai al centro di attenzioni e sospetti, ma incapace di una politica assertiva capace di aggregare forze e in grado tutt’al più di neutralizzare e fiaccare le forze di potenziali rivali nel campo “amico” europeo.

Negli ultimi venti anni i pochi atti politici autonomi di quella classe dirigente sono consistiti nella non partecipazione ufficiale alle avventure militari, in particolare Libia ed Iraq, salvo garantire efficacemente, ma in modo discreto, i propri servizi logistici e di intelligence come avvenuto in Libia. Per il resto si è rifugiata in annunci velleitari, quali la creazione di una forza militare congiunta e integrata con i francesi, miseramente fallita o nel perseguimento classico di una politica di influenza a rimorchio nel vicinato, come avvenuto in Ucraina, con grave pregiudizio delle relazioni con i russi o nel supporto opportunistico e lucrativo alla destabilizzazione specie nel Grande Medio Oriente. La Germania, infatti, lemme lemme risulta costantemente tra i primi fornitori ufficiali di armi e munizioni dei Sauditi, impegnati in Yemen, dei Giordani e della pletora di governi a supporto delle primavere.

I LIMITI STRUTTURALI

Una fondata e non frettolosa elezione della Germania a protagonista geopolitico e antagonista naturale degli Stati Uniti non può prescindere da una analisi della condizione strutturale del paese.

La particolare struttura federale già dibattuta nelle università americane a partire dagli anni ‘30 e imposta nel regime di occupazione assegna importanti competenze di politica estera ai laender in cooperazione e spesso in conflitto tra loro e con lo stato centrale, indebolendone di fatto coerenza e incisività. Un esempio significativo si può trarre dal ruolo decisivo assunto dal Governo Bavarese nella fomentazione della guerra civile in Jugoslavja e nella capacità di trascinare altre regioni di stati confinanti su questo indirizzo in opposizione alle direttive dei rispettivi stati nazionali. Una organizzazione istituzionale che riesce comunque a mantenere una propria operatività grazie al ruolo unificante delle grandi associazioni verticali entro le quali si compongono gli interessi lobbistici e gli indirizzi di buona parte dei centri decisionali.

A garantire, più che la coerenza, l’incisività di una struttura così articolata fa difetto però l’estrema permeabilità delle strutture di intelligence e degli apparati coercitivi e di controllo, il retaggio più pesante della disfatta militare e del conseguente regime di occupazione. La vicenda delle intercettazioni americane ai danni della Cancelliera ha semplicemente rivelato il livello di integrazione ed infiltrazione dei servizi tedeschi con quelli americani; la susseguente rimozione del responsabile, più che la volontà una riorganizzazione e una depurazione delle strutture, ha rivelato la stizza di un capo politico per la pubblicità imbarazzante di quei segnali di attenzione. Per il carattere di riservatezza insito, i Servizi di Sicurezza sono particolarmente vulnerabili; la permeabilità, comunque, investe un po’ tutti gli apparati coercitivi e sanzionatori dello stato germanico, compreso quello militare ancora particolarmente debole.

Una chiosa a parte merita il sistema di informazione, quasi del tutto allineato all’ortodossia atlantica. Con l’eccezione di alcune testate nazionali a tiratura limitata ed alcune testate locali il livello di controllo del sistema mediatico è impressionante. Una capacità di indirizzo delle testate e di legame diretto con singoli giornalisti. È del resto notoria la meticolosità con cui i vari centri strategici americani curano le relazioni con i media istituzionali. Le campagne giornalistiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sono sempre stati strumenti propedeutici al conflitto politico, al condizionamento dei centri e all’eliminazione degli avversari, anche se la diffusione dei network on line ha in parte facilitato la possibilità di centri politici alternativi e ridefinito le modalità di manipolazione dell’informazione. In Germania, nella fattispecie, colpisce il fatto che la componente più orientata ad una politica autonoma con la Russia, un tempo significativa, trovi sempre meno spazio mediatico e non riesca ormai da anni a creare una opinione pubblica favorevole a sostegno delle proprie scelte.

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (1a parte)

I DUE PROTAGONISTI

Di Donald Trump temo che continueremo ancora per mesi se non anni a sorbirci soprattutto i resoconti dettagliati dei suoi difetti o sedicenti tali; dalla maldestra improvvisazione alla ruvidità di modi, dall’affettata eleganza alla volubilità di giudizi, alla rozza ignoranza. Con il nobile intento di salvaguardare l’umanità da questo flagello, i campioni dell’informazione democratica, in particolare il NYT (New York Times) e il WP (Washington Post), dimentichi delle restanti cose del mondo, stanno da tempo concentrando la totalità degli sforzi in questa missione piegando ad essa fatti, realtà e soprattutto deontologia professionale. Con la stessa dedizione, ma con evidente minore fatica, gli innumerevoli corifei dell’informazione europea, pervasi da certezze assolute, non fanno altro che spandere a cuor leggero veline e veleni propinati dai capostipiti. Eppure almeno una caratteristica del Presidente Americano dovrebbe accomunare il giudizio dei pochi fautori e dei tanti detrattori del suo prominente impegno: la capacità di scatenare l’aperto spirito bellicoso anche nelle personalità più prudenti e discrete; tra queste, senza dubbio il Cancelliere tedesco.

Di Angela Merkel, nella vicenda delle intercettazioni americane delle sue conversazioni telefoniche, abbiamo apprezzato la capacità di accettare dal versante amico le peggiori intrusioni e umiliazioni senza alcun pregiudizio dei rapporti, in particolare quelli con Obama e senza apparenti sussulti di orgoglio; nella vicenda del milione di profughi siriani, invece il suo spirito di accoglienza talmente ecumenico da equivocare sulle profferte amorose del branco senza autorizzazione delle interessate, salvo cercare di rifilare con discrezione gran parte degli ospiti ai paesi vicini una volta constatata la loro difficoltà di inserimento e la loro preparazione professionale evidentemente non all’altezza delle aspettative; nella vicenda delle contraffazioni dei dati di emissione degli scarichi delle auto tedesche, abbiamo apprezzato la difesa pur tardiva dello spirito puritano a scapito forse dell’immagine di efficienza del sistema industriale e dei sistemi di controllo tedeschi. Il meglio della sua valenza di amministratrice, almeno sino a pochi mesi fa, è emerso nella vicenda del collasso della Grecia quando con mirabile quadratura è riuscita a conciliare l’aura puritana del rigore contabile con il trasferimento sui bilanci pubblici degli stati europei di gran parte delle esposizioni bancarie tedesche verso quel paese, con il consolidamento dei profitti finanziari delle stesse sul debito restante, con l’acquisizione di buona parte della rete logistica greca e, ciliegina sulla torta, con la vendita a caro prezzo all’esercito ellenico di residuati bellici presenti nei depositi della Bundeswehr. Si sa che le trattative politiche riservano come corollario quasi sempre il lato oscuro della meschinità. Nella graduatoria degli inperturbabili la statista tedesca non detiene certo l’esclusiva, di sicuro è in posizione di ascesa. Tra gli innumerevoli esempi, gli allora Generale Wesley Clark e Segretaria di Stato Madeleine Albright si concessero come bottino della missione umanitaria in Jugoslavja una partecipazione azionaria delle società minerarie del Kosovo; la stessa pletora di funzionari, accademici ed economisti americani e tedeschi accorsi al capezzale della moritura URSS e della nascitura Russia di Boris Eltsin ottenne di scambiare le proprie disinteressate consulenze con una partecipazione attiva al saccheggio di quel paese; per non parlare delle cointeressenze in Ucraina. Anghela, come un re Mida dei nobili principi, è riuscita a trasformare anche la meschinità in rigore risanatorio, sempre però con un profilo dimesso e discreto; da pudico comportamento collaterale a qualità volta al bene pubblico.

UN CONFRONTO PREMATURO

Durante il G7/G20 avviene inopinatamente la sua metamorfosi e la consacrazione da Maria Maddalena del cenacolo europeo ad angelo giustiziere dell’attentatore all’ordine mondiale.

Sono bastati pochi mesi dal gelido saluto al non ancora insediato Presidente Americano, alla imbarazzata visita a Washington per finire con la contrapposizione al G7 per passare da una immagine di capo di governo in verità un po’ dimesso, tutt’al più abile ad agire nell’ombra, a quella di statista orgoglioso in grado di contrapporsi apertamente al neopresidente e, aspetto ben più rilevante, di trasformare la Germania da paese in grado di approfittare in maniera surrettizia delle opportunità della globalizzazione a nazione paladina di questa virtù o in alternativa, secondo le interpretazioni, in grado di contrapporsi, assieme alla Cina, alla prepotenza e all’unilateralismo americano.

Da allora è tutto un fiorire di letteratura e di tesi sul destino manifesto di un paese, inesorabilmente portato a scontrarsi con la nazione egemone; quello che divide i sostenitori riguarda il probabile esito finale dello scontro, ma confronto comunque dovrà essere.

La redazione di Limes, autrice di una per altro pregevole monografia sull’argomento, è la portabandiera più autorevole di questa tesi.

Sono sufficienti pochi atti politici pubblici, concentrati in poche settimane, in aggiunta magari al proposito proclamato di costruzione di un sistema diplomatico e di difesa europei autonomo dagli USA, per promuovere l’attendibilità di una svolta politica così straordinaria?

Già la dinamica e la successione dei recenti eventi da adito a parecchi dubbi.

Intanto il tampinamento postpresidenziale di Obama e l’accoglienza trionfale a lui riservata a Berlino, all’esponente quindi che, assieme a Hillary Clinton, suo successore designato, ha cercato ostinatamente di arginare la tendenza al multipolarismo e di destrutturare gli stati viziati da proprie ambizioni autonome, svelano i legami inestricabili di dipendenza e compromissione con il vecchio establishment nonché le aspettative di ripristino dello “statu quo ante” del cancelliere tedesco. Il veemente appello alla crociata in difesa dell’accordo sul clima di Parigi e del libero mercato globalizzato sventolato al G7 di Taormina, ha mostrato per altro subito la corda al G20 di appena due mesi dopo lasciando in mano alla Merkel un vessillo ridotto ad un cerino consunto con alle spalle truppe scarse e poco convinte a difenderlo. Si potrebbe interpretare come un modo spregiudicato di condurre una danza del quale si possiede il filo conduttore della musica. Più che una condottiera dotata di forza propria in realtà si è rivelata lo strumento di uno schema più grande e complesso giocato per lo più Oltreatlantico. Lo stesso pulpito si è rivelato poco attendibile vista la recente propensione della Germania a limitare le acquisizioni cinesi in Europa rivelando così una evidenza chiara ancora a pochi eletti: il confronto sul libero mercato è una battaglia per determinare regole commerciali più favorevoli ad una o l’altra delle formazioni socieconomiche e ai loro centri dominanti all’interno di logiche geopolitiche operanti all’interno ma non riducibili ad un mero o assolutamente prevalente confronto economico. Una riduttivismo invece che ancora prevale oppure tende a riaffiorare surrettiziamente in gran parte delle tesi, anche nella monografia di Limes.

UN APPROCCIO EVENEMENZIALE

L’approccio evenemenziale presente in gran parte degli studi e soprattutto nella divulgazione mediatica tende a focalizzare e spettacolarizzare un particolare duello a discapito degli altri e dello sguardo d’insieme. Il tentativo stesso di Trump di reimpostare in maniera bilaterale i rapporti e le relazioni tra gli stati può indurre ad accentuare tale interpretazione particolaristica. Un tentativo che se inteso come strategia può trascinare alla rovina gli Stati Uniti e favorire uno sviluppo caotico e gravido di incognite del multipolarismo, ma con qualche possibilità in più, per le potenze intermedie, di assumere una propria peculiare fisionomia. In realtà l’adozione del modello di relazioni bilaterali è del tutto irrealistico e fuorviante perché prescinde dal naturale gioco di alleanze che si dipana nel conflitto politico e il cui successo presuppone proprio ciò che l’attuale svolta politica sta sentenziando inappellabilmente: l’inesistenza di un centro dominante indiscusso. Esso conduce in pratica alla stessa sterilità di chiavi interpretative del concetto di globalizzazione fondato sul movimento atomistico dei singoli agenti sul mercato e sul declino inesorabile del ruolo degli stati nazionali. Se adottato altrimenti come espediente tattico, come da probabile intendimento di Trump, può servire ad una destrutturazione del sistema attuale di relazioni in vista di una ricostruzione più controllata delle sfere di influenza, ma a determinate condizioni: che gli attori in grado di condurre il gioco siano limitati, che riconoscano una reciproca legittimazione e che abbiano un’idea sufficientemente precisa della delimitazione delle sfere di influenza. In un modo o nell’altro si tratta di un processo ormai irreversibile rispetto al quale la classe dirigente dominante tedesca sembra molto più temere le incognite ed apprezzare le attuali rendite di posizione che cogliere le incerte opportunità.

Profetizzare, come prevede la redazione di Limes, uno scontro aperto tra Stati Uniti e Germania pare quantomeno prematuro se non azzardato. E infatti, ad eccezione dei contributi esterni in realtà molto più cauti, gli articoli dei redattori suffragano la tesi sulla base di stereotipi ormai consunti.

Da una parte cerca di fondare l’ineluttabilità del conflitto sulla base dell’incompatibilità tra le due culture. In realtà la storia offre innumerevoli esempi di conflitti atroci e di durature alleanze tra paesi e centri strategici dalle culture difficilmente compatibili. Gli stessi Stati Uniti hanno combattuto almeno tre guerre aperte con il paese a loro culturalmente più affine, il Regno Unito. Negli Stati Uniti, lo rivela la stessa rivista, la componente più numerosa è appunto quella di origine tedesca e la sua cultura ha impregnato pervasivamente la formazione politica e sociale americana, pur affermando in esse una scarsa capacità lobbistica. Paradossalmente, secondo i redattori, una stessa identità culturale avrebbe quindi contribuito decisivamente a determinare la costruzione di una nazione e della sua classe dirigente e nel contempo l’ineluttabile conflitto con il paese di origine di quel ceppo, costituitosi in stato nazionale. Una tesi, quindi, fuorviante, versione edulcorata del più famoso ed altisonante conflitto di civiltà teorizzato da Huntington.

Dall’altra cerca di spiegare la dinamica inesorabile di questo conflitto attraverso il confronto asimmetrico tra il peso e la forza economica crescente del paese europeo e la pervasività e la forza politica di quello americano. Una dinamica che tenta di spiegare non solo le modalità del conflitto tra i due paesi ma anche la natura del dilemma che dovranno risolvere le classi dirigenti degli altri paesi, in particolare quello dell’Italia, di fronte alla alternativa posta della alleanza strategica con uno o l’altro dei contendenti. Un confronto quindi tra il peso militare, la capacità diplomatica e la pervasività dei servizi di intelligence da una parte e la solidità finanziaria, la capacità produttiva e la potenza commerciale dall’altra.

Una chiave esplicativa più sofisticata della prima, ma altrettanto fuorviante e non priva di evidenti punti oscuri e vere e proprie omissioni.

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