caso Skripal_Parla la vittima, di Giuseppe Germinario

Periodicamente il caso Skripal torna alla ribalta contribuendo ad avvelenare i rapporti già particolarmente tesi tra Russia e Alleanza Atlantica. Sono stati soprattutto i servizi inglesi ad alimentare la tensione ostentatamente strumentalizzata dal Governo Inglese. Italia e il mondo ha offerto una propria interpretazione dei fatti riguardanti una vicenda così contorta http://italiaeilmondo.com/2018/04/08/podcast-22_realta-oltre-la-fantasia-lintreccio-dei-destini-personali-e-delle-strategie-politiche-il-caso-skripal-di-gianfranco-campa/ . In questi giorni la stampa, in particolare quella inglese, è ripartita con una serie di articoli sul caso. Tra i vari https://www.voanews.com/a/poisoned-former-russian-spy-struggled-to-come-to-terms-with-murder-bid/4597747.html

https://www.theguardian.com/uk-news/2018/oct/02/sergei-skripal-initially-did-not-believe-russia-tried-to-kill-him-book

A sua volta Putin è sceso in campo in prima persona per apostrofare il malcapitato https://www.telegraph.co.uk/sergei-skripal/

Un intervento talmente violento da sembrare più un tentativo di protezione e copertura che di annichilimento del protagonista più o meno involontario. Sta di fatto che per pochissime ore è apparso sul web una dichiarazione dello stesso Skripal il quale accusava i servizi inglesi dell’intossicazione da gas. Una dichiarazione che può a sua volta prestarsi a diverse interpretazioni; la prontezza con la quale è stata rimossa presuppone l’intervento di forze potenti ed oscure; lascia di fatto propendere per la veridicità delle sue affermazioni. E’ mancata purtroppo la prontezza di spirito necessaria a salvare il file di quella testimonianza. L’impossibilità di provare quanto segnalato può dare adito a dubbi circa la serietà della fonte; ritengo che la denuncia della gravità di quelle dichiarazioni meritino la preminenza. Una licenza che può essere consentita ad un piccolo blog. Probabilmente nelle prossime settimane non mancheranno ulteriori colpi di scena che consentiranno di arricchire e avvalorare una trama così fosca e purtroppo di alimentare una tensione crescente che sembra sfuggire sempre più al controllo di chi nominalmente dovrebbe decidere, stando almeno agli impegni proclamati in campagna elettorale, gli indirizzi di politica estera del paese del quale è Presidente: Donald Trump. Ad acuirla, non ultime le minacce da parte statunitense di un attacco preventivo teso a distruggere i missili a medio raggio dislocati in Russia. Una vera e propria provocazione giustificata dalla violazione di quegli stessi trattati di cui hanno fatto strame gli americani negli ultimi venti anni. Ai grandi movimenti nello scacchiere geopolitico si aggiungono oscure trame le quali lasciano intendere la profondità del conflitto in corso tra vari centri decisionali. _ Giuseppe Germinario

meglio Callicle, di Teodoro Klitsche de la Grange

Seguendo le sollecitazioni di alcuni lettori si ripropone qui sotto un saggio di Teodoro Klitsche de La Grange già apparso sul sito ma con una veste grafica poco adatta alla lettura_ Giuseppe Germinario

MEGLIO CALLICLE

 C’è molto da meditare, ancora oggi, in  particolare  per chi si occupi  di  studi politici e giuridici, sull’alternativa, nel Gorgia, tra le contrapposte tesi di  Socrate  e Callicle. Com’è noto, Socrate – il quale inizia, sul punto, a discutere con Polo – sostiene che è moralmente preferibile subire un torto piuttosto di farlo. Callicle (e  Polo)  al contrario, ritengono che subirlo non sia degno di un uomo libero. A ben vedere le opposte soluzioni conseguono dai diversi presupposti (e contesti) da cui partono  i contraddittori, in certo modo confusi dall’abilità dialettica di Socrate. Infatti questi, procedendo da un’impostazione morale, considera l’azione in se, avulsa dalle conseguenze che dalla stessa possono derivare, e dal contesto in cui si producono gli  effetti. Trattandosi  però di violazioni anche di  nomoi il campo in cui va a incidere il giudizio etico di Socrate non è quello, individuale, della coscienza, ma l’assetto giuridico e politico della comunità. In sostanza traspone le norme etiche in un contesto ad esse non proprio. Callicle – che pure contrappone natura e legge, o meglio leggi di natura e leggi positive – si tiene fermo al campo politico (e giuridico). La sua tesi è che non “da vero uomo, ma da schiavo, è subire ingiustizie senza essere capaci di ricambiare, e meglio è morire che vivere se, maltrattati ed offesi, non si è capaci  di  aiutare se stessi e chi ci sta a cuore” (1). E ciò per legge di natura “la stessa natura chiaramente rileva esser giusto che il migliore prevalga sul peggiore, il più capace sul meno capace. Che davvero sia così, che tale sia il criterio del giusto, che il più forte comandi e prevalga sul più debole, ovunque la natura  lo mostra, tra  gli animali e tra  gli  uomini, nei complessi  cittadini e nelle famiglie” (2). Callicle cioè  si  attiene, nelle  sue argomentazioni, alla  “realtà effettuale”, al contrario di Socrate: le argomentazioni del primo derivano dalla descrizione e valutazione dei fatti (dall’essere); quelle del secondo sono prescrittive, partono dal dover essere. Peraltro Callicle, come notato (3), non trascura mai le “costanti” della politica: in particolare la relazione di comando e obbedienza, col corollario della classe politica, ovvero dei meno che governano sui più che sono governati. Socrate invece prescinde dal rapporto politico, al punto che gli esempi addotti a  conforto  delle  sue tesi sono tutti estranei  a questo. E Callicle lo nota, osservando “tu non hai in bocca che calzolai, cardatori, cuochi, medici; come se il nostro discorso avesse per argomento tale gente!” E chiarisce: “In primo luogo quando parlo dei più forti, non intendo calzolai o cuochi, ma quelle persone la cui intelligenza è volta agli affari dello Stato, che sanno come si debba amministrare la cosa pubblica, e che sono non intelligenti solamente, ma anche uomini di coraggio, capaci di portare a termine quello che pensano e che non indietreggiano nel loro compito per debolezza d’animo” (4). In definitiva (sintetizzando) per Callicle il  problema  va risolto tenendo conto dell’essenza del potere  (politico):  che non può  sopportare  ingiustizie (almeno non le può subire spesso), pena il  suo stesso venir meno come garante e  produttore dell’ordine. Invece Socrate conclude sostenendo  che compito  del politico  è di fare degli ottimi cittadini: cioè, sostanzialmente, di  occuparsi  del  loro  perfezionamento civico e morale (5). Per analizzare la posizione di Callicle, più interessante sul piano della “realtà effettuale” occorre non solo esaminarla nel contesto proprio, ma ponendosi in angoli visuali diversi: cioè a seconda che la massima si indirizzi ai governanti o ai governati, e se il campo ne sia, specificamente, la politica o il diritto. 2. Che la posizione di Socrate fosse, dì fatto, incongrua  a reggere e conservare la comunità e quella di Callicle sia stata – anche se  in parte – ritenuta valida a tale fine, risulta dalle riflessioni dell’etica cristiana. Secondo  la quale commettere torto è assai peggio che subirlo – anzi subirlo significa guadagnarsi un posto in Paradiso; tuttavia i teologi hanno temperato tale (nobile) posizione etica discriminando tra il dovere del cristiano (governato) e quello dell’uomo di governo cristiano. Lutero, in particolare, ha scritto pagine illuminanti, distinguendo tra la tutela del proprio interesse e di quello degli altri. Quand’è leso il proprio interesse  I  fedele  deve subire dei torti: per quello degli altri è. parimenti, dovere del cristiano non permettere che torti si commettano e, comunque, che questi debbano essere sanzionati. Scrive Lutero “Se tu non hai bisogno che il tuo nemico sia punito, il tuo vicino che è debole, ne ha necessità e devi venirgli in aiuto perché abbia  la pace e il suo nemico sia represso. E ciò non può verificarsi  se potere e autorità non sono onorati e rispettati.  Cristo  non  dice “Non  devi  servire l’autorità né essere sottomesso ma Non devi resistere al male” (6). Da cui consegue che “facendolo ti porrai interamente a disposizione di una funzione e di un’attività al servizio del prossimo, che non sono utili a te, né al tuo bene o al tuo  onore, ma  servono  solo  agli altri, e, espletandola non con l’idea di vendicarti o restituire male al male, ma per il bene del prossimo e per assicurare la difesa e la pace degli altri” (7) e prosegue “quando si tratta del prossimo e del di esso interesse, agisci secondo amore cristiano e non tollerare che gli sia fatta alcuna ingiustizia” (8). In particolare all’autorità  compete di  mantenere l’ordine  e il diritto, perché istituita da Dio in vista di tale fine. “Se il potere e la spada sono un servizio divino, come ho provato sopra, tutto ciò che è necessario al potere per impiegare la forza, dev’essere anch’esso un servizio divino. Occorre che ci sia qualcuno per catturare i delinquenti, accusarli, punirli e metterli a morte, e per proteggere, discolpare, difendere e salvare gli uomini virtuosi”(9). Poco dissimile è la concezione di Calvino. Questi ritiene i magistrati “vicari di Dio”, “servitori della giustizia”; rifiutando la posizione degli anabattisti, ritiene che il loro ruolo è necessario e niente affatto contrario alla vocazione del critiano ed alla religione cristiana. Riguardo alla pena di morte, scrive: “Il est vrai que la Loi de Dieu défend d’occire; au contraire aussi, afin que les homicides ne demeurent impunis, le souverain Législateur met le glaive en la main de ses ministres, pour en user contre les homicides. Certes, il n’appartient pas aux fidèles d’affliger ni faire nuisance; mais aussi ce n’est pas faire nuisance, ni affliger, que de venger par le commandement de Dieu les afflictions des bons” per cui “C’est pourquoi, si les princes et autres supérieurs connaisent qu’il n’y a rien de plus agréable à Dieu que leur obéissance, s’ils veulent plaire à Dieu en piété, justice et intégrité, qu’ils s’emploient à la correction et punition des pervers” (10). Ne consegue che la massima morale valida per il cristiano, di porgere l’altra guancia, non vale per il governante, anche cristiano, il quale operando per l’interesse dei governati non deve subire né, soprattutto, tollerare che i governati subiscano torti. Sosteneva Troeltsch che da tale concezione protestante deriva l’alto senso del dovere che ha ispirato la burocrazia professionale tedesca (11); è sicuro comunque che, determina anche sul piano etico una netta distinzione, secondo la funzione, nei doveri e nel comportamento del cristiano. A conclusioni non molto diverse si arriva leggendo i teologi della controriforma. Scriveva S. Roberto Bellarmino, polemizzando in particolare con gli anabattisti, che le leggi “non servirebbero a nulla, se non ci dovesse essere alcuna sentenza; ma come si è già provato, non si devono togliere le leggi: dunque nemmeno le sentenze” (12). Quindi esercitare la giustizia e rivolgersi al giudice  per la riparazione  del torto è lecito, anzi in  certi casi doveroso, perchè concorre a reprimere chi potrebbe commettere altre ingiustizie; e quanto all’autorità temporale, ed alla pena di morte è “compito  di un buon principe, al quale è affidata la protezione del bene comune, impedire  che le parti corrompano  il  tutto, per il quale esistono; di conseguenza se non può conservare integre tutte le parti, deve piuttosto recidere una parte che lasciar perire il bene comune; come i contadini recidono  i rami e i tralci che danneggiano la vite o l’albero, e il medico amputa le membra, che potrebbero corrompere il corpo” (13). Passando al diritto internazionale, ed alla  liceità  della  guerra  – nel caso di risposta alle offese – Francisco Suarez afferma ”  bellum defensivum non solum est licitum, sed interdum etiam praeceptum” e ciò per difendere l’esistenza e le ragioni della comunità; ma anche la stessa guerra offensiva può essere giusta e la ragione è” quia tale bellum saepe est reipublicae necessarium ad propulsandas iniurias et coercendos hostes, neque aliter possunt respublicae in pace conservari: Est ergo hoc iure naturae licitum, atque adeo etiam lege evangelica, quae in nulla re derogat iuri naturali, neque habet nova praecepta divina, praeterquam fidei et sacramentorum: Quod enim non vult haec mala, sed permittit, unde non prohibet quin iuste possint propulsari (14). Nel caso che il principe sia trascurato “in vindicanda et defendenda republica” allora può” tota respublica se vindicare, et privare ea auctoritate principem quia semper censetur apud se retinere eam potestatem, si princeps officio suo desit” (15) E tra le giuste ragioni di guerra di un principe cristiano, vi sono le riparazioni di un torto o la difesa degli innocenti (16). Pur sostenendo concezioni, su altre questioni, opposte, sul punto del dovere dell’autorità temporale di proteggere i sudditi, e sulla legittimità della relativa funzione, teologi cattolici e protestanti concordano, con poche sfumature di differenza. Come tutti condannano gli anabattisti, per il loro divieto al cristiano di assumere funzioni pubbliche. La distinzione quindi tra morale “pubblica” e “privata” (e relative “sfere”) è saldamente stabilita. Quel che è vietato al privato è concesso – anzi è dovere – dell’uomo pubblico. Ciò conferma il rapporto dell’etica cristiana con l’ordine: il bene morale è in riferimento all’ordine dell’esistenza e della vita, cui deve conformarsi il comportamento del credente. Ordine che non può sussistere (e durare) senza distinzioni di ruoli, di funzioni, e quindi di comportamenti: la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra funzione pubblica e attività privata, tra azioni vietate, premesse o comandate a seconda del ruolo sociale dell’autore, ed in funzione della conservazione della comunità, come essere ordinato. 3.0 Jhering, nel “Kampf um’s recht”, rivoluziona tale impostazione, rendendola più vicina, anche se in un ambito parzialmente diverso, a quella di Callicle. Cioè rende di nuovo universale – rivolto a tutti, governanti e governati – l’imperativo di non subire il torto, anzi ne fa il (principale) fatto fondante l’ordinamento comunitario. Il giurista tedesco prende le mosse dal concetto del Diritto che è un “concetto pratico, cioè dire, un concetto non puramente speculativo, ma tendente ad uno scopo. Se non che ogni concetto di tal natura è per propria essenza dualistico. Nel seno suo accoglie l’opposizione del fine e del mezzo. Parlare semplicemente del fine non basta: occorre indicare al tempo stesso anche il mezzo per giungere al fine” e continua “il mezzo, per vario e multiforme che possa essere all’apparenza, in sostanza riducesi sempre alla lotta contro l’ingiustizia. Il concetto del Diritto inchiude in sé le opposizioni della lotta e della pace: questa come termine finale; quella come mezzo del diritto. Le due cose sono date ugualmente nel concetto del Diritto e dallo stesso inseparabili” (17). Né si può opporre che la lotta, il conflitto sia proprio ciò che il diritto mira ad impedire perché “l’obiezione sarebbe giusta, ove si trattasse della lotta dell’iniquità contro il Diritto. Ma il fatto è che qui si tratta dell’opposto, della lotta del Diritto contro l’ingiustizia. Tolta simile lotta, tolta cioè la resistenza contro la violazione, il Diritto sarebbe ridotto ad una negazione intrinseca di sé. Sino a che il Diritto dev’esser considerato dal lato delle ingiuste aggressioni, che può subire – e ciò accadrà sino a che durerà il mondo

– il Diritto non può esimersi dal lottare. Per la qual cosa la lotta non è un che di straniero al

Diritto. Essa è invece intimamente legata con l’essenza sua: è, in una parola, un momento del suo concetto” (18). Da ciò, prosegue Jhering, deriva che l’essenza  del diritto è  attuazione pratica: “Una regola giuridica, che giammai non fu attuabile, ha perduto  la capacità di esserlo, non può pretendere a cotal nome. Essa è una molla inetta, che non collabora nel meccanismo del Diritto, e che può esser tolta  via, senza  che alcuna alterazione ne segua”. Questo principio s’applica  senza limitazione  di sorta a tutte le parti del Diritto. Ma mentre l’attuazione del  diritto pubblico  e penale  è “assicurata  perché imposta come dovere ai rappresentanti del potere politico; quella invece del diritto privato prende la forma di un diritto delle persone, vale a dire, abbandonato  completamente  alla loro propria iniziativa, alla spontanea attività loro. Nel primo caso l’attuazione del Diritto dipende da ciò, che le autorità e gli ufficiali dello Stato compiono il dover loro; nel secondo invece da ciò, che le persone private faccian valere il loro diritto” (19). Ma se queste non se ne curano, non lottano cioè per realizzare il loro diritto “la regola giuridica rimane allora impotente. Onde può dirsi: la realtà, la forza pratica delle massime del diritto privato apparisce e s’afferma, allorché i diritti concreti vengon fatti valere. E così, mentre questi ricevon da un lato la vita loro dalla legge, fanno d’altro lato la vita della legge. La relazione  del diritto obiettivo o astratto co’ diritti subbiettivi o concreti è pari alla circolazione  del sangue, che parte dal cuore, ma al cuore fa  ritorno” (20).  A chi sostiene  che, tutto sommato, a soffrire le conseguenze di un’azione nel tutelare il  proprio  diritto, è “l’investito del diritto”, Jhering controbatte che “Quando l’arbitrio e la licenza s’attestano temerarii ed audaci di levare il capo, è segno sicuro che quei che eran chiamati a difendere la legge hanno negletto il  dover  loro” (21). E nel diritto privato ciascuno  è, “in  obbligo  di difendere la legge; ciascuno, entro la sua propria sfera, n’è custode ed esecutore”; per cui

“Affermando il diritto suo, nella sfera ristretta, che questo occupa, egli nulladimeno afferma e mantiene il Diritto. Epperò l’interesse e le conseguenze della sua maniera di agire trascendono di molto la persona sua” (22). L’interesse generale, ricollegato al comportamento attivo, non è quello, puramente ideale, della maestà della legge; ma quello reale e pratico, “che lo stabile ordinamento della vita socievole sia assicurato e conservato saldo ed integro” (23). Quando il diritto diventa punto o poco applicato, per indifferenza o pigrizia “La responsabilità di simili condizioni non ricade sulla parte del popolo, che trasgredisce la legge; ma su quella, che non ha il coraggio di farla rimanere inviolata e rispettata. Non bisogna lamentarsi dell’ingiustizia, che tenta usurpare il posto del Diritto; ma bensì del Diritto, che se n’acqueta e contenta. E fra le due massime: non fare alcun torto, e: non soffrire alcun torto, se dovessi scegliere per dare a ciascuna il grado che le spetta secondo la sua importanza pratica, direi, che quella di non sopportare alcun torto è la prima; e l’altra di non farne, la seconda” (24). In ciò Croce ravvedeva non solo un’inoppugnabile ragione pratica, di conservazione dell’ordinata vita sociale, ma anche l’espressione di un “alto concetto” e di un “sentimento morale”. Quello cioè di difendere il proprio diritto anche con sacrificio degli interessi individuali (25). In realtà è chiaro che, come sostenuto da Jhering, una società non può reggersi se il diritto viene totalmente, o largamente disapplicato. Il diritto non è una collezione di “grida” di manzoniana memoria (o, diremmo oggi, di norme – manifesto) ma vive della sua applicazione, di cui è strumento essenziale, anche se non esclusivo, la volontà e la determinazione individuale. Ciò è connaturale all’approccio problematico ed alla cultura del giurista, dato che in alcuni ordinamenti è prescritta addirittura l’abrogazione per desuetudine. Ma anche laddove questa non è prevista, un diritto poco o punto applicato è un diritto inesistente, che ha smarrito la funzione essenziale di formalizzazione dell’ordine e garanzia del medesimo. Di fronte al quale, non può non concordarsi con il giudizio di Jhering. 4.0 Diversa – almeno in parte – appare la questione ad affrontarla sotto l’angolo visuale, che è propriamente quello di Callicle, cioè della politica. Qui il problema consiste nel vedere come l’alternativa si presenta in un campo di rapporti specificamente politici. In primo luogo cioè, come si configuri in un ambito in cui il potere è fattore essenziale, ed è assicurato dal rapporto tra comando e obbedienza; la cui funzione precipua non è tanto la tutela d’interessi individuali, ma dell’esistenza collettiva. Ne consegue che se la teoria di Jhering vale per un individuo, che opera per interessi personali e fa scelte le cui conseguenze ricadono in primo luogo su di se, e solo di riflesso su tutti; qui, di converso, abbiamo decisioni che coinvolgono, immediatamente e direttamente, gli interessi di tutti. Per cui, spesso, subire un torto, per odioso che sia è preferibile a lottare per il proprio diritto, perché il costo della scelta sarebbe insopportabile. Il che è particolarmente chiaro e manifesto nei rapporti internazionali, dove abbiamo visto interi stati cessare d’esistere senza combattere (come gli Stati baltici e la Cecoslovacchia nel 1939), perché la lotta si manifestava impari, anzi

disperata, e molto costosa, sul piano umano prima che economico. E’ possibile tacciare quei governanti d’ “immoralità” o meglio di codardia,  sotto  il  profilo  considerato?  O  non piuttosto, avendo quelli la responsabilità di milioni di uomini, hanno applicato la regola machiavellica, di trarre “miglior partito dal meno malo”, salvando la vita dei concittadini, al prezzo dell’esistenza collettiva? In altri termini ciò che (anche) rende peculiare il problema politico (rispetto alla realtà morale o “giuridica”) è che in politica l’etica è sempre, in misura prevalente, un’etica della responsabilità: bisogna considerare come ogni scelta ricada sugli interessi di milioni di persone. Il che non succede, come chiarito, negli altri casi. Fatta tale premessa, e ponendoci nella prospettiva del governante,  occorre  distinguere  tra  due ipotesi: subire un torto o farlo subire. E’ chiaro come, a tale proposito, occorre appena considerare che il torto sia sofferto sul piano personale. Questo sarebbe irrilevante; tuttavia trattandosi di persone pubbliche, fatti del genere provocano una diminuzione di autorità (di “credibilità” si potrebbe dire), con le conseguenze relative; pertanto da evitare, per quanto possibile. Quando però a subire un’ingiustizia è la comunità o l’istituzione o il gruppo “rappresentato” la regola d’azione non può che essere quella di Callicle; anche se occorre tener conto, come sopra scritto, delle conseguenze e del costo della reazione. Questo, in primo luogo, perchè primaria funzione del potere politico è proteggere  la comunità  e i membri di questa  da ogni offesa  esterna  ed interna. Se la comunità, nel suo insieme, subisce un’ingiustizia, è chiaro che ciò incrina l’efficacia della  protezione,  ovvero  la principale “obbligazione” dei governanti. Il  giudizio, tante volte ripetuto, che gli Stati stanno  tra loro in perenne stato di natura, implica anche questo: che, in linea di principio, non può subirsi il torto. Tant’è che il diritto internazionale conosce  l’istituto  della  rappresaglia,  la quale è, per l’appunto, una reazione (o rimedio) lecito per la riparazione  dell’illecito  patito. Ma, tornando a ragionare sul piano puramente politico, si arriva a conclusioni uguali. La funzione del potere è, infatti, attraverso il monopolio della violenza legittima (nello Stato moderno), di stabilire e garantire l’ordine. Come scriveva Hauriou “ogni potere che voglia durare è obbligato a creare un ordine delle cose e un diritto positivo” (26). La relazione tra questo, l’ordine e il diritto è quindi una costante necessaria dell’esistenza collettiva. Ma il potere può essere tale solo se, concretamente, comanda e viene obbedito. Il dualismo tra potere di fatto e di diritto, nelle situazioni storiche, è destinato a durare poco; perchè, in periodi più lunghi, o il potere di fatto diviene potere di diritto – alla fin fine, perchè obbedito o quello di diritto torna ad esserlo anche di fatto, per la stessa ragione. Ogni situazione di conflitto tra poteri in una comunità, si risolve in tal modo; e il criterio della prevalenza è dato dalla capacità di farsi obbedire, cioè di (creare e) garantire l’ordine. Ad affrontare poi la questione sotto il profilo se il potere politico possa tollerare di far subire ingiustizie ai membri della comunità, la conclusione è ancora più semplice. Questo perchè è quasi nullo il rischio che un torto subito da un privato possa trasformarsi in un casus belli che metta in gioco l’esistenza collettiva. In questi casi tutto si risolve all’interno dell’unità politica.

Orbene se fine del potere è la protezione (o la sicurezza) delle vite e dei beni dei singoli cittadini, è chiaro che far  subire  un torto è un grave, gravissimo “sviamento” da tale  funzione. E’ un “peccato” sotto il profilo dell’etica politica: e ciò non solo per i motivi esposti e sopra citati – da Lutero. Ma perchè, in un’epoca di secolarizzazione, in cui sono stati recisi i legami tra cielo e terra, la prima ragione di legittimazione del potere è la sua congruità alla funzione, come ci è capitato di sottolineare altrove. Cioè che riesca ad adempiere efficacemente i propri compiti. Ma allorquando non abbia successo nella sua primaria incombenza, non c’è alcuna ragione perchè possa pretendere Peraltro laddove, come nello Stato moderno, il potere pubblico ha ottenuto il “monopolio della violenza legittima”, si è anche caricato, più che in altre forme politiche, della responsabilità della protezione, proprio perchè la reazione al torto e/o la sua “esecuzione” non può più essere “amministrata” dal privato. Questo accadeva in altri ordinamenti, come l’antico diritto romano o l’Europa feudale, in cui alcune – diffuse – forme di autoamministrazione ed autoesecuzione della sanzione erano ammesse. Ma laddove queste siano state totalmente eliminate – anzi sanzionate penalmente – una repressione pigra, occasionale e svogliata è, nei fatti, un incentivo alla prepotenza ed ai soprusi: alle violazioni, cioè, di quel diritto di cui lo Stato si pretende sia arbitro. Una sorta d’ “intelligenza”, complicità o “solidarietà” con chi viola la legge e non con chi l’osserva. D’altra parte, è appena il caso di  ripetere – tanti  l’hanno già detto – che lo Stato moderno non ha il monopolio del diritto ovvero non è l’unica fonte di produzione normativa – atteso che questo  è,  in  buona  parte, prodotto  di altri enti od istituzioni sociali, non solo pubbliche – e in parte è generato, spontaneamente dai (costanti) comportamenti comunitari. Ciò di  cui lo Stato  ha il  monopolio  è dell’applicazione e soprattutto esecuzione del diritto (come compito primario all’interno della funzione di garanzia dell’ordine, anch’essa “monopolizzata”). Il cui aspetto principale è che non sia consentito far subire ingiustizie, anzi siano approntati tutti gli strumenti  perchè  chi le ha patite ottenga soddisfazione. C’è un’altra considerazione che rende all’ambito politico e giuridico la tesi di Callicle e del tutto incongrua quella di Socrate. Se è vero infatti che il sovrano dell’età moderna è “legibus solutus”, in quanto fonte della legge, la conseguenza  che ne discende è quella espressa nella massima  del diritto pubblico inglese “the king can do no wrong”: il re non può commettere torto, per definizione perchè è la sua volontà a determinare il giusto e l’ingiusto. Certo, si potrebbe rispondere, come uomo è soggetto alla legge morale; ma come gevernante (non come “cardatore, cuoco”, ecc.) è suo dovere non seguirla, come immediata conseguenza dell’autonomia della politica della morale. In sintesi non è obbligato ad osservare la legge positiva perchè ne è la fonte; non è tenuto a precetti morali, in particolare quando non tornino utili – e ancor più se sono dannosi – agli interessi dell’unità politica. Non è così per la massima di Callicle: subire e far subire un torto alla comunità (e alla persona pubblica del sovrano) è sempre un vulnus alla funzione di protezione e governo di questi. Al punto che Suarez nel passo sopra citato, legittima “tota respublica” a privare della sua autorità il principe “si princeps officio suo desit”.

L’affermazione del teologo gesuita è sorprendente – a non approfondirne il pensiero – tenuto conto che non ammette, se non in tal caso, un “diritto di rivoluzione” (o meglio, di “supplenza”) della comunità  verso il  sovrano legittimo.  Ciò che è interdetto in linea generale, viene permesso ai sudditi proprio nel caso eccezionale si debba evitare di subire – o riparare un illecito ai danni della comunità (27). D’altra parte anche se più “avanzata”, questa posizione ha molti punti di contatto con quella  di Hobbes, secondo il quale l’obbligo  di obbedienza cessa per i sudditi quando il sovrano non è più in grado di dare loro protezione:  in quanto “ogni cittadino ha la libertà  di proteggersi  da se, con i mezzi, che il suo criterio gli suggerirà” (28). Anche qui, con la dovuta differenza,  è la funzione del sovrano, ordinatrice e protettrice, e l’efficacia di questa a determinare la sorte del rapporto comando – obbedienza; come d’altra parte giudicava  anche Spinoza, nel cui pensiero il diritto naturale “è determinato dalla sola potenza di ciascuno” e “colui che detiene il pieno potere     si dice che ha il supremo diritto su tutti: diritto, che avrà soltanto finchè

conserverà questa potenza di fare quello che vuole “se perderà questo (il sommo potere N.d.R.) perderà anche il diritto illimitato d’imperio” (29). E’ il caso di ricordare che secondo Spinoza  era impossibile  commettere  torto, da  parte delle “supreme autorità  alle quali tutto è lecito di diritto” (30). Anche nel Trattato Politico  ritiene “non si può in alcun modo dire che  lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa delinquere. Infatti le regole e i  motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto  naturale”(31). E, concludendo  questa  breve casistica,  e ritornando alla questione tra Socrate e Callicle, se dovessimo chiederci se sia peggior governante chi commette ingiustizia o chi la fa subire, la risposta è che, tra le due poco attraenti alternative, è sicuramente preferibile avere  un  governante  che  commetta ingiustizie piuttosto di uno che le faccia subire. E ciò non solo per l’ovvia considerazione che mentre il primo “pecca” una volta il secondo lo fa almeno due: perchè consentire che si subisca un torto significa commettere un (altro) torto. Con  la conseguenza  che  in  questi casi il cittadino si trova come il povero Pinocchio il quale, oltre a subire il furto dal Gatto e dalla  Volpe, passò pure la notte in guardina  per ordine del giudice, cui si era rivolto per avere giustizia. E neppure per il motivo, di etica della politica o, più in generale dell’etica dell’uomo pubblico, che così si contravviene alla propria funzione specifica, quella che legittima l’esercizio di posizioni di potere. Ma  soprattutto  perchè,  seguendo  un ragionamento di Hobbes, è assai peggio dover subire torti dai tanti governati che dai pochi che governano.  Non solo per la quantità:  ma perchè la prima alternativa, nel caso estremo, si trasforma nello stato di natura, cioè in una situazione da guerra civile. Cioè proprio quello che il potere politico ha, come scopo, di evitare. 5.0 Avevamo iniziato col chiederci quale fosse la soluzione migliore tra quelle sostenute da Socrate e Callicle – per un’etica del comportamento pubblico. La conclusione è, ovviamente, che è preferibile quella del sofista. Una società in cui la reazione all’illecito non è sanzionata e praticata, tende a confondere diritto e torto, permesso e vietato, e, più sfumatamente, comando e obbedienza, pubblico e privato: cioè una società in cui i termini  di riferimento  diventano  indifferenti  e intercambiabili, dove l’astuzia  e la prepotenza, trovando  pochi o punti ostacoli, hanno il destro per spadroneggiare. Se questo è chiaro per il diritto, non lo è da meno per gli aspetti più specificatamente politici, che, come Callicle notava, la tesi di Socrate trascura (e confonde). Come sopra  scritto, dove il  comando non si esercita, per ignavia  dei governanti o dei governati, alla lunga non c’è ragione di obbedire. Ma del pari viene confusa la distinzione tra  pubblico e privato, anch’essa  ritenuta da Freund uno dei presupposti essenziali del politico. Si può tralasciare o perdonare  la lesione dei propri interessi  privati, ma non quando vengono in gioco le condizioni di esistenza della comunità. in questo senso l’obiezione di Callicle a  Socrate,  di aver confuso pubblico  e privato, gli statisti  con i cardatori, è magistrale. A un tempo, con ciò il sofista  individuava  la regola  di comportamento dell’uomo  pubblico, non nell’interesse dello stesso, ma in quello della società. E’ sostanzialmente tributaria dell’etica della responsabilità; e, in particolare per il governante, non è detto che sia più facile da percorrere; anzi, in genere, è di gran lunga  la più aspra  e difficile. A governare  facendo discorsi edificanti, lottizzando  cariche e prebende e non disturbando (o solleticando)  tutti “i poteri forti”, sono  capaci  se non tutti, molti. In fondo non si chiede a costoro altro che le doti di don Abbondio, tra le quali, come  riconosciuto dallo stesso, non c’era il coraggio. L’esercizio della funzione pubblica, anche a livelli non “apicali” esige invece doti di coraggio e spesso di abnegazione non indifferenti, nonché la capacità di assumersi responsabilità e rischi. Se la politica non fosse – com’è – comando e obbedienza;  se non fosse, secondo un noto detto di Napoleone, il  destino; se non ponesse in gioco l’ordinata esistenza collettiva e individuale probabilmente tali caratteristiche avrebbero un’importanza marginale.  Se, per esempio, fosse un’arte per elevare moralmente i cittadini, le doti ricordate non avrebbero senso, o ne avrebbero molto poco. Più che assumersi rischi, una tale concezione richiede di far buone prediche. Invece  ciò che fa l’uomo pubblico è il coraggio  prima  che l’intelligenza o la dirittura  morale. O meglio queste, senza il primo, servono poco. Se infatti il potere politico ha una funzione ordinatrice, e cioè finalizzata alla creazione e al mantenimento dell’ordine, comandare e sanzionare son essenziali: non foss’altro perchè, come scrivevano, tra i tanti, Machiavelli e Lutero, i cittadini virtuosi devono essere difesi dai molti che virtuosi non sono. In questo contesto appaiono del tutto impropri  i continui  richiami moralistici, che vengono fatti oggi, in Italia, da politici e funzionari. Che chi ha il potere e il dovere d’intervenire, riesca  per lo più soltanto a fare delle prediche, appare immorale sotto il profilo dell’etica della politica, oltrechè contrario alla funzione dello Stato moderno. Meglio opererebbe ad attivarsi per incrementare la percentuale, per esempio,  del “prodotto  finito” dell’azienda-giustizia penale, e cioè l’esecuzione della pena, che, oggi in Italia, si realizza invece solo in un caso su (oltre) duecento denuncie presentate. Per cui lo Stato diventa così non un’organizzazione per la protezione dei diritti, ma per far subire le violazioni di questi.

Anche perchè chi, in presenza di situazioni di fatto così disastrate si mostra animato da buone intenzioni, e magari lo è, spesso è personalmente onesto, cioè non commette ingiustizie “in proprio”. Ma è del tutto inidoneo alla funzione rivestita, e, il più delle volte un atteggiamento del genere è la maschera nobile di concreti timori, pavidità, incapacità.

Quello che Jhering chiamava la “politica della vigliaccheria”. Per cui sotto le nobili parole di Socrate si nascondono, quasi sempre, le paure di don Abbondio. Teodoro Klitsche de la Grange NOTE 1) GORGIA 483 a-b, trad it. Bari 1997, p. 89;  2) GORGIA  483 d, op cit., p, 91; E qualcosa di non dissimile scrive Tucidide nel noto episodio dell’ambasciata ateniese al popolo di Melo, tutto improntato ad uno stretto realismo politico, per cui gli ambasciatori d’Atene ritengono “le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano. Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi”. (La guerra del Peloponneso, lib. V, cap. 105): individuando così una delle “regolarità” della politica. 3) J. FREUND, L’essence du politique, Paris, 1965 p. 146 ss; 4) GORGIA 491 d, op. cit., p. 109; 5) GORGIA, 515 a.-c., op. cit. p.167; 6) LUTERO, “Sull’autorita Temporale”, Oevreus, tome I V0 , p. 23; 7) Op. cit. p. 23 8) Op. cit. p. 24 9) Op. cit. p. 29; 10) Calvino, L’institution chrétienne, liv IV, cap. XX, in particolare p. 459, Editios K2rigma U.S.A. 1978; 11) T. E. Troeltsch, Il protestatismo nella formazione del mondo moderno, rist., Firenze 1974, p. 57. Come noto, uno dei punti da superare, per amettere la liceità della guerra  e della  repressione  dei delitti, erano i noti passi del Vangelo, predicanti l’amore universale. Il Cardinale Bellarmino li interpreta distinguendo tra  “pubblico” e “privato”: “Infine vengono  citate quelle parole.  S. Matt., c. 5: Se ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche la sinistra… ; amate i  vostri nemici, fate del bene a chi vi  odia, e quelle, in  S. Matteo al c. 26              Si osservi che queste stesse prove furono portate una volta contro i cristiani da Giuliano l’apostata, come ci viene riferito da S. Gregorio Nazianzeno. Quanto alla loro confutazione, diciamo in primo luogo che tutte queste cose sia comandi, sia consigli, vengono dati ad uomini privati: infatti il Signore o l’apostolo s. Paolo non comanda al giudice di non dare a colui che commise un’ingiustizia a danno di terzi, la giusta punizione, bensì comanda a ciascuno di sopportare di buon animo le offese ricevute; la guerra non è una vendetta  privata, bensì fa parte della pubblica giustizia; e come l’amore verso i propri nemici, al  quale  siamo tutti tenuti, non ritiene il giudice o il carnefice dell’adempimento delle proprie funzioni, così non trattiene i soldati e i generali  dall’adempimento delle loro. Inoltre diciamo  che anche per i  privati stessi, questi non sono sempre comandi, ma ora sono comandi ed ora consigli. Son sempre comandi quanto alla disposizione dell’animo, così che si sia pronti a porgere l’altra guancia e a dare anche il mantello a colui che ci portò via la tunica, piuttosto che offendere Dio; ma agire poi così di fatto, è comando nel caso che l’onore di Dio lo richieda necessariamente, altrimenti è soltanto consiglio; anzi alcune volte non è neanche questo, come quando porgendo l’altra guancia non ne viene utilità, se non che l’altro torni a  peccare” (S.  Roberto  Bellarmino “Scritti politici, Torino 1950, p.255). 12) S. Roberto Bellarmino in Scritti politici, Torino 1950

  1. 248; 13) Op. cit. p. 250. D’altra parte com’è noto nella Confessione Augustana è detto: “Per ciò che riguarda la vita civile (le Chiese riformate) insegnano che le istituzioni civili legittime sono buone opere di Dio e che ai cristiani è lecito ricoprire cariche pubbliche, esercitare la funzione di giudice, pronunziare le sentenze in base alle leggi imperiali e alle altre norme vigenti, stabilire le pene in conformità alle leggi, far guerra per giusti motivi, militare negli eserciti, stipulare contratti secondo le leggi, avere delle proprietà, prestare giuramento su richiesta dei magistrati, ammogliarsi o prendere marito. Condannano gli Anabattisti che vietano questi doveri civili ai cristiani” (La Confessione Augustana del 1530, Torino 1980, p. 127). 14) SUAREZ De charitate, disp. 13: De Bello. In “Ausgewalthe texte zun volkerrecht”, Tubigen 1965, p. 122 15) Op. cit., p. 126; 16) Op. cit., p. 158; 17) Op. cit., trad. it., Bari 1935, p. 11 18) Op. cit. p. 12; 19) Op. cit., p. 67; 20) Op. cit., p. 67; 21) Op. cit., p. 68; 22) Op. cit., p. 69; 23) Op. cit., p. 69; 24) Op. cit., p. 71; 25) “Avvertenza” (prefazione) al “Kampf um’s recht”, trad. it. cit., 26) Prècis de droit constitutionel, Paris 1929, p. 16. 27) Un’altra eccezione invero Suarez ammette per il tiranno laddove sostiene che “bellum reipublicae contra principem (l’usurpatore n.d.a.), etiamsi sit aggressivum non est intrinsece malum”; devono però ricorrere le condizioni “justi belli”. In particolare deve distinguersi se il tiranno è tale” quoad dominium et potestatem” ovvero “quoad regimen”, per cui diverse sono le ipotesi in cui la apparente “seditio” può essere invece “bellum justum” (v. Suarez op. cit. p. 202). Nel pensiero di Suarez, plasmato da concetti e argomenti giuridici, in definitiva il criterio ultimo di discrimine tra lecito e illecito è quello della legittima difesa “omnibus competit jus defensionis”. D’altra parte, anche nella trattazione dello jus belli e del diritto naturale, la differenza evidente tra i teologi della controriforma e i filosofi del diritto naturale successivi è che per i primi lo jus belli è strettamente collegato e funzionalizzato al ripristino del diritto leso: evidente nella guerra difensiva, la riparazione del torto (e con ciò il ripristino dell’ordine) serve a giustificare i casi di guerra aggressiva. Sul punto vedi anche Francisco de Vitoria (Relectio de indis, trad. it., Bari 1996, pp. 84, 111, 112), che collega in particolare il “bellum justum” alla “justa causa” o allo “justum titulum”. Juan de Mariana, la cui posizione è particolare, perché, com’è noto, giustifica il tirannicidio (in ciò più deciso del confratello Suarez), considera questa extrema ratio giustificata (nel caso di tirannide “quoad regimen”) dal fatto che il tiranno “arrivi al punto di mandare in rovina lo stato, di impadronirsi con la forza delle proprietà pubbliche e private, di disprezzare le pubbliche leggi e le credenze religiose, mostrando apertamente di riporre tutta la sua prodezza nella superbia, nell’audacia, nell’empietà verso il cielo”. Con questo anche l’uccisione del principe ingiusto è vista come mezzo per il ripristino della giustizia e del diritto (v. Juan de Mariana De Rege ed regis institutione, trad. it., Napoli 1996, p. 52). E la guerra (giusta), anche civile, è così un mezzo del diritto e della giustizia e un “succedaneo” del giudice, del “terzo decisore”. Mentre per i secondi la possibilità di guerra, senza particolari giustificazioni, è conseguenza diretta dello “stato di natura” e del diritto naturale, applicato agli Stati, che tra di loro, sono “in stato di natura”. 28) v. Th. Hobbes, Leviathan, trad. it., Bari 1974, p. 298. 29) v. Trattato Teologico . politico, p. 382 – 383, Torino 1980. 30) T.T.P., cit. p. 385. 31) Op. cit. Torino 1958 p. 206.

la sovranità non è sostituzione di servitù, a cura di Luigi Longo

LA SOVRANITA’ NON E’ SOSTITUZIONE DI SERVITU’

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco, ad integrazione dell’interessante scritto di Pino Germinario su Sovranità, sovranismo e sovranismi http://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario/ apparso su questo blog in data 23 settembre 2018, la lettura dell’articolo di Manlio Dinucci su La strategia di demonizzazione della Russia pubblicato sul sito www.voltairenet.org il 25 settembre 2018.

Qui mi interessa evidenziare che il concetto di sovranità, di autonomia, di autodeterminazione, insomma la libertà di scegliere un modello sociale espressione della storia di un determinato popolo, per l’Italia sta nel proporre un progetto di sviluppo capace di fare uscire il Paese dalla servitù volontaria verso gli Stati Uniti che è la potenza mondiale in relativo declino che, incapace di rilanciare una nuova idea di sviluppo e di società egemonica a livello mondiale, si affida alla violenza con la forza delle armi, alla egemonia coercitiva nelle istituzioni internazionali e soprattutto al comando della NATO (uno strumento fondamentale del conflitto strategico).

Il problema, quindi, per l’Italia non è quello di sostituire la servitù politica (ad Obama) alla servitù (a Trump) più funzionale alle nuove contraddittorie (per il conflitto violento tra gli agenti strategici incapaci di una nuova sintesi nazionale sintomo ulteriore di declino) strategie dei predominanti statunitensi, quanto piuttosto quello di avere un ruolo autonomo per aiutare, in questa fase storica, l’avanzamento del multicentrismo e di allearsi con quelle potenze mondiali (per ora Russia e Cina) che mettono in discussione il dominio unipolare USA.

Una piccola digressione: il garante della servitù volontaria italiana è la Presidenza della repubblica italiana. Per dirla con Marco Della Luna, << […] La funzione reale del presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale –, è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive. Affinché possa svolgere cotale ruolo, il presidente, nella struttura costituzionale, è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche, analogamente a come, nelle monarchie, il re è protetto da esse, perché egli è la fonte ultima di legittimazione del potere costituito e degli interessi che esso serve. Solo che nelle vere monarchie il re era protetto nell’interesse del suo paese, mentre nel protettorato Italia il presidente è protetto nell’interesse del sovrano straniero […] >> (Il sovrano e il presidente in www.marcodellaluna.info, 13/5/2018).

E’ evidente che l’Italia, una nazione in crisi profonda a cui hanno tolto anche i settori economici del cosiddetto made in Italy (per non parlare delle industrie strategiche), deve eliminare la sua servitù volontaria verso gli Stati Uniti (occorrono ben altri decisori) costruendo alleanze con altre nazioni che mettano in discussione questa Europa espressione dell’egemonia statunitense e guardino ad Oriente per agevolare lo sviluppo della fase multicentrica, scongiurando la fase policentrica che avrebbe come esito inevitabile la guerra (forse l’ultima).

Occorrono un’Italia e un’Europa libere da servitù volontarie statunitensi (chiudendo le basi militari USA e USA-NATO ponendo all’ordine del giorno l’uscita dalla NATO) e un’Europa ri-costruita come soggetto politico (una federazione – o altra forma – espressione di nazioni autonome) per svolgere un ruolo di confronto e di scambio, rispettosi e democratici, tra Occidente e Oriente.

Per fare questo manca un Principe che si aggiri come uno spettro per l’Europa a turbare i sonni di questi sub-dominanti europei e predominanti statunitensi reazionari, manca lo spettro del cambiamento e della sovranità dei popoli.

LA STRATEGIA DI DEMONIZZAZIONE DELLA RUSSIA

di Manlio Dinucci

 

 

Il contratto di governo, stipulato lo scorso maggio dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, ribadisce che l’Italia considera gli Stati uniti suo «alleato privilegiato». Legame rafforzato dal premier Conte che, nell’incontro col presidente Trump in luglio, ha stabilito con gli Usa «una cooperazione strategica, quasi un gemellaggio, in virtù del quale l’Italia diventa interlocutore privilegiato degli Stati uniti per le principali sfide da affrontare». Allo stesso tempo però il nuovo governo si è impegnato nel contratto a «una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico» e addirittura quale «potenziale partner per la Nato».

È come conciliare il diavolo con l’acqua santa. Viene infatti ignorata, sia dal governo che dall’opposizione, la strategia Usa di demonizzazione della Russia, mirante a creare l’immagine del minaccioso nemico contro cui dobbiamo prepararci a combattere. Tale strategia è stata esposta, in una audizione al Senato, da Wess Mitchell, vice-segretario del Dipartimento di stato per gli Affari europei e eurasiatici: «Per fronteggiare la minaccia proveniente dalla Russia, la diplomazia Usa deve essere sostenuta da una potenza militare che non sia seconda a nessuna e pienamente integrata con i nostri alleati e tutti i nostri strumenti di potenza» [1].

Accrescendo il bilancio militare, gli Stati uniti hanno cominciato a «ricapitalizzare l’arsenale nucleare», comprese le nuove bombe nucleari B61-12 che dal 2020 verranno schierate contro la Russia in Italia e altri paesi europei. Gli Stati uniti – specifica il vice-segretario – hanno speso dal 2015 11 miliardi di dollari (che saliranno a oltre 16 nel 2019) per la «Iniziativa di deterrenza europea», ossia per potenziare la loro presenza militare in Europa contro la Russia. All’interno della Nato, sono riusciti a far aumentare di oltre 40 miliardi di dollari la spesa militare degli alleati europei e a stabilire due nuovi comandi, di cui quello per l’Atlantico contro «la minaccia dei sottomarini russi» situato negli Usa.

In Europa, gli Stati uniti sostengono in particolare «gli Stati sulla linea del fronte», come la Polonia e i paesi baltici, e hanno tolto le restrizioni per fornire armi a Georgia e Ucraina (ossia agli Stati che, con l’aggressione all’Ossezia del Sud e il putsch di Piazza Maidan, hanno innescato la escalation Usa/Nato contro la Russia). L’esponente del Dipartimento di stato accusa la Russia non solo di aggressione militare, ma di attuare negli Stati uniti e negli Stati europei «campagne psicologiche di massa contro la popolazione per destabilizzare la società e il governo». Per condurre tali operazioni, che rientrano nel «continuo sforzo del sistema putiniano per il dominio internazionale», il Cremlino usa «l’armamentario di politiche sovversive impiegato in passato dai Bolscevichi e dallo Stato sovietico, aggiornato all’era digitale».

Wess Mitchell accusa la Russia di ciò in cui gli Usa sono maestri: hanno 17 agenzie federali di spionaggio e sovversione, tra cui quella del Dipartimento di stato. Lo stesso che ha appena creato una nuova figura: «il Consigliere senior per le attività maligne della Russia», incaricato di sviluppare strategie inter-regionali.

Su tale base, tutte le 49 missioni diplomatiche Usa in Europa e Eurasia devono mettere in atto, nei rispettivi paesi, specifici piani d’azione contro l’influenza russa. Non sappiamo qual è il piano d’azione dell’ambasciata Usa in Italia. Lo saprà però, quale «interlocutore privilegiato degli Stati uniti», il premier Conte. Lo comunichi al parlamento e al paese, prima che le «attività maligne» della Russia destabilizzino l’Italia.

 

 

LA SOLUZIONE PER LA SIRIA E’ IN VISTA, MANCA SOLO UN MEDIATORE. O FORSE TRE, di Antonio de Martini

LA SOLUZIONE PER LA SIRIA E’ IN VISTA, MANCA SOLO UN MEDIATORE. O FORSE TRE.

Il professor Jeffrey Sachs della Columbia University ha rotto il fronte dei Think Tank americani rilasciando una pacata intervista alla MSNBC in cui dichiara di aver ben spiegato, sette anni fa, al Presidente Obama che la situazione siriaana era tale da non permettere la riuscita di un ” regime change” in Siria.

Adesso, ” dopo mezzo milione di morti e dieci milioni di profughi” il professore ribadisce il concetto e invita Trump a fare quel che ” istintivamente aveva capito” cioé a ritirare dalla Siria i 2.200 uomini che si trovano ” nel terzo orientale” del paese e rinunziare al cambio di regime voluto da Obama e Clinton.

Il ritiro é inevitabile, specie non appena sarà caduto, senza l’ecatombe prospettata dalla stampa, IDLIB, l’ultimo bastione su cui sventola la bandiera della ribellione. La Siria avrà truppe sufficienti per riprendere il controllo di tutte le sue frontiere.

L’accordo per creare un ” buffer zone ” ( zona cuscinetto) tra Putin e Erdogan è stato il primo passo per diminuire la pressione ed evitare scontri su iniziativa di comandanti minori. IDLIB non può resistere al prossimo inverno e questo lo sanno tutti. Siamo dunque agli sgoccioli.

Lo si evince anche dai comunicati sempre più stizziti dei “media da combattimento” USA impegnati a descrivere una utilità delle truppe americane che nessun altro nota.

Il Consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, John Bolton ha presentato le condizioni della resa: parlando a un uditorio di iraniani residenti negli USA, ha detto che le truppe americane resteranno in Siria ” fintanto che in quel territorio ci saranno truppe e milizie iraniane”. In pratica propone un ritiro bilanciato dei contendenti dal campo di battaglia.

Rouhani, anche lui negli USA per partecipare all’Assemblea dell’ONU, ha fatto rispondere a denti stretti che ” L’Iran non si farà condizionare da terze parti nel suo appoggio alla Siria”.

Nel linguaggio orientale, significa che è disponibile a trattare, ma non direttamente con gli USA. Cercasi mediatore accettabile da tutte le parti in causa.

La reazione israeliana non si è fatta attendere e sta cercando di accreditare un Rouhani in avvicinamento al Presidente iraniano Ali Kamenei, mostrato come l’estremista da cui gli USA devono guardarsi. E’ falso.

Difficile per Putin offrirsi come mediatore dato che è parte in causa, ma indispensabile che la Russia accetti e colabori con una figura di mediazione gradita.
Una coppia , uno per parte, sarebbe una buona soluzione, dato che ha già fatto le sue prove disinnescando la bomba di Idlib.

Forse è per questo che Erdogan, dopo l’assemblea ONU – alla quale partecipa – domenica volerà a Berlino per incontrare la Cancelliera Merkel.

Lui cerca di rassicurare i mercati, gli alleati NATO e gli investitori esteri tentennanti ( tedeschi?) e lei cerca di rinverdire il blasone appannato da anni di governo pacioso in un mondo turbolento e porre autorevolmente la sua candidatura alla presidenza della Commissione UE, liberando al contempo Trump dal sospetto di un accordo diretto con la Russia.
Tra un mese gli USA hanno le elezioni di mezzo termine.

sovranità, sovranismo e sovranismi, di Giuseppe Germinario

L’esito clamoroso delle elezioni politiche dello scorso marzo e l’avvento repentino ed inatteso del Governo Conte hanno contribuito a rinnovare il vocabolario politico ormai stantìo come lo erano del resto i portatori  della cultura politica corrispondente ad esso. Uno dei termini assurti ad improvvisa notorietà è “sovranismo”. Un termine che in Italia ha fatto capolino da meno di un decennio, ma che in paesi come gli Stati Uniti e la Francia è utilizzato senza scandalo da lungo tempo.

Ad ascoltare le vecchie trombe, sempre onnipresenti sui giornali e nei rotocalchi, nelle rubriche e nei servizi di cosiddetta informazione televisiva non ostante il netto ridimensionamento e la sonora sconfitta, si tratterebbe di un mero insulto associabile tranquillamente a quelli da sempre in auge di fascismo, di nazionalismo, di populismo e via dicendo. Un repertorio ultradecennale di etichette ormai ritrito e dal significato sempre più vacuo riproposto da personaggi sempre meno credibili; una rimozione di concetti che impedisce ogni parvenza di confronto.

Non c’è da attendersi, per altro, da una vecchia classe dirigente decadente e smarrita, addomesticata da decenni a delegare a terzi le scelte fondamentali, ormai nessuno sforzo di comprensione della nuova fase di competizione e conflitto nell’agone internazionale.

Eppure la radice e l’etimologia e il significato del termine originario, sovranità, dovrebbe indurre a maggior curiosità e rispetto proprio perché sottende uno dei principi fondanti dell’impegno politico; di qualsiasi impegno politico di qualsivoglia orientamento.

LA SOVRANITA’

Il concetto di sovranità sottende senz’altro la decisione sulla base di propri orientamenti generali, senza la quale ogni attività politica sarebbe priva di senso; sottende quindi un discrimine. La decisione, a sua volta, per avere senso deve quantomeno cercare di essere messa all’opera e in qualche maniera essere riconosciuta anche dagli oppositori, se presenti in maniera significativa. La normazione e l’istituzionalizzazione forniscono le modalità e i luoghi operativi del complesso delle decisioni e diventano quindi l’oggetto, i regolatori e i condizionatori del conflitto politico tra centri tra loro cooperanti e/o conflittuali, almeno sino a quando quelle modalità sono accettate dalla comunità in maniera prevalente. Il presupposto basico di questa abilità operativa è la disponibilità di forza e la capacità di potenza. Lo stato nazionale è la forma istituzionale che a partire dall’età moderna regola e conduce in maniera sempre più diffusa e pervasiva le dinamiche politiche all’interno e tra le varie formazioni sociali nel mondo nei vari ambiti dell’attività umana.

IL SOVRANISMO

Il termine sovranismo viene coniato e utilizzato, più nella polemica politica che, purtroppo, nel confronto teorico, per affermare la necessità di salvaguardare e potenziare appunto le prerogative dello stato.

Rispetto, però, a chi e cosa?

Pare poco contestabile che esso assuma la maggiore nitidezza e potenza di significato nel confronto e nella contrapposizione con il processo di globalizzazione. Una dinamica quest’ultima di uniformizzazione e di progressivo abbattimento di frontiere per certuni innescata e gestita da un ristretto cartello di potentati organizzato in gruppi elitari (Bilderberg, ect) ed espressione diretta dell’alta finanza. In esso lo Stato viene visto come mero strumento a condizione che sia ridotto di dimensione e svuotato di funzioni oppure come una entità destinata a liquefarsi a vantaggio di organismi sovranazionali sempre più determinanti sotto il ferreo controllo del cartello. Per altri il processo di globalizzazione viene visto come un processo naturale che porterebbe alla costruzione di un governo unico mondiale, fondato per lo più su principi morali minimi e sul diritto universale. In esso gli attuali stati verrebbero a fondersi in unità continentali e quindi a sciogliersi o subordinarsi sotto una unica entità. La conduzione delle società al di là di quei principi minimi comuni sarebbe affidata a comunità particolari autogovernate o attraverso una regolazione spontanea tra individui.

È un successo e nitore di significato poggiati su basi fragili e su una rappresentazione inadeguata delle dinamiche politiche. Il nemico è tanto rappresentato nitidamente quanto inafferrabile e sfuggente all’atto pratico.

La finanza è nient’affatto un cartello unico, tantomeno la detentrice del potere assoluto mondiale e il burattinaio delle infinite trame nello scacchiere geopolitico; nemmeno l’artefice unico delle disuguaglianze tra un pugno di satrapi ed una massa di diseredati così come rappresentate con pressapochismo preoccupante.

Naufragata miseramente l’illusione della contrapposizione tra masse peripatetiche all’inseguimento dei notabili riuniti periodicamente nelle località più amene e il POTENTATO le cui prerogative sono realizzate soprattutto attraverso gli organismi sovranazionali (FMI, BM, WTO, ect), rimarrebbe quindi la contrapposizione tra gli stati e il cartello suddetto. Da qui la rivendicazione delle prerogative sovrane dello Stato ai danni di questo e degli organismi sovranazionali usurpatori.

I LIMITI POLITICI DI CERTO SOVRANISMO

Una chiave di lettura che induce a indirizzi e obbiettivi politici sterili se non controproducenti

I potenti della finanza, in realtà, non costituiscono un cartello compatto, tantomeno sono i decisori ultimi dei destini del mondo. Sono parte integrante dei vari centri strategici decisionali in cooperazione e conflitto tra loro i quali devono disporre e far parte in via prioritaria delle leve istituzionali, quindi degli apparati statali, per il perseguimento delle loro strategie in conflitto. Non si tratta di un uso meramente strumentale. Sono centri che hanno bisogno di leve e di radicamento, quindi di istituzioni, di un territorio dei quali fanno parte; sono espressione e guida di una comunità e di una formazione sociale originaria. In questa dinamica i decisori della finanza sono quindi condizionabili al pari di altri.

Quella rappresentazione infatti induce ad una contrapposizione sterile e meramente declamatoria nei riguardi di figure praticamente inafferrabili.

La contrapposizione Stati/cartello della finanza spinge alla proposta e creazione di un cartello degli stati, pressoché tutti indistintamente sminuiti e svuotati dall’avversario ed interessati, in alcuni casi con il necessario ricambio di classe dirigente, quindi alla Santa Alleanza. Nell’attuale e futuro contesto geopolitico verrebbero a formarsi alleanze politiche paradossali ed improbabili del tutto irrealistiche, le quali riproporrebbero sotto mentite spoglie il consueto conflitto tra centri decisionali e tra stati nazionali, con le loro gerarchie, le loro subordinazioni e i loro dualismi.

Agli organismi sovranazionali si tende ad attribuire una potestà propria che non hanno oppure possiedono di riflesso per conto di questi centri e degli stati nazionali dominanti. Sono il frutto di trattati e il luogo entro i quali e attraverso i quali si esercita l’egemonia e nei momenti transitori la rivalità dei centri e degli stati dominanti. La loro giurisdizione, nei pochi casi di affermazione, non è equiparabile a quella esercitata dagli stati nazionali al proprio interno ed è nel migliore dei casi di tipo riflesso; devono appoggiarsi, quindi, alla forza degli stati. Quelli che sono dei semplici strumenti e servitori assumono, secondo la chiave offerta dal dualismo sovranismo/globalismo, il ruolo di attori dominanti con tutte le incongruenze del caso. In alcuni casi tendono a conquistarsi alcuni margini di autonomia operativa come succede ad esempio in alcune fasi alla Commissione Europea. Tali margini sono però il frutto della prevalenza dello spirito comunitaristico che tende ad attribuire pari peso a tutti i numerosi paesi della Unione Europea, un filo conduttore tipico, ad esempio, della diplomazia comunitaria italiana notoriamente pesantemente subordinata ad indirizzi esterni; soprattutto, tali margini sono possibili grazie alla subordinazione diretta, in una fase di frammentazione politica, e non mediata al deus ex machina dell’Unione Europea, gli Stati Uniti.

Il dualismo sucitato nasconde inoltre un altro grande dilemma irrisovibile secondo lo schema proposto.

Il dualismo sovranismo/cartello finanziario vorrebbe rappresentare efficacemente una dinamica universale alla quale vengono sussunti i vari eventi politici. Il duro confronto con la realtà geopolitica spinge però a ridurre surrettiziamente il dominio del cartello in realtà al solo mondo occidentale. Diventa difficile, allora, spiegare e collocare correttamente il ruolo degli agenti finanziari operanti nei paesi emergenti e rivali del polo statunitense ancora prevalente. Un dominio universale diventerebbe, quindi, relativo e soprattutto localizzato. Gli avversari di questo presunto dominio tendono ad assumere l’aura dei paladini dell’emancipazione e dei fautori di un nuovo ordine sociale più giusto ed egualitario perché capaci di riaffermare “la priorità del politico sull’economico” e di regolare meglio il potere degli agenti finanziari. Si tende quindi a nascondere il fatto che anche gli avversari del polo occidentale, per altro tutto da ricostruire, sono altrettanti agenti di influenza tesi a creare proprie aree geopolitiche di controllo e di dominio di dimensione regionale o globale a seconda delle capacità delle rispettive classi dirigenti. Fautori di nuove formazioni sociali dove comunque si esercita il dominio di élites e centri decisionali con le proprie gerarchie di comando, i propri conflitti, le proprie modalità di sopraffazione e di costruzione delle gerarchie sociali, pur rappresentando alternative positive rispetto ad una prospettiva di dominio unipolare, vengono esibiti come paladini di un modello e di un riscatto sociale a dir poco mitizzato.

In realtà quella rappresentazione attribuisce all’economico, addirittura ad un particolare aspetto di esso, la finanza, una funzione malposta e sopravvalutata. Non è l’economico che predomina; prevale in alcuni contesti e in alcune fasi l’esercizio delle strategie politiche nell’economico rispetto agli altri ambiti. Strategie che hanno comunque bisogno del supporto della forza e normativo proprio degli Stati. Prevale in particolare nei momenti di predominio unipolare quando l’uso della forza e dell’influenza politica diretta può essere più discreto e velato. Assume una appariscenza abbagliante per il carattere ancora particolarmente sofisticato del sistema di dominio ed influenza dell’area occidentale rispetto a quello dei poli emergenti alternativi e sempre più contrapposti, siano essi regionali che globali. L’apparenza del dominio della finanza, così come la rappresentazione liberista dei legami economici, del tutto misitficante rispetto alla realtà delle barriere e dei vincoli che la stessa potenza prevalente, analogamente ai competitori tende a frapporre, tende a nascondere l’ambizione di dominio unipolare di una potenza, dei suoi centri decisionali dominanti, del suo Stato rispetto ai concorrenti. La stessa finanza, i suoi agenti, sono compartecipi di queste dinamiche ed oltre ad assumere la veste scontata di predatori sono i coartefici di un traghettamento di risorse economiche teso a garantire la coesione minima delle formazioni sociali e le risorse che consentano l’esercizio e la realizzazione delle strategie politiche.

I SOVRANISMI

La dura realtà delle dinamiche geopolitiche e delle trasformazioni sociali sempre più convulse sta facendo scivolare di fatto la rappresentazione sempre più inadeguata del dualismo sovranismo(Stato)/cartello della finanza verso un confronto tra “sovranismi”. Tra centri decisionali i quali, attraverso l’affermazione delle prerogative dello Stato, riescono a prevalere e predominare ed altri che tendono prevalentemente a subire da alcuni e influenzare in maniera subordinata altri di rango inferiore. In questo contesto il termine “sovranismo” è destinato ad affermarsi, ma a sfumare di significato e valenza simbolica, giacché tende a rappresentare sia gli aspetti di emancipazione che quelli di predominio dell’esercizio delle prerogative statuali. In ogni caso l’azione politica e la strategia politica, nei suoi vari ambiti di azione, è destinata a riprendersi il suo ruolo nel dibattito teorico e nella rappresentazione degli eventi. Con essa tornerà ad assumere una più corretta collocazione il ruolo della forza, della potenza, dell’egemonia e più prosaicamente il ruolo e la funzione dello Stato e delle sue istituzioni sia nel sistema di relazioni internazionali, sia nelle dinamiche interne proprie di funzionamento attraverso il confronto tra centri decisionali, sia nella funzione di plasmare le formazioni sociali.

Alcuni studiosi più avveduti hanno stigmatizzano l’uso del termine da parte di forze politiche approssimative le quali ipotizzano la necessità di un’azione solitaria, solipsistica, atomistica degli stati nazionali, in particolare dell’Italia, nel contesto geopolitico. Una condizione irrealistica anche rispetto a quelle di alleanze instabili e mutevoli tipiche di paesi in grado di esercitare una significativa sovranità e propria di fasi politiche di transizione. Non si tratta solo di primitivismo; spesso si tratta di una particolare forma di sovranismo che tende ad attribuire ancora una volta alle relazioni economiche la prevalenza se non l’esclusività. Una posizione, ad esempio, espressa sino a poco tempo fa da un personaggio politico lucido come Claudio Borghi nella Lega. Una espressione tipica, ad esempio, di ceti imprenditoriali medi e piccoli i quali vedono in uno stato nazionale del tutto sganciato da alleanze e vincoli la possibilità di costruire relazioni economiche ed affari con qualsivoglia soggetto. Ancora una volta un modo di riproporre l’irrealistica superiorità e l’universalismo mitizzato dell’economico rispetto alla limitatezza dell’azione politica. Certamente la dura realtà sta costringendo Borghi a modificare nei fatti tali convinzioni. La mancata razionalizzazione di tali cambiamenti può però spingere a situazioni nefaste ed imprevedibili, almeno rispetto alle intenzioni dell’attuale nuova classe dirigente in via di formazione.

IL FUTURO DEL SOVRANISMO

Tutto ciò sembra spingere i più accorti ad accantonare il termine, piuttosto che salvaguardarlo e potenziarlo di significato rispetto a queste rappresentazioni riduttive. Una rinuncia che somiglia ad un rinvio e ad una resa in una fase di battaglia politica aperta da risolvere sul campo del confronto teorico e dell’analisi politica. Così come appare pericoloso il tentativo di attribuire un attributo, sia esso popolare, costituzionale o altro, al termine sovranità in modo tale da contrapporre in termini antagonistici, nel classico schema destra-sinistra, i vari sovranismi, patriottismi e nazionalismi che dir si voglia in una fase in cui gli antagonisti da sconfiggere sarebbero altri. Una tentazione ricorrente che sente il bisogno di associare il termine sovranità ad entità astratte o reali, come quella di popolo, le quali non esercitano per costituzione o fattualmente il loro potere decisionale se non attraverso l’influenza e la azione di élites e centri decisionali. Un discorso che meriterebbe e meriterà attente considerazioni a parte.

Sono limiti ed incomprensioni che non riguardano fortunatamente solo questo campo politico.

LE FAGLIE

George Soros, presentato come l’essenza del protagonismo e l’onnipotenza del predominio globalista, lo ha implicitamente disvelato nella insolita sequela di interventi ed interviste di questo, in particolare nel suo intervento, ben coadiuvato dai suoi adepti e serventi ossequiosi, al festival dell’economia di Trento.

Ha semplicitamente incluso in un “annus horribilis”, giustificato da imprecisati errori la sequela di sconfitte politiche iniziate con l’elezione di Trump e proseguite con l’affermazione di Orban in Ungheria, Kurtz in Austria, la triade Conte-Salvini-Di Maio in Italia e la mancata elezione di procuratori legali di fiducia (avete letto bene) negli Stati Uniti; ha risolto il dilemma politico, confortato dalla sola elezione di Macron in Francia, rivelatasi progressivamente effimera, suggerendo semplicemente pragmatismo.

Soros, non ostante la vulgata, non è il deus ex machina della globalizzazione. È una pedina importante ed influente di un centro strategico e finanziario colossale, i Rotschild, a loro volta parti di centri decisionali ben più importanti e dal raggio di azione ben più ampio dell’ambito finanziario.

Dispongono di un armamentario ideologico, di apparati e di forza ancora impressionanti, superiori ma non più esclusivi; non dispongono di una strategia vincente e soprattutto ancora in grado di prendere atto della incipiente formazione di nuovi poli di potenza autonomi.

Un logoramento evidente, reso con ogni evidenza trasparente negli Stati Uniti, laddove nuove élites stanno riuscendo a cristallizzare in centri di potere e negli apparati le loro azioni politiche e le loro strategie sia pure al prezzo di pesanti compromessi. Meno determinante in Europa laddove la loro crisi si manifesta in una condizione di stasi nei paesi egemoni (Francia e Germania) e nella prevalenza di forze “sovraniste” in Europa Orientale imbrigliate dalla russofobia e suscettibili quindi di prestarsi a nuove e più stringenti subordinazioni di stampo atlantista. Nel mezzo la situazione italiana ormai oscillante verso questa seconda opzione.

Come chiarito da Piero Visani nella recente intervista su questo blog, si tratta di una di quelle rare faglie che periodicamente si aprono nel contesto geopolitico e nella coesione delle formazioni sociali le quali, però, non durano indefinitamente. Il miracolo raro nelle contingenze politiche deve essere la concomitanza tra contingenza politica favorevole e la formazione di un ceto politico adeguato a coglierla. I tempi di formazione dell’una il più delle volte non coincidono con quelli dell’altra.

Esiste una prima traccia della formazione di due internazionali. Quella globalista, consolidata e strutturata, forte della sapienza maturata negli ultimi quaranta anni, prosegue pervicacemente anche se annaspa nella visione generale. Quella cosiddetta “sovranista”, rappresentata dall’avvento in Europa di Bannon, un personaggio politico come minimo ormai ai margini della battaglia politica negli USA, portatore della ipotesi sovranista criticata da questo articolo. Potrebbe essere, purtroppo, il prodromo di una deriva di questi movimenti ancora nascenti. Il fatto che le redini siano in mano a due esponenti politici militanti americani dovrebbe indurre a qualche cautela maggiore nelle scelte. Altra cosa è il dibattito politico e teorico sul quale gli studiosi e strateghi americani sono più avanti di parecchie spanne. Su questo il confronto dovrebbe essere molto più serrato.

 

TRAME E CULTURA, a cura di Antonio de Martini

A tre giorni dalla morte di Inge Feltrinelli_Giuseppe Germinario

BORIS PASTERNAK E INGE SCHOENTHAL: DUE STORIE DI MILIARDI DI EREDITA’ CONTESE, DOVE APPAIONO LA MORTE DI CHE GUEVARA E QUELLA DI FELTRINELLI, IL KGB, LA CIA. UNA INTERVISTA ESCLUSIVA A SERGIO D’ANGELO.

Sergio d’Angelo ha compiuto ottantotto anni e ne dimostra venticinque di meno anche fisicamente, oltre che di memoria. E’ a lui che il mondo deve il romanzo capolavoro di Boris Pasternak ” Il dottor Zivago” che fruttò all’autore il Nobel per la letteratura e una vita di persecuzioni, anche se la maggior parte degli italiani di tutto questo ricorda forse solo il film e Julie Christie.

Il Corriere della Collera pubblica oggi una lunga intervista a Sergio d’Angelo, di Kontinent USA e del presidente della associazione per l’amicizia Russia Stati Uniti Edward Lozansky, uno scienziato nucleare sovietico che fece il cammino inverso rispetto a Bruno Pontecorvo che scelse di andare a lavorare in Unione Sovietica. Due ebrei inquieti, su opposte sponde della guerra fredda.

IL Corriere della Collera, oggi 5 gennaio 2012, è lieto di offrire questa esclusiva ai propri lettori e promette a breve , oltre a questa verità sulla morte di Feltrinelli, anche uno studio comparativo della due inchieste della magistratura sulla morte di Enrico Mattei, curato dall’ ex A. D. dell’Agip, uno dei suoi discepoli.

L’intervista è preceduta da una nota redazionale che pubblico integralmente.

“Kontinent USA, su richiesta di alcuni suoi lettori, torna oggi sul caso Pasternak per discuterne un importante aspetto rimasto finora nell’ombra.

Per introduzione, soprattutto ad uso del pubblico più giovane, conviene qui ricordare che il geniale poeta e scrittore russo Boris Pasternak (1890-1960) subì negli ultimi anni di vita durissime persecuzioni dal regime sovietico. Ciò per aver fatto pubblicare in Occidente il suo romanzo “Dottor Zhivago”, un capolavoro proibito in patria ma presto coronato da uno strepitoso successo mondiale e dal conferimento del Premio Nobel all’autore.

La prima edizione al mondo del “Zhivago” ebbe luogo in Italia, a Milano, nel novembre 1957, presso la casa editrice fondata dal giovane Giangiacomo Feltrinelli appena due anni prima. Feltrinelli, benché avesse ereditato uno dei massimi patrimoni industrali e finanziari esistenti in Italia, era stato militante del Partito comunista italiano (PCI) e lautamente lo aveva sovvenzionato. Dal PCI si era però staccato nella primavera 1957, ribellandosi alle forti pressioni cui l’avevano sottoposto i dirigenti di quel partito nel tentativo di non fargli pubblicare il romanzo sconfessato da Mosca. E in quella circostanza professò di volersi battere, da editore di sinistra, per l’assoluta libertà del pensiero e della cultura.

Ma di fatto, negli anni successivi, smise a poco a poco di occuparsi di faccende editoriali per mobilitarsi prima come generoso finanziatore di guerriglie nel Terzo Mondo, poi come improbabile guerrigliero in Italia e dintorni. Perse la vita in un fallito attentato nella periferia di Milano (marzo 1972).

L’aspetto del caso Pasternak cui si riferisce l’inizio di questa nota è il ruolo esercitato per quasi quindici anni (1958-1972)

dalla Signora Inge Schoental nella vita di Giangiacomo Feltrinelli. Nel 1962 Inge ebbe da Giangiacomo il figlio Carlo, erede universale del patrimonio miliardario paterno: quello sul quale lei regna da vari decenni.

Per approfondire questo argomento Kontinent USA ha intervistato Sergio d’Angelo, il giornalista italiano che nella primavera del 1956 ottenne da Pasternak il dattiloscritto del “Zhivago”, con l’intesa di passarlo a Feltrinelli, ed ebbe una parte rilevante, in Russia e fuori, nelle complesse vicende originate dalla sua iniziativa. Di tutto ciò d’Angelo ha dato ampia testimonianza in un suo libro pubblicato in Italia nel 2006. Nel settembre dell’anno successivo, pochi giorni dopo l’edizione russa dello stesso libro (“Delo Pasternaka: Vospominanija Ochevidtsa”, Novoe Literaturnoe Obozrenie, Moskva 2007), d’Angelo è stato insignito del Premio Liberty (Sezione Finestra sull’Europa), fondato nel 1999 e presieduto da una giuria di illustri membri della comunità russo-americana.

Il Premio Liberty, che ogni anno viene assegnato a persone distintesi per i loro contributi alla cultura, è sponsorizzato dalla Casa Russia di Washington, dalla Università Americana di *Mosca e da Kontinent USA.

Un personaggio del “caso Pasternak”

INGE SCHOENTAL FRA LEGGENDA E REALTA’

Intervista a Sergio d’Angelo

Edward Lozansky – Premetto che solo negli ultimi giorni ho potuto vedere il DVD con cui parecchi mesi fa la Signora Inge Schoental si è raccontata al suo pubblico italiano. Si tratta, direi, di una lunga autocelebrazione con qualche diplomatico tocco di modestia: per esempio l’ammissione di non aver imparato bene l’italiano. Comunque sia, quel DVD ha riacceso in me e in altri colleghi, tutti cultori di Pasternak, tutti appassionati al “romanzo del romanzo”, il desiderio di sapere molto di più sulla influenza che Inge, con la sua indubbia personalità, ha avuto sulla sorte di Giangiacomo Feltrinelli. Per prima cosa, dunque, potresti riferirci chi era e che ha fatto Inge prima del suo incontro con l’editore milanese?

D’Angelo – A questo riguardo parecchi giornali, periodici e libri, per lo più italiani, hanno riportato le sue dichiarazioni. In sintesi ecco quanto se ne ricava. Inge nasce in Germania, a Essen (Ruhr), nel 1930. E’ ancora nella primissima infanzia quando il padre, ebreo, emigra in America per scampare al potere nazista. Lei cresce a Gottinga, nella Bassa Sassonia, accanto alla madre e a due fratelli più piccoli, fra seri pericoli e ristrettezze economiche. Durante la guerra frequenta il liceo con l’idea di proseguire gli studi, ma i soldi per farlo non ci sono.

E.L. – E alla fine della guerra?

D’A – Inge trascorre ancora a Gottinga, con la famiglia, pochi altri anni che preferisce dimenticare. Poi decide di andarsene per suo conto e, grazie al passaggio che le danno su un camion, arriva ad Amburgo. Ha pressoché vent’anni, è una bella ragazza che non passa inosservata, Molto intraprendente. Comincia a girare in bicicletta la grande città portuale che dista solo poche decine di chilometri dal confine della Germania orientale. Cerca lavoro, cerca di fare conoscenze, e infine riesce ad essere assunta come apprendista fotoreporter dalla rivista “Constanze”. Presto viene incaricata di servizi fotografici su persone di spicco della Germania occidentale e, dalla seconda metà degli anni cinquanta, può ampliare il raggio delle sue trasferte per raggiungere alcune celebrità residenti in altri paesi. La trasferta più lontana, esotica e gratificante (1957) avrà luogo nella Cuba precastrista, dove Ernest Hemingway la ospiterà per una quindicina di giorni nella propria Finca Vigia, vicino all’Avana.

E.L. – Insomma fa una fulminea carriera, anche se il nome di lei non figura fra i miti della fotografia Ma come ha avuto modo di incontrare Feltrinelli?

D’A – All’inizio del luglio 1958 Feltrinelli, separatosi poco prima dalla seconda moglie, decide di fare un viaggio in Svezia per acquistarvi

un nuovo panfilo. Nello stesso tempo comunica all’editore amburghese Heinrich Rowohlt, col quale ha già un rapporto di amicizia ed affari, che il 14 dello stesso mese, durante un’apposita tappa, vorrebbe fargli visita. Rowohlt è d’accordo e la sera del giorno stabilito, per onorare l’ospite italiano, dà una festa. Inge è lì. Sgargiantemente abbigliata. Lei partecipa alla festa, chiarisce, in quanto svolge incarichi di fotoreporter anche per Rowohlt . Cena al tavolo con i due editori e ce la mette tutta per far colpo su Feltrinelli. Riportando un successone. Lo stesso editore amburghese testimonierà molti anni dopo in un’intervista alla rivista “Panorama” (29 settembre 1985) che Inge e Feltrinelli “simpatizzarono subito e, quando lasciarono la festa, credo non avessero più bisogno di nessun altro”.

E.L. – Dopo di che mi aspetto che presto i due vadano a Milano e poi, felici e contenti, convolino a nozze. Non è così?

D’A – Parliamo di una cosa per volta. Vanno a Milano, verissimo, ma non possono sposarsi, perché lui ha un’altra moglie, sia pure separata, e in Italia il divorzio non c’è ancora. Corre voce che per aggirare l’ostacolo Feltrinelli ricorra alla “Sacra Rota”, tribunale ecclesiastico cui è consentito sciogliere i matrimoni non consumati, e si dichiari affetto da “impotentia erigendi et coeundi” [incapacità di erezione ed eiaculazione], così come ha fatto per mettere fine al suo primo matrimonio. Ma ciò non è rilevante. Infatti Feltrinelli, per la ragione di cui diremo, finisce di convivere con Inge prima del previsto e si lega sentimentalmente alla giovanissima Sibilla Melega, destinata a diventare l’ultima delle sue mogli.

E.L. – Comunque immagino che in un primo tempo Inge sia stata molto contrariata per non poter consolidare con nozze italiane la sua relazione con Feltrinelli.

D’A – Penso di sì. Ad ogni modo Inge, stabilitasi nella casa avita di Feltrinelli, inaugura con disinvoltura la sua nuova vita da miliardaria. Che però non è una vita oziosa. Chiede e ottiene infatti di essere presto inserita nella casa editrice quale incaricata dei rapporti con editori e autori stranieri e, proprio in questa veste, all’inizio del 1959 accompagna Feltrinelli in un viaggio di circa quattro mesi nel continente nord-americano. A dire il vero, i due prima si sposano in Messico (per lei anche questo è meglio niente) e festeggiano l’evento con una vacanza itinerante che include la Bassa California e Cuba. Poi si fermano a lungo negli Stati Uniti per discutere progetti e scambi di diritti con diversi illustri editori. Ma sono sicuro che incontrano pure alcuni militanti di estrema sinistra.

E.L. – Perché ne sei sicuro?

D’A – Perché proprio al ritorno da quel viaggio Feltrinelli mi dice per la prima volta di avere scoperto, parlandone con gente ben informata, che i massimi poteri degli Stati Uniti si stanno preparando alacremente a fascistizzare tutto l’Occidente e a scatenare la terza guerra mondiale. Io ci scherzo su. Ma di questa presunta scoperta lui continua a vantarsi in giro.

E.L. – E Inge è d’accordo con lui?

D’A – Di certo non in pubblico. Anzi, lei si atteggerà sempre a illuminata intellettuale che, favorita dalla sua importante posizione nell’editoria, vuole contribuire al progresso pacifico, democratico e culturale della società. Tanto che arriverà ad ammettere, quando capita il discorso, che Feltrinelli sia politicamente un po’ troppo radicale e impulsivo…

E.L. – Scusami se ti interrompo. Nel tuo libro sul caso Pasternak tu hai sostenuto che Mosca, dopo l’uscita del “Zhivago” in Italia, non poteva arrendersi all’idea di far mancare i soldi di Feltrinelli alla causa del comunismo…

D’A – Vero. E ho aggiunto che a un certo punto progettò di indurre Feltrinelli (sapendolo affetto da seri complessi, specie da megalomania infantile, e pertanto molto influenzabile) a finanziare quei focolai di guerriglia che si accendevano soprattutto nel Terzo Mondo ed erano appoggiati da Mosca nel quadro della sua strategia planetaria.

E.L. – A questo scopo, però, Mosca doveva individuare chi potesse e volesse manipolare Feltrinelli. In altre parole chi sapesse inculcargli il concetto che soltanto le sinistre rivoluzionarie, quelle già ricorse alle armi o pronte a ricorrervi, fossero veramente in grado di scongiurare il dilagare del fascismo e l’olocausto nucleare. E tu non supponi …

D’A – Al riguardo lasciamo parlare una serie di fatti. Dopo la lunga sosta negli Stati Uniti Inge convince Fertrinelli ad accreditare presso Pasternak e Olga Ivinskaia, compagna e ispiratrice dello scrittore, un proprio amico di Amburgo, il giornalista Heinz Schewe, che sta per trasferirsi a Mosca come corrispondente del quotidiano “Die Welt”. Questi assicurerà alla casa editrice, spiega lei , un canale più che sicuro per concordare con l’autore del “Zhivago” il modo di risolvere i problemi legali e giudiziari che si moltiplicano in parallelo con le nuove edizioni occidentali del “Zhivago”: in concreto per far firmare a Pasternak un contratto più favorevole all’editore, sotto il profilo dei diritti, rispetto a quello stilato inizialmente. Ma Pasternak non firmerà mai il nuovo contratto.

E.L. – Perché?

D’A – Per tre motivi. Primo: firmare il nuovo contratto gli avrebbe attirato nuove persecuzioni da parte del potere sovietico. Secondo: il testo predisposto a Milano implicava la sconfessione di una sua procuratrice parigina che fra l’altro avrebbe dovuto amministrare gli onorari spettanti all’autore per tutte le edizioni del “Zhivago”. Terzo: Il nuovo contratto avrebbe incluso, fra le clausole che lui non gradiva affatto, anche il suo consenso all’utilizzazione cinematografica del Zhivago”.

E.L. – Davvero Pasternak era contrario a un film tratto dal suo romanzo?

D’A – Sì, disse molte volte di temere una banalizzazione. Ma torniamo a Schewe. Il giornalista di Amburgo viene accolto con assoluta fiducia da Psternak e Olga, diventa ospite molto assiduo della casa di lei e dei suoi figli. Comunque il suo comportamento sembra inspiegabile dal momento in cui, poco dopo la morte dello scrittore (30 maggio 1960), Olga e la figlia Irina Emelianova vengono arrestate, processate e condannate a lunghe pene detentive. Il potere sovietico ha preso queste misure per “riabilitare” l’autore del “Zhivago” (un gigante da non regalare per sempre ai nemici dell’URSS) mediante una campagna per demonizzare Olga come una donna avida e intrigante che, complice la figlia, avrebbe tradito e fuorviato Pasternak, “ingenuo ma leale cittadino sovietico”. La campagna diffamatoria, per essere più efficace, doveva però scattare solo dopo che le condanne fossero passate in giudicato.

E.L. – Ci fu dunque un lungo segreto di Stato. Quando cessò?

D’A – Qualcosa cominciò a trapelare, in URSS e in Gran Bretagna, fin dall’inizio di gennaio, ma fu il quotidiano londinese “Daily Telegraph” a rilevare per primo, il 18 dello stesso mese, diversi particolari sul dramma delle due donne. Ebbene, Schewe era l’unico giornalista occidentale che, per aver frequentato la casa di Olga fino alla vigilia dell’arresto, sapeva quel che era successo. Avrebbe potuto fare un scoop giornalistico, soprattutto avrebbe dovuto ricordare che molte volte Pasternak aveva raccomandato a tutti i suoi amici stranieri di suonare le campane a martello se, dopo la sua morte, come presentiva, Olga fosse stata arrestata. E invece non diffuse la notizia, La dette riservatamente solo a Feltrinelli, il quale me la gridò in faccia un mese dopo per accusarmi di essere la causa dell’arresto e quindi per licenziarmi.

E.L. – A quel punto anche tu potevi rivelare la notizia. Che cosa ti trattenne?

D’A – Il sospetto che si trattasse di una balla.

E.L. – Era stato lo stesso Schewe a mettergli in testa che la colpa dell’arresto fosse tua?

D’A – Non lo so. Comunque il 17 gennaio 1961 Schewe mi rivolse la medesima accusa in un’intervista sul “Corriere della Sera”, il più importante giornale italiano. In breve, secondo la sua versione, io avevo irresponsabilmente fatto consegnare ad Olga un grosso pacco di rubli e la polizia l’aveva scoperto: donde l’arresto e poi la condanna per contrabbando di valuta. Le cose però non stavano affatto in questo modo. A cominciare dal 1959 io avevo inviato a Olga, per Pasternak, un paio di somme già convertite in rubli, quelle che potevo permettermi, utilizzando come “corriere” qualche amico molto fidato. Sapevo che Pasternak aveva estremo bisogno di aiuto perché, in seguito allo scandalo sollevato dalle autorità sovietiche quando nell’ottobre 1958 lui era stato insignito del Premio Nobel, l’Unione degli scrittori lo aveva privato delle sue uniche fonti di guadagno.

E.L. – Mi ricordo. Non gli era più permesso di pubblicare o ristampare le proprie opere, nemmeno le magistrali traduzioni dei grandi classici come Shakespeare e Goethe.

D’A – Esatto. Però nel marzo 1960 Feltrinelli (dopo aver ottenuto che la summenzionata procuratrice parigina declinasse il mandato per evitare a Pasternak le conseguenze di un rumoroso procedimento giudiziario minacciato da Milano) mi versò finalmente la somma in dollari che lo scrittore gli aveva chiesto di mettere a mia disposizione quasi un anno prima per consentirmi di gestirla come fondo per rimesse periodiche all’indirizzo di Olga. Il fondo era consistente. Proveniva dagli onorari, senza dubbio molte volte più consistenti, che spettavano allo scrittore per tutte le edizioni del “Zhivago” uscite fino a quel momento in Occidente. Pasternak aveva stabilito l’entità del fondo e me ne aveva affidato la gestione esentandomi dal renderne conto a chicchessia e raccomandandomi di iniziare le rimesse quanto prima possibile. Tutto questo sta scritto nelle sue dichiarazioni autografe, poi pubblicate integralmente.

E.L. – E subito tu cominciasti a organizzare la rimessa di cui parla Schewe…

D’A – Quasi subito. Si trattava di un’operazione complessa e purtroppo potei completarla soltanto dopo la morte di Pasternak, comunque nella certezza di eseguire la sua volontà. Riassumo la fase finale della rimessa. Verso la fine di luglio due giovani coniugi molto legati alla mia famiglia (un medico toscano e una slovena capace di cavarsela col russo) giungono a Mosca en touriste a bordo di un maggiolino Volkswagen dove sono accuratamente nascoste numerose mazzette di rubli. I due prendono posto in un grande albergo pieno di turisti stranieri e si riposano dalle fatiche del lungo viaggio automobilistico.

E.L. – Iniziato dove?

D’A – In Italia, a Roma. Poi i due coniugi hanno attraversato l’Austria, Berlino, Varsavia. All’indomani dell’arrivo a Mosca cominciano a visitare la città, usando esclusivamente mezzi pubblici e guardandosi bene dal servirsi di telefoni. Fra l’altro, avendo ricevuto da me una mappa del centro cittadino e precise istruzioni di comportamento, si fanno portare con un taxi nelle vicinanze della strada (che poi raggiungono a piedi) dove sorge l’edificio in cui abita Olga e lo osservano dall’esterno, senza fermarsi. Nello stesso modo, un paio di giorni dopo, tornano di pomeriggio davanti a quell’edificio e salgono senza preavviso all’appartamento giusto. Apre Olga. Essi, riconoscendola dal modo in cui l’avevo descritta, le porgono un generico biglietto di presentazione (lei ben conosce la mia scrittura) e si informano a gesti se possono parlare liberamente. Possono. Allora concordano che la sera del giorno successivo. per l’esattezza il primo agosto, torneranno con le mazzette di rubli prelevate all’ultimo minuto dal maggiolino e sistemate in due normali borse da viaggio. E ciò avviene puntualmente. Col seguito di una cena che Olga vuole offrire in casa.

E.L. – I “corrieri” ripartono, hanno fatto un lavoro perfetto. Quando e come poi qualcosa va storto?

D’A – Olga ci descrive minutamente in un libro di memorie, “A Captive of Time” (Doubleday, Garden City, New York 1978), le vicende dei quindici giorni che intercorrono dalla visita dei “corrieri” al suo arresto (16 agosto). Ne traggo l’essenziale. Olga confida quasi subito a Schewe, sempre suo assiduo visitatore, l’arrivo dei rubli e lui si mostra costernato. Esclama: “Adesso noi [sic!] siamo spacciati”. Olga nasconde i rubli o parte di essi in una valigia che chiude a chiave e consegna a un’ignara sarta abitante al piano di sotto, dicendole che ripasserà, appena ne avrà il tempo, per decidere le modifiche da apportare agli indumenti che stanno lì dentro. Olga non fa assolutamente menzione di sue grosse spese che possano aver dato nell’occhio.

E.L. – Esiste, di quei giorni, anche una versione di Schewe?

D’A – Nella citata intervista sul “Corriere”, quella in cui mi addita come il colpevole dell’arresto, Schewe sosterrà che Olga aveva attinto al denaro appena ricevuto per comprare una motocicletta al figlio e in quel modo (tanto più che allora pochissime motociclette giravano per Mosca) era incappata incautamente nel mirino della polizia.

E.L. – Se fosse vera la storia della motocicletta cadrebbe il sospetto di una spiata …

D’A – No, la spiata è molto più di un sospetto. Infatti la mattina del 16 agosto, come Olga racconta in “Captive of Time”, diversi agenti fanno direttamente irruzione nell’appartamento della sarta di Olga, forzano la valigia e sequestrano i rubli. In quel momento Olga non è nemmeno a Mosca. Si trova in una casetta di campagna, non molto distante dalla capitale, dove altri agenti, quella stessa mattina, l’arrestano con l’imputazione di aver contrabbandato valuta: imputazione ridicola, ovviamente, perché Olga (al pari della figlia che sarà arrestata una ventina di giorni dopo) mai ha messo piede fuori dell’URSS e mai ha ricevuto banconote estere.

E.L. – E Schewe commenta questo fatto?

D’A – In modo incredibile. Mi riferisco ancora alla sua intervista al “Corriere”. Non che lui parli dell’ incursione nell’appartamento della sarta… Però sostiene testualmente che, date le circostanze, “il tribunale sovietico non poteva far altro che condannare lei [Olga] e la figlia Irina”. In sostanza, finge di ignorare che il processo è stato preceduto da qualche mese di interrogatori nella Lubianka (dove si portano solo gli oppositori politici) e sbrigato in un solo giorno nella più assoluta segretezza, senza testimoni a discarico e senza possibilità di ricorrere in appello. E così sconfessa a priori la sentenza con cui il 2 novembre 1988, al tempo di Gorbaciov, la Corte suprema della Repubblica sovietica russa annullerà quel processo e assolverà pienamente madre e figlia per “insussistenza di reato”.

E.L – Allora si può concludere che Schewe…

D’A – La conclusione su Schewe emergerà fra poco. Nel marzo 1961, cercando di riparare allo scandalo internazionale per la sorte di Olga e figlia, Aleksei Adzhubei, direttore del giornale “Izvestia” (e genero di Krusciov), compie un giro di conferenze in Gran Bretagna. E con l’occasione tira fuori un presunto asso dalla manica. Una lettera in tedesco sequestrata dalla polizia sovietica (poi pubblicata e ripubblicata in Occidente) che Feltrinelli ha inviato ad Olga, nel tentativo di forzarne la volontà, all’indomani della morte di Pasternak. L’editore chiede ad Olga di mandargli al più presto il nuovo contratto per i diritti del “Zhivago” e qualsiasi documento riservato dello scrittore; le spiega che tutto ciò non deve mai capitare “nelle mani delle autorità o della famiglia Pasternak”; e le promette che farà del suo meglio “per evitare pagamenti a terze persone” o, se non dovesse riuscirci, per far sì che “una parte sostanziale del profitto resti per lei e per Irina”.

E.L. – Mi ricordo benissimo. In quella lettera Feltrinelli cita anche Schewe.

D’A – Lo cita eccome. Feltrinelli raccomanda ad Olga di non fidarsi di “nessuno ad eccezione di Schewe”, e poi, se un giorno questo “nostro comune amico” non fosse più a Mosca, di fidarsi soltanto di coloro che le mostreranno “una delle parti mancanti” e ai quali lei mostrerà “l’altra parte” [allegati alla lettera sono due mezzi biglietti italiani da mille lire].

E.L. – Un tocco cospiratorio in cui la propaganda sovietica ha inzuppato il pane. Ma quella lettera non provava affatto che fosse stata Olga, una donna resa molto cauta da tante tragiche esperienze di perseguitata, ad ispirare tante sciocchezze, compresa la superflua raccomandazione di non far cadere le carte riservate nelle mani delle autorità.

D’A – Su questo non può esserci il minimo dubbio. Ma il punto che ora mi preme chiarire è un altro. Sulla base di ciò che sta scritto in quella lettera Schewe dovrebbe essere giudicato dal regime sovietico come un complice di prim’ordine in attività criminose; e in quanto tale, sarebbe a dir poco espulso immediatamente dall’URSS, come accade di regola a qualsiasi corrispondente “borghese” (ossia non comunista) che abbia commesso un’ infrazione sia pure infinitamente più lieve. Invece Schewe può restare tranquillo nell’URSS fino a 1967 (e vi trova anche moglie), fruendo di una”grazia” che è anche la prova definitiva dei suoi servigi al KGB.

E.L. – Prova definitiva come una “pistola fumante” in mano al killer. Ma Inge ha mantenuto anche in seguito rapporti amichevoli con Schewe?

D’A – Che Schewe sia rimasto nel suo ambito familiare è un dato di fatto. Carlo, figlio di Feltrinelli ed Inge, riferisce nel suo libro “Senior Service” (Milano 1999) che nel mezzo degli anni sessanta suo padre e Schewe si tenevano in contatto: se non altro per capire se io avessi una “sponda” americana o sovietica [insomma se fossi al soldo della CIA o del KGB]. Ovviamente la fonte di questa notizia è sua madre, perché all’epoca lui aveva non più di quattro o cinque anni. Di prima mano (anche se forse non all’insaputa di Inge) Carlo racconta poi nello stesso libro di aver fatto una visita a Schewe, in Germania, quando questi era ormai pensionato.

E.L. – Risposta esauriente. Adesso torniamo all’impegno di Inge nella casa editrice, ai suoi viaggi con Feltrinelli…

D’A – Allo scorcio degli anni cinquanta la casa editrice presenta diverse novità significative. Licenziamenti (incluso il mio) e nuove assunzioni, cancellazione di libri tradotti o già in bozze… Più rilevante, tuttavia, è il “maggiore respiro internazionale” che Inge si vanta esplicitamente di promuovere: soprattutto affiancando Feltrinelli, dai primi anni sessanta, in moltissimi viaggi di lavoro nei paesi del Terzo Mondo.

E.L. – I due cercano libri da tradurre?

D’A – In teoria sì. In pratica, invece, quei viaggi hanno per effetto soprattutto l’iniziazione rivoluzionaria dell’editore milanese.

E.L. – Per esempio?

D’A – In Africa, dove per qualche anno si concentra il loro interesse, i due visitano ripetutamente Algeria, Marocco, Guinea, Nigeria, Ghana. Feltrinelli, coadiuvato da Inge, riesce a stabilire rapporti personali con i leader saliti di recente alla ribalta della storia anticoloniale, da Ben Barka a Sékou Touré. In particolare si infervora per la causa dell’indipendenza algerina, dandone la dimostrazione più concreta con l’offrire asilo a Milano, nei locali di un suo istituto, ad alcuni disertori francesi. E nell’estate 1962, grazie alla compiacenza del presidente ghanese Kwame Nkrumah, si infila addirittura fra i delegati dei paesi non allineati all’assemblea di Accra sul disarmo nucleare. Quanto alle scoperte editoriali i giri africani fruttano solo un manoscritto sull’Algeria (magari trovato a Parigi) che lui pubblica anche in lingua originale col proposito di contrabbandarlo in Francia.

E.L. – Effettivamente non è molto…

D’A – In compenso, durante una pausa dei viaggi in Africa, Inge dà alla luce Carlo (marzo 1972). Il neonato è senza dubbio figlio di Feltrinelli, la somiglianza con lui è fuori discussione, e poco importa se nella cerchia dell’editore corre voce che ci sia stato un ricorso all’inseminazione artificiale. Sia come sia, si deve rilevare un fatto. Questo figlio (che il padre subito riconosce e nomina per testamento suo erede universale) sarà determinante nel consentire ad Inge di mantenere la sua presa su Feltrinelli quando fra non molto finirà la loro convivenza sotto lo stesso tetto e soprattutto dopo che lui, alcuni anni più tardi, passerà alla clandestinità.

E.L. – E la passione per Cuba? Quando esattamente comincia?

D’A – Nel gennaio 1964. Inge e Feltrinelli sbarcano a Cuba, dove entrambi sono già stati. Adesso qui tutto è cambiato. C’è Fidel Castro, il socialismo caraibico, il miraggio dell’esplosione rivoluzionaria nell’intera America Latina. Feltrinelli, che di tutto ciò si entusiasma, viene ricevuto varie volte dal lider màximo, ne conquista la benevolenza, può perfino misurarsi con lui in qualche tiro di basket (ripreso dalle istantanee di Inge, l’ex fotoreporter). Anche questo viaggio, va detto, non manca di un contenuto editoriale: ottenere i diritti in esclusiva mondiale sulle memorie di Fidel Castro. Peccato che le memorie non sono state ancora scritte e che l’autore in pectore, pur avendo incassato un generoso acconto, non le scriverà mai.

E.L. – Ma i due torneranno a Cuba anche in seguito?

D’A – Ci tornerà molto spesso Feltrinelli. Ma senza Inge. La ragione è che una svolta significativa interviene di lì a poco nella vita della coppia. Durante una festa affollata lei viene scoperta in estrema intimità con un noto giornalista del PCI, suscitando a dire il vero più perplessità che scandalo. Possibile che una donna come lei, generalmente considerata molto padrona di sé, abbia agito con tanta leggerezza? Ad ogni modo il risultato è che Feltrinelli va ad abitare per conto proprio, lasciando a lei la disponibilità della dimora patrizia, la cura del figlio, l’usufrutto su una cospicua parte del patrimonio familiare e l’incarico di dirigente nella casa editrice.

E.L. – Un po’ troppo. Segno che lui resta succubo della personalità di Inge.

D’A – E’ così e sarà sempre così. Intanto il nuovo assetto non impedisce ad Inge, che conserva intatte tutte le sue funzioni materne e professionali, di incontrare e condizionare Feltrinelli tutte le volte che vuole. E le dà in più la possibilità di dissociarsi in modo naturale da quei viaggi nel Terzo mondo che finirebbero col rendere poco credibile la sua coltivata immagine pubblica di intellettuale progressista ma non rivoluzionaria. Del resto Feltrinelli è ormai caricato e prosegue sulla rotta prefissatagli. Tanto che all’inizio del 1967, visitando Cuba per l’ennesima volta, proclamerà in un discorso al College Habana Libre di aver esaurito il suo compito di editore europeo e di considerarsi soltanto “un combattente contro l’imperialismo”.

E.L. – E come combatte?

D’A – Assume l’incarico di pubblicare l’edizione italiana del bimestrale “Tricontinental”, redatto a Cuba quale organo dell’Organizzazione della solidarietà fra i popoli di Asia, Africa e America Latina; e di quel bimestrale diventa ufficialmente fiduciario e inviato, occupandosi per conseguenza di ulteriori guerre e guerriglie, dal Medio Oriente al Vietnam, dall’Angola all’Uruguay, in breve in una buona parte del terzo Mondo. Non che prenda parte personalmente ad azioni di carattere militare, ma si spinge verso molte delle aree in fermento (mentre le mete di lavoro preferite di Inge sono adesso Parigi, Londra, New York) per incontrare i giusti protagonisti e contribuire alle loro cause con elargizioni di denaro e/o forniture di materiale bellico. Per esempio, subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, incontra, non per ossequiarli solo a parole, Yasser Arafat e altri dirigenti di al Fatah.

E.L. – Per gli affari editoriali, d’ora in poi, lui avrà poco tempo…

D’A – In realtà , prima ancora della sua solenne dichiarazione al College Havana Libre, Feltrinelli ha cominciato a mollare ad Inge, gradualmente, le redini della casa editrice. Anzi, a questo proposito vorrei fare una digressione rispetto al tema dei finanziamenti alle guerriglie. Si tratta di una mia diretta esperienza e testimonianza…

E.L. – Ti ascolto.

D’A – Dopo la scarcerazione di Olga (novembre 1964) prendo un’iniziativa che ormai non può cancellare il “gesto di clemenza” con cui è stata ridotta la sua pena detentiva (e prima ancora quella della figlia). Cioè propongo a Feltrinelli, attraverso il suo principale avvocato, di istituire e presiedere un Premio Pasternak. Per finanziarlo suggerisco di utilizzare legalmente una lettera autografa che Pasternak, alla fine del mio lavoro giornalistico in URSS, aveva inviato per mio tramite a Feltrinelli: una lettera in cui, fra l’altro, gli dava disposizione di versarmi a titolo di compenso la metà di tutti gli onorari del “Zhivago” spettanti all’autore.

E.L. – Una gran bella somma!

D’A – Equivalente oggi a molti milioni di dollari. Perciò su quella lettera, che Pasternak volle farmi leggere in sua presenza, avevo scritto un grosso NO stampatello accanto alle righe che mi riguardavano, spiegando allo scrittore che mai avrei accettato di sottrarre ai suoi onorari una cifra tanto spropositata e augurandogli di venire in possesso prima o poi di tutto ciò cui aveva diritto. Feltrinelli mostrò la lettera, appena l’ebbe ricevuta, a parecchi suoi collaboratori, lodandomi per la rinuncia al denaro…

E.L – Ma la tua rinuncia non impedisce legalmente l’operazione che proponi a Feltrinelli?

D’A – Non l’impedisce perché gli eredi di Pasternak, “per ragioni politiche e morali”, non potranno mai reclamare “quell’oro di Giuda”. Lo ha stabilito nell’ottobre 1961 il vertice del Partito comunista sovietico (PCUS), primo firmatario Mikhail Suslov. Comunque Feltrinelli rigetta la mia proposta senza una parola di spiegazione.

E.L. – Sicché tu inizi una vertenza giudiziaria contro la società editrice.

D’A – Per l’appunto. Motivi di spazio non mi permettono di ricapitolare qui tutte le fasi della vertenza giudiziaria (1965-1972) ch’io finanzio nei primi anni con il residuo del fondo rimesse. Del resto ho già assolto questo compito, con profusione di documenti, nel mio libro sul caso Pasternak; e poi chi volesse accedere direttamente agli atti processuali può rivolgersi all’Archivio di Stato in Roma. Qui, invece, ricorderò per sommi capi gli episodi che provano in modo schiacciante la stretta intesa fra la società editrice (sempre più dominata da Inge) e le competenti autorità sovietiche in tutto il corso della vertenza.

E.L. – Va’ avanti.

D’A – Dopo una lunga e debole contestazione della validità giuridica della citata lettera di Pasternak la società editrice, convintasi ch’io non ne ho fatto una copia (il che è vero), presenta in giudizio una precedente e generica lettera dello scrittore, manomessa con un NO apocrifo, sostenendo che mi sono confuso. Ma, rendendosi conto che questo falso non potrà reggere a lungo, rivela a Mosca ch’io voglio istituire un Premio Pasternak. Mosca si allarma seriamente. Si mobilita. Infatti subito dopo, nel maggio 1966, il vertice del PCUS capovolge la decisione di cinque anni prima stabilendo che i figli di Pasternak potranno ereditare i proventi del “Zhivago” (e quindi intervenire nella mia vertenza), con ciò impedendo che “determinati circoli utilizzino per fini antisovietici le rilevanti somme dello scrittore scomparso”.

E.L. – Qui sembra smentita la proverbiale inefficienza della burocrazia sovietica.

D’A – Non generalizziamo. Ascolta adesso l’esempio di un pasticcio spionistico. Nell’agosto 1967, mentre sto raccogliendo importantitestimonianze a mio favore, una signora russa, Galina Oborina, che mi ha conosciuto a Mosca e poi si è trasferita definitivamente a Roma in seguito al suo matrimonio con un italiano, mi consegna la copia di una lettera dattiloscritta che Pasternak, di cui sarebbe stata da tempo buona amica, le avrebbe dettata e firmata una quindicina di giorni prima di morire, quando già era allettato. Nella copia, si legge fra l’altro, lo scrittore insiste affinché io accetti finalmente la ricompensa che mi aveva proposto nel nostro ultimo incontro.

E.L. – E’ passato molto tempo dalla data della copia. Tu non dubiti…

D’A – L’Oborina mi racconta molte sue vicende che sembrano spiegare il ritardo della consegna. Comunque io chiedo alla signora di andare da un notaio per autenticare la copia. Ciò che lei fa senza battere ciglio. Io allora deposito in giudizio la copia autenticata. E la società editrice propone quasi subito una querela di falso corredata dalle dichiarazioni giurate di due medici sovietici in cui si afferma che Pasternak, alla data indicata nella copia, stava troppo male per dettare e firmare una lettera. L’Oborina si mostra spaventata e rifiuta di testimoniare in giudizio. Io smentirò i due medici sovietici con testimonianze molto qualificate. Una è di Valeri Tarsis, noto scrittore sovietico dissidente costretto all’esilio dopo aver subito un periodo di manicomio sulla base di diagnosi imposte dal potere. E infine, sia pure tanto tempo dopo, arriva il chiarimento: dal cosiddetto Archivio Mitrokhin spunta il nome dell’Oborina quale agente del Secondo direttorato del KGB. Insomma falsa la lettera e falsa la smentita.

E.L. – Ma come finisce la causa di falso?

D’A – Non finirà mai. Intanto per aprirla è necessario che si chiuda formalmente il giudizio in corso, ciò che richiede, senza che io ne capisca il perché, quasi un anno e mezzo. Infatti il procedimento di falso comincia nel gennaio 1969. Da quel momento la società editrice, ormai chiaramente interessata a perdere tempo, non fa altro che chiedere la comparizione degli eredi di Pasternak, ma per essi, ovviamente ignari di quanto succede a Milano, c’è sempre qualcuno che con vari pretesti chiede e ottiene il rinvio delle udienze.

E.L. – Chi sono gli eredi di Pasternak?

D’A – In questo periodo i due figli Evgheni e Leonid. A loro, però, viene presto aggiunta Olga.

E.L. – Inspiegabile.

D’A – E invece no, sta’ a sentire. Verso la fine del 1969 il console generale sovietico a Roma, Ivan Iutkin, mi invita a un colloquio riservato. Ci vado. Faccio una brevissima anticamera, durante la quale una mia vecchia conoscenza di Mosca, Lolli Zamoiski (che poi figurerà come colonnello del KGB nel citato Archivio Mitrokhin), accerta la mia identità con una furtiva occhiata dallo spiraglio di una porta. Iutkin è gentilissimo. Si dice molto dispiaciuto che gli eredi di Pasternak, in particolare la mia carissima Olga, debbano testimoniare contro di me e mi propone di parlarne, per trovare una soluzione, con due alti dirigenti del Collegio giuridico sovietico per l’estero. Mi scappa di dirgli, sorridendo, che da noi i testimoni a proprio favore non sono presi troppo su serio. Comunque, qualche giorno dopo. io e due miei avvocati incontriamo al Consolato generale, in presenza di Iutkin, il vicepresidente del Collegio giuridico Andrei Korobov e un suo assistente con l’aria di autorevole sorvegliante.

E.L. – In altre termini un occhio del KGB?

D’A – Probabile. Ad ogni modo Korobov mi consiglia con lunghi giri di parole pacate e quasi amichevoli di rinunciare alla mio genere di pretesa sugli onorari di Pasternak e a un certo punto io gli domando, per la verità retoricamente, se in questo caso tutte quelle cospicue somme finirebbero davvero nelle tasche degli eredi. Risposta: certamente sì. Una mia espressione di incredulità fa allora scattare il suo assistente. Con voce arrogante costui mi intima di non divagare. Afferma che io sto dimostrando di non nutrire alcun affetto per Olga (inclusa fra gli eredi, ormai è chiaro, con l’intenzione di condizionarmi psicologicamente). E infine mi grida che “oggi si deve decidere se ci lasciamo da amici o da nemici.” Con grande calma gli spiego che l’alternativa è molto seria e perciò mi serve altro tempo per rifletterci. Fine della seduta.

E.L. – Che è anche l’ultima, immagino.

D’A – Naturalmente. Tuttavia devo convincermi che le manovre congiunte di Milano e Mosca non mi permetteranno di arrivare in tempi men che biblici (quindi anche entro i limiti della mia resistenza finanziaria) alla conclusione dell’intera vertenza e al traguardo del Premio Pasternak. Di conseguenza i miei avvocati, in pieno accordo con me, comunicano alla società editrice che io potrei prendere in considerazione la proposta di chiudere la nostra controversia purché ciò avvenga con una transazione che la impegni a rimborsarmi tutte le spese giudiziarie e non giudiziarie che ho sostenuto di tasca mia per arrivare al punto in cui ci troviamo.

E.L. – E la risposta?

D’A – La risposta non arriva e la causa di falso continua a languire fra le convocazioni mancate dei testimoni russi. Però qualcosa di strano avviene fuori dalle aule di giudizio. Il primo marzo 1970 la Società editrice annuncia sui principali quotidiani del mondo di aver stipulato un accordo con gli eredi di Pasternak (ancora i due figli Evgheni e Leonid più Olga) rappresentati da Korobov, il vicepresidente del Collegio giuridico per l’estero. In sostanza la Società editrice avvierà subito le pratiche valutarie per versare quanto dovuto agli eredi di Pasternak e otterrà da questi ultimi il “secondo contratto” perseguito invano per anni. Questo contratto riconoscerà alla Società diritti molto più ampi sulle utilizzazioni del “Zhivago”, comprese quelle diverse dalla stampa, evitandole in questo modo il grosso delle contestazioni legali sollevate finora, soprattutto all’estero, da editori ed altri soggetti coinvolti nel giro d’affari del romanzo.

E.L. – Bel colpo, su questo non c’è che dire.

D’A – C’è da dire tuttavia che i due contraenti, come ad esempio rileva il londinese “Sunday Times”, hanno ignorato il fatto che io ho promosso un’azione legale, tuttora in corso, per rivendicare parte di quel denaro. Il loro accordo è insomma un mostro giuridico. Ma il peggio deve ancora venire.

E.L. – Un altro accordo?

D’A – No, tutt’altra cosa. Il 20 gennaio 1972 diversi grandi quotidiani del pianeta, dal “New York Times” al “Corriere della Sera”, riferiscono che il giorno prima gli eredi di Pasternak avrebbero dovuto presentarsi come testimoni al tribunale dove si celebra (si fa per dire) la causa di falso e invece hanno chiesto per telegramma di rinviare l’udienza, ora fissata al 24 marzo. La lista degli eredi, si legge ancora, ha subito una variazione. Olga è stata cancellata e al suo posto figura Katia, indicata come figlia dello scrittore. Non si tratterebbe di una notizia sensazionale se non per un dato di fatto: lo scrittore non ha mai avuto una figlia e perciò Katia Pasternak è stata inventata dal KGB.

E.L. – Con quale scopo?

D’A – Si può supporre che questa Katia, munita di tutti i necessari documenti falsi, potrebbe dichiarare di aver rinunciato all’eredità per potersi qualificare come testimone. Di sicuro, comunque, non potremo mai saperlo. La morte di Feltrinelli (14 marzo) ha per conseguenza l’annullamento dell’udienza che avrebbe dovuto tenersi dieci giorni dopo. E non solo. A questo punto comincia anche la fine dell’intera vertenza giudiziaria in quanto i miei avversari di Milano devono occuparsi di problemi societari e personali molto più pressanti (fra cui il regolamento finanziario con cui Inge, sborsando molti milioni di dollari, taciterà Sibilla Melega, ultima moglie dell’editore). In concreto la Società editrice ora accetta la transazione che io ho proposto alla fine del 1969 e che sarà eseguita, causa i tempi tecnici, alla fine del 1972.

E.L. – Toglimi una curiosità. Ti tenta mai l’idea di riaprire quel caso?

D’A – Vuoi scherzare? Solo per la verità storica, niente altro, sto citando l’insieme dei fatti che fanno luce sul ruolo di Inge nella vita di Feltrinelli. Anzi, colgo qui l’occasione per dichiarare, a scanso di equivoci, che dalla Società editrice io non pretenderò mai neanche un centesimo. A nessun titolo.

E.L. – Bene, torniamo allora all’impegno di Feltrinelli nel Terzo Mondo. Eravamo rimasti al suo incontro con Arafat.

D’A – Poco dopo quell’incontro l’editore milanese intraprende una missione anomala. Vola in Bolivia, portandosi molto denaro ritirato da un suo conto a New York, nel tentativo di aiutare in qualche modo il Che Guevara braccato nella giungla e l’intellettuale Régis Debrais rinchiuso in carcere. Si sistema in un albergo di la Paz, dove si fa raggiungere dalla moglie Sibilla Melega, ma qualcosa in cui sperava, forse un contatto con qualcuno, non funziona. Le faccenda si potrebbe mettere molto male e invece, buon per lui e Sibilla, si conclude con qualche interrogatorio e l’imbarco forzato su un aereo in partenza dal paese. A questa avventura, comunque, fa seguito un’improvvisa svolta nella visione strategica di Feltrinelli.

E.L. – In che senso?

D’A – Nel senso che Feltrinelli, appena rimpatria dalla Bolivia, concentra la sua attenzione sui prodromi del Sessantotto italiano: manifestazioni studentesche con qualsiasi possibile motivazione, occupazioni di parecchie università, violente proteste antiamericane sullo spunto della guerra del Vietnam e del colpo di Stato in Grecia, scontri fra militanti di sinistra e di destra. Quanto a lui basta per illudersi che anche qui possano funzionare i modelli insurrezionali delle aree sottosviluppate.

E.L. – E quando passa all’applicazione di questa teoria?

D’A – Quasi subito. Per cominciare sceglie la Sardegna, con l’esplicito obiettivo di trasformarla nella “Cuba del Mediterraneo”, facendo levasoprattutto su separatismo e banditismo, due fenomeni locali che spesso si integrano. Ad essi dà manforte sia con finanziamenti generosi sia con forniture di armi, apparecchi per telecomunicazioni e altri materiali utilizzabili per la guerriglia. Con il risultato di contribuire per qualche anno (promovendo anche la costituzione di un “Fronte rivoluzionario sardo per il comunismo”) a scatenare una fitta successione di gravi e gravissimi disordini, incluso perfino il sabotaggio di manovre militari. Inoltre, fin dai primi mesi del 1968, quando le agitazioni degli studenti e degli infiltrati di vario colore si inaspriscono e dilagano in tutto il territorio nazionale, Feltrinelli si convince che in Italia sia imminente un colpo di Stato ordito da CIA, NATO, grande industria e alta finanza.

E.L. – Una ragione di più, immagino, per spingerlo a stringere i tempi dell’azione rivoluzionaria.

D’A – Infatti dal 1968 e soprattutto nel 1969 (l’ anno delle bombe “rosse” e “nere” che in molte parti del paese prendono di mira sedi e simboli istituzionali, banche, borse, esposizioni industriali, stazioni ferroviarie, treni e tralicci elettrici) Feltrinelli avvia e intensifica la frequentazione e il finanziamento di vari gruppi della sinistra combattente, mette in vendita nelle sue grandi librerie apologetici opuscoli sulle guerriglie in corso nel mondo, perfino manuali per costruire bombe molotov e lanciarle con fucili a canne mozze. Per conseguenza i servizi di intelligence lo tengono d’occhio, la magistratura lo interroga e gli infligge qualche lieve condanna, la polizia compie diversi sequestri nella sue librerie, le cronache nazionali si occupano di lui sempre più spesso. Il fatto politicamente più serio, tuttavia, consiste negli attacchi che ora gli sferra la stampa del PCI.

E.L. – Perché dici che è il fatto politicamente più serio?

D’A – Da un quarto abbondante di secolo il PCI ha perseguito l’avvicinamento morbido al potere ed ha quindi avversato risolutamente qualsiasi iniziativa, fosse anche soltanto di carattere giornalistico, che intralciasse la sua marcia da una posizione “più a sinistra”. Figurarsi dunque se può tollerare che “un avventuriero dilettante” tipo Feltrinelli finanzi adesso la nascente ultrasinistra eversiva. Ma la linea morbida del PCI non nasce dal nulla. E’ in piena sintonia con una scelta strategica della politica estera sovietica. E quindi la recente svolta di Feltrinelli è vista da Mosca come uno spinoso problema.

E.L. – E lui se ne rende conto? Reagisce?

D’A – Lui ostenta disprezzo ideologico per il PCI. Accusa i dirigenti di questo partito di “ciarlatanismo ammantato di fraseologia di sinistra”. E non è tenero nemmeno con il regime sovietico che spesso identifica col capitalismo di Stato. Nello stesso tempo Inge si mostra molto costernata per tutti i rischi cui lui si espone, gli dice di essere certa che i sicari del terrorismo neofascista e di vari servizi segreti sono ormai alle sue calcagna; e lo scongiura di defilarsi, di lasciare almeno per un po’ di tempo l’Italia. Nell’autunno 1969 lui alla fine si convince, le dà ragione. Al punto da ripetere più volte agli amici fidati che presto, a Milano o nei dintorni, potrebbe essere rinvenuto il suo cadavere crivellato di colpi. Pertanto prepara il suo definitivo sganciamento dalla casa editrice (di cui conserverà solo formalmente la presidenza) con una ristrutturazione che permette ad Inge di entrare nel consiglio di amministrazione e di assumere la carica di vicepresidente.

E.L. – In pratica, insomma, lei diventa il capo dell’azienda.

D’A – Proprio così. Ad accelerare e modificare le ulteriori mosse di Feltrinelli intervengono d’altronde i fatti che si susseguono a Milano nell’ultimo bimestre del 1969: una manifestazione di operai e studenti che degenera in guerriglia con molti feriti; uno sciopero che culmina con la morte di un giovane agente di polizia colpito alla testa con un tubo di ferro; e infine la bomba che esplode – il 12 dicembre – in una grande banca del centro cittadino provocando diciotto morti e ottantotto feriti. A torto o ragione si diffonde il sospetto che dietro questi fatti possa anche esserci la mano di Feltrinelli. Un giudice ordina a titolo cautelativo il ritiro del suo passaporto e lui nello stesso giorno, con l’aiuto di un contrabbandiere, oltrepassa la frontiera svizzera, deciso a vivere in clandestinità.

E.L. – Clandestinità, se non sbaglio, con molti aspetti donchisciotteschi. Non è questo il momento in cui Feltrinelli vuole tramutarsi da sostenitore di guerriglie in guerrigliero sul campo?

D’A – Certo. Infatti comincia subito a reclutare una sua milizia con il vecchio nome di Gruppi di azione partigiana (GAP) che deve essere pronta nella prossima primavera quale componente dell’Esercito internazionale proletario. Stabilisce che almeno all’inizio, poi si vedrà, il suo principale campo d’azione sarà l’Italia, dove ogni tanto rientrerà, sempre da clandestino, nonostante che il ritiro del suo passaporto venga revocato in febbraio. Vede tutto facile, si monta ancor di più la testa, scrive e pubblica addirittura un opuscolo sull’ordinamento della società postcapitalistica: quella di cui, anche se non lo dice apertamente, si sente il capo futuro. Il 12 marzo Inge, che spesso va a trovarlo, spiega all’ad e al direttore generale della casa editrice, entrambi sinceramente affezionati a Feltrinelli e angosciati per le sue gesta spericolate, che ormai non c’è nulla da fare. “Nessuno può più capirlo… he’s lost [è perduto]” scriverà nel proprio diario. E l’ad lancia l’idea che per salvarlo conviene farlo arrestare.

E.L. – Lei si oppone?

D’A – Credo che semplicemente lasci cadere il discorso. Feltrinelli intanto si aggira vorticosamente in Austria, Svizzera e Francia. Abbastanza spesso, solo per motivi di militanza, mette piede in Italia (munito di documenti falsi, camuffato nei modi più fantasiosi, privo dei suoi tipici baffoni), tenendosi ovviamente alla larga dalla casa editrice e dintorni. Con Inge, che di solito gli porta il figlio ancora bambino, si vede assiduamente in vari luoghi del suo esilio fino a poco prima della fine. E con Sibilla, che per stargli più vicina si è scelta come base un panfilo ormeggiato in Costa Azzurra, trascorre qualche periodo di riposo in una sua villa fra i boschi della Carinzia o fissa improvvisati appuntamenti qua e là: ma non oltre la primavera del 1971, quando lei, non sopportando più le scelte esistenziali del marito, troverà a Roma un nuovo interesse sentimentale.

E.L. – Ma in concreto, a parte i finanziamenti ai gruppi della sinistra armata in Italia e magari in altri paesi europei, quante e quali sono le azioni compiute da Feltrinelli in questa fase finale delle sue avventure? Parlo di azioni eversive.

D’A – Poche e di pochissima rilevanza: messaggi “Radio GAP” che utilizzano apparecchiature tedesche ottenute per vie traverse e talvolta interferiscono con qualche trasmissione televisiva in aree dell’Italia settentrionale; attentati dinamitardi senza serie conseguenze a Milano e dintorni contro cantieri edili dove si sono verificati infortuni sul lavoro e contro imprese appartenenti a sostenitori di formazioni neofasciste. Una delle ultime azioni, una rapina al casino di Saint Vincent, resta allo stato di progetto in considerazione delle scarse probabilità di riuscita. In sostanza Feltrinelli, sempre più dominato dall’ambizione di emergere come grande teorico e capo rivoluzionario, è schiavo di un tragico gioco. Scrive scombinate risoluzioni strategiche, acquista in Svizzera e a Milano appartamenti da usare come covi per i militanti dei GAP; organizza esercitazioni con pistole, fucili e bombe a mano, sottoponendo se stesso e uno sparuto gruppetto di seguaci a esercizi faticosi, a digiuni, perfino all’ingestione di cibi avariati; e infine, per darsi l’aspetto del guerrigliero sul campo, si lava sempre di meno. Una volta Inge, tornando da uno degli incontri con lui, di dice impressionata per averlo trovato molto magro e coi denti ingialliti.

E.L. – Finché nel marzo 1972 il suo tragico gioco finisce all’improvviso…

D’A – All’improvviso e in modo imprevedibile. Il 13 di quel mese, come viene annunciato con largo anticipo, il PCI aprirà a Milano il suo XIII Congresso, destinato a concludersi al quinto giorno con l’elezione di Berlinguer alla carica di segretario generale del partito. Feltrinelli decide subito di intralciare l’evento provocando un massiccio black out della città. A questo scopo ripartisce i suoi Gap in otto piccoli commandos, uno dei quali guidato da lui, con il compito di far saltare simultaneamente altrettanti tralicci dell’alta tensione situati, a molta distanza l’uno dall’altro, nella campagna milanese. Per l’attuazione del piano sceglie la tarda sera del 14. Ma salta l’appuntamento e non salta nessun traliccio. Tutti i commandos, escluso quello formato da lui e altri due uomini, disertano.

E.L. – Quindi Feltrinelli è caduto in una trappola ben predisposta. E’ stato vittima di un vero e proprio complotto, non di un semplice incidente.

D’A – Questo e certo, ma lui non farà in tempo a saperlo. In qualche modo è ferito dall’esplosione di una carica e muore dissanguato ai piedi del traliccio mentre i suoi accompagnatori fuggono con il furgone usato per arrivare sul posto. Il suo cadavere viene scoperto da alcuni contadini nel pomeriggio del 15 e, siccome ha indosso documenti falsi, gli inquirenti non riescono a identificarlo prima della mattina del 16. La successiva inchiesta giudiziaria finisce con l’archiviazione per insufficienza di prove e in giro restano tutte le possibili voci sull’identità dei responsabili: neofascisti, comunisti, servizi segreti italiani, KGB, CIA.

E.L. – Sai se Inge ha fatto qualche ipotesi?

D’A – Francamente no. So soltanto che la mattina del 15 marzo, ossia all’indomani dell’esplosione sotto il traliccio, lei parte per Lugano insieme con il figlio e un notaio, spiegando all’ad della società editrice che Feltrinelli le ha dato appuntamento in quella città alle ore tredici dello stesso giorno per la stesura di un atto riguardante una sua villa in Italia. Poche ore dopo, nel tardo pomeriggio del 15, lei rientra a Milano. Con aria sconvolta informa l’ad, presenti altre persone, che Feltrinelli non si è presentato all’appuntamento; ed aggiunge che lui non si sarebbe mai comportato così, tanto meno potendo incontrare il figlio, se non gli fosse successo qualcosa di terribile.

E.L. – Tutto ciò è strano…

D’A – Stranissimo. Possibile che Feltrinelli abbia nascosto ad Inge, pur considerandola fino all’ultimo la sua compagna rivoluzionaria, quell’attentato dinamitardo che progettava da un po’ di tempo? Possibile che Feltrinelli le abbia dato appuntamento a Lugano, per una pratica notarile, solo poche ore dopo l’attentato? O che non abbia avuto modo di disdire l’appuntamento se per qualche imprevista evenienza fosse stato spostato il giorno dell’operazione? Io penso che in realtà Inge abbia messo in scena l’appuntamento di Lugano per far testimoniare, se mai fosse stata sfiorata da qualche sospetto nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria, che lei non sapesse nulla dell’attentato in preparazione e quindi non potesse essere accusata di omessa denuncia o di complicità.

E.L. – Bene, siamo arrivati alla fine di questa storia. Ora ti chiedo di concludere l’intervista con una valutazione sintetica della vera misura in cui Inge ha inciso sulla vita di Feltrinelli e quindi sul caso Pasternak.

D’A – Fin qui io ho riferito esclusivamente fatti incontrovertibili. Sono quelli descritti in note pubblicazioni non prevenute verso i protagonisti di cui ho trattato e da loro mai contestate (ma delle quali mi impegno a precisare in questo stesso foglio, su eventuali richieste dei lettori, i titoli e le pagine). Sono i fatti provati dagli atti della mia vertenza giudiziaria, da alcuni documenti degli archivi sovietici, da numerosi articoli e commenti di grandi giornali. Ciò detto, posso dichiarare che questi fatti, ove se ne considerino coincidenze temporali e connessioni logiche, sollevano immancabilmente pesanti interrogativi.

E.L. – Precisiamoli.

D’A – Primo: E’ stata Inge, per via diretta o indiretta, per convinzione ideologica o voglia di ricchezza, ad accettare l’incarico di manipolare psicologicamente Feltrinelli con l’intento di farne un finanziatore di guerriglie? Ossia è stata lei a rendersi corresponsabile, sia pure moralmente, della fine dell’editore milanese?

E.L. – E il secondo interrogativo?

D’A – E’ stata Inge, nel corso della mia vicenda giudiziaria con la società editrice, a governare il coordinamento di Milano con Mosca in un carosello di spie sovietiche, documenti truccati, false testimonianze e tentativi di intimidazione nei miei confronti? Ossia è stata lei ad impedire l’istituzione di un premio Pasternak e ad assicurarsi per giunta quel nuovo e più vantaggioso contratto editoriale che l’autore non avrebbe mai firmato?

E.L. – Chiaro, anzi chiarissimo. Grazie a te anche a nome dei miei amici.

D’A – Grazie a te

Putin contro Putin, di Natalia Castaldo

Qui sotto alcune considerazioni di una cittadina italo-russa pubblicate su facebook riguardanti le incertezze e i limiti dell’attuale politica estera perseguita da Putin. Limiti ed incertezze apparsi già una quindicina di anni fa quando il leader emergente fu distratto, nelle sue scelte, dalla illusione di una Unione Europea autonoma dagli Stati Uniti. Tutto sta, però, nel valutare la forza effettiva della Russia nel sostenere una politica estera più attiva e dirompente, ma anche l’effettiva volontà di buona parte dei paesi europei di sganciarsi dal giogo americano. Che sia l’intera Europa, poi, a concepire tale scelta pare azzardato. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La popolarità di Putin è in discesa e da russa vengo bombardata di domande sul perché.
Sono una putiniana ma non di quelle che “Putin ha sempre ragione” e ho sempre trovato patetico il tentativo da parte sia dell’estrema destra che dei comunisti di costruirsi un Putin a propria immagine e somiglianza.
Putin punto di riferimento delle destre, Putin neocomunista, niente che un russo, che conosce bene la Russia, possa prendere seriamente.
Molti attribuiscono il calo di popolarità di Putin alle sue politiche interne, in special modo alla riforma delle pensioni.
Ma non sono d’accordo.
Putin conosce benissimo l’importanza di tenere i conti a posto e sono proprio le impeccabili finanze russe ad impedire che siano i mercati a ordinare a Putin cosa fare.
Se le continue speculazioni contro il rublo vanno a vuoto, il merito è del bassissimo debito pubblico russo.

E’ proprio questo il punto, il debito.
Un Occidente completamente rincitrullito da settant’anni di spese folli si è illuso di poter vivere al di sopra delle proprie possibilità e purtroppo questa infezione mentale rischia di arrivare anche in Russia.
Non è un caso che i principali propugnatori del malcontento sono quei personaggi a cavallo tra Italia e Russia, che anche quando sono filorussi, mantengono purtroppo tutti i riflessi di settant’anni di radioattiva propaganda occidentale.
Putin non ha fatto altro che tenere i conti a posto.
E chi dice che ci sono i problemi (non mi sono mai sognata di dire che la Russia è il bengodi) farà bene a confrontare il PIL russo di oggi con quello del 1999, a confrontare il debito di oggi con il debito degli anni Novanta, a qualificare il reddito pro capite odierno e confrontarlo con l’epopea postcomunista.
Perché quel che a pochi evidentemente è chiaro è che ogni alternativa a Putin oggi è MORTALE per la Russia, da una parte e dall’altra.
Da una parte ci sono le teste calde dell’estrema destra e dell’estrema sinistra che vorrebbero una Russia nazionalista e imperialistica (col risultato di scatenare gli idioti filoamericani “Ecco! La Russia vuole aggredirci tutti!!”) oppure il ritorno del comunismo con tutti i suoi sfasci.
Dall’altra i soliti liberali del cazzo, i Navalnyj, quelli che rivorrebbero il ritorno alle epoche del liberismo sfrenato, quando la Russia era un inferno invivibile. Sono sempre minoritari ma in lieve crescita.

La realtà è secondo me un’altra.
Il vero punto debole di Putin è la politica estera.
Dopo il capolavoro compiuto in Siria, è come se Putin si fosse avvitato in una sorta di spirale prudenzialista.
L’Ucraina è stata lasciata praticamente sola a se stessa, idem la Georgia.
E’ come se Putin si fosse fidato del nuovo corso di Trump e avesse abbandonato la prospettiva di allargare la propria sfera di influenza in Europa.
L’alleanza con la Cina se così stretta rischia di rivelarsi mortale per la Russia perché la Cina è un’America meno intelligente ma non meno brutale e imperialistica.

Il destino della Russia è invece l’Europa.
Putin continua a pregare i paesi europei di togliere le sanzioni ma non offre nulla in cambio.
Non offre sostegno né militare né economico ai paesi europei che volessero uscire dalla NATO e dall’Unione Europea, non ha grande considerazione di personaggi sicuramente limitati sul piano politico come Salvini e la Le Pen (Berlusconi è la merda ma nei suoi momenti migliori valeva venti volte Salvini) ma che tuttavia hanno più volte strizzato l’occhio verso la Russia.
Ha deciso invece di fidarsi degli Stati Uniti con il trattato di Helsinki che per me è come il patto Molotov-Ribbentrop: una grossa stupidata di Putin.
Sul momento evita l’inasprimento delle tensioni con gli Stati Uniti ma nel breve e lungo termine ottiene il risultato di scaricare il sovranismo europeo tra le braccia di Trump, facendo il gioco degli USA, i quali temono come la peste i sovranismi europei (e stanno mettendo in campo tutte le proprie armate) proprio perché sanno che se si forma una saldatura tra Europa e Russia, per gli USA è la fine.
Di conseguenza, Trump sta sterilizzando le volontà sovraniste europee proprio perché c’è un Putin che ha abbandonato l’Europa al suo destino.

Putin è ancora in tempo per cambiare la rotta ma adesso deve giocarsi la carta più importante: esportare il putinismo.
E’ inutile che si faccia soverchie illusioni: gli americani vogliono la morte della Russia, la sua distruzione, la trasformazione in colonia angloamericana.
E questa è una cosa che non cambierà, chiunque sia il presidente.
Sarà che sono anche italiana ma sono sempre stata convinta che l’alleato naturale della Russia sia l’Europa, non la Cina.

Tutto questo nulla toglie al fatto che anche internamente ci siano problemi.
Ma quando un paese ha un’estensione tale da occupare due continenti, la politica estera e la politica interna coincidono.
Se la Russia investe nell’Europa, ne ricava anche vantaggi interni.
Questa è la cosa che molti analisti e purtroppo anche molti russi sembrano essersi dimenticati.
O la Russia inizia a promuovere l’uscita dalla NATO dei paesi europei o per Putin sarà l’inizio del declino, quello vero.
E con il declino di Putin, anche quello russo.

La morte di Alexander Zakharcenko. Cui prodest?, di Max Bonelli

 

 

La morte di Alexander Zakharcenko

Cui prodest?

 

Il 31 agosto muore Alexander Zakharcenko(1)  per trauma cranico in seguito ad

una esplosione nel caffè “separ” situato sul viale Puskin  in centro città.

Insieme a lui muore la sua guardia del corpo e viene ferito il suo braccio destro

Alexander Timofeev, ministro dell’economia fondatore insieme a

Zakharcenko della organizzazione “oplot”(2) che poi ha dato il nome alla

brigata meccanizzata, incentrata sui fedelissimi di Zakharcenko.

 

Non ho conosciuto personalmente Zakharcenko ma parlando, durante i miei

viaggi  in Donbass con gente che ha avuto questo onore, mi riferivano di una

persona dedita al suo popolo, alla causa dei russi e dei russofoni

dell’Est ucraina. Era tenuto a freno a stento da Mosca, da cui il Donbass dopo

il blocco commerciale imposto dagli ucraini, dipendeva per l’esportazione

della sua produzione. La voglia di rispondere alle continue provocazioni

ucraine era palese nei suoi discorsi. Piaceva al popolo perché andava a

combattere insieme ai soldati non curandosi della sua carica di presidente della

Repubblica. Fu ferito a Debaltzevo nel 2015 ad un piede e zoppicò per molti

mesi per i postumi della ferita. Aveva subito molti altri attentati e la protezione

intorno a lui era stretta. Per questo ho aspettato molto prima di scrivere

qualcosa sull’argomento. Sia perché aspettavo lo sviluppo delle indagini da

parte delle forze di sicurezza della Repubblica coadiuvate sicuramente da

consiglieri russi, sia perché in questi casi per trovare i colpevoli bisogna spesso

vedere chi si avvantaggia dalla eliminazione del leader.

 

A due settimane si sa poco o niente sulla dinamica dell’attentato, a parte che

era un esplosivo al plastico dentro una lampada, probabilmente attivato da un

sistema detonante ad attivazione telefonica. Il locale “separ” risulta aperto

nella fine del 2017 e pensare che agenti del SBU ucraina piazzano in tempi non

sospetti esplosivo in un locale appetibile per la dirigenza di DNR ed aspettano

pazientemente che un pomeriggio ci arriva la dirigenza per attivare la trappola,

mi sembra improbabile. Presuppone in ogni caso una spia nello stretto cerchio

di persone intorno al presidente  o dei gestori del locale.

Viene sollevata nell’intervista di Stealkov (l’eroe di Slaviansk) ,intervista

che vi allego (3), l’ipotesi della pista interna con o senza l’apporto della  SBU

ucraina. La sua ipotesi è che Zakarchenko fosse diventato un personaggio

scomodo, non solo per la sua caratterialità poco incline ad essere manipolato

ma anche perché dietro la sua ombra si nascondevano personaggi come il suo

braccio destro Alexander Timofeev anche lui ferito nell’attentato.

Personaggio questo sicuramente meno limpido di Zakarchenko. Timofeev

aveva mani in pasta in molti affari economici non senza ombre come

abusi sulla tassazione di alcolici, espropriazione di aziende e simili.

Il presidente non intervenne con la sua pistola come “si mormora a Donetsk”

fece con un altro personaggio simile di Novoazosk nel 2015 . Questo aveva

fatto nascere malumori, accentuati dall’annullamento della data delle  elezioni,

una settimana prima dell’attentato.

Tutto questo non è leggenda e lo prova che il ministro dell’economia

Timofeev(4) si presenta ferito dai postumi dell’esplosione al funerale di

Zakarchenko e quello stesso giorno scappa in Russia dopo essere destituito di

tutti i suoi titoli.

Strani provvedimenti da riservare ad uno scampato all’attentato dei nazisti

ucraini. Lo stesso provvedimento usato contro Plotinsky, l’ex presidente della

repubblica di Lugansk gemellata a Donetsk in questa ribellione filorussa,

anche lui esiliato in Russia.

 

Chi si avvantaggia? Difficile dirlo con certezza, ma torniamo sui fatti concreti.

Denis Pushilin (5) prende il comando della repubblica di Donetsk fino alle elezioni prontamente rifissate a novembre 2018.

Lui è il mediatore imposto da Surkov(6)  il plenipotenziario di Mosca per Ossezia, Abkazia ed Ucraina.

Pushlin è poco amato dal popolo di Donetsk ed è ancora ricordato come affarista senza scrupoli che fece soldi con una finanziaria piramidale a sistema Ponzi che svuotò le tasche a tanti cittadini russi ed ucraini negli anni ‘90.

Sembra che si presenti alle elezioni ma dovrebbe avvenire una pesante

ingerenza russa per vederlo eletto.

La linea diplomatica imposta da Surkov era manifestatamente osteggiata dal

popolo di Donetsk; prendersi le cannonate e non rispondere non fa piacere a

nessuno, specie se te lo impone un diplomatico affarista che vive a Mosca ma “ubi maior minor cessat” e gli aiuti di Mosca fanno comodo di fronte al blocco

economico ucraino. Ma il popolo del donbass sopporta a denti stretti.

La popolarità del partito diplomatico presso i militari è descritta bene

dall’ultimo nome dei militari protagonisti della vittoria sugli ucraini 2014-2015

ancora vivo, il colonello in pensione delle FSB russa Igor Strelkov,

protagonista della resistenza di Slaviansk.

In ogni sua intervista parla di Surkov come di un traditore della Russia ed esprime il pensiero dei militari che hanno combattuto una guerra vittoriosa contro il mal diretto esercito ucraino nel 2015 e si sono visti la vittoria rubata con gli accordi di Minsk, quando sentivano di poter arrivare con le armi a Mariupoli e Kharkov.

 

Un altro personaggio che potrebbe emergere in questa vicenda è Alexander

Khodakovsky (7) ex comandante della FSB ucraina di Donetsk, uomo in amicizia con l’oligarca Rinat Akhmetov. Comandante della brigata Vostok. Era lui che comandò il primo disastroso assalto all’aeroporto di Donetsk che costo 70 morti ai filorussi. Uno che lavorava  nei  servizi segreti ma non sapeva che nell’aeroporto della sua città c’erano contractors baltici, polacchi ed americani a difenderlo!

A luglio 2014 rilascia una intervista alla Reuters in cui affermava che i filorussi avevano un sistema missilistico Bulk e subito il “bravo” giornalista trasformò questa affermazione in una confessione di abbattimento del volo MH17. Fu mandato per premio a difendere l’altura Savur- Mohyla  che sovrasta la steppa del Donbass fino al Mar Azov, li sotto le cannonate si comportò meglio e riprese quota politicamente. Anche lui si presenterà alle elezioni di novembre. Potrebbe essere il punto di compromesso fra il partito dei diplomatici (Surkov-Pushilin) ed i militari con una strizzatina d’occhio all’oligarca Akmetov al quale Zakarchenko aveva nazionalizzato lo stadio dello Shakhtar Donetsk. Mettendo all’opposizione l’ala dura dell’Oplot che si affiderà forse ad una canditatura di bandiera, la moglie di Zakarchenko Natalia.

In questo panorama il coraggioso popolo del Donbass continuerà a pregare per

il suo pantheon di eroi uccisi a tradimento: Mozguvoj, Motorola, Givi,

Zakharchenko, vittime del nazismo ucraino supportato dalla oligarchia

neoliberista USA-Ucraina ma con il sicuro apporto di una rete di traditori locali

che fornisce orari, informazioni senza le quali sarebbe impossibile compiere

questi attentati.

Anche in Donbass vale il detto “dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi

guardo io”

 

 

Max Bonelli

Autore del libro

Antimaidan

 

 

(1)

https://it.wikipedia.org/wiki/Aleksandr_Zacharčenko

 

(2)

https://ru.wikipedia.org/wiki/Оплот_(батальон)

 

 

 

 

 

(3)

https://www.youtube.com/watch?v=7-nsog17IZw

 

(4)

https://ru.wikipedia.org/wiki/Тимофеев,_Александр_Юрьевич

 

(5)

https://en.wikipedia.org/wiki/Denis_Pushilin

 

(6)

https://en.wikipedia.org/wiki/Vladislav_Surkov

 

(7)

https://en.wikipedia.org/wiki/Alexander_Khodakovsky

 

 

 

 

 

 

 

Crisi della sinistra. Botta e risposta tra T. K. de la Grange e Carlo Gambescia

Qui sotto un interessante e puntuale confronto tra due rappresentanti eminenti del pensiero liberale italiano sulla crisi della sinistra. Il segno di come l’affermazione progressiva delle categorie del realismo politico stia divaricando sempre più le posizioni all’interno delle grandi correnti del pensiero politico affermatesi nei due secoli precedenti aprendo finalmente, anche in Italia nuove strade e nuove e più adeguate chiavi di interpretazione del contesto politico. Buona lettura, Giuseppe Germinario

qui il link originario https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/

La crisi della sinistra

Botta e risposta tra Teodoro Klitsche de la Grange e Carlo Gambescia

Caro Carlo,

a distanza di cinque mesi dal 4 marzo e di parecchi anni dal momento in cui si capiva che il vento della storia stava cambiando, la sinistra non si è ancora rassegnata al deperire della dicotomia destra/sinistra, o meglio, borghese/proletario, come scriminante (prevalente) dell’amico/nemico.

A fronte di qualcuno che avverte la necessità di un “populismo di sinistra” (alla Laclau?), il che significa aver maturato la convinzione che il “vecchio” armamentario è ormai obsoleto, ve ne sono altri, più incardinati nell’establishment, i quali ritengono: a) che quella distinzione non sia obsoleta; b) che potrà riemergere; c) che il di essa deperimento di questa sia il frutto della (più abile) propaganda populista; d) e comunque è radicata e pertanto non tarderà a manifestarsi di nuovo.

Il tutto spesso confondendo tra distinzione del secolo breve (borghese/proletario) con altre scriminanti (e lotte) di classe. Se nel “Manifesto” del partito comunista Marx ed Engels sostengono che “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” è pur vero che scrivono anche che “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta”; ossia identificano come costante la lotta di classe, in particolare tra oppressori ed oppressi, ma come variabile il discrimine tra i gruppi sociali contrapposti. Il problema che si pone, cui occorre dar risposta non è se esiste o meno il conflitto, e neanche se esista  o meno tra “oppressi e oppressori” – domande la cui risposta è “scontata” – ma se sopravviva quella tra borghesi e proletari e, ancor più se abbia ancora il carattere di scriminante politica prevalente, o piuttosto non sia ormai neutralizzata e depoliticizzata come, in altri periodi storici, quella tra cattolici e protestanti, rivoluzionari (borghesi) e reazionari dell’ancien régime, e così via.

È un tratto comune a tali ragionamenti della sinistra in affanno di essere iniziati da due-tre anni (o poco più), cioè da quando il doppio colpo dell’elezione di Trump e della Brexit dimostrava che la “ribellione della masse” alle politiche delle élite era così intensa da prevalere prima nel “centro” dell’impero, e in due Stati particolarmente importanti.

Qualche giorno fa ha suscitato un certo dibattito l’affermazione dell’on. Franceschini secondo il quale al PD occorre impedire che si consolidi il “blocco sociale” corrispondente alla maggioranza populista di governo (dividere e quindi ridurre i nemici è la migliore tattica per conseguire la vittoria, come già espresso dal detto romano divide et impera). Resta da vedere se una simile tattica sia ancora tempestiva e credibile essendosi già costituito il “blocco sociale” populista sul rifiuto delle terapie, sostenute (più) energicamente dal PD nell’ultimo ventennio, di aumento delle imposte e riduzione delle prestazioni sociali (mentre il “contratto di governo” prevede diminuzione di quelle e aumento di queste).

Più ancora la separazione delle élite (PD e non solo) dalle masse (il nuovo “blocco sociale”) era stata prevista già da decenni da commentatori e intellettuali marginalizzati dall’establishment, non solo italiano. E non era, di converso, affatto capita dalla cultura “ufficiale”.

All’uopo, caro Carlo,  credo sia  interessante rileggere – tra i non tanti – un libro pubblicato nel 1997 da un piccolo e coraggioso editore, deceduto da oltre quindici anni, Antonio Pellicani, “Destra/Sinistra” che raccoglie le opinioni al riguardo di pensatori italiani e non, i quali declinavano in vario modo il deperimento della distinzione destra/sinistra e il progressivo distacco dalla classe dirigente dei governati (in particolare gli elettori dei partiti di sinistra).

Il volume, proprio perché collettaneo, dimostra come, oltre vent’anni orsono, la distinzione suddetta fosse in via di neutralizzazione e come tale considerata sempre meno sentita ed utilizzabile. Tutti gli autori del libro erano marginali rispetto al “pensiero ufficiale” italiano, e neppure granché amati all’estero; tuttavia, a leggerlo ora, si può, in larga misura, constatare che le valutazioni lì fatte mostrano una preveggenza di larga parte di quanto sarebbe successo, in Italia e all’estero, nei successivi vent’anni.

In particolare l’attenzione dei suddetti autori si era soffermata sui seguenti punti:

1) il progressivo distacco tra classi dirigenti e popolo, peraltro analizzato sotto diversi profili (politico, di costumi, di convinzioni, di modi di vita, di redditi).

2) In conseguenza la scarsa considerazione dei governanti verso i governati, sulla scorta del noto lavoro di Cristopher  Lasch “La ribellione delle élite”.

3) E sempre di conseguenza la mera e calante rappresentatività del popolo da parte delle élite, per cui partiti asseritamente o storicamente “aperti” ad istanze dei meno abbienti (come quelli progressisti), perdevano consensi malgrado che, in taluni casi, le condizioni dei loro (ex) elettori fossero peggiorate.

4) La difesa delle “particolarità” nazionali rispetto alla globalizzazione.

5) La perdita di senso della distinzione destra/sinistra o meglio Borghese/proletario

Di tutte, questa era la previsione più facile:  una volta imploso il comunismo e L’Unione Sovietica, la “ guerra fredda” era cessata per…K.O. tecnico. È vano cercare contributi altrettanto  preveggenti  nei politici e intellettuali della sinistra (o del centro sinistra) italiano. Per vent’anni la loro liturgia ha oscillato tra anatemi all’arcinemico Berlusconi ( che poi tanto nemico, oggettivamente, non è mai stato ma, piuttosto un concorrente al potere) paragonato a Hitler a Videla, e Te deum alla Costituzione più bella del mondo, che, nel frattempo era spesso disapplicata allegramente – e da coloro che salmodiano.

Di analisi come quelle testè ricordate, e che tenessero conto delle novità in arrivo, non risultano; se non, e alla  lontana, l’Impero  di Negri – Hardt (peraltro anch’essi pensatori non proprio ortodossi).

A questo punto occorre prendere atto della scarsa chiaroveggenza di un certo settore delle classi dirigenti, in particolare di quelli che avevano più spazio nella cultura – e nell’industria culturale – di regime. Spazio completamente negato agli altri. Ancora qualche mese fa, uno degli autori di quel libro – e di tanti altri sul tema – Alain de  Benoist, è stato attaccato – e con esso la Fondazione Feltrinelli – con un appello di insegnanti di università, perché non fosse invitato a parlare a un Convegno della Fondazione, in quanto ideologicamente di destra. Ma dato che De Benoist da trent’anni va ripetendo proprio quelle tesi che successivamente sono state confermate dai fatti,, sarebbe il caso, per i suoi contestatori, che lo andassero ad ascoltare, dato che i suoi libri non hanno probabilmente mai letto, e sicuramente non hanno capito.

Discriminare ideologicamente, quando le analisi eretiche, confortate dai fatti, provano il contrario, è solo imitare donna Prassede che, come scrive  Manzoni, aveva poche idee ma a quelle era – come agli amici – incrollabilmente affezionata.

E più ancora, che se politici ed intellos  non hanno previsto nulla di quello che stava accadendo – non fosse altro che per attutire la loro caduta prevedibile e da altri prevista – le spiegazioni possibili sono soltanto due, non antitetiche ma concorrenti. La prima che la loro “cassetta degli attrezzi”, cioè, in massima parte, il marxismo e un certo illuminismo in parte distorto, in altre depotenziato, non è il migliore paio d’occhiali per leggere la realtà e la storia. L’altra, che quella cassetta non la maneggino bene. Ovvero che i risultati negativi non sono dovuti allo strumento ma all’operatore. Il che conforta la necessità di cambiare la classe dirigente italiana – o almeno gran parte di essa.

Perché, caro Carlo,  al contrario del criterio selettivo di Deng-Tsiao-Ping che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi, in Italia da tanti decenni si applica il contrario: di scegliere il gatto in base al colore, invece che alla capacità di cacciare i topi.

E i risultati, purtroppo per la nazione, si vedono.

Un caro saluto,

Teodoro Klitsche de la Grange

***

 Caro Teodoro,

lungi da me l’idea di voler difendere la sinistra, ma questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi.

Eppure tu sei, come me  buon lettore,  di Pareto.  Potranno mai cadere i due principali residui   psico-sociologici  da lui individuati? L’istinto delle combinazioni  e la persistenza degli aggregati?  Il primo rimanda alla psicologia e pratica  progressiste, il secondo a quelle conservatrici.  E Pareto, fornisce esempi storici di un destra-sinistra, che va al di là delle etichette, ma che  esiste, anzi pre-esiste, in  natura sociale e politica,   risalendo fino agli antichi romani.  Altro che Marx e  Schmitt…  Certo, le loro analisi sono  interessanti, ci mancherebbe altro.  Ma, ecco il punto,  limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx).  Non scorgono altro. Semplificando,  Pareto parla a tutti.   Schmitt e Marx al proprio pubblico.

Inoltre,  le idee dell’inutilità della sinistra e della destra  e  del  cosiddetto conflitto élite  vs popolo, non è che risalgano al convegno di Perugia,  che anch’io ricordo bene (con l’editore, Antonio Pellicani, bella e dotta persona)… Ma, per dirla con Pareto, rimandano  a una  derivazione,  o razionalizzazione ex post,  inventata e usata  dalle destre reazionarie, bonapartiste, fasciste e populiste per andare contro la legittimazione  liberale della democrazia rappresentativa post-1789.
Ovviamente, come aveva giustamente visto Ortega,  siamo davanti a una  derivazione, di volta in volta, sadicamente rimescolata come un  mazzo di vecchie carte, con le grandi questioni sollevate  dalla società di massa, ma sempre nei  termini di pesanti offensive  contro le  élite liberali. A prescindere.
Ciò spiega, perché  il  populismo, continuazione del fascismo con altri mezzi (per ora), insista sulla fine delle dicotomia destra-sinistra e, quando si dice il caso, sul superamento del Parlamento.

Non capisco, come un liberale del tuo valore,   rilanci, contro la   sinistra,  le stesse  critiche dei populisti e ancora prima dei fascisti. In Italia, il Centrosinistra (senza trattino…),  sta  pagando  il   prezzo per  aver governato  sette anni, portando fuori il paese dalla crisi: i dati economici, fino a giugno, sono a lì a confermarlo.  Opera non indolore, ma necessaria. E dunque meritoria. Facendo per giunta fronte, non sempre linearmente (lo ammetto), contro il populismo.   A differenza, caro Teodoro,  di quella  plutocrazia demagogica, per dirla sempre con Pareto,  che invece nel Primo Dopoguerra, pur di restare al comando, si alleò con Mussolini. Va detto che anche allora molti liberali non capirono la gravità del momento. E il prezzo da pagare  fu molto salato.

Pertanto,  se ora,  c’è una critica da fare alla  sinistra è proprio quella di strizzare l’occhio ai populisti. Scelta  che implica, l’accettazione della  tesi reazionaria, anche a sinistra,  del  superamento della dicotomia destra-sinistra. Certo,  non nego che il PD –  o una parte del PD –   sostenga di voler aprire un dialogo con le forze di sinistra  interne a Cinque Stelle, puntando su una specie di populismo al quadrato, appena temperato da un  antifascismo di maniera contro Salvini, l’altro azionista di maggioranza.

In realtà, facendo  così, la sinistra spiana la strada al populismo (come se già non bastasse il notevole lavorio della destra post-berlusconiana, perfino liberale…). Non  la si apre di certo  a una sinistra riformista, democratica, rispettosa delle istituzioni rappresentative,  dell’economia di mercato  e, cosa più importante dell’esistenza stessa del principio  di  alternanza (che secondo Sartori, e non solo, definisce la democrazia dei moderni).   Si spiana la strada invece  a quello che tu, incautamente, chiami “nuovo armamentario”,  che invece, come insegna Pareto, nuovo non è.  E poi,  perché gli italiani dovrebbero preferire la copia all’originale?   Questo –  scusami –  dovevi scrivere nel tuo articolo.

Quanto al colore del gatto, caro Teodoro, non tutti i gatti sono uguali. Mussolini era un gattone, nero, che  dopo aver cacciato i topolini rossi, se la prese con quelli bianchi, rosa, gialli,  e via discorrendo. Il colore conta,  eccome.

Ricambio il caro saluto.

Carlo Gambescia

La replica di Teodoro Klitsche de la Grange  e la  controreplica di Carlo Gambescia

Che c’entrano Marx, Schmitt e Pareto  con la crisi della sinistra? 

Caro Carlo, la tua stimolante e dotta risposta al mio articolo, da te titolato “La crisi della sinistra” mi dà il diritto “forense” alla replica (*)
Tu inizi col criticare “questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi” e continui poi col contrapporre la tesi di Pareto (sui residui) per cui “Potranno mai cadere i due principali residui   psico-sociologici da lui individuati? L’istinto delle combinazioni e la persistenza degli aggregati?  Il primo rimanda alla psicologia e pratica progressiste, il secondo a quelle conservatrici” mentre le analisi di Marx e Schmitt sarebbero “limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx).  Non scorgono altro. Semplificando, Pareto parla a tutti.   Schmitt e Marx al proprio pubblico”.

Ma non è così: le analisi di Marx e Schmitt hanno carattere universale (o almeno pretendono di averlo). La lotta di classe è secondo Marx, una costante storica; l’amico-nemico di Schmitt una regolarità (Miglio) e presupposto (Freund) del politico, come tu ben sai.

Quello che fa la differenza tra le varie opposizioni è il contenuto della distinzione: per quella borghese/proletario è la proprietà dei mezzi di produzione, mentre per le altre ricordate nel Manifesto del partito comunista la scriminante è la libertà personale (liberi e schiavi), l’appartenenza gentilizia (patrizi e plebei), il ruolo politico (baroni e servi della gleba) e così via. Ancor più vario il contenuto della distinzione schmittiana che, non essendo economicista, è aperta ad ogni dicotomia (a fondamento religioso, economico, sociale) che sia in grado di contrapporre i gruppi sociali secondo il “criterio del politico”. Per cui proprio non le vedo le tesi di Schmitt e Marx limitate alla storia europea moderna. Quanto alla distinzione destra/sinistra, notoriamente risalente alla divisione tra partiti nel Parlamento francese all’epoca della restaurazione, tra liberali e ultras – conservatori, mi pare:

  1. a) che sia generica al punto di equivocare sul dato fondamentale: quel’è il fondamentum distinctionis della contrapposizione? Per i liberali e gli ultras era il potere del Parlamento o del Re; per i borghesi e i proletari la proprietà dei mezzi di produzione.
  2. b) Riportarla ai residui paretiani da te citati, è anch’esso generico e facilmente contestabile. Oggi appartiene alla “persistenza degli aggregati” sia considerare decisiva per la distinzione suddetta la proprietà dei mezzi di produzione (lascito del “secolo breve”), sia il querulo richiamo allo Stato sociale e ancor più l’implementazione di questo con una fiscalità rapace e la compressione di prestazioni e garanzie giuridiche, ampiamente praticate nella “seconda repubblica”, sia i peana alla “Costituzione più bella del mondo” che tale non era, ma, ancor più, è stata ampiamente disapplicata (in peggio) – dalla “seconda repubblica”, ancor più che dalla prima.

Peraltro, in politica si giudica in base ai risultati più che all’intenzione. E tutti i dati – da ultimo quelli pubblicati sul numero dell’ “Espresso” ora in edicola, mostrano che la “seconda repubblica” ha avuto i peggiori risultati economici tra tutti i paesi dell’UE, che il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato negli ultimi dieci anni, e così via. Pensare che di fronte a un tale sfascio non vi sia una incapacità di comprensione (e una responsabilità) della sinistra, magna pars del potere e del governo, è un giudizio troppo benevolo.

In realtà, ma occorrerebbe molto spazio per argomentare è che, gli ultimi decenni al criterio borghese proletario se ne sia sostituito un altro. Proprio come è sotteso al successo populista. Prenderne atto, e agire di conseguenza, è urgente. Pretendere di valutare la nuova situazione con lo sviluppo concreto e lo strumentario concettuale del secolo breve, come fa l’establishment della sinistra di regime, è imitare donna Prassede, come ho scritto. O, più paretianamente, si può considerare un caso-limite di persistenza degli aggregati.

Con la concreta stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

***

Grazie Teodoro della gentile e,  come tuo stile, forbita replica.   

Vengo subito al punto, anzi ai punti.

Marx, Schmitt, Pareto (P.S. Su Freund, da te introdotto, va fatto un discorso a parte e in altra sede).  È vero che il conflitto di classe e il conflitto  amico-nemico sono considerati, rispettivamente da Marx e Schmitt, regolarità e costanti, ma d’altra parte   Marx e  Schmitt,  non le  riconducono  al concetto sociologico, realmente universale,  di conflitto, che, come vedremo non sta in piedi da solo. Mi spiego.  Marx  universalizza  la sottospecie (sociologicamente parlando)  lotta  di  classe.  Schmitt, addirittura, parla, in chiave quasi metafisica,  del conflitto amico-nemico, come di un criterio assoluto di distinzione,  alla stregua del bello, del buono, eccetera, eccetera.  Ciò significa, che di conseguenza, Marx e Schmitt, sminuiscono  il concetto sociologico  di cooperazione, che è un’altra regolarità e costante che  affianca quella di conflitto.  Per Schmitt e Marx  la cooperazione è un sottoprodotto del conflitto, non è data come esistente in sé. In realtà,  ecco la lezione di Pareto fin dai Sistemi Socialisti, la dicotomia principale  non è fra le classi e  tra l’  amico e il  nemico, ma tra conflitto e cooperazione.  Non per nulla nel Trattato (ma non solo), Pareto  sottolinea la perenne ricerca,  volontaria e involontaria da parte degli uomini,  di  un punto di  equilibrio storico tra  i due fattori della cooperazione e del conflitto.  Insomma, in Pareto, conflitto e cooperazione sussistono alla pari, pur in un quadro storico e sociale, dunque reale, di non sempre facile ricomposizione. In questo senso, rispetto alle sociologie parziali di Schmitt e Marx, Pareto parla  al mondo.  Inoltre,  l’età antica, per la maggioranza degli  storici  non ha conosciuto la lotta di classe nel senso marxiano. Quanto a Schmitt, i suoi “processi di neutralizzazione” rinviano, a grandi linee,  al mondo post-vestfaliano. Di ben altro respiro,  come tu ben sai,  risulta essere l’approccio storico e sociologico di Pareto (direttore, rispettatissimo, tra l’altro, delle celebre Biblioteca di Storia Economica della Società Editrice Libraria).  Pareto,  insisto, che  proprio per questo continua a a parlare  al mondo e  non ai soli  devoti della lotta di classe e del conflitto per il conflitto. In questa chiave, come per la filosofia di Nietzsche, la sociologia di Pareto è per tutti e per nessuno. Insomma, per chi voglia porsi in ascolto…

Quanto ai contenuti, di cui tu dibatti,  ritengo ben più profondi quelli individuati da Pareto nella sua classificazione dei residui e delle derivazioni. Vi si parla di  forme di mentalità e modelli di razionalizzazione, semplificando, di destra e sinistra,  che assumono valore trans-storico, cioè che ritroviamo in tutte le epoche.  Pareto ci spiega, e con una forza argomentativa inaudita, che la persistenza degli aggregati ( alla base del pensiero e del comportamento di tipo conservatore) e l’ istinto delle combinazioni ( alla base del pensiero progressista) praticamente, sono eterni, se preferisci, ripeto,  trans-storici. Ne consegue, che  destra e sinistra vivono e lottano tuttora insieme a noi.  Altro  che le sociologie parziali di    Schmitt e   Marx, i parlamenti  della Restaurazione, i rapporti di proprietà, eccetera, eccetera.  Sul piano sociologico, per usare un termine dell’amico Fabio Brotto, siamo davanti, caro Teodoro,  a una distinzione ontologica, non in senso metafisico, mi permetto di specificare,  ma sociologico.

I   numeri riportati  dall’ “Espresso” –  che nemesi  per un collaboratore e lettore del  “Borghese”  come tu sei… –   sulle  performance non entusiasmanti della Seconda Repubblica sono la classica scoperta dell’acqua calda.  In una situazione di semi-guerra civile (belusconiani vs antiberlusconiani ) e di crisi economica mondiale (nell’ultima parte, dal 2008),  in realtà,  ci siamo abbastanza difesi,  in particolare grazie ai governi di centrosinistra, soprattutto negli ultimi due anni (2016-2017). In argomento,  ti rinvio all’ottimo articolo  dell’economista Marco Fortis, corredato di cifre e grafici, apparso sul “Foglio” venerdì 31 agosto (**) .

Ciò  che invece dovrebbe preoccuparti, caro Teodoro, non è la sinistra,  che pure ha i suoi problemi, che però consistono, non nel rifiuto del populismo, ma nel rischio di una sua accettazione, elevata al quadrato:  una specie terzomondismo pauperista con sessant’anni di ritardo.  Dicevo, ciò che invece dovrebbe preoccuparti   sono le future performance della “Terza Repubblica” pentaleghista (per semplificare).   Parlo di  un pittoresco, ma pericoloso,  governo di asini ed energumeni, chiaramente orientato a destra,   su posizioni (per ora) di fascismo perseguito con altri mezzi: quelli del populismo. Un governo  pieno zeppo, direi saturo,  di persistenza degli aggregati, a cominciare dal  nazionalismo e dal  protezionismo economico.

Governo, che tu, liberale a tutto tondo, quindi “naturalmente” nemico del populismo,   continui invece sui Social,  se non a difendere, a giustificare,  puntando su una euristica debitrice di categorie cognitive populiste all’insegna del transeunte.  Altro che la trans-storicità della sociologia paretiana.

Con  pari  stima  e  grande amicizia.

Carlo Gambescia

LA GUERRA, UN EVENTO TANTO PRESENTE QUANTO RIMOSSO; ALMENO IN EUROPA_CONVERSAZIONE CON PIERO VISANI

Qui sotto una interessante intervista a Piero Visani; analizza la situazione politica in Europa e in Italia partendo, soprattutto dai limiti di formazione delle classi dirigenti europee. La rimozione di un concetto e di un evento presente nella storia dell’umanità, la guerra, ha contribuito pesantemente a procrastinare la condizione di subordinazione delle classi dirigenti nazionali europee, in particolare dell’Italia. Piero Visani, tra gli altri, è autore del libro “Storia della Guerra”, edito da DAKS.

Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

1 220 221 222 223 224 240