Italia e il mondo

Rassegna stampa tedesca 39 A cura di Gianpaolo Rosani

La prima apparizione ufficiale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump al vertice del G7 in
Canada è bizzarra. Dopo un incontro bilaterale di 25 minuti con il premier canadese Mark Carney,
Trump dà il via a una conferenza stampa improvvisata. Nel corso della stessa, il presidente, che
vorrebbe annettere il Canada come 51° Stato degli Stati Uniti, dichiara di essere disposto a
raggiungere un “accordo” sulla questione dei dazi. Trump afferma inoltre che è stato un errore
espellere la Russia dall’ex comunità del G8 e che non avrebbe nulla in contrario se anche la Cina
fosse presente. Sulla questione mediorientale si schiera dalla parte di Israele. Il commento di un
professore tedesco che insegna in America: “Gli Stati Uniti e il loro ordine liberale e democratico
sono chiaramente in bilico. L’amministrazione Trump assomiglia sempre più al governo
incompetente e caotico di una repubblica delle banane autocratica e corrotta. Trump stesso si
comporta sempre più come lo stereotipo di un boss mafioso spietato e opportunista, ma a volte
anche bonario”.

18.06.2025
Trump guida il G7 e poi se ne va
Vertice Il presidente degli Stati Uniti si concede una bizzarra apparizione in Canada. Tuttavia, i
partecipanti raggiungono inaspettatamente un accordo su una dichiarazione congiunta sulla guerra tra
Israele e Iran.

DI EVA QUADBECK
Kananaskis. La prima apparizione ufficiale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump al vertice del G7 in
Canada è bizzarra. Proseguire cliccando su:

Nel secondo giorno del vertice, il G7 è diventato G6 a causa dell’assenza di Trump; nei circoli
governativi tedeschi si era certi che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe
partecipato “per intero” al vertice del G7, che non sarebbe partito prima del tempo e che avrebbe
rispettato il programma. Ma lunedì sera è successo qualcosa di diverso: il presidente ha
annunciato la sua partenza, lasciando il vertice dopo la cena con gli altri capi di Stato e di governo.
Come motivo sono state indicate soprattutto le divergenze sulla politica in Ucraina. Colto di
sorpresa, il cancelliere tedesco Friedrich Merz si ritrova così a dover gestire la situazione insieme
agli altri capi di Stato e di governo.

18/19 giugno 2025
Gli Stati Uniti partecipano alla guerra di Israele
contro l’Iran?
Per paura di ulteriori attacchi, molti abitanti hanno lasciato Teheran. Nel frattempo, il presidente degli
Stati Uniti è chiamato a prendere una decisione importante

TEL AVIV/TEHERAN (dpa)
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato di volere una “fine definitiva” del programma
nucleare iraniano. Proseguire cliccando su:

La potenza relativamente modesta della prima rappresaglia iraniana ha già provocato immagini
che Israele conosce soprattutto dai paesi che esso stesso bombarda. . Secondo un osservatore
ben informato a Teheran, la capitale iraniana sta cercando di trattare Israele e Stati Uniti
separatamente. Il leader supremo Ali Khamenei, nel suo discorso registrato venerdì sera in un
luogo segreto, si è notevolmente trattenuto dalle accuse contro Washington.

16 giugno 2025
Molti morti in Iran e Israele dopo ulteriori
attacchi aerei Teheran vuole una tregua /
Attacco a un giacimento di gas iraniano / Gli
Stati Uniti aiutano nella difesa

cmei. kaIro. Domenica Israele e Iran si sono nuovamente scontrati con gravi attacchi. Numerosi missili
balistici iraniani hanno superato la difesa missilistica israeliana. Proseguire cliccando su:

Chi festeggia questa guerra con la speranza di un cambio di regime dall’esterno non ha imparato
nulla dagli ultimi decenni. Le guerre non vincono le rivoluzioni, stabilizzano le dittature. Quale
paese del Medio Oriente è diventato democratico grazie a interventi militari dall’esterno? Esatto,
nessuno.

16.06.2025
Qual è l’obiettivo? Le bombe non abbattono le
dittature
Per aumentare la propria sicurezza nella regione, Israele ha attaccato l’Iran nella notte tra giovedì e
venerdì. La Repubblica islamica ha risposto al fuoco. Da entrambe le parti muoiono civili. Dove porterà
questa guerra?

Commento di Daniela Sepehri sull’attacco israeliano all’Iran
Mia madre vive in esilio in Germania da 30 anni. Quando ha saputo che la ventiquattrenne insegnante
Parnia Abbasi era rimasta uccisa nell’attacco israeliano alla Repubblica islamica, mi ha chiamato. Proseguire cliccando su:

Benjamin Netanyahu afferma che sono stati costretti a un attacco preventivo. Dal punto di vista del
diritto internazionale, ciò non è sostenibile: un attacco preventivo è consentito solo se un attacco è
imminente. Ma il diritto internazionale in questi giorni è solo roba da femminucce e professori. Vale
la legge del più forte. “Il vero nemico che abbiamo non è l’Iran, non è Hezbollah, non è Hamas”, ha
affermato l’ex primo ministro Ehud Olmert lo scorso autunno, quando Netanyahu stava già
preparando l’attacco contro l’Iran. “Il vero nemico viene dall’interno, dai gruppi messianici, folli ed
estremisti di israeliani: il governo Netanyahu”. Questo primo ministro ha posto fine all’accordo
nucleare con l’Iran nel 2018 insieme a Donald Trump. Vengono bombardati depositi di gas e
petrolio che non hanno nulla a che fare con le armi nucleari. Una regione senza la “guida suprema”
Ali Khamenei non sarebbe necessariamente migliore. Basta guardare alla Libia e all’Iraq per
rendersi conto che le cose possono sempre peggiorare. Per la regione, un Iran che sprofonda
nell’anarchia sarebbe un disastro, ma per Netanyahu non sarebbe un risultato negativo. Israele
non vuole il diritto internazionale, vuole sottomettere e umiliare. Costruisce fortezze e sta
diventando esso stesso una fortezza. Vuole il potere assoluto. A Gaza muoiono quasi ogni giorno
persone che fanno la fila per il cibo. Perché preferiscono essere uccisi piuttosto che morire di
fame.

16.06.2025
Israele continua gli attacchi, l’Iran risponde
Tra i morti della guerra aerea figura ora anche il capo dei servizi segreti delle Guardie rivoluzionarie
iraniane. Il presidente degli Stati Uniti invita nuovamente Teheran a un accordo sul nucleare. L’UE
convoca una riunione di crisi.

Di Kristiana Ludwig – Tel Aviv
Domenica Israele e Iran hanno continuato i reciproci attacchi aerei. Secondo quanto riferito dall’esercito
israeliano, sono stati nuovamente colpiti obiettivi nella capitale iraniana Teheran. Proseguire cliccando su:

Dal quotidiano berlinese riportiamo una serie di articoli e commenti sugli eventi in Medio Oriente:
Merz teme attacchi dell’Iran contro strutture in Germania; L’attacco di Israele al regime di Teheran:
la caduta dei mullah sarebbe una benedizione; Sotto pressione: quali opzioni restano ai governanti
iraniani?; Paura di un’escalation: gli Stati arabi temono una guerra regionale; Attacco all’Iran:
Israele ha tradito Trump?; Guerra in Medio Oriente: ecco le conseguenze per i prezzi, l’economia e
l’occupazione.

16.06.2025
«Obiettivi ebraici e israeliani»: Merz teme
attacchi dell’Iran contro strutture in Germania

Alla luce dell’escalation del conflitto israelo-iraniano, secondo le parole del cancelliere federale Friedrich
Merz (CDU), la Germania si sta preparando all’eventualità che l’Iran prenda di mira obiettivi israeliani o
ebraici in Germania. Proseguire cliccando su:

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Un commento esteso di WS all’articolo di Simplicius del 19 giugno

Mio commento esteso all’ articolo di Simplicius di ieri, 19 giugno

Qui occorre rispondere a due domande

1) Perché l’Iran si è cacciato in questi pasticci?

2)Perché Cina, ma soprattutto Russia, non si agitano in suo favore?

La risposta alla prima domanda sarà propedeutica alla seconda.

1) L’ Iran è finito in questo pasticcio per SUA esclusiva responsabilità e Hua Bin, nel suo substack,lo ha spiegato benissimo dal suo punto di vista (cinese), come pure Putin l’ha accennato, sia pure in modo molto più sfumato giusto ieri: l’IRAN è una nazione millenaria; crede di essere bastante a se stessa, ma, aggiungo io, è un stato attualmente diviso tra due “fazioni” che ricalcano la “solita” divisione tra “ ottimati” e “plebe” , seppur entrambe accettino, dopo la rivoluzione komeinista , il potere del “clero” espresso dalla guida “suprema”.

Le due fazioni si possono definire l’una “bazaristi”, equivalente delle nostre borghesie compradore, l’altra “nazionalisti”, espressione dei ceti medi e bassi.

I “bazaristi” però esprimono anche l’ intero ALTO clero sciita; spesso si fondono in entrambe le cose : grandi “compradori” e “alto clero”.

I “nazionalisti” dal canto loro esprimono i quadri militari grazie al loro sacrificio nella guerra Iran-Irak grazie al quale hanno salvato il paese; hanno però poco peso in quel Consiglio Supremo che tramite la “guida suprema” comanda effettivamente il paese.

Il guaio dell’Iran è che un ormai senile Kameney è pressoché totalmente influenzato dai “bazaristi” .

Costoro NON vogliono rompere con “l’ occidente” perché disastroso per i loro affari “esteri” e NON vogliono una svolta “socialnazionalista” perché disatrosa per i loro “affari interni”.

Solo per questo l’ Iran NON ha seguito il pattern della NK e il popolo iraniano si trova in grosse ambasce: fare “la bomba” avrebbe comportato sottoporsi ad un assedio economico superabile solo con una rigida svolta “socialista”.

Non c’è solo il problema della mancata “bomba”; c’è il grosso handicap che per restare al potere i “bazaristi” hanno corrotto l’intero paese ingessandolo sotto una cappa “teocratica” che sostanzialmente protegge il loro potere.

Quando infatti , in seguito alle “guerre di Bush, “il progetto nucleare iraniano è stato seriamente ripreso da Amadinejad c’era una iniziale concordia su questo tra le due fazioni; le “severe sanzioni” hanno danneggiato i “bazaristi” i quali hanno cercato un appeasement con l’amministrazione Obama. Il clero “bazarista” ha ripreso quindi il potere tramite la “guida suprema” che ha sbattuto fuori dalla cerchia politica i “nazionalisti” e tutta la manfrina ( JPCOA o come cavolo si chiamava) di allora portò all’ “ accordo” poi clamorosamente violato dagli americani. Un esito che scatenò la rabbia dei nazionalisti.

Costoro avevano un “campione” contro cui Kameney non poteva mettere alcun veto : Sulem

Hanno provveduto gli americani a liquidare l’intruso, mettendo così al sicuro il potere dei “bazaristi” .

Kameney, d’altronde, non poteva consegnare “tutto il potere ai moderati” : i militari si sarebbero sollevati. Il compromesso è consistito nel promuovere i “bazaristi” più vicini alla fazione “nazionalista” ( Raisi & Co )

La “guerra di Gaza” ha però spinto l’Iran di Raisi&co verso una posizione “dura” che nuoceva agli “affari” dei “bazaristi”. Anche questa volta gli americani, o chi per loro, hanno liquidato quel governo con un “incidente” .

Cosa ha fatto allora la “guida suprema” ? Ha riconsegnato il potere ai” bazariti moderati ““tout court”!

I quali hanno “disimpegnato” l’ Iran dalla guerra . Ecco la ragione della caduta “sorprendente” del Libano prima, della Siria poi.

Ma ai “bazaristi” questo poco importava, importava solo “trattare” e lasciare aperto il paese agli “affari”.

Siamo arrivati così al 13 giugno 2025 quando un “imprevedibile” attacco israeliano ha decapitato il paese MA SOLO nei suoi vertici militari appartenenti alla “fazione avversa”; “ il prete” attualmente al potere e tutti i suoi accoliti NO.

E cosa fanno costoro ORA? “RItrattano “ ancora con il “grande satana “ come prima; “sottobanco” però, per non innescare la reazione dei militari.

A questo punto a me sembra chiaro che una parte dei “bazaristi” sia collusa con il “grande satana” il quale magari avrà dato loro “assicurazioni” che riportando il paese nel “campo occidentale” sarebbero rimasti comunque al potere ( auguri! )

Difficile invece capire se anche “ la guida suprema” sia della partita o semplicemente si tratti solo di un vecchio male informato. In ogni caso non è molto importante.

2) Adesso capite perché né Cina né Russia si agitano più di tanto? Per quanto il collasso de l’Iran sarebbe una jattura per loro , che senso avrebbe intervenire PRIMA che sia fatta chiarezza all’interno di una elite tanto contorta ed inaffidabile?

Britannici e ucraini stanno complottando per manipolare Trump e spingerlo ad attaccare la Russia_di Andrew Korybko

Britannici e ucraini stanno complottando per manipolare Trump e spingerlo ad attaccare la Russia

Andrew Korybko18 giugno
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A questo scopo, secondo le spie russe, nel Mar Baltico si stanno architettando due scenari sotto falsa bandiera.

L’Agenzia di Intelligence Estera russa (SVR) ha avvertito che britannici e ucraini stanno preparando due scenari sotto falsa bandiera nel Mar Baltico. Il primo prevede l’esplosione di siluri sovietici/russi trasferiti dall’Ucraina vicino a una nave statunitense, e la successiva scoperta di un siluro presumibilmente malfunzionante che implichi la Russia nel presunto attacco. Il secondo, invece, prevede mine sovietiche/russe trasferite dall’Ucraina, recuperate nel Mar Baltico e presentate come prova di un complotto del Cremlino per sabotare il trasporto marittimo internazionale.

Queste perfide provocazioni vengono impiegate per manipolare Trump e spingerlo a intensificare le tensioni contro la Russia dopo che il Segretario alla Difesa Pete Hegseth ha annunciato a metà febbraio che gli Stati Uniti non estenderanno le garanzie di difesa reciproca previste dall’Articolo 5 alle truppe dei paesi NATO che potrebbero essere schierate in Ucraina. Questo scenario era quello inizialmente pianificato per indurlo a ritirarsi dai colloqui con Putin e poi raddoppiare il sostegno all’Ucraina, ma il suo team lo ha preventivamente sventato con l’annuncio di Hegseth.

Ecco perché sono in corso tentativi di organizzare un attacco sotto falsa bandiera contro una nave statunitense nel Baltico e/o di incriminare la Russia come una minaccia per il trasporto marittimo internazionale attraverso lo sfruttamento delle sue miniere in quella zona. Tuttavia, il Baltico è già un cosiddetto “lago NATO” da prima ancora dell’adesione di Finlandia e Svezia, data la loro precedente appartenenza ombra all’Alleanza, quindi è irrealistico che la Russia possa davvero portare a termine una di queste due operazioni senza essere scoperta, anche volendo. Ecco alcuni briefing di contesto:

* 11 marzo: “ Le spie russe avvertono che il Regno Unito sta cercando di sabotare la ‘nuova distensione’ prevista da Trump ”

* 24 marzo: “ Il consigliere senior di Putin, Patrushev, ha condiviso alcuni aggiornamenti sui fronti artico e baltico ”

* 22 aprile: “ L’Estonia potrebbe diventare il prossimo punto critico dell’Europa ”

* 1 giugno: “ Il rafforzamento militare della Russia lungo il confine finlandese diventerà probabilmente la nuova normalità ”

* 3 giugno: “ I colloqui russo-ucraini sono in una situazione di stallo che solo gli Stati Uniti o la forza bruta possono superare ”

In sintesi, descrivono in dettaglio l’evoluzione contestuale di questo scenario, dai precedenti avvertimenti dell’SVR sull’intenzione del Regno Unito di sabotare i colloqui russo-americani sull’Ucraina alle motivazioni degli attori regionali (Estonia e Finlandia) nell’accettare tale proposta, per finire con l’impasse diplomatica che definisce l’attuale stato di cose. A questo proposito, se gli Stati Uniti non costringeranno l’Ucraina alle concessioni che la Russia esige per la pace, ma non si laveranno le mani da questo conflitto, allora potrebbero benissimo raddoppiare il loro coinvolgimento.

Le ipotesi plausibili secondo cui Trump fosse a conoscenza in anticipo degli attacchi strategici con droni dell’Ucraina contro la Russia, unite alle recenti ipotesi secondo cui avrebbe ingannato l’Iran con una diplomazia ambigua, non ispirano molta fiducia in lui personalmente, poiché potrebbe anche essere coinvolto in questi complotti sotto falsa bandiera. Nonostante la bonomia di Putin con Trump, recentemente espressa attraverso la loro ultima chiamata , alcuni in Russia stanno iniziando a sospettare che Trump stia facendo il doppio gioco.

È quindi imperativo che si impegni preventivamente a non intensificare l’escalation contro la Russia se uno di questi due scenari sotto falsa bandiera dovesse concretizzarsi, proprio come Hegseth ha preventivamente scongiurato il dispiegamento di truppe dei paesi NATO in Ucraina (almeno per ora) dichiarando che l’Articolo 5 non si estenderà a loro. Non è chiaro se Trump abbia letto l’avvertimento di SVR o se possa contare sui suoi consiglieri per essere informato (a meno che Putin non glielo abbia già detto), quindi potrebbe non esserne nemmeno a conoscenza e potrebbe quindi essere manipolato.

Chi decide davvero cosa significa “America First”?

Andrew Korybko17 giugno
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Si può sostenere che la base e gli influencer di spicco che canalizzano i loro interessi (e a volte aggiungono la propria opinione) definiscano il MAGA, ma Trump è l’unico ad avere il potere di implementarlo su larga scala e ora crede di saperne più di loro.

Trump ha recentemente dichiarato a The Atlantic : “Considerando che sono stato io a sviluppare il concetto di ‘America First’, e considerando che il termine non è stato utilizzato fino al mio arrivo, credo di essere io a decidere. Per coloro che dicono di volere la pace, non si può avere la pace se l’Iran ha un’arma nucleare. Quindi, per tutte quelle persone meravigliose che non vogliono fare nulla per impedire all’Iran di possedere un’arma nucleare, quella non è pace”. Questo in risposta alla veemente opposizione all’interno del MAGA (Make America First) riguardo a una possibile guerra calda con l’Iran .

Le sue osservazioni hanno preceduto la dichiarazione di Tucker Carlson a Steve Bannon, entrambi con un’enorme influenza sul MAGA, secondo cui una guerra del genere avrebbe “segnato la fine dell’Impero americano” e della presidenza di Trump. Ciò ha spinto Trump a rispondere sui social media come segue: “Qualcuno per favore spieghi a quel pazzo di Tucker Carlson che ‘L’IRAN NON PUÒ AVERE UN’ARMA NUCLEARE!'”. Chiaramente, il MAGA è ora diviso su chi decida esattamente cosa significhi “America First”: Trump o i principali influencer che canalizzano gli interessi della sua base.

I sostenitori più zelanti di Trump credono che ogni membro del MAGA dovrebbe “fidarsi del piano”, come ha notoriamente esortato QAnon , e insistono sul fatto che il loro eroe politico ne sappia più di loro, grazie al suo accesso alle informazioni più riservate al mondo. Al contrario, i loro detrattori – che pure rispettano profondamente Trump e sono grati del suo ritorno alla Casa Bianca – credono che sia stato manipolato dalle forze contrarie al MAGA durante il suo primo mandato, il che spiega la loro preoccupazione per una sua possibile nuova manipolazione.

A prescindere dal coinvolgimento o meno degli Stati Uniti in una possibile guerra calda con l’Iran, che è ciò per cui Netanyahu sta chiaramente facendo pressioni e che avrebbe potuto aspettarsi, viste le notizie secondo cui Israele non può distruggere il programma nucleare iraniano senza bombe anti-bunker americane, il MAGA è ora diviso al suo interno. Ogni fazione ritiene che l’altra sia sleale nei confronti del movimento, a modo suo, dubitando del suo leader e accettando ciecamente tutto ciò che dice.

Sebbene Trump sia formalmente a capo del MAGA, ha solo coniato il nome del movimento e ne ha diffuso le piattaforme, ben prima della sua prima campagna elettorale. Ecco perché il gruppo di “dissidenti” e “puristi” di Tucker-Bannon non esita a sfidarlo e persino a condannarlo per aver deviato da queste posizioni. Allo stesso tempo, i suoi sostenitori più zelanti sostengono che la realtà attuale a volte richiede “pragmatismo”, “flessibilità” e persino “compromessi” su queste stesse posizioni, nel perseguimento del “bene superiore del MAGA”.

Trump è convinto (giustamente, secondo la valutazione dell’intelligence israeliana, o erroneamente, secondo la stessa intelligence statunitense) che l’Iran stia davvero cercando segretamente di costruire armi nucleari, il che, se fosse vero, potrebbe limitare notevolmente la libertà d’azione degli Stati Uniti nell’Asia occidentale e quindi – a suo avviso – minare gli obiettivi del MAGA. Il fronte Tucker-Bannon non è d’accordo ed è preoccupato non solo per i costi di una guerra calda con l’Iran, ma anche che questo sia ciò che minerebbe i veri obiettivi del MAGA (intesi come incentrati sul territorio nazionale), non un Iran potenzialmente nucleare.

La vera divisione all’interno del MAGA non riguarda l’Iran, ma chi decide cosa significhi “America First”, con l’Iran che funge da catalizzatore per portare in primo piano questo dibattito a lungo covato. La base e i principali influencer che canalizzano i loro interessi (e a volte aggiungono il proprio contributo) definiscono probabilmente il MAGA, ma Trump è l’unico ad avere il potere di implementarlo su larga scala, e ora crede di saperne più di loro. Questa divisione a somma zero rischia di spaccare in modo inconciliabile il movimento se uno dei due non cede.

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Criticare il punto di vista di Trump su Russia, G7 e Ucraina

Andrew Korybko20 giugno
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Il punto di Trump è confuso: è sensato, incompleto e disonesto, tutto allo stesso tempo.

Trump ha scioccato i suoi colleghi del G7 durante il loro ultimo vertice quando ha affermato che la Russia è una nazione speciale L’operazione non sarebbe avvenuta se Putin non fosse stato espulso dal gruppo nel 2014. Ha descritto la loro decisione come un errore, ha affermato che ha complicato la diplomazia rimuovendolo dal tavolo e ha aggiunto che Putin era così offeso che ora “non parla con nessun altro” tranne lui. Il punto di Trump è sensato ma incompleto e probabilmente persino disonesto per certi versi, per le ragioni che ora verranno spiegate.

Innanzitutto, è logico sostenere che il conflitto ucraino non si sarebbe intensificato se Putin avesse continuato a incontrarsi annualmente con i suoi ex colleghi del G7 per discuterne in quella sede, ma questo ignora il fatto che alcuni di questi stessi colleghi lo stavano manipolando per tutto il tempo. L’ex presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno poi ammesso che gli Accordi di Minsk da loro sottoscritti erano solo uno stratagemma per guadagnare tempo e riarmare l’Ucraina prima di riconquistare il Donbass.

Questo ci porta al punto successivo sugli Accordi di Minsk, stipulati dopo che i due si erano incontrati con Putin in persona, contraddicendo così l’affermazione di Trump secondo cui Putin si sarebbe sentito così offeso dall’espulsione dal G7 da non parlare più dell’Ucraina con nessuno dei suoi ex colleghi di quel gruppo. In realtà, è rimasto vicino alla Merkel e in seguito si è lamentato di essere stato ingannato da lei, che credeva davvero condividesse i suoi interessi nella risoluzione politica del conflitto per poi normalizzare le relazioni tra Russia e Unione Europea.

Andando avanti, sebbene Putin abbia dichiarato a fine dicembre 2017 di non essere contrario alla partecipazione formale degli Stati Uniti al formato Normandia Four, in quanto già parte integrante dell’accordo grazie al suo coinvolgimento nel conflitto, non sono stati compiuti progressi tangibili in tal senso. Probabilmente perché all’epoca aveva valutato che gli Stati Uniti avrebbero potuto rovinare quei colloqui di pace, non rendendosi ancora conto che erano destinati a fallire fin dall’inizio, facendo pressione su Francia, Germania e Ucraina affinché non rispettassero gli accordi di Minsk.

Le osservazioni di cui sopra sono rilevanti in quanto dimostrano che Putin era impegnato in quelli che riteneva essere sinceri colloqui diplomatici sull’Ucraina con i membri del G7, Francia e Germania. Allo stesso tempo, ha anche avuto colloqui con Obama, Trump e Biden su questo conflitto, nessuno dei quali ha fatto nulla per costringere l’Ucraina a rispettare gli accordi di Minsk e quindi evitare il conflitto che sarebbe poi sopravvenuto. Trump è quindi colpevole tanto quanto il suo predecessore, il suo successore e i suoi colleghi del G7 dell’epoca.

In realtà, Trump potrebbe persino condividere un grado di colpa maggiore di chiunque altro, visto quanto è orgoglioso di aver venduto i missili anticarro Javelin all’Ucraina, cosa che ha incoraggiato Zelensky a sottrarsi ai suoi obblighi di Minsk e in seguito ha svolto un ruolo importante nel respingere alcune delle forze russe fin dall’inizio. La sua coscienza sporca potrebbe quindi spiegare perché ha cercato di scaricare la colpa dell’operazione speciale russa su altri, oltre a fare una tale scenata nel tentativo di risolvere il conflitto nonostante finora non ci sia stato alcun successo .

Con tutte queste intuizioni in mente, il punto di Trump è confuso, sensato, incompleto e disonesto allo stesso tempo. Nell’ordine menzionato: mantenere il seggio di Putin al tavolo del G7 avrebbe potuto, in teoria, evitare l’operazione speciale; ma solo se i suoi pari lo avessero sinceramente voluto, cosa che alcuni di loro non hanno fatto; e la vendita di Javelin all’Ucraina da parte di Trump ha incoraggiato Zelensky a rifiutare le richieste di pace di Putin, rendendolo così parzialmente responsabile del conflitto, cosa che il suo ego non gli permetterà mai di ammettere.

È prematuro trarre conclusioni affrettate sulla revisione di AUKUS da parte del Pentagono

Andrew Korybko19 giugno
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È improbabile che gli Stati Uniti abbandonino l’AUKUS, anche se si tratta di un gesto di buona volontà nei confronti della Cina nel contesto del “reset totale” autodichiarato da Trump nei loro rapporti, ma potrebbero ridurre il numero di sottomarini d’attacco a propulsione nucleare che forniscono all’Australia se stabiliscono che la promessa iniziale non può essere mantenuta senza problemi.

L’ annuncio del Pentagono di voler rivedere l’AUKUS nei prossimi 30 giorni per garantire che “questa iniziativa della precedente amministrazione sia allineata con l’agenda “America First” del Presidente” ha suscitato speculazioni sul fatto che gli Stati Uniti potrebbero piantare in asso Australia e Regno Unito ritirandosi da questo patto. Il suo pilastro principale prevede la vendita all’Australia di tre sottomarini d’attacco a propulsione nucleare di seconda mano, con l’opzione di acquistarne altri due. La vera importanza dell’AUKUS va oltre questa vendita di armi su larga scala.

L’AUKUS può essere concettualizzata come una “NATO asiatica” che può espandersi, formalmente o informalmente attraverso il quadro AUKUS+, per includere altri paesi come il Giappone e le Filippine che condividono l’interesse a contenere la Cina. Pertanto, sostituisce sostanzialmente il ruolo precedentemente previsto dagli Stati Uniti per il Quad, ovvero quello di piattaforma di integrazione militare regionale anti-cinese. La manifestazione più tangibile di questa alleanza in azione è la cosiddetta ” Squad” (Squadra ) recentemente costituita tra Stati Uniti, Australia, Giappone e Filippine.

Di conseguenza, l’ipotetica uscita degli Stati Uniti dall’AUKUS al termine della revisione di 30 giorni in corso al Pentagono potrebbe mandare in frantumi questi grandiosi piani strategici, potenzialmente alleviando il crescente dilemma di sicurezza tra Cina e Stati Uniti nel Pacifico occidentale, parallelamente al loro accordo commerciale appena annunciato . È prematuro giungere a questa conclusione, tuttavia, poiché Defense News ha pubblicato un articolo interessante che spiega le sfumature di questa revisione, così come percepite dal suo promotore, Elbridge Colby.

È il nuovo Sottosegretario alla Difesa per la Politica e, nel loro articolo, è stato citato per aver precedentemente espresso preoccupazione per le capacità cantieristiche degli Stati Uniti: “Se riusciamo a produrre sottomarini d’attacco in numero sufficiente e con la velocità necessaria, allora va bene. Ma se non ci riusciamo, diventa un problema molto difficile, perché non vogliamo che i nostri militari si trovino in una posizione più debole. La politica del governo degli Stati Uniti dovrebbe essere quella di fare tutto il possibile per far funzionare la cosa”.

Ciò suggerisce che sia meno interessato a uscire da AUKUS di quanto non lo sia a ridurre potenzialmente la portata del suo pilastro principale, la vendita di sottomarini d’attacco a propulsione nucleare statunitensi all’Australia, che potrebbe scendere da 3 a 5 se il Pentagono dovesse stabilire che gli Stati Uniti non sono in grado di rispettare agevolmente la promessa iniziale. Colby può essere descritto come un “falco cinese”, sebbene più razionale dei suoi colleghi dell’establishment, quindi è difficile immaginare che sia interessato a smantellare il ruolo di AUKUS come piattaforma di integrazione militare regionale.

Tuttavia, qualsiasi cambiamento pragmatico che potrebbe potenzialmente seguire alla revisione del Pentagono potrebbe essere presentato come parzialmente ispirato dalla buona volontà, nel contesto del ” reset totale ” autodichiarato da Trump nei rapporti con la Cina, a condizione ovviamente che il nuovo accordo commerciale venga infine firmato. In tale scenario, gli Stati Uniti continuerebbero a fare pressione sulla Cina tramite l’AUKUS, sebbene le tensioni potrebbero allentarsi leggermente a causa della ridotta portata di questa iniziativa in termini di sottomarini nucleari, pur mantenendo intatto il ruolo di integrazione militare regionale.

Qui sta il punto principale, ovvero che il suddetto ruolo è troppo importante per i grandi piani strategici degli Stati Uniti per essere abbandonato in qualsiasi circostanza, anche nell’ipotesi più remota che assuma un’identità diversa se gli Stati Uniti uscissero dall’AUKUS. A prescindere da quanto i loro rapporti possano presto normalizzarsi o addirittura migliorare , è nell’interesse duraturo degli Stati Uniti, come lo ritengono i decisori politici di entrambi gli schieramenti (a torto o a ragione), mantenere la pressione militare sulla Cina, e questo probabilmente non cambierà mai.

Lo scandalo della corruzione negli appalti della NATO potrebbe ritardare i suoi piani di rapida militarizzazione

Andrew Korybko18 giugno
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Gli stati membri potrebbero rinunciare ai servizi della NATO Support and Procurement Agency, ritardando così i loro acquisti militari, il che potrebbe ritardare i piani di rapida militarizzazione del blocco se un numero sufficiente di loro lo facesse per evitare di dover pagare di più se avessero la sfortuna di essere serviti da dipendenti corrotti.

Il prossimo vertice della NATO si terrà il 24 e 25 giugno all’Aia e quasi certamente vedrà l’Unione ampliare i suoi preesistenti piani di rapida militarizzazione. Trump chiede che tutti i membri spendano il 5% del PIL per la difesa il prima possibile, una quota che Politico ha recentemente ricordato a tutti nel suo articolo, suddivisa tra il 3,5% per la “spesa militare effettiva” e l’1,5% per questioni legate alla difesa come la sicurezza informatica. Ecco tre briefing di approfondimento sui piani di rapida militarizzazione della NATO per aggiornare i lettori:

* 19 luglio 2024: “ La prevista trasformazione dell’UE in un’unione militare è un gioco di potere federalista ”

* 24 ottobre 2024: “ Schengen militare della NATO ”

* 7 marzo 2025: “ Il piano ‘ReArm Europe’ sarà probabilmente ben al di sotto delle elevate aspettative del blocco ”

In breve, l’UE vuole sfruttare i falsi timori di una futura invasione russa per centralizzare ulteriormente il blocco con questo pretesto, di cui lo “Schengen militare” (per facilitare la libera circolazione di truppe e materiali tra gli Stati membri) e il “Piano ReArm Europe” da 800 miliardi di euro ne sono le manifestazioni tangibili. Il primo creerà l’auspicata unione militare, mentre il secondo renderà urgente la necessità di un meccanismo per organizzare la ripartizione degli investimenti per la difesa tra tutti i membri.

È qui che si prevede che la NATO Support and Procurement Agency (NSPA) svolga un ruolo fondamentale, data la mancanza di alternative e la difficoltà di trovare un accordo tra i membri per la creazione di una nuova agenzia a livello europeo, a causa delle preoccupazioni di sovranità di alcuni Stati. Secondo il sito web della NSPA , “[il suo] obiettivo è ottenere il miglior servizio o equipaggiamento al miglior prezzo per il cliente, consolidando le esigenze di più nazioni in modo economicamente efficiente attraverso il suo sistema di acquisizione multinazionale chiavi in mano”.

Il problema, però, è che la NSPA è stata coinvolta in uno scandalo sugli appalti nell’ultimo mese. A suo merito, Deutsche Welle ha pubblicato un rapporto imparziale e dettagliato sull’accaduto, che può essere riassunto come dipendenti che hanno passato informazioni agli appaltatori della difesa in cambio di fondi che sono stati in parte riciclati tramite società di consulenza. A quanto pare, la NSPA ha avviato l’indagine autonomamente, ma questo potrebbe non essere sufficiente per contenere i danni derivanti da questo scandalo.

Sebbene continuerà a funzionare, alcuni Stati membri potrebbero ora esitare ad affidarsi ai suoi servizi più del necessario per evitare di dover pagare di più per qualsiasi cosa intendano acquistare se sfortunatamente altri dipendenti corrotti dovessero soddisfare la loro richiesta. Certo, l’iniziativa dell’NSPA di indagare su se stessa – che ha portato finora a tre arresti e si è estesa a diversi Paesi, inclusi gli Stati Uniti – potrebbe rassicurare alcuni Stati, ma pochi probabilmente correranno più rischi del necessario.

Se un numero sufficiente di membri della NATO adottasse questo approccio nel comprensibile perseguimento del proprio interesse finanziario, soprattutto se alcuni settori dell’opinione pubblica facessero pressione su di loro per non rischiare di sprecare i fondi duramente guadagnati dai contribuenti, ciò potrebbe complicare collettivamente i piani di rapida militarizzazione della NATO. Resta da vedere quale effetto avrà in definitiva, ma lo scandalo di corruzione negli appalti dell’NSPA non poteva arrivare in un momento peggiore, ed è importante non lasciare che l’élite lo nasconda sotto il tappeto per comodità.

Cosa intendeva dire Medinsky paragonando l’Ucraina al Karabakh?

Andrew Korybko17 giugno
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Non intendeva in alcun modo danneggiare i rapporti bilaterali con l’Azerbaigian, ma voleva solo sottolineare che i conflitti congelati, come quello che l’Occidente sta cercando di creare in Ucraina chiedendo una tregua invece di costringere l’Ucraina alla pace, potrebbero facilmente riemergere e rischiare di sfuggire al controllo.

Vladimir Medinsky, consigliere presidenziale russo e capo della delegazione di Istanbul, ha scatenato l’ira dell’Azerbaigian quando ha recentemente paragonato l’Ucraina al Karabakh in un’intervista a RT. Il succo del suo lungo commento era che congelare il conflitto con una tregua anziché con un vero e proprio trattato di pace in cui le regioni contese vengono riconosciute come russe potrebbe portare la NATO a spingere l’Ucraina a scatenare un’altra guerra per controllarle. Le sue parole meritano un approfondimento, visto quanto siano state confuse da molti.

Innanzitutto, la portavoce del Ministero degli Esteri russo ha ribadito che la Russia ha sempre riconosciuto il Karabakh come territorio azero, quindi il paragone di Medinsky è imperfetto, poiché la Russia riconosce l’intera area contesa con l’Ucraina come russa, non ucraina. Tuttavia, chiarito questo, il secondo punto è che il rifiuto dell’Ucraina di riconoscere le regioni contese come russe potrebbe effettivamente portare allo scenario del Karabakh, ovvero a un’altra guerra combattuta per il loro controllo, che la Russia vuole evitare.

È qui che entra in gioco il terzo punto, ovvero l’influenza degli attori stranieri nella Seconda Guerra del Karabakh e in un altro ipotetico conflitto tra Russia e Ucraina. La Turchia, membro della NATO, ha svolto un ruolo chiave nell’aiutare l’Azerbaigian, sebbene alcuni membri europei del blocco e persino gli Stati Uniti, in una certa misura, abbiano politicizzato la vittoria dell’Azerbaigian per esercitare maggiore pressione su di esso. Nello scenario ucraino, si prevede che la maggior parte del blocco sosterrà Kiev fino in fondo, il che, per un errore di calcolo, minaccia una guerra calda con la Russia.

Il quarto punto si basa sul precedente e si collega alla previsione di Medinsky secondo cui “Dopo un po’ di tempo, l’Ucraina, insieme alla NATO e ai suoi alleati, si unirà alla NATO, cercherà di riconquistarla, e quella sarà la fine del pianeta, quella sarà una guerra nucleare”. In altre parole, dà per scontato che un ipotetico Secondo Conflitto Ucraino porterebbe inevitabilmente a una guerra accesa tra NATO e Russia, con l’insinuazione che la NATO potrebbe avviare ostilità contro la Russia e costringerla così a ricorrere alle armi nucleari per autodifesa .

Infine, l’ultimo punto è che i conflitti irrisolti come il Karabakh o ciò in cui potrebbe trasformarsi l’Ucraina nello scenario di tregua tendono a inasprirsi e a generare ulteriori conflitti, da cui la necessità di risolverli in modo sostenibile. Detto questo, almeno nel secondo caso ipotetico, alcune forze potrebbero volere che ciò accada. I conflitti congelati consentono cinicamente loro di dividere et imperare le parti in conflitto, lasciando aperta la possibilità di esercitare la massima pressione su una di esse in futuro. La Russia lo sa e vuole evitarlo.

Riflettendo su questa intuizione, sebbene sia comprensibile che l’Azerbaigian abbia protestato contro la descrizione del Karabakh da parte di Medinsky come regione contesa, quando l’Armenia stessa non ne ha ufficialmente rivendicato il possesso, egli non intendeva in alcun modo danneggiare i rapporti bilaterali e ha solo cercato di usare quell’esempio per sostenere le suddette considerazioni. Il Karabakh è ancora vivo nella mente di molti politici occidentali, quindi voleva far loro capire che qualcosa di simile, ma su una scala molto più ampia e pericolosa, potrebbe verificarsi se non costringessero l’Ucraina alla pace.

Qui sta il nocciolo del problema: l’Occidente non è interessato a costringere l’Ucraina a fare ulteriori concessioni alla Russia, ma vuole invece congelare il conflitto, il che consentirebbe all’Ucraina di ruotare le sue truppe, riarmarsi e, infine, di trovarsi in una posizione relativamente migliore per riprendere le ostilità. In questo scenario, da cui la Russia ha messo in guardia, la NATO potrebbe essere direttamente coinvolta, forse prima attraverso i cosiddetti “dispiegamenti non bellici” in Ucraina, e poi tutto potrebbe degenerare in una spirale incontrollata.

L’instabilità prolungata in Iran potrebbe influire negativamente sugli interessi strategici dell’India

Andrew Korybko18 giugno
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L’India potrebbe essere tagliata fuori dal cuore dell’Eurasia, la Russia potrebbe quindi essere costretta a diventare il partner minore della Cina (portando quindi l’India a fare lo stesso nei confronti degli Stati Uniti) e il Pakistan potrebbe capitalizzare sugli eventi regionali per diventare molto più forte.

La politica di neutralità di principio dell’India nei confronti dell’ultimo conflitto iraniano-israeliano , dovuta ai suoi stretti legami con entrambe le parti in conflitto, non dovrebbe essere interpretata erroneamente come un’assenza di interesse per l’India nell’esito dello stesso. Se il conflitto dovesse protrarsi o l’Iran venisse sconfitto in modo decisivo, la prolungata instabilità che ne potrebbe derivare (soprattutto negli scenari di cambio di regime e/o “balcanizzazione”) potrebbe influire negativamente sugli interessi strategici dell’India in relazione alla connettività eurasiatica, alle relazioni con la Russia e alla rivalità indo-pakistana .

Per quanto riguarda il primo aspetto, eventuali interruzioni a lungo termine lungo il Corridoio di Trasporto Nord-Sud (NSTC) in transito dall’Iran, che collega l’India con Russia, Armenia, le Repubbliche dell’Asia Centrale e Afghanistan, potrebbero indebolire i legami di Delhi con tutti questi Paesi. La dimensione russa sarà presto affrontata separatamente, ma l’Armenia potrebbe non essere più in grado di ricevere equipaggiamento militare indiano , il che potrebbe contribuire alla possibile capitolazione di Yerevan alle pressioni azero-turche, inclusa la sua cessione speculativa della provincia di Syunik.

L’Azerbaigian, possibilmente con il supporto del suo alleato turco, potrebbe intervenire direttamente nell’Iran settentrionale a maggioranza azera nel peggiore dei casi, ovvero nel caso in cui il paese iniziasse a “balcanizzare”, il che potrebbe isolare definitivamente l’India dall’Armenia e rendere la capitolazione di Yerevan un fatto compiuto. Per quanto riguarda l’Asia centrale e l’Afghanistan , l’influenza economica dell’India potrebbe svanire se il Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSTC) diventasse impraticabile a causa della prolungata instabilità in Iran, portandoli così a una dipendenza sproporzionata dalla Cina.

Anche la Russia potrebbe seguire le loro orme, poiché l’NSTC era stato concepito come il mezzo più affidabile a lungo termine per scongiurare preventivamente tale scenario in ambito economico. Inoltre, se il transito lungo l’NSTC fosse seriamente ostacolato o diventasse impraticabile, la Russia potrebbe concludere di non avere altra rotta alternativa per l’Oceano Indiano se non la ferrovia PAKAFUZ attraverso Afghanistan e Pakistan. Ciò potrebbe a sua volta accelerare il cambiamento di percezione dell’India da parte dei politici russi, come descritto in dettaglio qui .

L’India potrebbe avvicinarsi agli Stati Uniti per bilanciare lo spostamento della Russia verso i rivali sino-pakistani, ma a costo di cedere agli Stati Uniti una parte dell’autonomia strategica conquistata a fatica, il che potrebbe inavvertitamente ampliare le crescenti differenze nella percezione reciproca tra India e Russia. Se questa tendenza non viene invertita, la corrispondente relativa subordinazione di Russia e India a Cina e Stati Uniti come partner minori potrebbe ripristinare una forma di bi-multipolarità sino-americana , che potrebbe persistere a tempo indeterminato.

Inoltre, la possibile installazione di un governo filo-occidentale in Iran (con o senza “balcanizzazione”) potrebbe precedere un’alleanza di tipo CENTO con Turchia e Pakistan, che potrebbe portare alla fusione di questi e degli alleati turchi di Ankara in Azerbaigian e Asia centrale in un blocco turco-persiano . È uno scenario a lungo termine, ma potrebbe seriamente minacciare l’India (e la Russia). Gli Stati Uniti probabilmente lo sosterrebbero, mentre Israele probabilmente si opporrebbe, con conseguente ulteriore divergenza dagli Stati Uniti e convergenza con Israele.

In sintesi, ciò che l’India rischia potenzialmente di perdere in caso di prolungata instabilità in Iran o di una sconfitta decisiva di quel Paese è la sua politica di multi-allineamento , che finora ha preservato la sua autonomia strategica, e che potrebbe rivoluzionare la geopolitica eurasiatica se dovesse concretizzarsi. L’India potrebbe essere tagliata fuori dal cuore dell’Eurasia, la Russia potrebbe essere costretta a diventare il partner minore della Cina (portando quindi l’India a fare lo stesso nei confronti degli Stati Uniti), e il Pakistan potrebbe capitalizzare sugli eventi regionali per rafforzarsi notevolmente.

Lo sherpa russo dei BRICS ha condiviso alcune informazioni sul gruppo

Andrew Korybko16 giugno
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Sergey Ryabkov ha cercato di chiarire l’approccio della Russia nei confronti dei BRICS, che è ancora ampiamente frainteso sia dai media tradizionali sia dalla comunità dei media alternativi.

Il viceministro degli Esteri russo Sergej Rjabkov, che è anche lo sherpa dei BRICS del suo Paese, ha condiviso alcune riflessioni sul gruppo durante la sua ultima intervista con la Komsomol’skaja Pravda . Per comodità del lettore, le riassumeremo e le analizzeremo, poiché alcune delle sue dichiarazioni potrebbero sorprendere gli osservatori occasionali. Ha iniziato accusando coloro che descrivono i BRICS come un blocco anti-occidentale di “cercare di creare un’immagine di Russia e Cina come nemiche e violatrici maligne dell'”ordine basato sulle regole””.

Ciò contraddice nettamente la narrazione diffusa dai principali influencer della Alt-Media Community (AMC), inclusi i cosiddetti “Pro-Russian Non-Russian” (NRPR), che insistono sul fatto che i BRICS siano contrari all’Occidente. Rybakov ha infatti chiarito che il suo unico scopo è quello di aumentare il coinvolgimento dei paesi non occidentali nella governance globale. Nelle sue parole, “Siamo impegnati in un programma positivo, piuttosto che conflittuale. Questo ci distingue da molti format creati dagli Stati Uniti e dai loro alleati europei”.

A tal fine, nel corso della loro esistenza, i BRICS hanno istituito meccanismi specifici in una vasta gamma di settori, concentrandosi sulla cooperazione economica e finanziaria, ma anche su sanità, sport, trasporti e altri settori. Sul tema della finanza, che è quello su cui si concentra la maggior parte dei commentatori quando si parla dei BRICS, Ryabkov ha sottolineato l’importanza dell’utilizzo delle valute nazionali negli scambi commerciali intra-BRICS e dell’espansione della Nuova Banca di Sviluppo, ma ha affermato che è prematuro discutere di una moneta unica.

I lettori possono consultare queste analisi qui , qui e qui per saperne di più su come i BRICS, e la Russia in particolare, non stiano proattivamente “de-dollarizzando” come molti membri dell’AMC sono stati erroneamente indotti a credere, ma stiano solo rispondendo alla militarizzazione del dollaro da parte degli Stati Uniti. Per sottolineare questo punto, Ryabkov ha citato quanto affermato da Putin durante il vertice dei BRICS dello scorso autunno a Kazan, per ricordare a tutti che “i BRICS non sono affatto contrari al dollaro”, ma non è chiaro se questa riaffermazione politica correggerà le percezioni errate di Trump.

In ogni caso, l’importanza dell’intervista di Ryabkov risiede nel fatto che ha cercato di chiarire l’approccio della Russia nei confronti dei BRICS, ancora profondamente frainteso sia dai media mainstream che dall’AMC. Entrambi, spinti da motivazioni ideologiche opposte, alimentano ampiamente la narrazione secondo cui la Russia starebbe strumentalizzando i BRICS contro l’Occidente. I media mainstream lo fanno per incutere timore nei loro confronti e giustificare così politiche più aggressive, mentre l’AMC lo fa per risollevare il proprio pubblico e risollevare il morale.

Il risultato finale è che pochi sanno che la Russia vede i BRICS solo come una piattaforma per accelerare i processi di multipolarità finanziaria al fine di elevare il coinvolgimento dei suoi membri nella governance globale, seppur attraverso una cooperazione puramente volontaria tra loro. È proprio a causa della mancanza di obblighi da parte dei BRICS che si è ottenuto poco di tangibile, sebbene questa non sia di per sé una critica, poiché è sempre stato irrealistico aspettarsi che un gruppo così eterogeneo di economie di dimensioni asimmetriche potesse concordare su molto.

Sebbene sia improbabile che i BRICS infliggano un colpo mortale al dollaro come molti hanno ormai pensato, a prescindere dalla propria opinione su tale esito, possono comunque portare alla creazione di più piattaforme non occidentali, promuovere l’integrazione Sud-Sud e rafforzare le valute nazionali. Il loro formato di circolo di discussione e le centinaia di eventi congiunti organizzati ogni anno sono anche utili strumenti per condividere esperienze rilevanti. Nel complesso, anche se i BRICS non sono come molti pensavano che fossero, come Ryabkov ha appena ricordato loro, sono comunque importanti.

La SCO ha tenuto l’India all’oscuro quando ha rilasciato la sua dichiarazione di condanna di Israele?

Andrew Korybko15 giugno
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Gli influencer e i decisori politici indiani favorevoli all’Occidente potrebbero ora sentirsi giustificati, dopo aver sostenuto per un po’ che il gruppo non è più in linea con gli interessi del loro Paese come prima.

Il Ministero degli Affari Esteri indiano (MEA) ha chiarito sabato che il suo Paese “non ha partecipato alle discussioni” sulla dichiarazione rilasciata quel giorno dalla SCO, che condannava Israele per i suoi ultimi attacchi contro l’Iran. L’assenza di qualsiasi clausola nella dichiarazione di quel gruppo indicante un disaccordo dell’India con loro inizialmente suggeriva un consenso (anche con il rivale Pakistan), ma dopo la chiarificazione della MEA, ora suggerisce che l’India sia stata tenuta fuori dai giochi. Ciò potrebbe avere implicazioni politiche se questo è effettivamente ciò che è accaduto.

La SCO è stata fondata per risolvere pacificamente le questioni di confine tra la Cina e le ex Repubbliche sovietiche dopo la dissoluzione dell’URSS, unendo poi i due Paesi nella lotta contro le minacce comuni di terrorismo, separatismo ed estremismo. Da allora, il gruppo ha assunto funzioni di connettività economica e di altro tipo, dopo essersi esteso a India e Pakistan nel 2015. Questi interessi aggiuntivi hanno assunto sempre più importanza, poiché i due Paesi si accusano reciprocamente di fomentare le suddette minacce.

L’articolo 16 dello Statuto della SCO stabilisce chiaramente che “Gli organi della SCO prendono decisioni di comune accordo senza voto e le loro decisioni si considerano adottate se nessuno Stato membro ha sollevato obiezioni durante la loro discussione (consenso)… Ogni Stato membro può esprimere il proprio parere su aspetti particolari e/o questioni concrete delle decisioni prese, che non costituiscano un ostacolo all’adozione della decisione nel suo complesso. Tale parere è messo a verbale”.

Di conseguenza, data l’assenza di qualsiasi clausola nella dichiarazione della SCO che indicasse che l’India non fosse d’accordo con quanto scritto, sembra quindi convincente che sia stata tenuta fuori dal giro. Stando così le cose, gli influencer politici e i decisori politici filo-occidentali in India potrebbero ora sentirsi giustificati dopo aver già affermato per un po’ di tempo che il gruppo non è più in linea con gli interessi del loro Paese come prima. Ciò potrebbe a sua volta indurre l’India a prendere pubblicamente le distanze dalla SCO.

È prematuro concludere che l’India reagirà in questo modo, soprattutto perché è rimasta finora nella SCO nonostante le suddette interpretazioni di alcuni, al fine di evitare uno scenario di dominio cinese in quel gruppo, con la possibile conseguenza che la Russia diventi il suo partner minore. Dal punto di vista dell’India, ciò rappresenterebbe una grave minaccia per la sicurezza nazionale se la Cina sfruttasse la sua influenza sulla Russia per privare l’India di equipaggiamento militare in caso di un’altra crisi di confine.

A scanso di equivoci, non vi sono segnali credibili che una simile subordinazione russa alla Cina sia imminente, né che la Russia acconsentirebbe alle richieste speculative della Cina di isolare l’India prima o durante una futura crisi, in modo da dare a Pechino un vantaggio su Delhi. Ciononostante, tali timori potrebbero ora trovare nuova credibilità tra alcune personalità di spicco in India, alla luce di quanto appena accaduto con la SCO, a seguito delle preoccupazioni che la percezione dell’India da parte dei politici russi possa cambiare.

I lettori possono approfondire l’argomento qui e qui , con la seconda analisi che spiega perché la Russia abbia dato credito all’affermazione di Trump di aver personalmente fermato l’ ultimo conflitto indo-pakistano , affermazione che l’India ha ripetutamente smentito. Molto probabilmente, i diplomatici indiani potrebbero presto chiedere con discrezione alla Russia un chiarimento sul perché il gruppo da loro co-fondato con la Cina abbia presumibilmente tenuto il loro Paese all’oscuro di tutto quando ha rilasciato la sua ultima dichiarazione, e si spera che la risposta plachi ogni dubbio sulle sue intenzioni.

L’ultimo tweet di Zelensky è pieno di panico

Andrew Korybko15 giugno
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Se anche solo una parte di ciò che preoccupa Zelensky si avverasse, in particolare la riduzione degli aiuti statunitensi e l’imminente pressione americana sull’Ucraina affinché acconsenta alle richieste della Russia, allora il conflitto potrebbe finire prima del previsto.

Sabato pomeriggio, Zelensky ha pubblicato oltre una dozzina di paragrafi nel suo ultimo tweetstorm, che può essere letto integralmente qui . Ha chiesto l’imposizione di ulteriori sanzioni contro i settori bancario ed energetico russo, si è lamentato del tono “caldo” del dialogo tra Stati Uniti e Russia, ha espresso preoccupazione per la riduzione degli aiuti, ha seminato il panico riguardo al complesso militare-industriale russo e ha respinto le accuse di oppressione nei confronti di russi, russofoni e cristiani ortodossi russi. È chiaramente nel panico.

Nell’ordine in cui ha esposto i suoi punti, il primo, relativo alle sanzioni, allude alla proposta di legge che prevede l’imposizione di dazi del 500% sui clienti energetici russi, che verrebbero probabilmente applicati a Cina e India se approvata con deroghe per i paesi dell’UE (e probabilmente solo quelli che soddisfano le richieste di spesa per la difesa di Trump). Politico ha tuttavia avvertito che questo potrebbe ritorcersi contro gli Stati Uniti, mentre il Segretario al Tesoro ha avvertito che potrebbe minare gli sforzi diplomatici. Non c’è quindi da stupirsi che Zelensky sia nel panico per questo.

Passando oltre, le lamentele di Zelensky sul tono “caldo” del dialogo tra Stati Uniti e Russia sono una risposta diretta alla bonomia tra Trump e Putin, la cui ultima manifestazione ha visto Putin chiamare Trump sabato per augurargli buon compleanno, discutendo anche dell’ultima fase della guerra israelo-iraniana. È ancora incerto se Trump si ritirerà dalla guerra per procura della NATO contro la Russia attraverso l’Ucraina o se raddoppierà gli sforzi, ma a giudicare dal tweetstorm di Zelensky, sta prendendo molto sul serio la prima possibilità.

Questa osservazione porta al terzo punto da lui sollevato sulla riduzione degli aiuti statunitensi, che segue il recente annuncio da parte del Segretario alla Difesa di tali tagli nel prossimo bilancio, senza tuttavia specificarne l’entità. Sebbene sia possibile aumentare drasticamente gli aiuti anche in tali condizioni, se la decisione verrà presa, come dimostrato dall’entità del sostegno non pianificato fornito dall’amministrazione Biden all’Ucraina nel 2022, dal punto di vista di Zelensky, il messaggio è che Trump al momento non è interessato a farlo.

Il suo quarto punto è il meno discutibile dei cinque, dato che persino il New York Times ha ammesso già nel settembre 2023 che la Russia è molto più avanti della NATO nella “corsa alla logistica”/”guerra di logoramento” . Come prevedibile, Zelensky ha anche allarmismi sulle intenzioni della Russia, insinuando che potrebbe stare complottando per invadere la NATO , ma ormai quasi tutti sono insensibili a questa narrazione. Pertanto, probabilmente non sarà sufficiente a convincere l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, a ripristinare i livelli di aiuti del 2023.

E infine, l’ultimo punto sollevato in risposta alle accuse basate sui fatti della Russia secondo cui l’Ucraina starebbe opprimendo i russi, i russofoni e i cristiani ortodossi russi è puramente retorico e non tenta nemmeno di rispondere alla sostanza di queste affermazioni, che la smascherano come infondata e lo smascherano come colpevole. È in preda al panico perché teme che gli Stati Uniti possano costringere l’Ucraina a cambiare le sue politiche interne nell’ambito della richiesta di pace di denazificazione avanzata dalla Russia, se Trump vuole davvero lavarsene le mani da questo conflitto.

Nel complesso, la sua tempesta di tweet la dice lunga sulla situazione sempre più difficile dell’Ucraina, se si legge tra le righe, causata dall’arrivo della Russia a Dnipropetrovsk . Se anche solo una parte di ciò che preoccupa Zelensky si avverasse, in particolare la riduzione degli aiuti statunitensi e l’imminente pressione americana sull’Ucraina affinché acconsenta alle richieste russe, allora il conflitto potrebbe concludersi prima del previsto. Certo, questo non può essere dato per scontato, ma è uno scenario abbastanza realistico da far prendere dal panico Zelensky.

Trump ha davvero ingannato l’Iran con una diplomazia subdola?

Andrew Korybko14 giugno
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Un altro modo di vedere la cosa è che Trump voleva davvero un accordo, ed è per questo che era contrario all’attacco di Israele all’Iran prima della scadenza dei 60 giorni, ma non aveva intenzione di fermarlo in seguito.

Gli attacchi senza precedenti di Israele contro l’Iran nelle prime ore di venerdì mattina sono stati seguiti a breve distanza da funzionari israeliani che si vantavano del fatto che Trump avesse ingannato l’Iran con una diplomazia ingannevole per coglierlo di sorpresa. Questa prospettiva è stata rafforzata in alcuni post di Trump qui e qui , in cui ha ricordato a tutti di aver minacciato l’Iran con “qualcosa di molto peggio di qualsiasi cosa conoscano” se non fosse stato raggiunto un altro accordo sul nucleare, per poi sottolineare che venerdì era il 61° giorno del suo ultimatum di 60 giorni.

La sua esuberanza Il sostegno agli attacchi israeliani, dopo aver precedentemente messo in guardia contro di essi, mentre la sua amministrazione continuava a sostenere che gli Stati Uniti non erano coinvolti in quegli attacchi, ha convinto molti che i suddetti funzionari israeliani stessero dicendo la verità. Sembrava quindi che la rottura di Trump fosse dovuta al fatto che Bibi fosse effettivamente parte dell’inganno. Questa convincente interpretazione degli eventi avrebbe conseguenze drastiche se fosse vera, poiché la Russia potrebbe essere indotta a ritirarsi dal processo di pace ucraino se Putin ci credesse.

Gli attacchi senza precedenti dell’Ucraina contro la Russia all’inizio di giugno erano stati preceduti meno di una settimana prima dall’avvertimento di Trump in un post che “cose brutte… DAVVERO BRUTTE” sarebbero potute presto accadere alla Russia se non avesse accettato un cessate il fuoco con l’Ucraina. Sebbene la Casa Bianca abbia negato che Trump ne fosse a conoscenza in anticipo, Putin potrebbe ora dubitare di lui più che mai dopo la diplomazia ambigua di cui i funzionari israeliani si sono appena vantati, ma non è ancora chiaro cosa ne pensi.

Mentre la versione ufficiale del Cremlino delle telefonate di Putin con Bibi e Pezeshkian, più tardi quel giorno, sottolineava la sua condanna delle azioni di Israele, Putin ha anche ribadito il sostegno della Russia a una risoluzione politica della questione nucleare iraniana e ha affermato che continuerà a promuovere la de-escalation. La dichiarazione del Ministero degli Esteri ha affermato più o meno la stessa cosa e “ha invitato le parti a esercitare moderazione”, mentre il suo principale rappresentante alle Nazioni Unite ha affermato che “gli inglesi hanno protetto gli aerei israeliani coinvolti nell’operazione nella loro base a Cipro”.

A quanto pare, a meno che la Russia non stia praticando la sua stessa diplomazia ambigua, non sembra che Putin e soci credano che Trump abbia ingannato l’Iran. Piuttosto, sembra che condividano il punto di vista introdotto dal commentatore conservatore Glenn Beck e dall’ex portavoce delle IDF Jonathan Conricus, i quali concordavano sul fatto che “non è ingannevole pianificare un attacco il giorno 61”. In altre parole, Trump voleva davvero un accordo ed era quindi contrario all’attacco di Israele all’Iran prima del giorno 60, ma non aveva intenzione di fermarlo dopo.

Questa interpretazione spiegherebbe perché Bibi abbia affermato che il piano originale è stato rinviato da fine aprile con il pretesto di ragioni operative. Potrebbe anche aver contribuito a quella che potrebbe in realtà essere una vera e propria frattura tra lui e Trump, dopotutto, se Trump avesse temuto che Bibi avrebbe colpito prima della scadenza, rovinando così l’accordo che Trump desiderava veramente. Le vanterie dei funzionari israeliani potrebbero quindi essere un’operazione psicologica per manipolare l’Iran inducendolo a colpire le risorse regionali statunitensi, in modo da provocare il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nella guerra.

Trump e il suo team non hanno negato queste affermazioni, probabilmente perché gli attacchi senza precedenti di Israele hanno avuto un enorme successo (anche se forse li avrebbero negati in caso contrario), ma non le hanno nemmeno confermate per controllare l’escalation. In definitiva, non c’è modo di sapere se Trump abbia davvero ingannato l’Iran con una diplomazia ambigua, ma è significativo che la Russia non abbia manifestato il proprio consenso su questa spiegazione, ma stia invece chiedendo reciproca moderazione e riaffermando l’importanza della diplomazia.

Cinque domande sugli attacchi senza precedenti di Israele contro l’Iran

Andrew Korybko13 giugno
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Le risposte determineranno il corso di questa crisi.

Israele ha lanciato attacchi senza precedenti contro obiettivi militari e nucleari iraniani venerdì mattina presto. Questo a seguito del blocco degli ultimi colloqui nucleari tra Stati Uniti e Iran , delle continue speculazioni sulla costruzione segreta di armi nucleari da parte dell’Iran e della crescente ansia israeliana per la situazione. A quanto pare, Israele ha decapitato le Forze Armate iraniane e il Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica (IRGC), eppure l’Iran ha comunque promesso di reagire. La situazione è instabile, ma venerdì mattina, ora di Mosca, ci sono cinque domande le cui risposte determineranno il corso di questa crisi:

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1. In che misura gli Stati Uniti hanno aiutato Israele?

Trump ha pubblicamente preso le distanze dalla rapida preparazione di Israele a questi attacchi senza precedenti, che hanno fatto seguito alla sua presunta rottura con Bibi, ma i politici iraniani credono da tempo che Stati Uniti e Israele siano alleati ferrei che collaborano sempre. La loro valutazione della misura in cui gli Stati Uniti hanno assistito Israele in questi attacchi determinerà quindi la portata e l’entità della loro rappresaglia. Se concluderanno che gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo, allora le risorse militari americane nella regione e altrove potrebbero essere prese di mira.

2. Quale sarà la portata e l’entità della rappresaglia dell’Iran?

Sulla base di quanto sopra, l’Iran può lanciare tutto ciò che ha contro Israele se percepisce che questo è un momento cruciale nella loro rivalità decennale, oppure può attuare una rappresaglia relativamente più contenuta, sebbene quest’ultima potrebbe comunque essere sfruttata come pretesto per attacchi successivi da parte di Israele. Oltre a colpire le risorse militari americane, l’Iran potrebbe anche finalmente bloccare lo Stretto di Hormuz, come ha minacciato a lungo di fare, sebbene anche questo potrebbe essere sfruttato come pretesto per un coinvolgimento militare diretto degli Stati Uniti.

3. Trump resisterà al fenomeno del “mission creep”?

Anche se gli Stati Uniti non avessero assistito Israele, l’Iran condividesse questa opinione e le risorse militari americane non fossero prese di mira nella sua rappresaglia, Trump potrebbe comunque essere trascinato nel conflitto se lo “stato profondo” lo convincesse ad autorizzare il supporto alla difesa aerea di Israele e/o operazioni offensive congiunte con esso dopo la rappresaglia dell’Iran. Rischierebbe di dividere irrimediabilmente la sua base, con tutto ciò che ciò comporterebbe per il futuro del suo movimento, in particolare se ciò si traducesse nel coinvolgimento degli Stati Uniti in una guerra regionale di grandi dimensioni e costosa, quindi farebbe bene a resistere all’intrusione nelle missioni.

4. Perché l’Iran non è riuscito a difendersi meglio?

I primi rapporti suggeriscono che Israele abbia effettivamente colpito l’Iran molto duramente, sollevando così interrogativi sui sistemi di difesa aerea iraniani. Allo stesso modo, ci sono anche dubbi sul perché non abbia anticipato l’attacco israeliano nel rapido avvicinamento degli ultimi giorni, soprattutto considerando quanto spesso i suoi rappresentanti abbiano parlato della presunta disponibilità dell’Iran a lanciare l'”Operazione Vera Promessa 3″ in qualsiasi momento. L’Iran è ora indebolito e Israele non sarà colto di sorpresa, quindi le probabilità di una vittoria totale sono meno favorevoli all’Iran rispetto a prima.

5. Cosa succederebbe se in qualche modo si evitasse una guerra regionale su vasta scala?

Una guerra regionale su vasta scala può essere evitata se l’Iran non reagisce in modo significativo contro Israele (anche se potrebbe seguire un’eventuale coreografia ), se Israele si sente umiliato dalla rappresaglia iraniana (da cui gli Stati Uniti non lo aiutano in modo significativo a difendersi), o se l’Iran assorbe il secondo colpo di Israele e non reagisce. Se i colloqui sul nucleare non vengono ripresi e non portano rapidamente a un accordo alle condizioni degli Stati Uniti, potrebbe seguire una “pace fredda” caratterizzata da un intenso conflitto ibrido. guerra (sanzioni, terrorismo, complotti di rivoluzione colorata ) contro l’Iran.

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Israele ha cercato di eliminare quella che considera la minaccia esistenziale rappresentata dall’Iran, ma il danno che Israele avrebbe inflitto all’Iran potrebbe rappresentare una minaccia esistenziale per l’Iran se Israele ne sfruttasse le conseguenze con ulteriori attacchi e/o una guerra ibrida. Queste percezioni reciproche a somma zero di minacce esistenziali aumentano notevolmente la posta in gioco di questa crisi. Se l’Iran non sferra un colpo decisivo a Israele (e non sopravvive all’inevitabile rappresaglia), allora Israele potrebbe avere la meglio su di esso, a meno che l’Iran non costruisca presto armi nucleari.

Il ritiro di Wagner dal Mali potrebbe rimodellare le dinamiche politico-militari del conflitto

Andrew Korybko12 giugno
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Le recenti tensioni nei rapporti tra Russia e Algeria a causa di questo conflitto potrebbero attenuarsi, mentre il Mali potrebbe prendere in considerazione l’idea di offrire ai Tuareg ampia autonomia in cambio dell’unione delle forze contro gli islamisti radicali.

Wagner ha annunciato il suo ritiro dal Mali dopo aver completato la missione di addestramento delle forze nazionali e di ripristino del controllo governativo su tutti i capoluoghi regionali. Questa analisi, pubblicata all’inizio del 2023, illustra i loro obiettivi. L’Africa Corps, sotto il controllo del Ministero della Difesa russo, rimarrà comunque lì. Si prevede che questo sviluppo rimodellerà le dinamiche politico-militari del conflitto, che hanno assunto sempre più i contorni di un’altra guerra per procura tra Occidente e Russia.

La Francia è stata accusata di sostenere gruppi terroristici nella regione, sia islamisti radicali che separatisti tuareg, mentre l’Ucraina si è vantata di aver armato e addestrato questi ultimi dopo l’imboscata a Wagner la scorsa estate. A proposito dei tuareg, il cui coinvolgimento nel conflitto è stato approfondito qui dopo il suddetto incidente, gli attacchi contro di loro da parte delle Forze Armate del Mali (FAM), sostenute dalla Russia, hanno irritato la vicina Algeria. Ciò ha a sua volta messo la Russia in un dilemma a causa dei suoi stretti legami con entrambi.

Wagner ha svolto un ruolo più in prima linea nel conflitto, mentre l’Africa Corps si concentra maggiormente sull’addestramento, quindi il ritiro del primo potrebbe contribuire ad alleviare le recenti tensioni nei rapporti russo-algerini su questa questione, mentre la permanenza del secondo potrebbe garantire che la competenza del FAM non diminuisca. Se i rapporti maliano-algerini si normalizzeranno relativamente nei prossimi mesi grazie a questa mossa, ciò potrebbe ridurre le probabilità che l’Algeria permetta (o continui?) a consentire a Francia e Ucraina di sostenere i Tuareg dal suo territorio.

Secondo l’Algeria, i cosiddetti separatisti tuareg “moderati” dovrebbero essere cooptati per impedire che il conflitto si estenda oltre confine nelle proprie aree popolate da tuareg, a tal fine vengono forniti loro supporto militare, logistico, di intelligence e di altro tipo per costringere il Mali a un accordo di pace. Il Mali si è ritirato dall’Accordo di Algeri del 2015 all’inizio del 2024 dopo aver accusato i tuareg di non aver rispettato la propria parte, ma l’Algeria ritiene che la campagna del Mali, sostenuta dalla Russia, abbia costretto i tuareg a rispondere.

Questa prospettiva spiega (ma non “giustifica”) la sospetta collusione dell’Algeria con Francia e Ucraina contro il Mali e Wagner lungo la regione di confine controllata dai Tuareg. In relazione a ciò, è rilevante che Wagner abbia dichiarato vittoria dopo aver aiutato il FAM a riprendere il controllo di tutte le capitali regionali, ma i separatisti Tuareg designati come terroristi rimangono ancora attivi altrove. Se l’Africa Corps rimane concentrato principalmente sull’addestramento, non sulla sostituzione del ruolo di Wagner in prima linea, allora il Mali potrebbe prendere in considerazione una soluzione politica.

In tal caso, la Russia potrebbe mediare tra Algeria, Mali e i Tuareg, raggiungendo potenzialmente un accordo di tipo siriano in base al quale i “ribelli moderati” (in questo caso i separatisti Tuareg) sono incoraggiati a unire le forze con il FAM contro gli islamisti radicali, in cambio di un’ampia autonomia sancita dalla Costituzione. Finché il Mali imparerà dagli insegnamenti tratti dalla debacle siriana dello scorso anno, cinque dei quali sono stati evidenziati qui all’epoca, potrà evitare il destino di quel Paese e, si spera, riuscire laddove l’altro partner russo ha fallito.

Se le dinamiche politico-militari dovessero peggiorare, ad esempio se l’Algeria venisse indotta dalla Francia (con la quale i rapporti sono sempre stati complicati, ma che potrebbero migliorare se Algeri assecondasse Parigi in Mali) a sostenere una rinnovata offensiva tuareg, nessuno dovrebbe dubitare che la Russia coprirà le spalle del Mali . Il FAM si è dimostrato molto più competente dell’Esercito Arabo Siriano sotto ogni aspetto, quindi è molto meno probabile che il Mali segua le orme della Siria se l’Algeria svolgesse il ruolo di Turkiye in quest’ultima guerra per procura tra Occidente e Russia.

Tempi così_di Aurelien

Tempi così.

E la banalizzazione del Male.

Aurelien18 giugno
 
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Prima due piccoli punti. Yannick ha completato un’altra eccellente traduzione in francese di uno dei miei saggi, e dovrebbe essere in linea molto presto. Pubblicherò un link non appena sarà disponibile. In secondo luogo, quelli di Auraist, un sito di buoni libri con un numero di lettori di gran lunga superiore a quello che avrò mai io, sono stati così cortesi da chiedere se potevano inserire un link a questo sito. Naturalmente ho risposto di sì, e in cambio credo sia giusto suggerirvi di dare un’occhiata anche al loro sito.

Per il resto, questi saggi saranno sempre gratuiti, ma potrete continuare a sostenere il mio lavoro mettendo like e commentando, e soprattutto trasmettendo i saggi ad altri, e passando i link ad altri siti che frequentate. Se volete sottoscrivere un abbonamento a pagamento, non vi ostacolerò (anzi, ne sarei molto onorato), ma non posso promettervi nulla in cambio, se non una calda sensazione di virtù.

Ho anche creato una pagina “Buy Me A Coffee”, che potete trovare qui.☕️ Sono molto grato a coloro che mi hanno fornito generose quantità di caffè di recente.

Come sempre, grazie a coloro che instancabilmente forniscono traduzioni in altre lingue. Maria José Tormo pubblica le traduzioni in spagnolo sul suo sito qui,. Anche Marco Zeloni sta pubblicando le traduzioni in italiano su un sito qui. E molti dei miei articoli sono ora on line sul sito Italia e il Mondo: li potete trovare qui. E ora:

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Di recente sono stato al cinema a vedere il film di Matt Brown Freud: the Last Session, che è recentemente uscito in Francia. Non dirò molto del film in sé – è abbastanza decente e vale la pena vederlo se si è interessati ai personaggi principali, interpretati da un superbo Anthony Hopkins e da un competente Matthew Goode – ma stranamente è stata la principale debolezza del film a farmi riflettere, su due linee diverse ma correlate.

Il film è una versione aperta di un dramma teatrale a due mani, che racconta un incontro (probabilmente apocrifo) avvenuto a Londra nel settembre del 1939 tra l’ateo militante Sigmund Freud, non molto tempo prima del suo suicidio, e un CS Lewis molto più giovane, allora professore di Oxford, appena diventato famoso come apologeta del cristianesimo. I due affrontano i Greatest Hits della teodicea e della teurgia, come il Problema del Male (come può un Dio onnipotente e amorevole permettere la sofferenza nel mondo?), ma con un impegno e un’applicazione che fanno risalire la storia a un’epoca in cui questi temi erano seriamente discussi.

Ma Brown, come se fosse nervoso per il fatto che il pubblico non sarebbe rimasto seduto per quasi due ore di dibattito etico e teologico, per quanto ben recitato, ha introdotto altri personaggi principali (in particolare la figlia di Freud, Anna, e lo psicoterapeuta inglese Ernest Jones) e trame secondarie. Sono d’accordo con i critici che ritengono che questa apertura distragga dalla storia principale, ma è ben fatta e l’atmosfera della Gran Bretagna il 3 settembre 1939, giorno in cui la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, è riprodotta fedelmente, per quanto posso dire. È di questa atmosfera, e del modo in cui essa differisce fondamentalmente dal modo in cui oggi vediamo la guerra e la pace, il bene e il male, e anche da come potremmo reagire a una grave crisi di sicurezza, che voglio parlare questa settimana. Perché temo che stiamo entrando in un’epoca in cui ci saranno sfide morali e psicologiche di intensità paragonabile per le quali le nostre menti, le nostre società, i nostri Paesi e i nostri governi sono completamente impreparati.

La prima cosa che ho notato, a metà del film, è un flashback sugli ultimi giorni di Freud a Vienna prima di fuggire in Inghilterra, già molto malato. Per ragioni che non vengono realmente spiegate, due agenti della Gestapo si recano nell’appartamento di Freud, anche se in qualche modo accettano di portare via Anna e non lui. L’iconografia – le uniformi nere, le fasce da braccio con la svastica, la Mercedes nera che aspetta fuori – mi ha fatto venire i brividi. Sospetto che chiunque sia cresciuto nell’immediato dopoguerra si sarebbe sentito allo stesso modo, perché un’iconografia così diabolica era nell’esperienza di vita della maggior parte delle persone, e tutti sapevano e temevano ciò che rappresentava. La generazione dei miei genitori ha quasi tutti prestato servizio nelle “Forze Armate” o ha svolto altri lavori di guerra, ed erano molto consapevoli della malvagità di ciò che avevano affrontato e della paura che incuteva. La banalizzazione, il relativismo e altri fastidiosi -ismi erano una generazione nel futuro: troppi soldati erano tornati dalla Germania con ricordi da incubo di ciò che avevano visto, anche se pochi volevano parlarne.

La vita pubblica era allora piena di persone – politici, intellettuali, giornalisti, ecclesiastici, funzionari pubblici, rifugiati dal nazismo – che la Gestapo progettava di arrestare e spedire nei campi di concentramento dopo un’invasione riuscita. Hitler era furioso quando il Gabinetto di Churchill rifiutò un’offerta di pace nel 1940 entro un’ora dalla sua presentazione e parlò di trasformare la Gran Bretagna in uno Stato schiavista per rappresaglia. (E i documenti contemporanei rivelano una rabbia diffusa nel Paese contro la Gran Bretagna, che si ritiene abbia provocato la guerra in primo luogo per servire gli interessi della City di Londra, distruggendo la Germania e impedendo il suo ritorno allo status di Grande Potenza: Hitler non sarebbe stato solo, quindi). La sconfitta militare e l’occupazione erano probabilmente l’ultimo dei problemi della Gran Bretagna nel dopoguerra, e la gente ne era ben consapevole.

A volte la questione era più personale: i rifugiati erano ovunque. Mi insegnava matematica un insegnante ebreo austriaco che era fuggito in Gran Bretagna da giovane e aveva conservato il suo accento viennese. Una delle mie padrone di casa era scappata da quella che oggi è la Polonia da bambina, quasi l’unica della sua famiglia a sopravvivere. E tra i pochi posti in cui potevamo permetterci di mangiare come studenti a Londra c’era una fedele riproduzione del ristorante viennese che i proprietari erano stati costretti a lasciare dai nazisti. (In effetti, per molti aspetti la Londra di cinquant’anni fa era un luogo più cosmopolita di quello attuale, nel senso migliore del termine). Lo stesso valeva a livello pubblico: era comune ascoltare alla BBC coloro che erano sfuggiti alla Gestapo. Eric Hobshawm, Karl Popper, Jacob Bronowski e altri erano tra le principali figure intellettuali dell’epoca, quando ancora esistevano figure intellettuali.

Era anche il periodo in cui l’orribile verità del nazismo cominciava a essere diffusa. L’opinione pubblica era più solida allora di quanto non lo sia oggi, e persino ai bambini delle scuole fu permesso di vedere filmati dei campi di concentramento. Ricordo ancora vividamente di aver visto per la prima volta il filmato dei bulldozer che spostavano i cadaveri, credo a Buchenwald. E i primi resoconti della Resistenza francese apparivano anche in inglese, con le loro storie di folle coraggio di fronte a un potere schiacciante.

Non poteva, e non è durato, e negli anni Settanta era già in corso il lungo e lento decadimento della comprensione di ciò contro cui si era combattuto. Così oggi i nazisti sono cattivi dei videogiochi, artefatti kitsch, fonte di fascino malato per alcuni, di umorismo tagliente e trasgressivo per altri e riferimento universale per chiunque sia troppo pigro e troppo incolto per trovare un epiteto migliore da scagliare contro qualcuno che non gli piace. Questo processo – non tanto l’abusata “banalità del male” della discutibile frase di Arendt, quanto la sua banalizzazione – ha reso tra l’altro impossibile capire cosa sia il vero male. Applichiamo il termine con leggerezza, ai politici che non ci piacciono o alle azioni del governo che riteniamo sbagliate. Alcuni lo applicano abitualmente alle azioni dei governi che non piacciono all’Occidente, altri di riflesso alle azioni dei governi occidentali che non piacciono loro. Ora è diventata di fatto priva di significato.

Decenni di questo hanno smussato e atrofizzato la nostra capacità di fare distinzioni morali e tanto meno di discuterne. Gran parte dell’etica, dopo tutto, è circostanziale e relativa, ma trovo che persino gli studenti universitari oggi abbiano difficoltà a costruire qualsiasi tipo di argomentazione etica coerente. Il mondo è stato diviso in due categorie: Simpatici e non simpatici, senza sfumature, e l’unica discussione riguarda il cestino in cui mettere le cose. (I governi, va aggiunto, sono particolarmente inclini a questo pensiero dualistico. Storicamente, il Colonnello Gheddafi non era simpatico, tra il 2004 e l’11 era simpatico, e quando ha iniziato a perdere la presa sul potere non era più simpatico, e non lo era mai stato).

Quindi la grande storia politica britannica dell’ultima settimana è stata l’ennesima inchiesta sullo scandalo dei gruppi di adescamento di bambini pakistani, attivi in alcune zone dell’Inghilterra da almeno vent’anni. Ora sembra che possa accadere qualcosa a coloro che hanno torturato, abusato e in alcuni casi persino ucciso ragazze bianche della classe operaia, alcune delle quali avevano appena dieci anni. Ma è anche chiaro che le autorità erano collettivamente intrappolate in quello che vedevano come un dilemma morale insolubile. Come un asino tra due carote rancide, erano immobilizzati tra due imperativi. Centinaia di ragazze torturate, stuprate e, in alcuni casi, uccise nell’arco di due decenni non era ovviamente bello, ma non lo era nemmeno il rischio di “stigmatizzare” intere comunità. Come affrontare un enigma morale così acuto e complesso? Non ne avevano idea. Quindi non hanno fatto nulla. E poco prima di iniziare a scrivere, l’ultima cosa che ho letto sono stati i primi paragrafi di un pomposo articolo di – dove altro –The Guardian, in cui si diceva che andava tutto bene perché gli abusi sui minori venivano perpetrati anche dai bianchi.

Sorprende quindi che la mentalità moderna non riesca a comprendere gli atti reali di crudeltà e violenza diffusa, e soprattutto si blocca all’idea che un giorno potremmo viverli. Gli episodi di uccisioni di massa in Cambogia, Burundi o Ruanda sono talmente al di là di ciò che la mentalità occidentale può comprendere che sono diventati solo orrori senza contenuto. In un certo senso sappiamo che sono accadute cose terribili a singoli individui nell’ex Unione Sovietica, in Grecia sotto i colonnelli, in America Latina, nel Sudafrica dell’apartheid e, più recentemente, in Paesi come la Siria, l’Iraq e la Libia, ma li avvolgiamo in un’ovatta normativa intitolata “violazioni dei diritti umani”. Pochi resoconti di coloro che sono sopravvissuti alle prigioni di Assad sono stati ampiamente pubblicati, ad esempio, perché la nostra visione liberale contemporanea del mondo semplicemente non riesce a raffinarli in qualcosa che possa comprendere, data la sua facile comprensione del comportamento umano.

Lo stesso vale per il Terzo Reich. La migliore analogia che mi viene in mente per i nazisti è un gruppo di consulenti gestionali psicopatici con l’hobby della demonologia. Hanno preso l’ortodossia scientifica dominante dell’epoca, secondo cui l’umanità era divisa in “razze”, in eterna guerra tra loro, con i più forti che sopravvivevano e i più deboli che venivano sterminati, e l’hanno applicata meccanicamente all’Europa, cercando di spazzare via i loro nemici, in particolare gli ebrei, prima che i loro nemici facessero lo stesso con loro. Ben al di là di ciò che qualsiasi miliardario di oggi oserebbe suggerire, essi consideravano letteralmente tutti i non ariani come beni, da utilizzare se di valore e da scartare in caso contrario. Dopo tutto, l’Europa era disperatamente a corto di cibo dal 1941 in poi, e se si voleva sfamare il Reich e il suo esercito, altri – come due milioni di ebrei polacchi – avrebbero dovuto essere eliminati, e gran parte del resto d’Europa avrebbe sofferto la fame. Era tutto burocratico e, se si possono concedere le folli ipotesi di partenza, abbastanza logico.

Così Jorge Semprùn, il grande letterato franco-spagnolo, inviato a Buchenwald per le sue attività di Resistenza, ebbe salva la vita perché i comunisti tedeschi che gestivano in gran parte l’amministrazione del campo riconobbero uno dei loro, e falsificarono i suoi registri per dimostrare che aveva competenze tecniche che non possedeva. È sopravvissuto. Anche Primo Levi, il grande scrittore italiano, fu imprigionato per le sue attività partigiane, prima in un campo di concentramento in Italia, poi ad Auschwitz. Ma aveva una formazione da ingegnere chimico e i tedeschi avevano bisogno di ingegneri chimici. È sopravvissuto. Erano entrambi utili, proprio come sono utili oggi le tate e i fattorini di Uber Eats dal Terzo Mondo”.

Questo era evidentemente troppo per l’opinione liberale occidentale, che usciva terribilmente malconcia dalla guerra. E coloro che sopravvissero in genere non scrissero delle loro esperienze se non molto più tardi. Così l’opinione liberale si ritirò rapidamente in banalità da sventolare sull’odio e l’intolleranza, da combattere attraverso gli scambi scolastici, la soppressione delle differenze nazionali e il canto collettivo di Kumbaya con le chitarre. E negli anni Settanta furono avvistati i primi relativisti, originariamente di estrema destra, che portarono tra l’altro alla Historikerstreit, la “disputa degli storici” degli anni Ottanta, quando gli accademici di destra tentarono la “normalizzazione” del nazismo come risposta difensiva allo stalinismo, e in qualche misura una sua emulazione. Infine, una generazione più o meno dopo, polemisti e personalità politiche (raramente storici) hanno iniziato a spingere per una sorta di equivalenza morale tra i nazisti e gli Alleati occidentali. Si trattava in parte di una retroproiezione dell’opposizione al Vietnam, in parte del desiderio adolescenziale di scioccare, che alcuni conservano fino alla mezza età, e in parte della ricerca di un contrarismo fine a se stesso. (C’è qualcosa di più noioso del contrarianismo riflesso e inconsapevole?) Così “sghignazza sghignazza ok Auschwitz ma che dire di Dresda nyaah! nyaah! ” si sente purtroppo in alcuni ambienti. (Ironia della sorte, visto il film che ho citato, parte della motivazione è edipica: non possiamo sperare di emulare i nostri antenati, quindi cerchiamo di trascinarli al nostro livello).

Per arrivare a questo punto, bisogna essere incapaci di capire cosa sia il male, e in effetti oggi sono pochissime le persone che lo conoscono, anche solo indirettamente. Non intendo con questo l’opposizione manichea di puro Bene e Male che si trova nei fumetti e nei film di Hollywood, o che si suppone caratterizzi Il Signore degli Anelli (un grossolano errore di lettura dell’amico di Lewis, Tolkien, tra l’altro).) Intendo semplicemente dire che il vocabolario e i concetti che un tempo formavano la nostra visione morale del mondo e che ci permettevano di formulare i nostri giudizi morali (e che Lewis e Freud condividevano in larga misura) si sono atrofizzati al punto che non possiamo più discutere dei mali del mondo in modo intelligente. Dopo tutto, anche il quasi ateo David Hume non ha mai negato la distinzione tra bene e male secondo “i sentimenti naturali della mente umana”. Lo riconosciamo, avrebbe detto, quando lo vediamo. Questo, più che i dettagli precisi di ciò che i nazisti hanno fatto, è il vero problema, e non possiamo più essere sicuri, dato il declino della comprensione a cui ho fatto riferimento, di poterlo conoscere.

Oggi ci affidiamo all’esangue vocabolario tecnico degli avvocati e ai giudizi etici dei miliardari. Si potrebbe dire che i dodici milioni di vittime civili del nazismo hanno visto violati i loro diritti umani, così come, secondo alcuni, gli uomini transessuali a cui è stato vietato di competere nello sport come donne hanno visto violati i loro. (Dopotutto, se A=C e B=C allora A=B, non è vero?) Siamo arrivati a una tale confusione morale. Le parole non significano più nulla, quando “la parola è una forma di violenza” e quando le donne si sentono “minacciate” nelle piscine miste. Viene da chiedersi quante di queste persone abbiano mai visto o sperimentato la violenza reale, o anche solo la minaccia di essa, e come reagirebbero se lo facessero.

Questa povertà del nostro vocabolario morale, che ora consiste per lo più di ghigni, si accompagna a un appiattimento delle categorie morali. Se Trump è un altro Hitler, allora Hitler era solo un altro Trump, e combattere una guerra per sbarazzarsi di Trump sarebbe sicuramente considerato ridicolo. (Anche se quella che si potrebbe definire invidia hitleriana è oggi una potente forza politica in alcuni ambienti: simbolicamente, usiamo Twitter per abbattere “Hitler” e ci sentiamo orgogliosi di noi stessi, perché siamo coraggiosi come i nostri nonni). D’altra parte, l’idea che ci siano universi morali là fuori che la mente occidentale non può comprendere e per i quali non c’è alcuna analogia nella storia recente dell’Occidente o nella cultura popolare è troppo per molti di noi da accettare. In Medio Oriente, ad esempio, non cerchiamo seriamente di capire le motivazioni e il comportamento di attori diversi come lo Stato di Israele e lo Stato Islamico: li descriviamo invece in termini di norme etiche che, più o meno, pensiamo di comprendere. Ma quando organizzazioni con norme molto diverse (come lo Stato Islamico) vengono a farci visita, la risposta dei nostri leader è il panico intellettuale e morale, la manipolazione e il desiderio di dimenticare al più presto qualcosa di così incomprensibile. La migliore descrizione che riescono a dare delle atrocità recentemente inflitte all’Europa è la moralmente neutra “tragedia”, come se gli attacchi fossero una forza naturale, come il maltempo. All’inizio del film, Freud esprime costernazione per il fatto che in pochi giorni di combattimenti sono già morti ventimila polacchi. Beh, pensieri e preghiere.

Non è tanto che ci manchi del tutto un vocabolario morale, quanto piuttosto che esso consiste quasi interamente di insulti pronunciati da una posizione di splendida superiorità morale. Eppure i nostri leader e i nostri opinionisti mi sembrano del tutto incapaci di formulare giudizi morali autentici fondati su qualcosa, per non parlare di discuterli e di trasmetterli a una popolazione potenzialmente scettica. A livello puramente pratico, come abbiamo visto nel caso dell’Ucraina, non hanno altro che la promozione della paura e dell’odio con cui motivare le loro popolazioni, e la storia suggerisce che tali tattiche non funzionano molto a lungo.

Non credo nemmeno per un momento che assisteremo a una ripetizione del nazismo, che è stato il prodotto di un tempo e di un luogo molto particolari, e di circostanze storiche e culturali che oggi sono ampiamente comprese. Stiamo piuttosto entrando in un’epoca nuova e moralmente complessa, ma in cui non abbiamo più le risorse morali, intellettuali ed etiche disponibili per comprendere ciò che vediamo, né tanto meno per agire in modo sensato. C’è il rischio concreto di una sorta di esaurimento nervoso etico collettivo, poiché i governanti e i cittadini si trovano sempre più spesso di fronte a una realtà che non solo è spaventosa, ma che non riescono nemmeno a interpretare in modo sensato.

Questo è particolarmente vero, credo, nel mondo anglosassone, con il suo relativo isolamento dal lato più brutto del conflitto politico. Ho già citato in passato il critico polacco Jan Kott, il cui libro su Shakespeare dava per scontato che la Storia e le opere romane descrivessero un mondo di violenza e insicurezza non dissimile da quello dei tempi moderni, e che tutti i suoi lettori sapessero cosa significasse essere svegliati dalla polizia segreta nel cuore della notte. I recensori anglosassoni contemporanei lo derisero gentilmente per l’esagerazione, ma naturalmente esperienze del genere erano nella memoria di quasi tutti gli europei di allora, e in effetti erano ancora vissute quotidianamente nell’Europa dell’Est e in Spagna e Portogallo. Il divario tra queste esperienze storiche e quelle dei Paesi anglosassoni è incolmabile. George Orwell una volta osservò che sarebbe stato difficile installare uno stato di polizia in Gran Bretagna perché il popolo britannico non avrebbe saputo come vivere e comportarsi in uno stato di polizia. Con le dovute eccezioni, credo che questo sia ancora vero sia per la Gran Bretagna che per gli Stati Uniti di oggi, nel senso che in nessuno dei due casi la gente capirebbe e sarebbe in grado di affrontare l’imposizione di un regime veramente autoritario, non solo quello che infastidisce le ONG che si occupano di libertà civili. È sorprendente, ad esempio, che ci sia stata così poca opposizione organizzata alle recenti azioni di Trump, come se i suoi oppositori non riuscissero a capire cosa sta succedendo: “Trump è Hitler” è stato per loro uno slogan intelligente e riduttivo della campagna elettorale, non una chiamata all’azione.

L’altra cosa che mi ha colpito del film è stata la presentazione dell’Inghilterra nel 1939, e di quanto quel mondo fosse diverso da quello di oggi per alcuni aspetti importanti. Il film include un estratto del discorso con cui Neville Chamberlain dichiarò guerra alla Germania il 3 settembre: un’allocuzione particolarmente sobria, persino cupa, il discorso di un uomo stanco e deluso che non era riuscito a prevenire l’apocalisse imminente e che sarebbe morto un anno dopo. Non c’era nulla di quella postura febbrile e di quella vuota millanteria che ci aspettiamo dai nostri leader di oggi, che vogliono essere leader di guerra senza dover effettivamente affrontare una guerra. In questo, egli rifletteva fedelmente lo spirito del tempo. Tutti i resoconti contemporanei, e tutto ciò che ho sentito da persone vive all’epoca, suggerivano uno stato d’animo di cupo stoicismo, di paura ma non di panico e di desiderio di “farla finita”, come si diceva all’epoca sia in inglese che in francese (en finir.) Non c’era entusiasmo, c’era poco patriottismo palese e c’era un senso generalizzato di presagio.

La storia spiega molto di tutto ciò. La Prima Guerra (la “Grande Guerra”, come era conosciuta allora) era una memoria viva e un punto di riferimento universale per le famiglie, le istituzioni e i governi. Qualsiasi trentenne avrebbe avuto ricordi della guerra. Ogni uomo di quarant’anni probabilmente vi aveva prestato servizio, come Lewis. Ogni famiglia aveva perso un marito, un figlio, un padre, uno zio o un fratello. E, caso unico nella storia, per una volta un’intera classe dirigente aveva combattuto come soldato in prima linea. Se essere preparati alla guerra è una virtù, il Paese era preparato alla guerra.

Lo era anche fisicamente. Chamberlain aveva già introdotto la coscrizione in tempo di pace e istituito forze di riserva per la difesa interna. Il programma di riarmo, che era l’altra gamba della strategia di appeasement, cominciava a mostrare i suoi risultati: la Royal Air Force era stata massicciamente ampliata, gli Spitfire e gli Hurricane cominciavano ad arrivare, il sistema radar Chain Home era operativo. La produzione bellica di tutti i tipi fu intensificata e furono create “fabbriche ombra” in grado di passare alla produzione bellica. Le organizzazioni di difesa civile vennero aggiornate e migliorate, vennero create organizzazioni locali per coordinare i preparativi per i raid aerei e venne istituito un servizio antincendio ausiliario. A loro volta, questi preparativi, impossibili da riprodurre oggi, si basavano su comunità stabili e famiglie allargate, spesso organizzate intorno a chiese, sezioni sindacali e associazioni di uomini e donne. C’era un pool consistente di ex-militari ed ex-poliziotti, e non mancavano i volontari.

Ed era preparato psicologicamente. Per tutti gli anni Trenta la minaccia dei bombardamenti fu apertamente discussa. Si prevedevano attacchi su larga scala contro aree popolate, magari con l’uso di gas velenosi, e non ci sarebbero state armi miracolose per fermarli. L’avvertimento di Stanley Baldwin che “il bombardiere riuscirà sempre a passare” è stato molto deriso, ma era perfettamente corretto nel 1932 e sostanzialmente corretto nel 1939. Le difese aeree britanniche distrussero solo un numero trascurabile di aerei tedeschi nei raid notturni sulla Gran Bretagna. Per anni prima del 1939, l’opinione pubblica britannica (e anche quella francese) aveva vissuto nell’aspettativa di un attacco diretto, e forse di pesanti perdite, se fosse scoppiata una guerra.

Di conseguenza, prima della guerra furono predisposti piani di emergenza per l’evacuazione di bambini, anziani e malati da Londra. Più di mezzo milione di persone furono mandate via da Londra nei giorni successivi alla trasmissione di Chamberlain, la maggior parte con il sistema di trasporto statale di Londra e almeno il doppio da altre città. (Molti si recarono in centri di evacuazione appositamente preparati. Va da sé che tali strutture e persino tali capacità non esistono più nei Paesi occidentali. Ma soprattutto, la nostra società non esige più che i bambini inizino a liberarsi precocemente dall’abbraccio dei genitori. In un’epoca in cui il bambino medio iniziava a lavorare a quattordici anni, ci si aspettava che i figli fossero autonomi e capaci di scelte e azioni indipendenti molto prima. Lasciare i genitori per un po’ era un rito di passaggio riconosciuto: Non ricordo quando partii per la prima volta per un weekend in campeggio; avevo nove o dieci anni, credo, come era normale allora. Alcuni bambini piansero, ma tutti lo superarono. La cultura popolare dell’epoca celebrava l’emancipazione dei bambini dai genitori e le avventure che potevano vivere. Oggi sarebbe pensabile una simile evacuazione dei bambini?

Non si tratta, ovviamente, di una lamentela nei confronti dei giovani di oggi, e nemmeno dei genitori di oggi. È solo una constatazione che la società ottiene i risultati che merita, come risultato delle norme che proietta sulla vita, su come vivere e su come avere successo. Nel 1939, e per qualche tempo dopo, ci si aspettava che i genitori fossero in grado di fabbricare, coltivare e riparare le cose, di occuparsi di piccole ferite e malattie infantili e di rispondere alle emergenze quotidiane. I bambini dovevano per lo più badare a se stessi e spesso venivano mandati fuori tutto il giorno a giocare. Una società come quella aveva meno difficoltà a far fronte allo stress e al pericolo di quanto ne avrebbe la nostra società contemporanea, che premia la vulnerabilità e l’impotenza e insegna ai suoi cittadini che dovrebbero usarle per ottenere benefici e accedere al potere. I piani del 1939 si basavano non solo sulle capacità ufficiali ma, in modo critico, su presupposti di sforzo individuale e collettivo che non sono più validi.

A quei tempi, ovviamente, il governo funzionava correttamente a livello nazionale e locale, aveva sotto il suo controllo beni che oggi non ha più, ed era in grado di fare ordini per cose che utilizzavano capacità industriali che oggi non esistono più. Chamberlain poteva chiedere a una popolazione di mantenere la calma con qualche speranza di successo, in parte perché quella popolazione era ben consapevole dell’esistenza di una minaccia, ma sapeva anche che il governo stava pubblicamente facendo il possibile per proteggerla. È istruttivo, ma anche allarmante, fare un contrasto con il caos che ne deriverebbe oggi. Non si tratta semplicemente del fatto che tali organizzazioni nazionali e locali non esistono più e non possono essere ricreate, ma anche del fatto che nessun governo occidentale osa ammettere alla propria popolazione l’esistenza di una seria minaccia da cui non può proteggersi. Come ho sottolineato qualche tempo fa, il missile riuscirà sempre a passare. È per questo motivo che i governi occidentali hanno fatto tanto rumore sulle invasioni aeree e terrestri di fantasia e non hanno detto nulla sugli attacchi missilistici contro i quali la difesa è essenzialmente impossibile. In effetti, non sono affatto sicuro che i vertici dei governi occidentali semplicemente non comprendano il problema, o che siano semplicemente troppo spaventati anche solo per pensarci, figuriamoci per discuterne in pubblico. Le conseguenze politiche e strategiche potenzialmente catastrofiche di questa ignoranza e il silenzio che ne deriva spiegano molto il desiderio ossessivo dei governi occidentali di continuare la guerra e la disperata convinzione che in qualche modo il sistema russo crollerà di conseguenza: questi sono punti su cui tornerò la prossima settimana.

Certo, gli Stati occidentali conoscono gli atti di violenza dal 1945, ma in modo limitato e molto contestuale. Bisogna avere una certa età per ricordare il senso di insicurezza e paura generato dagli attentati dell’IRA degli anni ’70 e ’80 nel Regno Unito, e la leggera fitta di nervosismo che si provava passando davanti a un’auto parcheggiata in un posto strano. Gli attentati terroristici di matrice islamica di questo secolo in Europa sono stati coperti di ovatta normativa sulle “tragedie” e con mazzi di fiori, senza osare parlare del contesto più ampio se non si vuole essere chiamati islamofobici. Persino gli attentati del settembre 2001 negli Stati Uniti sembrano ormai assorbiti nel folklore nazionale, e la lunga e inutile guerra in Afghanistan che li ha seguiti non è il genere di cose che le nazioni cercano volontariamente di ricordare.

Sebbene ci siano certamente dei miti sulla reazione dell’opinione pubblica allo scoppio della guerra nei Paesi occidentali, come ce ne sono ovunque, è abbastanza chiaro che le persone reagirono per lo più con il tipo di maturità che ci si aspettava allora dagli adulti e con il tipo di solidarietà sociale che è possibile solo se si ha una società. A un certo punto del film suonano le sirene di un raid aereo (è successo davvero) e le persone, tra cui Freud e Lewis, cercano riparo. Ma c’è un momento successivo che potrebbe provenire da un film in bianco e nero degli anni Cinquanta, quando un guardiano del raid aereo in bicicletta pedala con un megafono spiegando che si trattava di un falso allarme e scusandosi per i disagi causati. Nell’eventualità di un attacco missilistico su Londra, Parigi o Berlino, dove si troverebbero oggi questi volontari non retribuiti e la popolazione ne terrebbe conto? (In Gran Bretagna, circa 7000 volontari sono morti durante il bombardamento di Londra). Il fatto è che organizzazioni di questo tipo, buone, cattive o indifferenti, più o meno riuscite, hanno bisogno di una società funzionante come base, se vogliono esistere. E per la maggior parte non ce l’abbiamo più. Il panico di massa sarà probabilmente l’ultimo dei problemi che le autorità dovranno affrontare, nella misura in cui esistono ancora autorità funzionanti.

Come ho detto, approfondirò la questione la prossima settimana, ma per il momento immaginiamo che le principali nazioni occidentali siano esplicitamente minacciate di attacco missilistico da parte di una Russia vittoriosa e arrabbiata se non vengono soddisfatte alcune richieste, e che diventi chiaro molto rapidamente che non c’è modo di intercettare i missili in modo affidabile, né di avvisare del loro avvicinamento. Diventa anche chiaro che i servizi di emergenza hanno pochissima capacità di riserva, e nessuna attrezzatura o formazione speciale, per far fronte a tali attacchi, e comunque non ci sono abbastanza specialisti in traumatologia per tutti. Si dà il caso che ci sia un precedente: gli attacchi V-2 a Londra e ad altre città nel 1944-45, con missili che viaggiavano così velocemente da non poter essere rilevati, tanto meno intercettati. Quasi tremila persone morirono a Londra e più o meno lo stesso numero ad Anversa e Bruxelles insieme. Poiché i razzi non potevano essere individuati e cadevano a caso, il panico di massa era una preoccupazione reale, anche se, dopo quattro anni di guerra e con la vittoria a portata di mano, fu contenuto fino a quando i siti di lancio non furono invasi. Ma il governo britannico temeva, con qualche giustificazione, che una popolazione stanca e stressata potesse cedere se gli attacchi fossero continuati troppo a lungo. I paragoni con i giorni nostri non sono incoraggianti ed è difficile immaginare che una situazione del genere possa risolversi positivamente.

Ma non vogliamo fissarci solo su scenari specifici che potrebbero anche non verificarsi. Sono più preoccupato, infatti, di un lungo periodo di tensioni e turbolenze politiche, in cui i leader e le società occidentali, che non hanno esperienza di paura e stress a lungo termine, potrebbero iniziare a crollare, come avrebbero potuto fare, ma non hanno fatto, nella seconda metà degli anni Trenta. (Mi chiedo, ad esempio, se una società occidentale oggi sarebbe in grado di sopportare a lungo il tipo di stress e di tensione di basso livello che è la vita quotidiana a Beirut). Dopotutto, i sistemi politici occidentali di oggi si basano in modo preponderante su un’etica di gestione: il modello è l’azienda privata o la ONG, le cui decisioni importanti riguardano gli investimenti, l’allocazione delle risorse, il reclutamento e la promozione, e il modo in cui presentare le proprie attività nei media. Non esistono più né le strutture di governo né le strutture di pensiero per affrontare una crisi davvero grave, e nessuno dei nostri politici avrà la più pallida idea di come affrontare la necessità di prendere decisioni concrete che abbiano importanti conseguenze sul mondo reale.

La mia preoccupazione è che questo porti a qualcosa di simile a uno stato d’animo irrazionale e persino nichilista tra i decisori occidentali. Temendo per la propria popolarità e persino per la propria posizione, incapaci di ottenere ciò che vogliono, costretti a fare cose che non vogliono, potrebbero reagire in modi imprevedibili e pericolosi. Freud ha osservato in La civiltà e i suoi scontenti che gli esseri umani obbediscono in gran parte a un “super-io collettivo” perché desiderano l’amore, e quindi frenano i loro impulsi aggressivi verso gli altri. Egli sosteneva che noi interiorizziamo gli eventi esterni negativi e li trattiamo come una punizione per i nostri peccati, aumentando così il nostro senso di colpa. Ma naturalmente Freud scriveva, come ci ricorda il dibattito nel film, in un contesto di credenze cristiane sulla colpa e sulla responsabilità personale che non esiste più. Oggi non siamo colpevoli, siamo vittime. Non cerchiamo l’amore, lo pretendiamo. Siamo incapaci di peccare. Nulla è mai colpa nostra e non abbiamo obblighi verso nessuno. E la nostra classe politica è l’incarnazione assoluta di questa mentalità, che Freud senza dubbio liquiderebbe come una pericolosa patologia. Se così fosse, avrebbe ragione.

Come un bambino che rompe i suoi giocattoli per punire i genitori, la nostra classe dirigente potrebbe distruggere tutto con la sua furia. Ci sono dei precedenti che ci riportano scomodamente agli ufficiali della Gestapo del film. Negli ultimi anni di Freud, e nel lavoro dei suoi seguaci, assistiamo al progressivo sviluppo del concetto di “istinto di morte”, la controparte dell’istinto di vita, la “libido” che cerca la felicità. (Ci ricorda che la Germania nazista era in effetti un gigantesco culto della morte, con una visione paranoica e psicotica del mondo, votata a una guerra eterna e implacabile, con il proprio sterminio come uno dei possibili risultati. Hitler si uccise, alla fine, dopo aver portato il suo paese alla distruzione, perché pensava che il popolo tedesco lo avesse deluso, e il Terzo Reich finì in una distruzione apocalittica, come tendono a fare i culti della morte.

Come ho detto, non siamo ancora a quel punto, e chi pensa che Trump sia Hitler o che gli Stati Uniti di oggi assomiglino alla Germania del 1933, deve tacere, perché è di fatto prigioniero di quel tipo di banalizzazione a cui mi riferivo sopra. Il rischio immediato, infatti, non è tanto quello del malvagio quanto quello dello psicotico, del leader autoritario quanto quello, ben più pericoloso, dell’adolescente. Il che non vuol dire che forze veramente pericolose e malvagie non sorgeranno altrove: purtroppo non avremo idea di come affrontarle e nemmeno di come comprenderle. L’amico di Lewis, Tolkien, ha scritto Il Signore degli Anelli, dove personaggi poco eroici che avrebbero preferito condurre una vita tranquilla sono chiamati a fare cose straordinarie. Così il famoso scambio:

“Vorrei che non fosse successo ai miei tempi”, disse Frodo.
“Anch’io”, disse Gandalf, “e anche tutti coloro che vivono per vedere questi tempi. Ma non spetta a loro decidere. Tutto ciò che dobbiamo decidere è cosa fare con il tempo che ci viene concesso”.

Freud morì in miseria e disperazione, a causa del dolore lancinante di un cancro non curabile e dell’abbandono della speranza nella razza umana. Mi chiedo: cosa direbbe il suo spirito della nostra situazione attuale e della nostra probabile incapacità di affrontare, o anche solo comprendere, i tempi che verranno?

Incontro di V. Putin con i responsabili delle agenzie di stampa internazionali

Incontro con i responsabili delle agenzie di stampa internazionali

Vladimir Putin ha tenuto un incontro con i responsabili delle principali agenzie di stampa del mondo.

Il primo vicedirettore generale dell’agenzia di stampa TASS Mikhail Gusman, moderatore dell’incontro: Signor Presidente, colleghi,

Innanzitutto, vorrei dire che sono onorato di moderare questo incontro in qualità di rappresentante dell’agenzia di stampa TASS, che ci ospita. Desidero esprimere la mia gratitudine al Presidente Putin per aver accettato la nostra iniziativa. Tra l’altro, questo è il vostro nono incontro in questo formato.

È degno di nota che l’interesse per questi incontri stia crescendo. Ricordo che i miei colleghi della Reuters mi dissero, dopo un incontro del genere l’anno scorso, che non ricordavano così tante notizie dell’ultima ora pubblicate dopo un incontro politico precedente.

Potete immaginare l’interesse suscitato dall’incontro di quest’anno. Sono accaduti così tanti eventi nell’ultimo anno, che sembra essere passato così velocemente, che i nostri colleghi si sono battuti per avere l’opportunità di partecipare a questo incontro, ma non tutti sono riusciti a farcela. Oggi sono con noi i rappresentanti di 14 importanti agenzie di stampa.

Se mi è consentito, ti suggerisco di iniziare subito con le domande e le risposte, perché sappiamo che oggi hai avuto una giornata molto impegnativa.

Vogliamo procedere?

Il presidente russo Vladimir Putin: Sì, ma prima vorrei dire alcune parole.

Mikhail Gusman: Certamente, signor Presidente.

Vladimir Putin: Vorrei dare il benvenuto a tutti. Grazie per il vostro interesse.

Abbiamo appena assistito a un concerto breve ma molto piacevole, un’esibizione di alta qualità. È tardi e siamo di buon umore, quindi non prolunghiamoci troppo. Iniziamo tutti con il Do di seconda ottava, che secondo gli esperti è segno di professionalità per i tenori. Diamoci a vicenda l’opportunità di dare il massimo prima di andare a dormire. Avrete molto da fare domani e dopodomani.

Avanti, per favore.

Mikhail Gusman: Il nostro primo relatore è la nostra collega vietnamita, un’eccellente giornalista e Direttrice Generale dell’agenzia di stampa vietnamita Vu Viet Trang. È importante sottolineare che è la prima donna a dirigere l’agenzia di stampa vietnamita nei suoi 75 anni di attività. Gode di un’ottima reputazione in Vietnam, essendo una professionista di grande esperienza e distinta.

Signora Vu, la parola è a lei.

Direttore Generale dell’Agenzia di Stampa Vietnamita (VNA), Vu Viet Trang: Innanzitutto, vorrei esprimere la nostra sincera gratitudine all’Agenzia di Stampa TASS per aver organizzato questa intervista davvero speciale con il Presidente Vladimir Putin. E grazie per il tempo che ci ha dedicato, Eccellenza.

Signor Presidente, nel suo saluto al 28° Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo, lei ha affermato che le discussioni in tale ambito potrebbero contribuire a definire l’agenda futura e le iniziative capaci di cambiare il mondo in meglio. Potrebbe illustrarci le iniziative e la visione che la Federazione Russa sta perseguendo per promuovere la pace nel mondo fondata sullo sviluppo reciproco? E quale ruolo svolge la cooperazione russa con l’Asia, e in particolare con l’Asia meridionale, incluso il Vietnam, nel portare avanti questa agenda?

Grazie.

Vladimir Putin: Tutti conoscono il nostro programma ufficiale odierno, quindi non vedo la necessità di ripercorrerlo. Tuttavia, il nostro obiettivo non è così ambizioso come cercare di usare questo forum per influenzare l’agenda internazionale o cambiare qualcosa. No, questo forum si tiene da molto tempo, dagli anni ’90. È cresciuto lentamente e ha guadagnato sempre più popolarità.

Come ha appena detto il signor Gusman, con un numero crescente di partner che si uniscono a noi, il fatto stesso di comunicare e firmare un numero considerevole di accordi, trattati e memorandum è lo scopo ultimo dei nostri sforzi nelle circostanze attuali, che sono, francamente, piuttosto impegnative. Non credo di dover spiegare cosa le renda così impegnative, dato che ci sono conflitti armati, guerre commerciali e così via. Tutto ciò ostacola il commercio globale. Ci sono tutte le ragioni per credere che le previsioni di un rallentamento del commercio mondiale non siano infondate.

Se guardiamo oltre l’agenda ufficiale, il nostro obiettivo è cercare modi per superare queste sfide, in un modo o nell’altro, e influenzare indirettamente la situazione economica globale.

Al forum parteciperanno i nostri colleghi delle principali economie, significative per dimensioni e influenza sui processi economici globali. Ci aspettiamo che il loro coinvolgimento contribuisca a esercitare un impatto positivo su tali processi.

Probabilmente non c’è bisogno di ripetere che sosteniamo un giusto ordine mondiale e il rispetto delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, anziché modificarle di mese in mese in base ai mutevoli programmi politici. Ci opponiamo fermamente a ogni forma di guerra commerciale, restrizione e così via.

La nostra cooperazione con il Sud-est asiatico sta progredendo anno dopo anno. Gli scambi commerciali sono in crescita. Non citerò cifre assolute per evitare imprecisioni, ma la crescita è innegabile e questi sono dati assolutamente affidabili che si applicano a tutti i paesi della regione, Vietnam compreso.

Per quanto riguarda la regione nel suo complesso (parlerò del Vietnam separatamente tra poco), la consideriamo estremamente promettente, perché la quota dei paesi del Sud-est asiatico nell’economia globale e i loro tassi di crescita superano la media globale. Crediamo che questi paesi siano partner molto promettenti.

Abbiamo relazioni speciali con il Vietnam – tutti lo sanno – che risalgono agli anni ’50 e ’60, soprattutto durante la lotta per l’indipendenza del Vietnam. Da allora è passato molto tempo, il mondo è cambiato e anche i nostri Paesi sono cambiati, ma i legami di amicizia e cooperazione sono rimasti intatti.

Stiamo portando avanti numerosi progetti congiunti di eccellenza, per non parlare del noto Centro Tropicale e della nostra cooperazione energetica, che ci vede impegnati sia in Vietnam che nella Federazione Russa. Siamo disposti ad ampliare questa cooperazione, anche offrendo ai nostri amici vietnamiti opportunità di lavoro nel settore russo degli idrocarburi.

Tuttavia, la nostra collaborazione non si limita a questo. Stiamo collaborando anche in ambito agricolo. Potrebbe sembrare insolito ad alcuni, ma le aziende vietnamite hanno investito somme ingenti – miliardi di dollari – nell’agricoltura russa. Questi progetti hanno funzionato con successo negli ultimi anni. Il nostro collega è sicuramente a conoscenza degli investimenti di cui parlo. Continueremo a creare tutte le condizioni necessarie affinché gli imprenditori vietnamiti si sentano sicuri di operare in Russia.

Abbiamo compiuto notevoli progressi anche in ambito umanitario, soprattutto nella formazione professionale. Diverse migliaia di studenti vietnamiti studiano in Russia in diverse discipline, sia presso istituti di istruzione superiore che presso scuole professionali. Faremo del nostro meglio per sostenere questo processo, consapevoli che ne trarrà beneficio non solo la parte vietnamita, ma anche noi, poiché stiamo costruendo una solida base umana per promuovere la futura cooperazione in tutti i settori.

Forse avrete notato che durante la mia ultima visita in Vietnam, l’intera delegazione russa, me compreso, ha incontrato laureati di università russe. Ci siamo sentiti come a casa, a Mosca o a San Pietroburgo. L’atmosfera era molto calorosa e amichevole. Queste persone sono molto entusiaste e desiderose di lavorare insieme e, cosa importante, la loro capacità di farlo sta crescendo.

L’ultima visita del Segretario Generale del Comitato Centrale del Partito Comunista del Vietnam [To Lam] in Russia ha confermato che i nostri piani e quelli dei nostri amici vietnamiti sono assolutamente realistici e realizzabili. Sono fiducioso che raggiungeremo i nostri obiettivi.

Mikhail Gusman : Grazie mille, signor Presidente.

Per ora restiamo concentrati sulla regione asiatica. Devo ammettere che è con un sentimento particolare che vorrei passare la parola al nostro grande amico, il Presidente dell’agenzia di stampa cinese Xinhua, Fu Hua, che siede proprio accanto a voi.

Oltre a essere un giornalista, è anche membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, esperto di storia del Partito Comunista Cinese e ha conseguito un dottorato in giurisprudenza. L’anno scorso ha partecipato al BRICS Media Summit in Russia. Nel complesso, Xinhua è il nostro partner affidabile e di lunga data.

Signor Fu Hua, per favore.

Il Presidente dell’Agenzia di Stampa Xinhua, Fu Hua (ritradotto) : Grazie per l’opportunità di porre una domanda. Lei è da tempo un caro amico del popolo cinese. L’ultima volta ha offerto ai giornalisti di Xinhua una piattaforma per parlare, un’opportunità fantastica e le siamo grati. Ora, passiamo alla domanda che vorremmo rivolgerle.

Negli ultimi anni, il partenariato globale e la cooperazione strategica tra Russia e Cina hanno registrato una crescita costante, con notevoli benefici nel rafforzamento della fiducia politica. A suo avviso, quali altri ambiti di cooperazione potrebbero essere ulteriormente approfonditi nelle relazioni Russia-Cina?

L’anno scorso, durante un’intervista con l’agenzia di stampa Xinhua, ha parlato dell’interesse della sua famiglia per l’apprendimento del cinese. Potrebbe approfondire il ruolo significativo che, a suo avviso, la diplomazia popolare svolge nel rafforzare le basi delle relazioni Russia-Cina?

Vladimir Putin : Sa, quando ho detto che alcuni membri della mia famiglia stanno imparando il cinese, mi riferivo a mia nipote, che ha una tata di Pechino. Parla fluentemente cinese con lei.

Ma all’inizio degli anni 2000, prima ancora di eventi significativi e di rilievo, mia figlia decise di voler imparare il cinese, semplicemente per interesse personale. Trovò un tutor e iniziò a studiare.

Oltre a questo, posso dire che l’interesse per l’apprendimento della lingua cinese sta crescendo in Russia. Ciò non sorprende, e non c’è nulla, in questo caso, che possa rendere le relazioni Russia-Cina diverse da quelle della Russia con altri Paesi in termini di espansione dei contatti e delle attività economiche.

Ogni volta che l’attività economica si espande, aumenta la domanda di professionisti che parlino una lingua straniera, proprio come un tempo accadeva con l’inglese e, prima ancora, con il tedesco. Nel XIX secolo, era il francese a farla da padrone, e questa lingua è ancora considerata una lingua di comunicazione diplomatica. Ma che ne è stato del suo status universale? Sfortunatamente per il francese, è stato completamente sostituito dall’inglese.

Per quanto riguarda l’aumento dei contatti in tutti gli ambiti, come ho detto, questo incoraggia lo studio reciproco delle lingue. Continuiamo con gli scambi studenteschi. Ad esempio, 51.000 giovani cinesi studiano in Russia e circa 25.000 russi studiano in Cina. Le nostre università, in particolare l’Università Statale di Mosca e le università cinesi, hanno stabilito contatti diretti.

Abbiamo anche sviluppato numerosi contatti umanitari e culturali. Organizziamo regolarmente anni tematici: l’Anno della Cina in Russia e l’Anno della Russia in Cina. Se non ricordo male, abbiamo iniziato questo processo con l’Anno della lingua cinese in Russia e l’Anno della lingua russa in Cina, il che non è stato un caso. Credo che abbiamo fatto bene perché ha stimolato l’interesse reciproco dei nostri popoli.

Guardi, 240 miliardi di dollari sono una cifra considerevole. È vero che il commercio della Cina con l’Europa è più ampio, per non parlare del suo commercio con gli Stati Uniti. Ma la Russia sta diventando un partner economico importante per la Repubblica Popolare Cinese. I nostri soli progetti comuni, compresi i progetti di investimento, sono stati stimati a 200 miliardi di dollari. Sono tutti realistici e saranno realizzati. Non ho dubbi al riguardo.

Naturalmente, abbiamo bisogno di professionisti in lingua russa e cinese. Questo è scontato e li formeremo sicuramente. Anzi, raddoppieremo i nostri sforzi in questo ambito, considerando che la Cina è la più grande economia mondiale e la Russia è la quarta economia più grande al mondo in termini di parità di potere d’acquisto.

Vorrei ripetere – l’ho già detto l’anno scorso – che questo percorso non è legato alla presunta svolta della Russia verso l’Asia. No, si tratta di un ambito di cooperazione naturale. Il motivo è la crescita delle nostre economie. Abbiamo notato questa tendenza già all’inizio degli anni 2000, se non alla fine degli anni ’90, e abbiamo iniziato a sviluppare relazioni con la Cina. Questo non è iniziato ieri. È proprio questo il punto.

Non lo stiamo facendo per considerazioni di vantaggio momentaneo. Lo stiamo facendo in gran parte – lo dico apertamente – grazie alla crescita del volume e della qualità dell’economia cinese e, si spera, anche della crescita del volume e della qualità dell’economia russa. Probabilmente ne parleremo più avanti.

Quali priorità vediamo in questo ambito? Una di queste è il finanziamento, ovviamente. Dobbiamo garantire flussi finanziari affidabili per il crescente volume dei nostri scambi commerciali, che ha raggiunto i 240 miliardi di dollari. Una cifra considerevole.

Vladimir Putin : Se il Cancelliere federale desidera avviare una chiamata e avviare discussioni, l’ho già detto più volte: non rifiutiamo alcun contatto e rimaniamo sempre aperti. Un anno e mezzo fa, o forse due, tali discussioni con il Cancelliere Scholz e altri leader europei erano regolari. Tuttavia, a un certo punto, quando i nostri partner europei hanno adottato l’idea di infliggerci una sconfitta strategica sul campo di battaglia, hanno interrotto loro stessi i contatti. Li hanno interrotti, bene, che riprendano. Siamo aperti, l’ho ribadito in numerose occasioni.

La Germania può contribuire più degli Stati Uniti come mediatore nei nostri negoziati con l’Ucraina? Ho dei dubbi. Un mediatore deve essere neutrale. Eppure, quando osserviamo i carri armati Leopard tedeschi sul campo di battaglia, e ora stiamo discutendo della potenziale fornitura di missili Taurus da parte della Repubblica Federale per attacchi sul territorio russo – non solo l’equipaggiamento, ma anche il coinvolgimento di ufficiali della Bundeswehr – sorgono naturalmente seri interrogativi. È noto che se ciò accadesse, non cambierebbe il corso delle ostilità – questo è fuori discussione – ma distruggerebbe completamente i nostri rapporti.

Pertanto, a partire da oggi, consideriamo la Repubblica Federale, così come molti altri paesi europei, non come uno stato neutrale, bensì come una parte che sostiene l’Ucraina e, in alcuni casi, forse come un partecipante a queste ostilità.

Tuttavia, qualora ci fosse la voglia di discutere di questo argomento e di presentare idee in merito, lo ripeto ancora una volta: siamo sempre pronti e aperti a questo.

Mikhail Gusman : Grazie, signor Presidente. Restiamo in Europa. L’agenzia Reuters non ha bisogno di presentazioni particolari. I rappresentanti di Reuters hanno partecipato praticamente a tutti gli incontri che avete tenuto.

Oggi siamo in compagnia del direttore esecutivo di Reuters, Simon Robinson. È nato in Australia, ma ha lavorato in diverse regioni: Medio Oriente, Stati Uniti e Africa. È la sua prima volta al nostro incontro e ha alcune domande per voi.

Simon Robinson, direttore esecutivo di Reuters : Grazie, signor Presidente. Vorrei porre una domanda, per favore, sull’Iran. Il Primo Ministro Netanyahu in Israele ha affermato che l’attacco di Israele all’Iran potrebbe portare a un cambio di regime. E Donald Trump, il Presidente degli Stati Uniti, ha chiesto la resa incondizionata dell’Iran. Mi chiedo se sia d’accordo con il Primo Ministro e il Presidente.

Vladimir Putin : Non capisco bene la sua domanda. Su cosa vorrebbe che fossi d’accordo o meno? Hanno detto questo e quello, e poi lei ha chiesto: “È d’accordo con questo?”. D’accordo con cosa?

Simon Robinson : Sei d’accordo con una delle loro affermazioni secondo cui ciò potrebbe portare a un cambio di regime e che l’Iran dovrebbe prepararsi alla resa incondizionata?

Vladimir Putin: Come sapete, la Russia e io personalmente manteniamo contatti su questo tema con il Primo Ministro di Israele e il Presidente degli Stati Uniti Trump. Quando si inizia a fare qualcosa, bisogna sempre valutare se si è più vicini al proprio obiettivo o meno.

Possiamo osservare che la società si sta consolidando attorno alla leadership politica nazionale, nonostante i complessi processi politici interni in Iran, di cui siamo a conoscenza, quindi non c’è bisogno di parlarne in dettaglio. Questo accade quasi sempre e quasi ovunque, e l’Iran non fa eccezione. Questo è il primo punto.

Un secondo punto molto importante, di cui tutti parlano, e quindi mi limiterò a ripetere ciò che sappiamo e sentiamo dire continuamente, è che non è successo nulla alle strutture sotterranee dell’Iran. Credo che in questo contesto sarebbe corretto unire le forze per porre fine alle ostilità e trovare un modo per far sì che le parti in conflitto raggiungano un accordo, in modo da tutelare sia gli interessi nucleari dell’Iran, anche nell’ambito dell’energia nucleare e di altri usi pacifici dell’energia nucleare, sia gli interessi di Israele in merito alla sicurezza incondizionata dello Stato ebraico. Si tratta di una questione estremamente delicata che richiede azioni estremamente caute. Tuttavia, credo che una soluzione possa essere trovata.

Come sapete, abbiamo rilevato il progetto lanciato in Iran da aziende tedesche e completato la centrale nucleare di Bushehr. Le aziende tedesche si sono ritirate dal Paese e gli iraniani ci hanno chiesto di rilevare anche quel progetto. È stato difficile perché gli specialisti tedeschi lo stavano costruendo secondo i loro progetti e Rosatom ha dovuto fare molto per adattarlo alle unità di potenza di progettazione russa.

Ciononostante, abbiamo portato a termine il progetto e la centrale elettrica funziona con successo. Abbiamo firmato un contratto per la costruzione di altre due centrali. I lavori sono in corso e sul cantiere sono presenti professionisti russi. Sono oltre 200. Abbiamo concordato con la leadership israeliana che la loro sicurezza sarà garantita.

Nel complesso, potremmo collaborare con l’Iran, tenendo conto dei suoi piani di continuare a utilizzare e sviluppare ulteriormente tecnologie nucleari non militari, in particolare in agricoltura, medicina e così via, che non sono correlate all’energia nucleare, ma potremmo anche collaborare con lui nell’ambito dell’energia nucleare stessa. Cosa mi fa pensare questo? Il motivo è che esiste un livello di fiducia sufficientemente elevato tra i nostri Paesi. Abbiamo ottimi rapporti con l’Iran. Potremmo continuare questo lavoro e tutelare gli interessi dell’Iran in questo ambito.

Non entrerò nei dettagli ora, perché ci sono molte sfumature che abbiamo discusso sia con Israele che con gli Stati Uniti. Abbiamo anche inviato alcuni segnali ai nostri amici iraniani. In generale, gli interessi dell’Iran nel campo dell’energia nucleare non militare possono essere tutelati e le preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza possono essere sollevate allo stesso tempo.

Credo che soluzioni del genere esistano. Le abbiamo proposte a tutti i nostri partner, come ho detto, compresi Stati Uniti e Israele, nonché l’Iran. Non stiamo cercando di imporre nulla a nessuno. Stiamo semplicemente esprimendo il nostro punto di vista su una possibile soluzione. Tuttavia, la scelta spetta alla leadership politica di questi Paesi, in primo luogo Iran e Israele.

Abisso iraniano: gli Stati Uniti faranno il grande passo?_di Simplicius

Abisso iraniano: gli USA faranno il salto?

Simplicius19 giugno∙Anteprima
 
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Il seguente articolo premium a pagamento è una discussione completa di tutte le possibilità per l’imminente conflitto tra Iran e Stati Uniti, comprese le mie previsioni personali su ciò che accadrà. È lungo ben oltre 5.000 parole e copre vari aspetti dello stallo, dalla capacità degli Stati Uniti – o la sua mancanza – di colpire i siti nucleari iraniani o persino di degradare la sua rete di difesa aerea, al motivo per cui la Russia e la Cina potrebbero o meno assistere l’Iran in questa undicesima ora.


Le cose si muovono con estrema rapidità sul fronte iraniano, tanto che qualsiasi analisi rischia di essere immediatamente obsoleta a causa dei nuovi sviluppi. Ciò è particolarmente vero se si considera che alcuni degli attori coinvolti – in particolare Trump – agiscono con straordinaria imprevedibilità e incoerenza.

Il trattamento che Trump sta riservando alla saga dell’Iran è stato del tutto irregolare, persino psicotico. Dalla richiesta di colloqui a improvvisi sfoghi di “SOPRAVVIVENZA” e “Evacuate Teheran ora!” è impossibile prevedere cosa dirà o farà lo squilibrato; l’unica cosa che è diventata quasi certa è che Trump è stato fatto prigioniero da una qualche forma di minaccia estremamente compromettente da parte dei suoi responsabili legati a Israele: c’è ben poco altro per spiegare il suo comportamento sconcertante e squilibrato.

C’è una cosa che lo spiega, e questo ci porta al punto principale di questo articolo. Israele si aspettava chiaramente una capitolazione molto rapida da parte dell’Iran attraverso una serie di colpi debilitanti di decapitazione che sono riusciti solo in parte. Quando ciò non è avvenuto e quando l’Iran ha iniziato a far piovere colpi di rappresaglia, il blocco guidato da Israele è andato nel panico e ha iniziato a esercitare enormi pressioni su Trump per salvare il regno “eletto”.

In parte ciò ha a che fare con il fatto che Israele non è attrezzato per un lungo conflitto interiore:

https://www.jpost.com/israel-news/defense-news/article-858121

L’articolo del Jerusalem Post sopra riportato conferma:

“Né gli Stati Uniti né gli israeliani possono continuare a stare seduti e intercettare missili tutto il giorno”, ha dichiarato Tom Karako, direttore del Missile Defense Project presso il Center for Strategic and International Studies. “Gli israeliani e i loro amici devono muoversi con tutta la fretta necessaria per fare ciò che deve essere fatto, perché non possiamo permetterci di stare seduti a giocare a rimpiattino”.

Veniamo ai punti vitali:

Israele aveva bisogno di un’operazione rapida per mettere fuori gioco l’Iran e probabilmente contava sull’entrata in guerra degli Stati Uniti. Ma questo va temperato con il fatto che Israele afferma di essersi preparato per il potenziale di un conflitto di lunga durata, ma presumibilmente solo sotto l’egida totale degli Stati Uniti e dell’Occidente che li sostengono completamente in ogni dimensione, in particolare quando si tratta di armi, carburante, ecc.

Che cosa ha fatto l’Iran? L’Iran, a quanto pare, ha scelto una strategia simile a quella della Russia, ovvero quella di rallentare deliberatamente il conflitto e di mettere a dura prova le risorse di Israele. Israele si aspettava che l’Iran “facesse il botto” e lanciasse tutta la sua dotazione di missili non solo per esaurirsi immediatamente, ma anche per provocare un’enorme “tragedia” da usare per incitare gli Stati Uniti a entrare in guerra. Invece, l’Iran ha scelto di dissanguare lentamente Israele con la strategia della “morte per mille tagli” sviluppata dalla Russia contro l’impero atlantista in Ucraina.

Così, l’Iran sta inviando ogni giorno piccole raffiche di missili per ridurre le risorse sociali, economiche e politiche di Israele.

Perché l’Iran ha scelto questa strategia? Perché è l’unica che ha una possibilità di successo, dato che dare a Israele una massiccia campagna “shock and awe” farebbe solo il suo gioco e darebbe agli israeliani esattamente quello che stavano cercando. Un rapporto indicava che Israele si era preparato ad oltre 5.000 vittime israeliane a causa degli attacchi iraniani e chiaramente non si aspettava che l’Iran scegliesse invece un metodo a fuoco lento:

https://www.iranintl.com/en/202506165262

La leadership di Israele si era preparata per circa 5,000 morti tra i civili in una guerra totale con l’Iran, ma ha scoperto che il suo nemico non è in grado di provocare gravi danni, ha dichiarato l’ex alto funzionario dell’intelligence Miri Eisin a Iran International.

Le affermazioni di Israele di aver stabilito una totale “superiorità aerea” sull’Iran sono fraudolente: gli aerei israeliani non stanno sorvolando l’Iran – non ci sono prove a sostegno di questa affermazione.

Israele ha utilizzato una combinazione di attacchi con i droni, per i quali esistono una montagna di prove. I droni UCAV sono meno rilevabili e sacrificabili, il che consente a Israele di spingerli verso Teheran subendo perdite per abbattimenti che non incidono sulla sua posizione pubblica.

Ogni singolo video di attacco rilasciato finora da Israele mostra le riprese di un UCAV o di un drone di sorveglianza, come in questo caso:

I droni IAI Heron, Harop ed Hermes sono stati avvistati numerose volte nello spazio aereo iraniano:

Scarica

Non esiste un solo video di un velivolo israeliano nello spazio aereo iraniano, ma esistono tonnellate di video che mostrano stadi di lancio di missili israeliani recuperati in Siria e in Iraq, il che indica che Israele continua a sparare missili come il Blue Sparrow da fuori dei confini iraniani.

Altri video mostrano la camma del missile Delilah, che ha una gittata di oltre 250 km e può raggiungere molti siti iraniani occidentali anche se sparato fuori dal confine.

 Drone israeliano abbattuto vicino all’impianto nucleare iraniano di Natanz

Il vice governatore di Isfahan ha confermato che il sistema di difesa aerea Khordad-3 dell’IRGC ha intercettato e distrutto un drone israeliano nei pressi dell’impianto nucleare di Natanz, vicino alla città di Kashan.

In precedenza, almeno due dei droni UCAV israeliani Hermes sono stati abbattuti sopra l’Iran:

Le immagini hanno dimostrato che Israele sta utilizzando bombe droni a guida laser per colpire tutti i veicoli iraniani visti nei video di attacco, mentre missili da crociera e balistici a lunga distanza come l’Air LORA sono utilizzati per colpire obiettivi infrastrutturali più grandi:

Un UAV d’attacco Hermes 900 dell’aviazione israeliana abbattuto dagli iraniani.

I nodi di sospensione dell’UAV da ricognizione e da attacco Hermes-900 dell’Aeronautica israeliana intercettato erano equipaggiati con bombe aeree guidate di piccole dimensioni “Miholit”, analoghe alle KAB-20S russe e alle MAM-L turche.

Le armi sono dotate di sistemi di guida laser (o di immagini termiche) semi-attivi e hanno un raggio d’azione di 12-15 km se sganciate da altitudini di oltre 5.500 metri.

È ovvio che questo UAV è stato utilizzato direttamente per ingaggiare i sistemi mobili di artiglieria antiaerea delle forze di difesa aerea iraniane.

C’è stato solo un singolo filmato che ho visto personalmente che potrebbe indicare che i jet israeliani hanno appena sfiorato il territorio iraniano, in cui sembrava che i JDAMS fossero stati sganciati su Kermanshah, che si trova a poco più di 100 km dal confine iraniano:

I JDAMS hanno in genere un raggio d’azione di 25-50 km, anche se il JDAM-ER può raggiungere i 75 km, ma non è certo che Israele lo possieda. Questo attacco potrebbe rappresentare i jet israeliani che hanno superato di qualche chilometro il confine, ma è più o meno quanto sono disposti a fare.

La domanda principale è: perché?

Perché Israele non ha ancora degradato la difesa aerea iraniana a lungo raggio. Gli unici video di attacchi che Israele ha mostrato riguardavano una piccola manciata di antichi Falchi Mim-23, Karmin-2 a corto raggio e i sistemi Khordad a corto-medio raggio. Nulla di simile al Bavar-373, equivalente all’S-300, è stato eliminato, anche se Israele “sostiene” di aver spazzato via una percentuale inventata di AD iraniani, senza alcuna giustificazione.

Sembra probabile che l’Iran abbia ritirato gran parte dei suoi sistemi AD più lunghi e seri più a est, verso Isfahan e oltre, in previsione di bombardamenti statunitensi su larga scala. Questo sarebbe in accordo con un rapporto reale sul ritiro dei lanciamissili pesanti nella stessa regione, che sono ugualmente bersaglio degli attacchi israeliani.

Ricordiamo che Israele non è mai stato in grado nemmeno di sorvolare il territorio siriano, che aveva un AD molto più debole di quello iraniano – Israele ha bombardato la Siria da dietro il Monte Libano. Solo dopo l’insediamento di Jolani, Israele è stato finalmente in grado di distruggere la rete di AD siriana abbandonata e senza equipaggio. Inoltre, ricordiamo che Israele ha dovuto far volare i suoi F-35 a pochi metri dal suolo in Giordania durante i precedenti attacchi contro l’Iran, con rapporti che affermano:

“I caccia israeliani F-35I Adir volano a bassissima quota sul territorio giordano per evitare i radar prima di colpire Teheran.“.

Allo stesso modo, gli Stati Uniti non sono in grado di sorvolare lo Yemen e devono lanciare attacchi in stand off per evitare che gli F-35 vengano “quasi abbattuti” di nuovo quando si avvicinano troppo al confine. Quindi, Israele non è certamente in grado, al momento, di sorvolare l’Iran al di là, forse, di qualche piccola incursione appena oltre il confine.

Il vero scopo dell’operazione pianificata va ben oltre la semplice degradazione del programma nucleare iraniano, e anche oltre il semplice cambio di regime, ma cerca invece di dividere interamente l’Iran in piccoli staterelli etnici facilmente dominabili:

https://www.jpost.com/opinion/articolo-858111

Non sorprende che l’Iran sia sotto i ferri per essere smembrato solo poche settimane dopo aver lanciato un nodo critico della Nuova Via della Seta cinese, che bypassa

Israele ha colpito l’Iran proprio dopo il lancio di un nuovo collegamento ferroviario tra l’Iran e la Cina. Si dà il caso che rappresenti una minaccia geoeconomica esistenziale per gli Stati Uniti e i loro alleati .

La rotta aggira le sanzioni statunitensi e sbloccherebbe l’economia iraniana, permettendole di prosperare come mai prima d’ora, con l’Iran che diventerebbe anche un hub di trasporto eurasiatico chiave che arriva fino alla Russia:

https://x.com/SputnikInt/status/1935377617760194923

Ora, il “regime” di Khamenei dovrebbe essere smantellato perché l’Iran rappresenta un contrappeso troppo grande per i sogni imperialisti dei neoconservatori e, soprattutto, per le profezie babilonesi-messianiche dei loro gestori.

L’autoproclamato “principe ereditario” dell’Iran ha persino lanciato il suo appello, prodotto dalla CIA, affinché la gente scenda in strada e rovesci il “regime” proprio al momento giusto:

Si tratta chiaramente di una produzione altamente coordinata, volta a fare all’Iran ciò che è stato fatto ad Assad e alla Siria alla fine dello scorso anno.

Gli Stati Uniti possono avere successo?

Ora arriviamo alla parte più importante. Dato che sappiamo che Israele non è in grado di penetrare lo spazio aereo iraniano con i suoi caccia, cosa possono fare Trump e gli Stati Uniti per “sconfiggere” rapidamente l’Iran?

Il problema principale è che l’obiettivo principale ostensibile è la distruzione del sito nucleare di Fordow, che si trova a centinaia di metri o più sottoterra. Le uniche armi potenzialmente in grado di farlo sono i bunker buster americani GBU-57 MOP (Mass Ordnance Penetrator).

Queste munizioni di grandi dimensioni possono essere trasportate solo dai caccia stealth B-2 o dai bombardieri strategici B-52. Non sono “bombe plananti” a lungo raggio e devono essere sganciate direttamente sull’obiettivo, il che significa che i B-2 dovrebbero penetrare fino a Fordow, nell’Iran centrale:

La grande domanda: i B-2 possono farlo?

No, non possono, almeno non senza il pericolo estremo che almeno uno di loro venga abbattuto. L’abbattimento di un B-2 “ammiraglia” sarebbe un’umiliazione disastrosa che annuncerebbe da sola il declino terminale dell’impero americano. È estremamente discutibile se Trump rischierebbe un simile attacco, date le probabilità di un minimo fallimento. Tuttavia, per correttezza, ecco la controargomentazione di un esperto:

Trump si trova tra l’incudine e il martello: ha bisogno di un’operazione molto rapida e semplice per dichiarare la vittoria e tirarsi fuori dal conflitto, in modo da non essere accusato di aver nuovamente impantanato gli Stati Uniti in un’interminabile guerra in Medio Oriente. Per renderla “breve e dolce”, dovrebbe inviare subito i B-2 e correre un rischio enorme per la reputazione dell’impero.

L’altra opzione è quella di lanciare prima una campagna su larga scala per degradare le difese iraniane, ma questo rischia di impantanarsi di nuovo in una guerra infinita, poiché l’Iran farà di tutto per intrappolare gli Stati Uniti nella sua dolorosa rete di conflitto prolungato. Potrebbero esserci settimane o mesi di gatto e topo, con potenziali perdite disastrose per gli Stati Uniti, eccetera, il tutto solo per “spianare la strada” al vero attacco. Ciò comporterebbe un enorme tributo politico per Trump e probabilmente segnerebbe la fine del suo regime. Rischia di perdere la sua base MAGA, con conseguente perdita delle elezioni di metà mandato e l’eventuale impeachment di Trump o almeno il completo disordine del partito repubblicano, che porterebbe alla vittoria dei democratici alle presidenziali del 2028.

Ricorda ancora: Gli Stati Uniti hanno avuto problemi per mesi nel tentativo di indebolire gli Houthi, con varie navi e caccia che hanno avuto degli scontri ravvicinati. Cosa li spinge a pensare che l’Iran sarebbe una passeggiata rispetto a questo?

Certo, dobbiamo ammettere quanto segue:

La caduta inaspettatamente improvvisa della Siria ha certamente galvanizzato i neocons per immaginare di poter ripetere rapidamente il trucco delle carte in Iran. E non è fuori dal campo delle possibilità: Khamenei ha molti detrattori, ed è per questo che Israele trova così facilmente talpe ed è in grado di infiltrarsi in Iran con spie e reti di sabotaggio; per non parlare del fatto che le repubbliche arabe e mediorientali sono note per esagerare la forza come meccanismo di difesa. Ricordiamo gli anni di propaganda di Hezbollah sulle “città missilistiche infinite” che non si sono mai realizzate durante la guerra di Israele contro Hezbollah, che ha portato alla decapitazione della leadership di Hezbollah. Allo stesso modo, Israele ha fallito la sua incursione e, nonostante Hezbollah abbia dato ragione a certi scettici, anche Israele non è stato all’altezza delle aspettative.

Quindi, rimane certamente una possibilità – per quanto remota possa essere – che l’Iran possa affrontare disordini interni e portare a un colpo di stato simile a quello di Assad, ma non ci sono ancora indicazioni reali che questa sia una possibilità particolarmente forte . Rimane la possibilità che la forza missilistica dell’Iran sia stata a lungo esagerata, ma non si può in buona fede sostenere che gli Houthi – che hanno lanciato missili senza sosta per mesi – siano in qualche modo riusciti a superare l’Iran in questa modalità.

Rimane il fatto che gli attacchi di Israele registrati finora hanno solo scalfito a malapena la superficie nel colpire una qualsiasi categoria di armi iraniane. Pertanto, dobbiamo concludere che qualsiasi attacco guidato dagli Stati Uniti comporterà un rischio immenso per i principali sistemi di punta iraniani, che finora sono stati trattenuti e preservati dagli attacchi israeliani.

Inoltre, anche se gli Stati Uniti dovessero riuscire a colpire Fordow, la questione della capacità del GBU-57 di penetrare o danneggiare la struttura sotterranea è molto discutibile:

Axios riporta che la decisione di Trump è appesa proprio a questa questione – si legga il grassetto qui sotto:

https://www.axios.com/2025/06/18/trump-bunker-buster-bomba-iran-nucleare-programma

Trump dubita del completo successo di un potenziale attacco all’impianto sotterraneo iraniano di Fordow, scrive Axios.

Secondo le fonti della pubblicazione, egli è preoccupato di sapere se i missili americani Massive Ordnance Penetrator (MOP) saranno davvero in grado di distruggere questo impianto “più fortificato” dell’Iran.

I MOP non sono mai stati utilizzati sul campo di battaglia, sebbene siano stati sottoposti a diversi test durante lo sviluppo, si legge nella pubblicazione.

Israele, tuttavia, non dispone di tali munizioni. Secondo un funzionario statunitense, la parte israeliana ha detto all’amministrazione Trump che, pur non potendo penetrare in profondità nel sottosuolo con le bombe, può farlo usando le persone.

Il problema è che molti analisti ritengono che l’impianto di Fordow si trovi a 200-400 piedi di profondità, e che le GBU-57 siano in grado di penetrare solo per oltre 200 piedi, più o meno. Alcuni sostengono addirittura che Fordow possa avere sezioni di oltre 1.000 piedi o molto di più. Ciò richiederebbe l’impiego di molti GBU-57 nello stesso punto, il che significa generare molte sortite di B-2 e rischiarle sopra l’AD iraniana.

È un rischio particolare dato che l’Iran conosce esattamente il un sito che è nel mirino, ed esattamente l’arsenale che sta per sorvolare quel sito. Questo dà all’Iran ogni vantaggio nel pianificare un’imboscata per umiliare gli Stati Uniti facendo fuori un B-2. Non vedo come gli Stati Uniti possano portare a termine la missione senza prima impiegare una vasta campagna offensiva per degradare la rete di difesa iraniana e controllare totalmente i cieli sopra il sito prima.

Tenendo conto di ciò, ecco le opzioni finali e i potenziali risultati a mio avviso:

1. Trump sta pesantemente bluffando e sa che gli Stati Uniti non hanno alcuna possibilità senza una campagna prolungata per degradare l’esercito iraniano. Spera che le sciabolate e le passeggiate con i bombardieri possano spaventare l’Iran e indurlo alla capitolazione; proprio come mesi fa ha fatto volare i B-2 a Diego Garcia in una dimostrazione di forza, poi è stato costretto a richiamarli quando non ha sortito alcun effetto. Oggi abbiamo avuto un accenno a questa opzione, dato che Trump ha lasciato ancora una volta la porta aperta ai negoziati, osservando che l’Iran ha ancora una possibilità di risolvere la questione senza violenza, con varie voci – sebbene pubblicamente smentite – di delegazioni iraniane dirette in Oman per colloqui con Witkoff.

NYT: Il Presidente Trump si trova di fronte a una decisione cruciale nella guerra in corso da quattro giorni tra Israele e Iran. Deve decidere se intervenire aiutando Israele a distruggere l’impianto di arricchimento nucleare di Fordo, profondamente sepolto, al quale si può accedere solo con bombe americane “bunker buster” sganciate da bombardieri B-2. Inoltre, il Presidente Trump ha incoraggiato il Vicepresidente JD Vance e il suo inviato in Medio Oriente, Steve Witkoff, a proporre un incontro con gli iraniani questa settimana. I funzionari ritengono che questa offerta possa essere ben accolta.

2. Trump sceglierà di decapitare il “regime” facendo fuori Khamenei, il che gli darà una vittoria eclatante e la questione del nucleare potrà essere messa da parte. Khamenei sarebbe molto più facile da eliminare con attacchi di precisione, che non richiederebbero il volo di bombardieri strategici esposti sul centro dell’Iran. Questo potrebbe anche includere molti altri colpi di missili da crociera su siti militari iraniani, che permetterebbero agli Stati Uniti di salvare la faccia e dichiarare una sorta di vittoria di pubbliche relazioni.

3. Trump e l’Iran si accordano su una stretta di mano segreta che consentirebbe ai B-2 di avere un corridoio aperto per colpire la montagna di Qom che protegge Fordow, dopodiché seguirebbe un regime di de-escalation. Anche se Fordow non verrebbe danneggiata, gli Stati Uniti salverebbero la faccia e Trump otterrebbe una parvenza di “vittoria”, mentre l’Iran rimarrebbe tranquillo e accetterebbe qualche nuovo accordo che Israele sarebbe costretto a firmare con riluttanza.

4. Trump decide di “fare il botto” e lancia una grande campagna aerea per degradare le difese iraniane prima di rischiare l’attacco B-2. A questo punto si scatena l’inferno, perché l’Iran non avrebbe altra scelta che attaccare le navi statunitensi nei golfi di Persia e Oman, attaccare le basi militari statunitensi in Iraq, Qatar, ecc. e chiudere lo stretto di Hormuz.

A questo punto si trasformerebbe in un conflitto prolungato che sarebbe l’incubo che nessuno vuole. Sembra che gli Stati Uniti si stiano già preparando a questa eventualità:

Le immagini satellitari della base aerea di Al Udeid, in Qatar, una delle basi più importanti dell’aeronautica statunitense in Medio Oriente, sembrano mostrare la base completamente abbandonata. La base, che ospita regolarmente decine di velivoli militari, tra cui aerocisterne per il rifornimento aereo, velivoli di sorveglianza e velivoli da carico/trasporto con le forze aeree statunitensi e britanniche, sembra ora non avere un solo velivolo a terra, probabilmente tutti evacuati verso basi aeree in altre parti del Medio Oriente o in Europa, a causa delle preoccupazioni di un potenziale attacco da parte dell’Iran.

La TV iraniana ieri sera:

Previsione

La mia conclusione personale: credo che il rischio per gli Stati Uniti sia troppo grande perché Trump possa lanciare un attacco su larga scala. Pertanto, non posso che supporre che Trump stia di nuovo bluffando per portare gli iraniani al tavolo delle trattative e che alla fine cercherà di de-escalation.

Trump si tira indietro, secondo Axios.

Se dovesse attaccare, potrebbe scegliere di giocare sul sicuro lanciando prima attacchi a distanza su larga scala con missili da crociera, evitando di rischiare vere e proprie incursioni aeree in Iran. C’è la possibilità che adotti questa “mezza misura”, per poi forse ridimensionare l’operazione e dare di nuovo un “avvertimento” all’Iran di presentarsi al tavolo delle trattative prima “dell’attacco finale”, che sarebbe solo il modo degli Stati Uniti di salvare la faccia e non dover mettere a rischio la propria flotta di B-2 e F-35.

Certo, c’è sempre la possibilità che la mia valutazione sulla forza dell’Iran sia troppo ottimistica, o che la potenza degli aerei stealth statunitensi sia sottovalutata . Forse i B-2 stealth sono davvero molto più “invisibili” di quanto pensiamo, e gli Stati Uniti riescono a portare a termine i loro attacchi senza perdite. Ma trovo difficile credere che l’Iran conosca le coordinate esatte verso cui voleranno i B-2 e non sia in grado in qualche modo di attaccarli in modo significativo. Ricordiamo che l’intera flotta aerea iraniana è ancora illesa, con solo un paio di vecchi F-14, che si dice siano aerei di recupero dismessi, finora distrutti.

L’Iran dovrebbe comunque avere più di 250 caccia, sebbene per lo più modelli datati. Ma sufficienti a rappresentare teoricamente un grave rischio per una flotta di bombardieri pesanti con un punto di convergenza noto con precisione. Ricordiamo che la Serbia ha fatto bombardare l’intera flotta NATO per mesi per stabilire la superiorità aerea, e anche in quel caso sono stati colpiti molti aerei, inclusi diversi F-117.

E le argomentazioni di cui sopra non affrontano nemmeno lontanamente la questione della flotta navale, con l’Iran che potrebbe lanciare missili antinave difensivi contro le navi statunitensi. Forse l’Iran giocherà sul sicuro, come alcuni credono abbia fatto contro Israele – dove l’Iran risponde solo con pochi attacchi reattivi e non provocatori, piuttosto che con attacchi proattivi davvero debilitanti; è possibile se l’Iran ritiene troppo alto il pericolo di distruzione totale e vuole semplicemente salvare la faccia ed esigere una certa deterrenza.

Pertanto, l’Iran potrebbe lanciare altri “attacchi simulati” contro basi statunitensi vuote, ma astenersi dal compiere attacchi davvero paralizzanti, come quelli contro portaerei statunitensi, ecc., poiché ciò indurrebbe a una risposta troppo dura. L’Iran potrebbe essere costretto a subire le sue conseguenze, limitandosi a cercare di preservare una parvenza di dignità contro ogni previsione: dopotutto, l’intero Occidente si sta lentamente preparando per unirsi agli attacchi in un modo o nell’altro, con la Gran Bretagna che ha appena annunciato che potrebbe unirsi agli Stati Uniti in qualsiasi attacco.

Da fonti pubbliche: presunti sbarramenti missilistici iraniani finora.

Alla fine, ci troviamo di fronte al seguente dilemma: Trump ha bisogno di una vittoria rapida. Ma c’è il temuto triangolo del triplo vincolo: ricordate, veloce, economico, buono? Qui è veloce, sicuro, buono: potete sceglierne solo due. Trump può avere una vittoria veloce e sicura, ovvero un “shock and awe” di tutti gli attacchi missilistici stand-off, ma non sarà buono, nel senso che non raggiungerà gli obiettivi primari. Può avere una vittoria sicura e buona, ma non sarà veloce, il che significa una lunga e protratta palude che distruggerà il suo impero MAGA e lo trasformerà in ciò che lui stesso odia. Oppure può provare una vittoria “buona e veloce”, il che significa impiegare immediatamente i B-2 per porre fine alla campagna in anticipo, ma di certo non sarà sicura e potrebbe concludersi con un disastro generazionale che segnerà una svolta nella caduta dell’impero statunitense.

Ecco un’altra analisi valida ed equilibrata :

Alcune riflessioni di alto livello sulla strategia dell’Iran fino ad oggi e su cosa riserva il futuro:

1. Il primo attacco al comando dell’IRGC fu un duro colpo, che eliminò personale chiave dalla rete di comando centrale dell’organizzazione: il gruppo di uomini che rimase unito fin dai primi giorni della guerra Iran-Iraq e che crebbe fino a trasformare l’IRGC nell’istituzione che è oggi.

2. Detto questo, le perdite di personale sono state rapidamente rimpiazzate dalla Guida Suprema dell’Iran. Sebbene la perdita della rete di comando centrale dell’IRGC avrà conseguenze a lungo termine sull’identità del gruppo, si tratta di un’istituzione tentacolare, progettata per il ricambio generazionale.

3. La perdita, e la successiva ripresa, del comando e controllo furono evidenti nella reazione iniziale dell’Iran all’attacco israeliano, con un ritardo notevole prima che l’Iran lanciasse la sua prima raffica di missili contro Israele. Ci volle ancora più tempo perché l’Iran riacquistasse un po’ di ordine nelle sue difese aeree.

4. Il ritardo nel comando e controllo tra missili e difese aeree potrebbe essere dovuto al fatto che i missili sono di esclusiva competenza dell’IRGC, mentre la difesa aerea è divisa con l’Artesh e governata dal quartier generale di Khatam al-Anbiya. In particolare, Israele ha preso di mira due volte il comandante del quartier generale di Khatam al-Anbiya.

5. Sebbene l’Iran abbia investito molto nelle sue difese aeree e rimarrà deluso dalle loro prestazioni fino ad oggi, è sempre stato chiaro che un nemico tecnologicamente superiore avrebbe potuto rapidamente sopraffarlo. È per questo che l’Iran ha scavato a fondo nel sottosuolo e utilizza strategie di guerra asimmetriche.

6. L’Iran subirà perdite significative, ma questo è incluso nella sua dottrina difensiva. Non avrà un obiettivo chiaro se non quello di infliggere a Israele abbastanza dolore da costringerlo a un cessate il fuoco. Per raggiungere questo obiettivo, prolungherà il conflitto il più a lungo possibile.

7. Questo è evidente nelle salve missilistiche dell’Iran: misurate e costanti, ma sufficientemente varie da tenere Israele in difficoltà. L’Iran non ha bisogno di lanciare 200 missili per raggiungere i suoi obiettivi; sferrare uno o due colpi di grande portata al giorno, ma per settimane consecutive, ha un impatto molto maggiore.

8. Il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra sconvolgerà l’attuale ritmo del conflitto. A differenza dello stile di guerra a distanza con Israele, l’Iran dispone di risorse ingenti che può impiegare per danneggiare gli interessi statunitensi nella regione. La sua intera dottrina militare è orientata al conflitto con gli Stati Uniti.

9. Se gli Stati Uniti entrassero in guerra, l’Iran avrebbe a disposizione decine di migliaia di missili balistici a corto raggio e sciami di droni e imbarcazioni d’attacco unidirezionali. Se la situazione non viene contenuta, il rischio di una grave escalation è enorme, con un ampio margine di conseguenze indesiderate.

10. Considerazione finale: dov’è Esmail Qaani, capo della Forza Quds e uno degli ultimi membri rimasti della rete di comando centrale dell’IRGC? La Forza Quds e i suoi alleati regionali sono stati duramente colpiti nell’ultimo anno, ma rimangono una forza potente e possono fungere da possibile guastafeste.

Infine, molti si chiedono perché Cina e Russia non “salvino” l’Iran con un massiccio ponte aereo, o come ha fatto l’Occidente per l’Ucraina. Innanzitutto, le notizie continuano a suggerire che la Cina lo stia effettivamente facendo:

Per quanto riguarda la Russia, Putin aveva precedentemente osservato che era la Russia a voler effettivamente concludere una partnership strategico-difensiva con l’Iran, ma l’Iran aveva rifiutato:

In breve, quando Russia e Iran hanno firmato una “partnership strategica” all’inizio di quest’anno, la Russia era disposta a elevarla allo stesso livello o a uno simile di quella con la Corea del Nord, dove includeva non solo un vago linguaggio di integrazione strategica, ma anche specifici obblighi di difesa in caso di attacco da parte di nazioni avversarie.

Perché l’Iran ha rifiutato?

L’inviato dell’Iran in Russia ha dichiarato quanto segue:

È stato l’Iran a ridurre deliberatamente la portata dell’accordo, rifiutandosi di includere una clausola di difesa reciproca completa. Prima della firma del “Partenariato Strategico Globale” il 17 gennaio 2025, l’ambasciatore iraniano a Mosca, Kazem Jalali, ha dichiarato apertamente che l’ Iran “non è interessato ad aderire ad alcun blocco di difesa” e preferisce mantenere la propria indipendenza e autosufficienza.

Di conseguenza, questo patto non rispecchia le disposizioni di difesa reciproca contenute negli accordi della Russia con la Bielorussia o la Corea del Nord. “La natura di questo accordo è diversa. Loro (Bielorussia e Corea del Nord) hanno instaurato relazioni di partenariato (con Mosca) in una serie di settori che non abbiamo trattato in modo specifico. L’indipendenza e la sicurezza del nostro Paese, così come l’autosufficienza, sono estremamente importanti. Non siamo interessati ad aderire ad alcun blocco”, ha dichiarato Kazem Jalali, ambasciatore iraniano a Mosca, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa TASS.

Bene, questo chiarisce le cose, non è vero?

Naturalmente, è ancora nell’interesse della Russia preservare l’Iran, patto di difesa o no, poiché la caduta dell’Iran comporterebbe gravi conseguenze per tutta l’Eurasia. Ma la Russia potrebbe benissimo contribuire in modi di cui non siamo ancora a conoscenza, o forse Putin semplicemente non ha la volontà o le risorse necessarie in questo momento.

Come breve affermazione conclusiva, dobbiamo riconoscere i culmini isterici che attualmente attanagliano il mondo. Sono un sottoprodotto e un’espressione della fase finale della “fine della storia” che siamo condannati a vivere, il punto cardine della grande Quarta Svolta. È un tempo di cambiamenti escatologici in arrivo, di finali e chiusure, che le nazioni e i loro leader possono intuire ma non verbalizzare del tutto. Possono agire solo d’impulso, con un’aggressività spaventata e riflessiva, un disperato bisogno di restare a galla, per non essere trascinati dalle oscure correnti sottostanti.

In tempi come questi, si avverte una sorta di impulso a “prendere tutto quello che si può”, simile a quello dei clienti del supermercato che in preda al panico accumulano latte e carta igienica. Solo che questo avviene su scala nazionale, con i leader mondiali che percepiscono l’imminente crisi, la frammentazione di vecchi sistemi e rituali, la dissoluzione degli ordini globali. In tempi come questi, i despoti più egoisti si affannano per trarre vantaggio dal caos e accaparrarsi ciò che resta della torta, in stile “cane mangia cane”.

Israele ne è il massimo esempio, poiché sente che la sua finestra di opportunità si sta chiudendo per sempre. Il mondo di domani promette schemi internazionali imprevedibili che non possono più garantire la marcia progressista di Israele verso il suo destino profetizzato. Anche Trump sembra essere stato colpito dallo spirito di follia isterica di questi tempi; metafisicamente intrappolato in una sorta di epilogo ricorsivo di “fine della storia”, incapace di elaborare il finale decisivo e necessario per la saga secolare dell’imperialismo della finanza privata, mentre il lustro dorato del MAGA svanisce lentamente in quello di una reliquia austera.

C’è ancora la possibilità di tornare indietro nel tempo, se Trump prendesse la decisione giusta. Può arginare la marea con un colpo di penna, ma le probabilità sono a suo sfavore. L’escalation e la guerra, in qualche modo, sembrano sempre opzioni più facili, forse perché il caos che generano rende facile distrarsi dai propri errori e mancanze – o persino dalla propria impopolarità e responsabilità penale, come nel caso di Bibi. È un parallelo calzante, dato che Trump ora rischia di seguire le orme di Netanyahu, diventando a sua volta un criminale di guerra vilipeso a livello globale e impopolare in patria.

Scelte.

SONDAGGIOCosa succederà?Trump bluffa e dà via libera all’Iran.Trump lancia attacchi su vasta scala.
SONDAGGIOSe Trump lanciasse degli attacchi, questi:Fallimento massiccio, l’Iran abbatte il B2Riuscire pienamente, l’Iran crollaPortare a una guerra di logoramento prolungataColpire i siti nucleari, poi ritirarsi

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Vertice Cina-Asia centrale, di Fred Gao

Vertice Cina-Asia centrale

Trattato di buon vicinato, amicizia e cooperazione PERMANENTI — Trascrizione completa

Fred Gao17 giugno
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Stavo per addormentarmi quando ho letto il risultato appena firmato del vertice Cina-Asia centrale, un trattato diplomatico tra la Cina e cinque paesi dell’Asia centrale, tra cui Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, che annuncia “buon vicinato, amicizia e cooperazione permanenti”.

Nei trattati diplomatici cinesi, il termine “permanente” (永久) non è comune. Ad esempio, nel Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza tra Cina e RPDC , è semplicemente espresso come “amicizia per generazioni”. Nel discorso di Xi Jinping durante il vertice , lo ha descritto come

La firma del Trattato di Buon Vicinato, Amicizia e Cooperazione Permanente da parte delle sei nazioni sancisce giuridicamente il principio di amicizia per le generazioni future. Ciò costituisce una nuova pietra miliare nella storia delle relazioni tra le sei nazioni e rappresenta un’iniziativa rivoluzionaria nella diplomazia di vicinato della Cina, che porta benefici alla generazione attuale e tutela gli interessi dei millenni futuri.

以法律形式将世代友好的原则固定下来,这是六国关系史上新的里程碑,也是中国周边外交的创举,功在当代、利在千秋.

Credo che il trattato segni un’evoluzione nella cooperazione strategica tra Cina e Asia centrale. Sebbene diversi articoli affrontino diverse dimensioni della sicurezza, dalla geopolitica al traffico di droga e di esseri umani, ritengo che l’articolo 3 meriti maggiore attenzione, con tutte le parti che ribadiscono che:

  • Rispetteranno la sovranità nazionale e l’integrità territoriale, adottando misure per vietare qualsiasi attività nei loro territori che violi questo principio.
  • Non parteciperanno ad alcuna alleanza o gruppo diretto contro qualsiasi altro partito, né sosterranno azioni ostili ad altri partiti.A differenza dei precedenti trattati bilaterali che menzionavano specificamente alcuni movimenti separatisti (come il Movimento Islamico del Turkestan Orientale), questo trattato utilizza deliberatamente un linguaggio ampio che proibisce qualsiasi attività separatista. A mio avviso, una definizione ampia implica un ambito di applicazione più ampio, il che implica una maggiore fiducia politica.

Alcuni rapporti inquadrano questo fenomeno come un tentativo della Cina di competere con la Russia o gli Stati Uniti nella regione. Tuttavia, credo che l’importanza dell’Asia centrale per la Cina non debba necessariamente essere un gioco geopolitico a somma zero.

Dal punto di vista geopolitico, i paesi dell’Asia centrale esportano ingenti quantità di petrolio greggio verso la Cina, il che è vitale per la sicurezza energetica cinese. Inoltre, sia gli sforzi di contrasto al separatismo nello Xinjiang sia la lotta al traffico di droga dall’Afghanistan richiedono un coordinamento con i paesi limitrofi. Dal punto di vista economico, il commercio tra Cina e Asia centrale è in forte crescita, raggiungendo i 94,8 miliardi di dollari nel 2024. Le esportazioni cinesi di beni e servizi verso l’Asia centrale hanno raggiunto i 64,2 miliardi di dollari quell’anno, rappresentando oltre i due terzi del commercio bilaterale. Inoltre, l’Asia centrale funge da snodo di transito fondamentale per le esportazioni cinesi verso l’Europa. Il progetto ferroviario Cina-Kirghizistan-Uzbekistan, recentemente avviato, che collegherà i mercati mediorientali, sottolinea ulteriormente il valore strategico della regione come snodo commerciale transcontinentale, rendendo la stabilità regionale essenziale per gli interessi economici più ampi della Cina.

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Di seguito la traduzione in inglese del trattato da me redatto:


Trattato di buon vicinato, amicizia e cooperazione permanente tra la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica del Kazakistan, la Repubblica del Kirghizistan, la Repubblica del Tagikistan, il Turkmenistan e la Repubblica dell’Uzbekistan

La Repubblica Popolare Cinese, la Repubblica del Kazakistan, la Repubblica del Kirghizistan, la Repubblica del Tagikistan, il Turkmenistan e la Repubblica dell’Uzbekistan, di seguito denominate “le Parti”,

Considerando che il rafforzamento globale dell’amicizia di buon vicinato e della cooperazione reciprocamente vantaggiosa è nell’interesse fondamentale dei popoli di tutti i paesi,

Prendendo atto che il mantenimento della pace, della stabilità e dello sviluppo nella regione e il rafforzamento della collaborazione a tutto campo sono in accordo con la volontà comune e gli interessi fondamentali dei popoli di tutti i paesi e sono di grande importanza per l’Asia e il mondo,

Ribadendo il loro impegno nei confronti degli scopi della Carta delle Nazioni Unite e di altri principi e norme riconosciuti del diritto internazionale,

In base alle leggi dei rispettivi paesi,

Ribadendo il loro fermo sostegno ai principi di indipendenza nazionale, sovranità, integrità territoriale, uguaglianza sovrana e inviolabilità dei confini delle Parti,

Impegnato a mantenere lo sviluppo stabile delle relazioni tra i sei paesi, migliorando il livello di cooperazione in tutti i campi e disposto ad approfondire e trasmettere l’amicizia dei popoli di generazione in generazione,

Ribadendo la loro determinazione a lavorare insieme per costruire una comunità Cina-Asia centrale più vicina con un futuro condiviso,

Hanno concordato quanto segue:

Articolo 1

Le Parti, sulla base dei principi e delle norme riconosciuti del diritto internazionale e dei cinque principi del reciproco rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale, della reciproca non aggressione, della reciproca non ingerenza negli affari interni, dell’uguaglianza e del reciproco vantaggio e della coesistenza pacifica, svilupperanno in modo completo relazioni di partenariato strategico stabili e a lungo termine.

Le Parti ribadiscono che non ricorreranno alla forza l’una contro l’altra né minacceranno di ricorrervi e che risolveranno le controversie pacificamente.

Articolo 2

Le Parti rafforzeranno in modo complessivo la fiducia reciproca e il coordinamento strategico, sosterranno reciprocamente il percorso e il modello di sviluppo scelti in base alle rispettive condizioni nazionali, sosterranno reciprocamente le posizioni su questioni di interesse fondamentale e sosterranno le strategie di sviluppo economico attuate da ciascuna di esse.

Articolo 3

Le Parti rispettano il principio della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale e adottano misure per vietare qualsiasi attività nei loro territori che violi tale principio.

Le Parti non prenderanno parte ad alcuna alleanza o gruppo diretto contro un’altra Parte, né sosterranno alcuna azione ostile alle altre Parti.

Articolo 4

Le Parti attribuiscono grande importanza alle consultazioni politiche e utilizzeranno meccanismi di incontro a tutti i livelli, comprese visite ad alto livello, per scambiare regolarmente opinioni e coordinare le posizioni sulle relazioni Cina-Asia centrale e sulle questioni internazionali e regionali di comune interesse.

Articolo 5

Le Parti sono disposte a cooperare sulla base dell’uguaglianza e del reciproco vantaggio nei settori del commercio, dell’economia, degli investimenti, della connettività delle infrastrutture, della tecnologia ingegneristica, dell’energia (compresa l’energia idroelettrica e le energie rinnovabili), dei trasporti, dei minerali, dell’agricoltura, della tutela ecologica e ambientale, delle industrie di trasformazione, della scienza e della tecnologia e di altri settori di interesse comune.

Articolo 6

Le Parti adotteranno le misure necessarie per realizzare scambi e cooperazione nei settori della cultura, dell’istruzione, della sanità, del turismo, dello sport, dei media e di altri settori di interesse comune.

Articolo 7

Le Parti, conformemente alle rispettive legislazioni nazionali e ai rispettivi obblighi internazionali, coopereranno nell’ambito di meccanismi bilaterali e multilaterali per combattere congiuntamente il terrorismo, il separatismo e l’estremismo, nonché la criminalità organizzata transnazionale, l’immigrazione clandestina e il traffico illegale di armi, stupefacenti, sostanze psicotrope e dei loro precursori.

Articolo 8

Le Parti, conformemente alle rispettive legislazioni nazionali e ai rispettivi obblighi internazionali, rafforzeranno la fiducia reciproca nei settori della difesa, dell’industria della difesa e della sicurezza e amplieranno la cooperazione bilaterale e multilaterale su altre questioni in tali settori.

Articolo 9

Le Parti rafforzeranno la comunicazione e il coordinamento nell’ambito delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali e meccanismi multilaterali a cui partecipano, e si adopereranno per promuovere la pace, la stabilità e lo sviluppo sostenibile a livello globale e regionale.

Articolo 10

Qualora dovessero sorgere controversie o divergenze nell’interpretazione e nell’attuazione del presente Trattato, le Parti le risolveranno mediante negoziati e consultazioni amichevoli.

Articolo 11

Il presente Trattato non è diretto contro alcun Paese terzo e non pregiudica i diritti e gli obblighi delle Parti in quanto parti di altri trattati internazionali bilaterali e multilaterali.

Articolo 12

Per attuare le disposizioni del presente Trattato, le Parti possono, ove necessario, firmare trattati internazionali separati su specifici settori di interesse comune.

Articolo 13

Con il consenso di tutte le Parti, mediante consultazione, modifiche e integrazioni al presente Trattato possono essere apportate sotto forma di protocolli separati, che costituiscono parte integrante del presente Trattato.

Articolo 14

Il depositario del presente Trattato è il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese.

Il depositario invia copie certificate del Trattato a tutti i firmatari entro 15 giorni dalla firma del presente Trattato.

Articolo 15

Il presente Trattato è valido a tempo indeterminato ed entra in vigore alla data in cui il depositario riceve, attraverso i canali diplomatici, l’ultima notifica scritta che le Parti hanno completato le loro procedure interne per l’entrata in vigore.

Il depositario notificherà a tutte le Parti la data di entrata in vigore del presente Trattato.

Ciascuna Parte ha il diritto di recedere dal presente Trattato mediante notifica scritta al depositario attraverso i canali diplomatici.

Il presente Trattato cesserà di avere effetto per la Parte recedente 12 mesi dopo che il depositario avrà ricevuto la notifica di recesso. Il depositario informerà le altre Parti della decisione della Parte recedente in merito.

Il depositario notifica alle altre Parti quando il presente Trattato cessa di avere effetto per la Parte che recede.

Il presente Trattato è stato firmato ad Astana il 17 giugno 2025 in un unico esemplare originale, redatto in cinese e russo. Entrambi i testi sono ugualmente autentici.

Grazie per aver letto Inside China! Questo post è pubblico, quindi sentiti libero di condividerlo.

ReArm Iran 2…e anche Israele_di Fogliolax

Rimpolpiamo l’articolo precedente (qui) con le ultimissime notizie dal Medio Oriente.

· I fatti

I due contendenti non si sono certo risparmiati in questi giorni.

Israele ha privilegiato le azioni di sabotaggio (in stile ucraino) con l’uso di droni e missili azionati dagli agenti infiltrati in territorio iraniano, mentre i caccia solo questa notte sono tornati a martellare con forza. Gli aerei israeliani, sfruttando i cieli aperti (per loro) di Giordania, Siria, Iraq e Azerbaijan, riescono a colpire quasi ovunque da Teheran a Isfahan e persino nella città santa sciita di Mashhad, al confine col Turkmenistan.

L’Iran, invece, predilige gli attacchi notturni (in stile russo) con ondate di droni e missili che esauriscono le difese nemiche. Haifa e Tel Aviv sono quasi sempre nel mirino, ma anche la base aerea di Nevatim e le strutture dei servizi segreti sono state colpite.

In attacco i due nemici più o meno si equivalgono; gli obiettivi preferiti da Israele sono gli aeroporti, le infrastrutture energetiche, i siti militari, di ricerca, nucleari e le figure dirigenziali sia militari che civili.

L’Iran, adottando un’altra tattica russa, centra lo stesso tipo di bersagli.

In difesa assistiamo a qualche progresso per gli iraniani, mentre per gli israeliani non si mette benissimo (lo vedremo tra poco).

· Le persone

In Libano, in Iraq e a Gaza gli attacchi notturni vengono visti come un film all’aperto o uno spettacolo pirotecnico: gente in strada e sui tetti che filma coi cellulari a suon di musica; a Teheran le reazioni sono miste, diverse persone lasciano la città, altre festeggiano in piazza fregandosene anche degli allarmi. Sono balzati agli onori della cronaca due giornalisti che, dopo essere stati bombardati in diretta, hanno ripreso le trasmissioni. Così come il noto professor Marandi scampato a un attacco missilistico, spostatosi in un seminterrato e andato in onda come ospite nel seguito programma del giudice Napolitano, in diretta nientemeno che da New York.

In generale, possiamo dire che il Paese si è stretto attorno ai vertici politici, militari e religiosi.

In Israele i più giovani rimangono in strada o sui balconi per riprendere le battaglie tra i missili e postarle sui social, cosa che ha fatto infuriare l’esercito (come in Ucraina); i meno giovani si riparano nei rifugi sotterranei o nella metropolitana con un misto di paura e nervosismo. Il Paese non si è stretto attorno al governo, almeno questa è l’impressione.

Occorre sempre tenere presente che al di là delle immagini spettacolari, ci sono persone che soffrono e che muoiono. Per quanto fino ad ora il numero delle vittime non sia minimamente paragonabile, ad esempio, a quelle di Gaza o del 7 ottobre, ricordiamoci che ogni vita è sacra.

· Considerazioni tecniche (sono fondamentali in una guerra, vi tocca leggerle)

In attacco Israele sfrutta la sua aviazione decisamente superiore a quella iraniana. Se la guerra dovesse durare pochi giorni problemi zero, se si prolungasse verrebbero fuori le note magagne degli F-35: costi di manutenzione e consumi di carburante disumani, surriscaldamento e malfunzionamenti elettronici in caso di stress operativo.

Quanto agli agenti del Mossad infiltrati che hanno dato un bel vantaggio iniziale ad Israele, vedremo quanto resisteranno alla caccia all’uomo che è iniziata per tutto l’Iran. Sono stati mobilitati i Basij, una sorta di guardia nazionale, e in molti villaggi sono sorte milizie popolari che hanno scovato diversi nascondigli, magazzini e mezzi utilizzati per attaccare i siti sensibili all’interno del Paese.

Pure l’Iran pare non avere problemi ad attaccare, tuttavia la reale situazione delle sue piattaforme di lancio è sconosciuta. Coi primi raid gli israeliani ne hanno distrutte parecchie, anche se (sempre in stile russo) molte erano esche, vale a dire o mezzi vecchi in disuso o veri e propri “fake”.

Passando alla difesa, gli israeliani stanno utilizzando sia il loro sistema a tre strati (corto, medio e lungo raggio) sia le due batterie THAAD made in USA. Il famoso iron beam, un’arma laser, ad oggi non si è visto. Dai video emerge chiaramente come le più avanzate batterie di difesa NATO & friends possano poco contro decine di missili e droni che saturano i cieli. Il discorso vale anche sotto l’aspetto economico: basti pensare che un complesso THAAD costa circa 1 miliardo di dollari chiavi in mano e ogni missile intorno ai 15 milioni, mentre l’ipersonico più costoso lanciato dall’Iran, il Fattah-1, si aggira intorno ai 200 mila dollari. Persino qui si rivedono scene tipiche della guerra russo ucraina, con una differenza di costi tra attacco e difesa a dir poco imbarazzante, visto che per un Fattah vengono sparati dai 6 ai 12 missili intercettori (quelli israeliani costano intorno ai 3 milioni di dollari l’uno).

D’altro canto, l’Iran è ancora alle prese coi problemi creati al sistema difensivo (soprattutto ai radar) dal Mossad. Sta comunque migliorando rispetto ai primi giorni, pare addirittura che abbia abbattuto alcuni caccia di Tel Aviv: meglio attendere una conferma visiva per esserne certi. I sistemi di lancio sembrano ancora in buono stato essendo conservati sottoterra e portati in superficie solo al bisogno.

· Considerazioni politiche ed economiche

La prima e la più importante: qualcuno delle parti in causa ha riflettuto due minuti sulla nuvola radioattiva che si propagherebbe per il Medio Oriente e il Caucaso qualora un paio di missili facessero centro all’interno di un sito nucleare? Anche qui sembra di rivivere quanto avviene in Ucraina con la centrale di Enerhodar: analisi delle conseguenze non pervenuta.

mercati finanziari rimangono dove erano poco dopo lo scoppio del conflitto: questo la dice lunga sul livello di inconsapevolezza che aleggia tra New York e Londra riguardo le ripercussioni di una escalation. È lo stesso schema seguito durante il Covid e la guerra russo ucraina; oggi due morti in meno e quindi va tutto bene e si sale, oggi due missili in meno e quindi tutto risolto e si sale. L’ho analizzato nella “Teoria delle aspettative irrealizzabili”.

Proprio nelle ultime ore, gli USA hanno incrementato il supporto logistico e di sorveglianza satellitare a Israele, spostando diversi aerei nella regione oltre al gruppo di navi capitanate dalla portaerei Nimitz. Lasciando perdere le altalenanti dichiarazioni del presidente Trump, tutto lascia presupporre che gli Stati Uniti interverranno a fianco di Israele.

· Possibili scenari

1) I due contendenti, a corto di munizioni e fatti due calcoli, inveiscono l’uno contro l’altro come nel 2024 diminuendo l’intensità degli attacchi fino a cessarli.

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2) Nessuno interviene, per Israele si mette male e decide di ricorrere all’arma nucleare; è una ipotesi estrema e da scongiurare con tutte le forze; tuttavia, non è da escludere (così come in Ucraina).

3) Gli USA intervengono e la guerra si estende a tutto il Medio Oriente; le basi americane nel Golfo e i Paesi che appoggiano il duo Washington-Tel Aviv vengono attaccati da Teheran; il numero dei morti cresce a dismisura.

4) L’Iran cerca appoggi esterni per contenere gli Stati Uniti senza trovarne; a quel punto si arrocca in difesa con qualche sortita offensiva e alla lunga ne esce vincitore, come gli Afghani e gli Houthi; il problema è che, rimanendo solo, se finisce i missili son finiti, se finisce i soldi son finiti, a meno che…

5) La Russia fornisce (o minaccia di fornire) a Teheran sistemi di difesa avanzati come gli S-350 e gli S-400 (escludiamo i nuovi S-500) molto temuti dai piloti NATO & friends e caccia Su35S (escludo i Su-57) che renderebbero la vita meno facile all’aereonautica israeliana; Trump a quel punto si ricorda di essersi autoproclamato “il pacificatore” e mette un freno al governo di Tel Aviv.

6) La Cina si unisce alla Russia raffreddando gli animi di israeliani e statunitensi; a questo proposito pare che due aerei cargo con supporto logistico partiti da Pechino siano già arrivati in Iran, che fornisce quasi il 15% del fabbisogno annuale di petrolio alla Cina.

7) Le tre super potenze, o solo Russia e Stati Uniti, trovano un accordo e tutti si calmano.

8) A quel punto, oltre a calmarsi, si organizza quella necessaria conferenza internazionale per mettere a punto la sicurezza di Europa orientale, Medio Oriente ed Estremo Oriente.

Ancora una volta e con maggior forza: che Dio ce la mandi buona!

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Come l’Iran ha perso e l’America dovrebbe porre fine alla guerra con l’Iran_da Foreign Affairs

Come l’Iran ha perso

Gli irriducibili di Teheran hanno sprecato decenni di capitale strategico e minato la deterrenza

Afshon Ostovar

18 giugno 2025

La Guida Suprema iraniana Ali Khamenei in televisione a Teheran, giugno 2025Ufficio della Guida suprema iraniana / WANA / Reuters

AFSHON OSTOVAR è professore associato presso la Naval Postgraduate School, Senior Fellow non residente presso il Foreign Policy Research Institute e autore di Wars of Ambition: The United States, Iran, and the Struggle for the Middle East.

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    Il 12 giugno, Israele ha sferrato una serie di attacchi che hanno danneggiato strutture nucleari e siti missilistici iraniani, distrutto depositi di gas e ucciso decine di alti funzionari del regime. La Guida Suprema iraniana Ali Khamenei è ancora viva. Ma i suoi più importanti vice, tra cui Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate, e Hossein Salami, comandante in capo del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche, sono morti.

    Qualche anno fa, l’uccisione improvvisa e quasi simultanea di Bagheri, Salami e di una serie di altri alti dirigenti sarebbe stata impensabile. Nel corso di tre decenni, gli integralisti che controllano il regime iraniano avevano costruito quello che sembrava un formidabile sistema di deterrenza. Hanno accumulato missili balistici. Hanno sviluppato e fatto avanzare un programma di arricchimento nucleare. Soprattutto, hanno creato una rete di procuratori stranieri in grado di molestare regolarmente le forze israeliane e statunitensi.

    Ma gli integralisti iraniani hanno giocato troppo la mano. Dopo che Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre 2023, i leader del regime hanno optato per una campagna di massima aggressione. Invece di lasciare che Hamas e Israele si affrontassero, hanno scatenato i loro proxy contro gli obiettivi israeliani. Israele, a sua volta, è stato costretto a espandere la sua offensiva oltre Gaza. È riuscito a degradare gravemente Hezbollah, il più potente dei gruppi per procura di Teheran, e a sventrare le posizioni iraniane in Siria, contribuendo indirettamente al crollo del regime di Assad. L’Iran ha risposto a questa aggressione scatenando i due più grandi attacchi missilistici balistici mai lanciati contro Israele. Ma Israele, sostenuto dall’esercito americano e da altri partner, ha respinto questi attacchi e ha subito pochi danni. Poi ha contrattaccato.

    In questo modo, le fondamenta della strategia di deterrenza dell’Iran si sono sgretolate. Il suo regime al potere è diventato più vulnerabile ed esposto che mai dalla guerra Iran-Iraq degli anni Ottanta. E Israele, che da decenni sogna di colpire l’Iran, ha avuto un’opportunità che ha deciso di non lasciarsi sfuggire.

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    ARROGANZA RIVOLUZIONARIA

    Dalla Rivoluzione iraniana del 1979, i leader di Teheran hanno coltivato una rete di proxy – Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, Houthis in Yemen e milizie in Iraq – e hanno sviluppato legami con il regime di Assad in Siria. Queste alleanze regionali, unite al robusto programma di missili balistici di Teheran, hanno permesso all’Iran di minacciare gli avversari direttamente e da lontano, fornendo agli irriducibili fonti di potere. La leadership del Paese non è stata immune alle pressioni: nel 2015, ad esempio, ha portato avanti i negoziati nucleari con gli Stati Uniti per contribuire ad alleviare il dolore economico creato dalle sanzioni. Ma anche questi negoziati hanno facilitato l’ascesa dell’Iran come potenza regionale. Il Piano d’azione congiunto globale che ne è scaturito ha fornito a Teheran un ampio alleggerimento delle sanzioni senza limiti alla sua difesa, se non quelli temporanei sull’arricchimento. Nel 2018, gli Stati Uniti si sono ritirati dal JCPOA e hanno reimposto le sanzioni. Ma le conseguenti provocazioni nucleari dell’Iran sono servite da parafulmine per assorbire le pressioni esterne e isolare gli altri comportamenti maligni del regime.

    Nell’ottobre 2023, la Repubblica islamica stava raggiungendo l’apice. Esercitava una forte influenza su un’ampia fascia di territorio, dall’Iraq al Mediterraneo. Aveva costretto alla sottomissione i rivali arabi vicini, ossia l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. E i procuratori iraniani, armati di razzi, missili e droni, esercitavano una pressione costante su Israele.

    Nell’ottobre 2023, la Repubblica islamica era al suo apice.

    Gli attentati del 7 ottobre sembravano, in un primo momento, destinati a rafforzare ulteriormente l’Iran. Dopotutto, il principale avversario regionale di Teheran si è trovato improvvisamente coinvolto in un conflitto di vasta portata. L’Iran ha quindi incoraggiato i suoi proxy a unirsi alla lotta contro Israele, creando un fronte unito a livello regionale sotto la guida di Teheran. Il persistente lancio di razzi da parte di Hezbollah nel nord di Israele ha costretto i civili a fuggire dalle città vicine al confine con il Libano. Nello Yemen, gli Houthi hanno esteso i loro attacchi alla navigazione commerciale nel Mar Rosso, mettendo a dura prova il commercio globale e costringendo gli Stati Uniti a concentrare una notevole potenza navale e risorse per contrastare la loro aggressione. A metà del 2024, l’Iran e i suoi proxy stavano mettendo seriamente alla prova l’ordine regionale guidato dagli Stati Uniti.

    Eppure, nel giro di pochi mesi, il quadro regionale iraniano è praticamente crollato. Le offensive militari israeliane hanno sventrato Hamas a Gaza e devastato Hezbollah in Libano, nodi chiave della decennale campagna di pressione iraniana contro Israele. Poi è arrivata la sorprendente caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria, a dicembre. La Siria era stata fondamentale per la più ampia architettura di deterrenza dell’Iran, non solo perché rappresentava un altro fronte contro Israele, ma anche perché il territorio siriano – che condivide un lungo confine con il Libano e il nord di Israele – conteneva la via principale attraverso la quale l’Iran forniva armi a Hezbollah e ai militanti palestinesi in Cisgiordania.

    Di fronte a queste sconfitte, l’Iran avrebbe potuto scegliere di riorganizzarsi. Invece, ha optato per un’escalation del conflitto con Israele, colpendo direttamente il Paese nell’aprile e nell’ottobre del 2024. Con questa azione, il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche sperava di mostrare la propria potenza militare e di ristabilire la deterrenza. Invece, l’IRGC ha esposto i limiti delle sue capacità missilistiche. Anche se gli attacchi di aprile e ottobre sono stati i più grandi attacchi di missili balistici contro Israele, le difese aeree di Israele, insieme a quelle degli Stati Uniti e dei suoi partner regionali, hanno intercettato quasi tutti i droni e i missili iraniani. La piccola manciata di missili che ha colpito il territorio israeliano ha mancato il bersaglio o ha causato danni insignificanti.

    Gli attacchi hanno mostrato la debolezza dell’Iran. Inoltre, hanno spinto Israele a reagire direttamente contro l’Iran, utilizzando la sua superiore potenza aerea per distruggere le principali batterie di difesa aerea e le strutture militari iraniane in ottobre, infrangendo l’ultima barriera che in precedenza aveva impedito agli avversari di Teheran di usare la forza militare contro il suo territorio. La deterrenza iraniana è crollata.

    VENTI DI CAMBIAMENTO

    Nonostante le battute d’arresto subite dal regime iraniano, all’inizio del 2025 la sua leadership e i suoi comandanti militari erano ben lontani dall’ammettere la sconfitta. In un discorso del marzo 2025, Salami ha respinto l’idea che l’Iran avesse perso il suo vantaggio competitivo, adducendo la sopravvivenza stessa della Repubblica islamica come prova dell’efficacia della sua grande strategia. Il regime, dopo tutto, non ha combattuto contro piccole potenze, ma contro grandi potenze che disponevano di armi, equipaggiamenti e militari più avanzati. “È miracoloso che la nostra nazione sia stata in grado di resistere a potenze arroganti”, ha detto Salami. In un discorso di maggio ha usato un tono simile, affermando: “Una nazione [che] non è prigioniera, una nazione [che] innalza la bandiera della resistenza e agisce sulle parole del suo leader supremo con tutto il cuore, una tale nazione non sarà mai sconfitta”.

    Ora, naturalmente, Salami è morto e per l’Iran è più difficile che mai affermare di aver vinto i suoi impegni. In pochi giorni, Israele ha danneggiato in modo significativo il programma militare e nucleare di Teheran. Sebbene la vera entità della distruzione sia nota solo ai leader iraniani, è improbabile che il Paese si risollevi facilmente da questo basso livello. L’aspetto forse più significativo è che l’Iran ha perso quasi del tutto la capacità di difendere i propri cieli dagli avversari. Le sue difese aeree, un tempo osannate, sono state distrutte o rese inutilizzabili in gran parte del Paese. Le sue scorte di missili sono state esaurite, molti dei suoi lanciatori mobili sono stati distrutti e le strutture che usava per produrre missili e processare il loro carburante giacciono per lo più in rovine fumanti. Infine, gran parte del programma di arricchimento nucleare iraniano è stato danneggiato o distrutto. L’Iran potrebbe ancora possedere una scorta di uranio altamente arricchito e alcune cascate sotterranee di centrifughe. Ma nel breve termine, l’arricchimento nucleare non ha più valore deterrente.

    A questo si aggiunge la perdita del gruppo di cervelli dell’establishment della difesa. L’assassinio di numerosi comandanti e ufficiali militari veterani, tra cui il generale Amir Ali Hajizadeh, comandante della Forza Aerospaziale dell’IRGC e architetto della sua strategia missilistica, lascerà un vuoto incolmabile nel regime e cancellerà le conoscenze accumulate in decenni di esperienza. Il regime ha già sostituito questi comandanti, ma ciò che non può essere duplicato così rapidamente è la fiducia che i loro predecessori avevano guadagnato da Khamenei, il comandante in capo, e l’influenza che avevano sulla grande strategia del regime.

    L’Iran ha perso quasi del tutto la capacità di difendere i propri cieli dagli avversari.

    Di fronte a questa sconfitta, il regime potrebbe accettare la sconfitta, tagliare le perdite e cercare un compromesso con Israele e gli Stati Uniti. Questa strada, come minimo, richiederebbe al regime di abbandonare l’arricchimento. Potrebbe anche significare che Teheran deve rinunciare al suo programma missilistico, terminare il sostegno ai proxy e rinunciare all’obiettivo di distruggere Israele. Ma per quanto il popolo iraniano preferirebbe questo risultato, per il regime equivarrebbe a una resa totale, vista come una soluzione che porterebbe al collasso finale del sistema teocratico al potere in Iran.

    Per evitare una resa totale, Khamenei potrebbe anche continuare a combattere. Questo potrebbe includere una fuga dal nucleare. Supponendo che l’Iran possieda ancora le sue scorte di uranio altamente arricchito e mantenga il know-how, il regime potrebbe ancora tentare di testare un dispositivo nucleare, sperando che diventare uno Stato nucleare ripristini una misura della sua deterrenza perduta. Teheran potrebbe anche continuare a fare la guerra, con l’obiettivo di esaurire la volontà di Israele di combattere o di aumentare il sostegno al regime tra la popolazione iraniana. Il regime potrebbe anche sperare che Israele espanda i suoi attacchi, o puntare ad attirare gli Stati Uniti, credendo che se più civili iraniani vengono uccisi, la società iraniana diventerà più comprensiva nei confronti degli unici difensori del Paese: il regime. L’effetto “raduno intorno alla bandiera” è, a questo punto, l’ultima speranza rimasta al regime per portare gli iraniani dalla sua parte.

    Ma una maggiore aggressività è una scommessa molto rischiosa e potrebbe lasciare il regime isolato e al verde. Più a lungo la guerra continuerà, maggiore sarà la distruzione del Paese, che ridurrà la capacità del regime di operare semplicemente. Se non ci sarà una manifestazione intorno all’effetto bandiera, o se alla fine passerà, i cittadini della Repubblica islamica potrebbero alla fine rivoltarsi contro il regime. E se il governo si assicura un’arma nucleare per salvaguardare il suo potere, l’Iran potrebbe finire per assomigliare molto alla Corea del Nord, uno scenario che nessun iraniano vorrebbe.

    Qualunque cosa accada, il regime iraniano ha senza dubbio perso il suo decennale conflitto con Israele. Dovrà rinunciare alla sua ideologia politica fondamentale e cercare l’integrazione con il resto della regione attraverso l’impegno diplomatico ed economico, oppure dovrà raddoppiare le sue convinzioni, ripiegandosi ulteriormente su se stesso. Ali Khamenei e l’IRGC hanno perso; lo status quo regionale che hanno stabilito è finito.

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    Daniel C. Kurtzer e Steven N. Simon

    18 giugno 2025

    Missili iraniani intercettati vicino a Tel Aviv, Israele, giugno 2025Ronen Zvulun / Reuters

    DANIEL C. KURTZER è ex ambasciatore degli Stati Uniti in Egitto ed ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele e S. Daniel Abraham Professor of Middle East Policy Studies presso la School of Public and International Affairs dell’Università di Princeton.

    STEVEN N. SIMON è Visiting Professor e Distinguished Fellow al Dartmouth College. In precedenza ha fatto parte del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e del Dipartimento di Stato americano.

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    Da quando ha lanciato la sua operazione militare contro l’Iran, venerdì scorso, Israele ha inferto un colpo devastante al programma nucleare del Paese, al suo arsenale di missili balistici e alla sua leadership militare. Ma è improbabile che Israele sia in grado di distruggere completamente il programma nucleare iraniano da solo. Non ha i bombardieri o gli ordigni pesanti di cui avrebbe bisogno per penetrare nell’impianto di arricchimento sotterraneo e fortificato di Fordow. Inoltre, ha evidentemente evitato di colpire le strutture di stoccaggio del carburante per paura di scatenare una crisi sanitaria.

    Gli Stati Uniti hanno gli aerei e le cosiddette bombe bunker-buster per paralizzare Fordow. Ciò significa che l’esito della guerra dipenderà tanto dalle decisioni del presidente americano Donald Trump quanto da ulteriori attacchi aerei israeliani. Israele ha esortato gli Stati Uniti a partecipare alla guerra e, se Trump decidesse di farlo, l’Iran subirebbe quasi certamente una sconfitta strategica abbastanza grave da far retrocedere di anni le sue capacità nucleari e da minacciare, plausibilmente, la sopravvivenza del regime, che diventerebbe rapidamente un obiettivo degli Stati Uniti, in virtù della logica dell’escalation.

    Ma Trump non dovrebbe entrare in guerra come combattente al fianco di Israele. Gli Stati Uniti hanno interesse a impedire all’Iran di ottenere armi nucleari. Nel 2015 hanno ottenuto un accordo con l’Iran che avrebbe bloccato la ricerca della Repubblica islamica per almeno un decennio, se non di più. Washington riteneva che negoziare un risultato in cui l’Iran avesse un interesse sarebbe stata una soluzione più duratura e molto meno costosa che optare per la guerra. Israele non era d’accordo con questo approccio, così come Trump.

    Nel 2018, Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo, un atto che ha facilitato l’impressionante accumulo di uranio altamente arricchito da parte dell’Iran. Non è più nell’interesse di Washington, oggi come nel 2015, entrare in guerra per un risultato che potrebbe essere raggiunto con molti meno rischi attraverso i negoziati. Ciò significa che non è nemmeno nell’interesse degli Stati Uniti entrare in guerra per neutralizzare militarmente Fordow, e sarebbe un errore farlo. Se Israele è determinato a danneggiare in modo sostanziale Fordow, le Forze di Difesa Israeliane potrebbero farlo inviando truppe in Iran o rendendo impossibile l’ingresso nell’impianto o il trasferimento delle centrifughe. Raggiungere uno dei due obiettivi, tuttavia, sarebbe complicato e costoso, ed è comprensibile che Israele voglia affidare il compito agli americani.

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    Ma subappaltare il lavoro a Fordow metterebbe gli Stati Uniti nel mirino dell’Iran. L’Iran quasi certamente si vendicherebbe uccidendo civili americani. Questo, a sua volta, costringerebbe gli Stati Uniti a ricambiare in un processo iterativo. Ben presto, gli unici obiettivi rimasti da colpire per Washington sarebbero i leader del regime iraniano e gli Stati Uniti entrerebbero di nuovo nel business del cambio di regime, in cui ben pochi americani vogliono essere coinvolti.

    Il coinvolgimento degli Stati Uniti comporterebbe rischi anche per l’agenda politica del presidente. Per evitare i pericoli internazionali e interni, spetta a Trump sviluppare una strategia che ponga fine alla guerra, assicurando che l’Iran non possa ricostituire immediatamente il suo programma nucleare militare e consentendo sia all’Iran che a Israele di salvare la faccia. Non sarà facile, ma si può fare. Il Presidente degli Stati Uniti deve agire in modo strategico se vuole salvare una parte dei suoi ingenti investimenti nella pace in Medio Oriente e impedire che la guerra renda incapaci gli Stati Uniti di affrontare altre sfide importanti in Europa e in Asia.

    PERCORSO A OSTACOLI

    Per giorni l’amministrazione Trump non ha mostrato alcuna strategia coerente nei confronti della guerra. Poi, martedì, Trump ha esordito con un linguaggio molto più da falco, chiedendo la “resa incondizionata” dell’Iran, minacciando di uccidere la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei e usando il “noi” quando descrive gli attacchi di Israele. Ciò che non ha riconosciuto, tuttavia, è che se gli Stati Uniti si uniranno effettivamente alla campagna aerea di Israele, la Repubblica islamica ha minacciato di colpire obiettivi americani: ad esempio, le risorse navali nel Mar Arabico e le installazioni militari e diplomatiche statunitensi lungo la sponda araba del Golfo. Trump è preterintenzionalmente cauto nell’intraprendere un’azione militare, e anche la prospettiva di vittime statunitensi su queste navi o basi – e l’opposizione delle monarchie del Golfo che diventerebbero esse stesse bersaglio – lo farà riflettere. Ma le opzioni di risposta convenzionali dell’Iran si stanno riducendo rapidamente e un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti porterebbe probabilmente Teheran a intraprendere azioni asimmetriche – attacchi terroristici – contro israeliani, ebrei e americani in tutto il mondo.

    Elementi influenti della base MAGA di Trump, come l’emittente Tucker Carlson, lo stanno già avvertendo di non invertire la rotta sulla sua politica “America first”. Questi sostenitori non vogliono che egli fornisca armi a Israele, né tanto meno che invii forze o aerei statunitensi a combattere in Medio Oriente a fianco di Israele. Trump si è opposto a questi critici, che però non hanno ceduto il punto; anche un gruppo di repubblicani al Congresso sta consigliando la moderazione. E una volta che l’opposizione conservatrice percepirà un sostegno pubblico più ampio, il lasciapassare di cui Trump ha goduto da parte dei repubblicani del Congresso potrebbe essere revocato su altre questioni importanti per lui. Se scoppiasse un rancoroso dibattito sulla politica del Medio Oriente, la discordia repubblicana potrebbe, in particolare, minacciare l’approvazione della “grande legge” firmata da Trump. E potrebbe riaccendere le preoccupazioni sulle avventure militari degli Stati Uniti nella regione.

    Anche se l’amministrazione Trump aiuterà Israele a mettere fuori uso l’impianto di Fordow, sarà estremamente difficile convincere il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a fermare la sua campagna militare prima di essersi convinto che il programma nucleare iraniano non può essere ricostituito facilmente o rapidamente. In passato, le agenzie di intelligence israeliane e statunitensi hanno stimato che dopo intensi attacchi contro le principali strutture nucleari iraniane, la Repubblica islamica potrebbe ripristinare il suo programma in circa un anno. Netanyahu ha parlato di distruggere completamente il programma, ma in assenza di un intervento statunitense, non ha definito un modo realistico e realizzabile per raggiungere questo obiettivo. Non è quindi chiaro se anche una disattivazione a medio e lungo termine del programma nucleare iraniano possa soddisfare Netanyahu.

    FINE CORSA

    L’opzione migliore per Trump, quindi, è cercare di contribuire a porre fine alla guerra tra Israele e Iran in un modo che preservi i risultati ottenuti militarmente da Israele, ma che permetta anche all’Iran di salvare la faccia per tornare ai negoziati. Per farlo, dovrà mobilitare uno sforzo multilaterale per tenere il materiale nucleare fuori dalle mani dell’Iran, sviluppare una strategia negoziale che sfrutti la debolezza mostrata dall’Iran nei recenti combattimenti e concludere un accordo credibile che ponga effettivamente fine alla ricerca iraniana di una capacità di armamento nucleare.

    Tutto questo sarà molto più facile da proporre che da realizzare. Se Trump eserciterà una vera e propria pressione su Israele affinché interrompa i suoi attacchi aerei, i sostenitori di Israele in entrambi i partiti politici statunitensi si solleveranno in segno di protesta, mettendo a rischio il resto del suo programma politico. Ma se Trump tenta semplicemente di non intervenire, la guerra continuerà con conseguenze imprevedibili. L’Iran potrebbe sprofondare in una guerra civile o in un collasso sociale, creando una terribile crisi umanitaria; dall’altro lato, una guerra di logoramento prolungata esporrebbe i combattenti a costi difficilmente recuperabili nel prossimo futuro e prolungherebbe gli sforzi di Israele per attirare gli Stati Uniti nel conflitto.

    Finora, Trump ha combinato la dura retorica e le minacce con la richiesta che l’Iran tornasse al tavolo dei negoziati e accettasse un accordo che escludesse qualsiasi arricchimento dell’uranio sul territorio iraniano. Questo approccio non sarà sufficiente. È necessario un intervento diplomatico statunitense molto più preciso, anche se la campagna aerea israeliana mantiene la pressione sull’Iran sullo sfondo. Solo un presidente americano determinato può portare a termine questo sforzo diplomatico complesso e coercitivo.

    In primo luogo, gli alti consiglieri militari e di intelligence del Presidente devono impegnarsi con Israele e cercare di raggiungere un accordo su una valutazione dei danni da battaglia che giudichi se il programma nucleare iraniano è stato danneggiato a sufficienza da giustificare l’interruzione degli attacchi di Israele. Questa valutazione dovrebbe tenere conto degli assassinii israeliani di importanti leader militari, scienziati nucleari, ingegneri e amministratori iraniani, nonché dei danni inflitti alle infrastrutture. Il fatto che anche i futuri attacchi israeliani lasceranno probabilmente più o meno intatti i capannoni delle centrifughe di Fordow e il sito di stoccaggio dell’esafluoruro di uranio iraniano renderà questa conversazione difficile. Ma l’amministrazione Trump deve convincere Israele che le capacità dell’Iran possono essere adeguatamente limitate senza distruggere Fordow o continuare gli attacchi all’infinito.

    L’attuale approccio di Trump all’Iran e a Israele non sarà sufficiente.

    In secondo luogo, Trump deve lavorare con Netanyahu per definire un obiettivo finale per la guerra che possa essere raggiunto rapidamente: una misura significativa e specifica di distruzione delle strutture nucleari e delle scorte esistenti dell’Iran. Gli obiettivi di Netanyahu, finora, sembrano molto più ampi: la distruzione totale del programma nucleare iraniano e, sempre più spesso, un cambio di regime. Netanyahu deve essere informato che non può aspettarsi il sostegno degli Stati Uniti per una politica volta al cambio di regime.

    In terzo luogo, con l’aiuto degli alleati statunitensi nel Golfo, i governanti iraniani dovranno essere convinti che accettare l’amaro calice di un accesso notevolmente ridotto all’arricchimento è meglio dello strangolamento economico, del continuo martellamento dall’alto e della possibile perdita del controllo sul loro Paese. Trump deve arruolare Stati che la pensano come lui, come la Francia, la Germania e il Regno Unito, affinché si impegnino in uno sforzo multilaterale sostenuto per negare all’Iran le nuove attrezzature nucleari di cui avrebbe bisogno per ricostituire il suo programma e puntare a una bomba. Probabilmente sarebbe necessario uno sforzo totale sulla falsariga dell’Operazione Staunch, un embargo lanciato negli anni ’80 che indebolì l’Iran nella sua guerra contro l’Iraq.

    Se è possibile compiere progressi su questi elementi della strategia, gli Stati Uniti dovrebbero redigere una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che proponga un piano di cessate il fuoco. Il piano deve includere condizioni verificabili relative al programma nucleare iraniano, come il ritorno immediato degli ispettori nucleari, la rimozione di tutte le barriere all’accesso degli ispettori alle strutture che intendono esaminare, un embargo sull’importazione di componenti necessari per ricostituire il programma, l’esportazione immediata di qualsiasi uranio arricchito rimasto in Iran e un invito a rinnovare i negoziati per un accordo nucleare.

    Se i negoziati per un accordo dovessero riprendere, Trump deve adottare un approccio realistico, accettando che il suo accordo potrebbe finire per assomigliare più a una versione rafforzata dell’accordo nucleare iraniano del 2015 che a qualcosa di completamente nuovo. Insistere sul fatto che l’Iran rinunci all’arricchimento dell’uranio sul suo territorio – una posizione che i negoziatori di Trump avevano assunto dopo molti tira e molla – ha senso all’inizio della ripresa dei colloqui. Ma sarà molto difficile per Trump sostenere questa posizione, data la posizione radicata dell’Iran sull’arricchimento. Sarà anche molto difficile per Netanyahu – che ha esposto Israele a punitivi bombardamenti missilistici iraniani con l’obiettivo di distruggere completamente il programma iraniano – ammettere sia la sopravvivenza della Repubblica islamica sia qualsiasi prospettiva di arricchimento in Iran.

    Un modo per affrontare questo problema – una proposta che è già sul tavolo – sarebbe che gli Stati Uniti guidassero la creazione di un consorzio regionale per l’arricchimento sotto la stretta supervisione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Una soluzione di questo tipo potrebbe offrire all’Iran un modo per risparmiare la faccia, ottenendo uranio a basso arricchimento per scopi medici e altri scopi benevoli. La presenza di altre parti, presumibilmente alcuni Stati arabi, e l’ubicazione di questo consorzio al di fuori dell’Iran contribuirebbero a placare alcune delle preoccupazioni di Israele.

    LA SCELTA DI HOBSON

    Questo sforzo diplomatico di Trump comporta dei rischi politici. Una grande spinta multilaterale per contenere le ambizioni nucleari dell’Iran devierà risorse di intelligence importanti verso altri obiettivi, soprattutto Cina e Russia, e probabilmente renderà necessaria un’inversione dei tagli previsti all’apparato di intelligence statunitense. E qualsiasi accordo nucleare con l’Iran che permetta al Paese di partecipare all’arricchimento dell’uranio anche al di fuori del proprio territorio richiederà a Trump di spendere capitale politico con la sua base. Ma questi rischi valgono la pena per evitare una nuova guerra.

    L’attacco di Israele ha già creato un cambiamento strategico in Medio Oriente. Il Paese ha dimostrato ancora una volta che la sua abilità di intelligence e il suo dominio militare possono ridefinire la politica della regione. Una volta terminata la guerra, Trump potrà rivolgere la sua attenzione a un obiettivo che ha già articolato: tradurre questa trasformazione strategica nella normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Stati arabi. È un compito che gli Stati Uniti sono nella posizione migliore per portare a termine.

    Ma se Trump indugia – o, peggio, si unisce completamente alla guerra di Israele – distruggerà la sua capacità di mediare un Medio Oriente più pacifico, un obiettivo che ha ripetutamente sottolineato essere prezioso per lui. Deve agire, e nel modo giusto, prima che l’appetito di Israele per un cambio di regime porti a un’altra “guerra per sempre” – e prima che la logica dell’escalation porti l’Iran a passare dal lancio di missili al lancio di attacchi terroristici, anche contro gli americani

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      “È impossibile tenere un ramoscello d’ulivo in una mano e sparare con una pistola nell’altra.”

      Così scherzò Wilhelm Solf, diplomatico del Ministero degli Esteri imperiale tedesco. Mentre l’Europa si faceva strada a tentoni tra le perdite di vite umane e l’esaurimento della civiltà causate dalla Prima Guerra Mondiale, Solf fu uno dei pochi personaggi chiave del governo tedesco a sostenere una pace negoziata all’inizio del 1917, quando la guerra aveva ormai superato la metà del suo svolgimento. Naturalmente, sappiamo che la Prima Guerra Mondiale non finì nel 1917: i tentativi di negoziare un accordo fallirono quasi all’istante, con gli alleati che respinsero categoricamente le proposte tedesche. Stranamente, uno dei principali punti di malcontento non riguardava nemmeno gli obiettivi della guerra o le specifiche condizioni di pace, ma piuttosto la questione della responsabilità. Sia le Potenze Centrali che l’Intesa Alleata erano irremovibili sul fatto che la controparte dovesse formalmente assumersi la responsabilità della guerra, e i colloqui non andarono mai oltre.

      Il fallito processo di pace fu ulteriormente complicato dall’intervento del presidente statunitense Woodrow Wilson. Forte della fiducia conquistata con la vittoria alle elezioni del 1916, Wilson sentiva di avere la libertà politica di intervenire più attivamente in Europa, e gli Stati Uniti – forse soli tra tutte le potenze mondiali – sembravano avere leve di influenza su entrambe le parti in conflitto. L’agenda di Wilson, in quanto tale, era quella di negoziare una “pace senza vittoria”, senza che nessuna delle due parti annientasse l’altra, in uno spirito di cortesia e rispetto reciproco. Una pace ottenuta con una vittoria dolorosa, secondo Wilson, sarebbe stata percepita come un’umiliazione dalla parte sconfitta e avrebbe creato le condizioni per una guerra futura, seminando un risentimento intrattabile e un revanscismo.

      Conoscendo ciò che sappiamo del Trattato di Versailles, che fu proprio questo tipo di pace punitiva profondamente odiata, le affermazioni di Wilson sembrano lungimiranti. Purtroppo, l’idealista (alcuni direbbero ingenuo) presidente americano non era riuscito a leggere la situazione. Il suo discorso “Pace senza vittoria ” fu ben accolto dal pubblico americano, ma respinto come anatema da praticamente tutti gli altri, inclusi non solo i tedeschi, ma anche l’Intesa anglo-francese.

      Wilson, distante oltreoceano, non riuscì a comprendere due cose molto importanti. Primo, che l’Europa era in subbuglio dopo anni di carneficina. Questo era particolarmente vero dopo il fallito tentativo della Germania di offrire agli alleati un’offerta di pace; l’Intesa era indignata per quelle che considerava condizioni tedesche offensive, mentre i tedeschi, a loro volta, erano di umore provocatorio dopo il brusco rifiuto da parte dell’Intesa di quelle stesse condizioni. Secondo, Wilson non comprese di non essere considerato un mediatore imparziale, soprattutto dai tedeschi. Pur considerandosi uno statista dotato di un tocco di talento, in una posizione unica per fermare lo spargimento di sangue, Berlino fondamentalmente non si fidava né di lui né degli alleati, e preferiva invece sfruttare spietatamente tutte le sue potenzialità. Pace senza vittoria può sembrare benevola e rassicurante, ma la vittoria era molto più allettante. Dopo milioni di vittime, tutte le parti preferirono puntare alla vittoria piuttosto che arrancare con un pareggio.

      A rischio di forzare l’analogia in modo troppo diretto, ci troviamo in una situazione molto simile in Ucraina. Il presidente Trump, come Wilson, uscì dall’euforia della sua vittoria elettorale, pienamente determinato a insinuarsi nella guerra come un pacificatore. Il suo impegno a porre fine alla guerra, come il discorso di Wilson del 22 gennaio 1917, fu molto apprezzato dal pubblico interno, ma ebbe poca risonanza oltreoceano. Come i tedeschi un secolo fa, la Russia non considera il presidente americano un onesto mediatore, e questi ha scoperto che la sua influenza non è così grande come pensava. Ancora più importante, è vero oggi come lo era nel 1917 che è dannatamente difficile convincere gli stati in guerra a farsi da parte quando il loro sangue è in piena attività e ad abbandonare il costo irrecuperabile di così tanto spargimento di sangue. Il tema della colpa è persino tornato, con molti partiti europei che liquidano l’idea di concessioni alla Russia semplicemente perché Mosca è la parte colpevole di questa guerra.

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      Abbiamo un problema da Prima Guerra Mondiale, e si risolverà con una soluzione da Prima Guerra Mondiale, quando una delle parti in conflitto riuscirà a sfinire e annientare l’altra. Mentre le squadre di negoziatori ucraina e russa si incontravano a Istanbul per i loro brevi negoziati simbolici, prevedibilmente improduttivi, le due parti continuavano a scambiarsi attacchi nelle consuete proporzioni, e l’esercito russo avanzava lungo la linea di contatto. Il ramoscello d’ulivo di Wilhelm Solf non è mai stato seriamente in gioco, ma la pistola rimane operativa. Il sangue scorre in Ucraina e continuerà a inzuppare il terreno.

      Il crollo della diplomazia (di nuovo)

      I recenti “colloqui di pace” di Istanbul tra Ucraina e Russia sono iniziati e finiti in un batter d’occhio, rendendo evidente (come se non lo fosse già) che dalla discussione non sarebbe potuto scaturire nulla di produttivo. Il secondo round di colloqui, svoltosi il 2 giugno, è durato circa un’ora , un tempo appena sufficiente per le sottigliezze diplomatiche. Come prevedibile, non è stato concordato nulla, a parte un accordo provvisorio per lo scambio di prigionieri di guerra e uno scambio di resti di caduti in guerra, che ha già iniziato a deragliare.

      Il problema attuale della diplomazia è che c’è poca propensione a negoziare effettivamente un accordo, ma tutte e tre le principali parti (Ucraina, Russia e Stati Uniti) sono disposte a impegnarsi in una diplomazia performativa con obiettivi ortogonali tra loro. È improbabile che uno qualsiasi dei team negoziali sia effettivamente arrivato a Istanbul con l’aspettativa o l’intenzione di porre fine alla guerra, ma avevano obiettivi reali che stavano cercando di raggiungere. La questione è ulteriormente offuscata dalla questione accessoria dell’accordo sui diritti minerari tra Ucraina e Stati Uniti, che non è direttamente correlato alle prospettive di una pace negoziata, ma è comunque un aspetto della negoziazione performativa del presidente Trump.

      Per la Russia, lo scopo della diplomazia performativa è ribadire pubblicamente i propri obiettivi di guerra e affermare la fiducia nel proprio predominio sul campo di battaglia. È fondamentale ricordare che in ogni fase di questa guerra, quando ne è stata data l’opportunità, Mosca ha ribadito gli stessi termini fondamentali, che costituiscono la “linea di fondo” russa: tra questi, il ritiro delle forze ucraine dai quattro oblast annessi, il riconoscimento delle annessioni russe, i limiti alle dimensioni e agli armamenti delle forze armate ucraine, il divieto di adesione dell’Ucraina alle alleanze militari, inclusa la NATO, la protezione russa come lingua ufficiale dell’Ucraina e la revoca delle sanzioni internazionali contro la Russia.

      Ciò equivale, in termini concreti, alla resa ucraina. Mosca ha esitato a usare un linguaggio del genere, e ha certamente evitato un linguaggio roboante in stile Seconda Guerra Mondiale come “resa incondizionata”, tuttavia questo è ciò che questi termini rappresentano. Ciò è particolarmente vero quando si tratta di quelle città nelle oblast’ annesse che sono ancora sotto il controllo ucraino: Cherson, Zaporižžja, Slovjansk e Kramatorsk. Il possesso ucraino di queste città rimane la carta più importante in mano a Kiev, e in effetti l’unica vera leva che hanno nei confronti della Russia è la loro capacità (per il momento) di costringere l’esercito russo a subire perdite aggiuntive per conquistare queste città. Una volta che la Russia avrà quelle città, l’Ucraina non avrà nulla da offrire nei negoziati. La reiterazione russa di questi obiettivi di guerra, quindi, equivale a una richiesta all’Ucraina di consegnare le sue risorse negoziali più importanti, il che equivale alla resa.

      Dovremmo quindi interpretare le azioni della Russia a Istanbul come un’ostentata dimostrazione di forza, una richiesta appena velata di resa dell’Ucraina in un atto di diplomazia performativa. Questa performance è rivolta direttamente a Kiev e Washington.

      L’Ucraina, tuttavia, è impegnata in una sua forma di diplomazia performativa, ma i russi non sono il pubblico a cui Kiev si rivolge. Piuttosto, l’Ucraina “negozia” come una forma di segnale a Washington (e, in misura minore, all’Europa). Ciò si evince dal fatto che, mentre la Russia esige di fatto la resa ucraina, Kiev chiede misure tampone come cessate il fuoco limitate. L’obiettivo, per l’Ucraina, non è porre fine alla guerra, ma dipingere i russi come la parte intransigente, restia persino a concordare un cessate il fuoco temporaneo. Dal punto di vista degli ucraini, questo crea uno scenario vantaggioso per tutti: se la Russia accetta un cessate il fuoco, ciò smorza lo slancio russo sul campo di battaglia e offre all’AFU l’opportunità di ricalibrarsi; se la Russia non accetta, questo può essere presentato all’Occidente come prova della sete di sangue russa.

      Diplomazia performativa a Istanbul

      Il risultato è che Mosca e Kiev stanno affrontando la questione dei negoziati con paradigmi incompatibili. Kiev, idealmente, vorrebbe un cessate il fuoco senza obblighi negoziali; Mosca vuole negoziati senza cessate il fuoco. La Russia ha dimostrato di essere perfettamente a suo agio nel negoziare mentre le operazioni militari sono in corso. Se la discussione fallisce, può sempre essere ripresa in seguito e, in ogni caso, l’esercito russo può continuare ad avanzare. Questa flessibilità deriva dalla fiducia russa di raggiungere gli stessi obiettivi strategici in entrambi i casi. Per l’Ucraina, d’altra parte, negoziare sullo sfondo di combattimenti in corso è un calcolo errato, perché è l’AFU a essere costantemente ritirata e a vedere la sua posizione strategica indebolirsi.

      Portando questo alla sua conclusione paradigmatica, Russia e Ucraina hanno visioni fondamentalmente diverse del rapporto tra operazioni militari e negoziati. L’Ucraina cerca di negoziare per migliorare la propria posizione militare : utilizzando la diplomazia performativa per ottenere ulteriore sostegno dai suoi sostenitori occidentali e cercando un cessate il fuoco per ricostituire le proprie forze. La Russia, d’altra parte, utilizza le operazioni militari per migliorare la propria posizione nei negoziati . Gli obiettivi e le richieste di guerra specifici delle due parti sono pressoché irrilevanti, poiché le due parti non concordano nemmeno sullo scopo dei negoziati.

      Nel frattempo, gli Stati Uniti sono impegnati in una loro forma di diplomazia altrettanto performativa, volta a dare a Trump flessibilità strategica in Ucraina. Organizzando i negoziati tra Russia e Ucraina (e consegnando a Mosca il suo labirintico piano di pace ), Trump può sostenere di aver compiuto un tentativo in buona fede di porre fine al conflitto. Se funziona e si riesce a raggiungere una pace negoziata, sarà acclamato come un grande pacificatore. Se non funziona, è ben posizionato per lavarsene le mani dell’Ucraina, passando Kiev agli europei. Ne vediamo già i segnali, con Washington che minaccia di abbandonare il processo di pace , si prepara a ridurre l’assistenza militare a Kiev e Trump che adotta un linguaggio sempre più apatico nei confronti dell’Ucraina .

      Trump è senza dubbio desideroso di evitare di trasformare l’Ucraina nel suo Afghanistan, e ha il vantaggio di un partner minore (l’Europa) che è perfettamente disposto , se non pienamente in grado , di tenergli il cerino. Tutto sommato, Trump ha gestito l’Ucraina piuttosto bene, se si capisce che il suo obiettivo principale è stato quello di ottenere flessibilità politica, piuttosto che porre fine alla guerra a tutti i costi o ottenere una qualche forma di vittoria ucraina. Semplicemente riunendo negoziatori ucraini e russi nella stessa stanza (non importa quanto performanti siano stati i procedimenti), si è guadagnato la libertà di dire al pubblico americano di aver dato il massimo; quando i negoziati falliranno, potrà iniziare a lavarsene le mani dell’Ucraina e passare il sacco in fiamme agli europei.

      Con la conclusione dei rapidi e prevedibilmente infruttuosi colloqui di Istanbul, sembra che siamo finalmente pronti a superare la farsa, soprattutto alla luce delle ultime notizie secondo cui gli Stati Uniti stanno annullando i colloqui bilaterali non correlati con Mosca . La cosa che salta più all’occhio, ovviamente, è che praticamente nulla è cambiato nelle relative posizioni negoziali. Nonostante l’affermazione del vicepresidente Vance secondo cui la Russia “sta chiedendo troppo “, Mosca sta avanzando esattamente le stesse richieste che avanza da anni, e si sta scontrando con lo stesso muro di cemento.

      Né l’elezione di Trump, né il fallimento delle offensive ucraine nella steppa di Zaporižžja e a Kursk, né i continui progressi russi nel rilancio del Donbass hanno avuto alcun effetto concreto sui calcoli negoziali. Tutti questi fattori erano importanti di per sé, ma curiosamente nessuno di essi ha spostato l’ago della bilancia sulle prospettive diplomatiche in Ucraina. I negoziati sono un’impresa stranamente statica, sterile e performativa, che funge principalmente da forum per consentire a Ucraina e Russia di ribadire pubblicamente i propri obiettivi e le proprie lamentele. Da questo punto di vista, sono per lo più innocui. Nel frattempo, la guerra verrà combattuta fino alla sua conclusione.

      Il blockbuster ucraino: la guerra d’attacco nel contesto

      Di gran lunga il momento più importante dell’anno, almeno nei media occidentali, è stato l’inaspettato attacco ucraino contro gli assetti dell’aviazione strategica russa in basi aeree sparse nel profondo della Russia stessa. L’attacco, nome in codice Operazione “Ragno” , è stato certamente degno di nota per tre motivi distinti. In primo luogo, ha degradato l’aviazione strategica russa (bombardieri strategici e sistemi di allerta e controllo precoci aviotrasportati), assetti che fino a quel momento erano rimasti sostanzialmente indenni. In secondo luogo, l’attacco ha colpito basi russe lontane come l’Estremo Oriente russo, il che ha danneggiato il senso di stallo geografico russo e l’inviolabilità delle vaste dimensioni del paese. In terzo e ultimo luogo, la piattaforma per l’attacco era altamente innovativa, con gli ucraini che hanno lanciato piccoli droni da lanciatori trasportati da camion assemblati all’interno della Russia stessa, in una base ucraina segreta a Chelyabinsk .

      Un aspetto interessante da notare fin dall’inizio è che, sebbene l’uso di un simile sistema di lancio montato su camion sia nuovo, l’idea in sé non lo è, e di fatto è nata dagli stessi russi. Più di un decennio fa, la Russia ha iniziato a sperimentare un sistema, affettuosamente soprannominato “Club K”, che si proponeva di lanciare missili da crociera da una piattaforma di lancio che a tutti gli effetti sembrava un innocuo container . Originariamente commercializzato come arma antinave, il Club K ha suscitato aspre critiche come esercizio di perfidia, e il lavoro in corso della Cina sul tema ha ricevuto critiche simili .

      Questo, ovviamente, rende piuttosto buffo che l’Ucraina abbia ricevuto un tale ampio plauso e un elogio incondizionato per l’Operazione Ragnatela. Le lamentele sollevate contro gli esperimenti russi e cinesi con sistemi tipo Club K riguardano essenzialmente l’illegalità di camuffare i sistemi d’attacco come innocui carichi civili. Chiaramente, l’attacco ucraino non è particolarmente diverso, e si limita a scambiare un container trasportato da una nave con un camion. Ora, chi legge i miei lavori da un po’ di tempo sa che non sono il tipo da torcersi le mani per il “diritto internazionale”, che considero un concetto essenzialmente insensato. Il diritto internazionale non è propriamente legge, ma solo un meccanismo istituzionalizzato che permette ai forti di limitare i deboli. Né, del resto, l’ipocrisia ha davvero importanza. Ciò che conta, e in particolare in tempo di guerra, non è ciò che uno Stato è “autorizzato” a fare in base al diritto internazionale, ma ciò che è in grado di fare e il tipo di propensione al rischio che ha. Nel caso del Club K e della Ragnatela, vediamo che la loro perfidia è la nostra audace operazione segreta. L’ipocrisia non è poi così importante, ma almeno è un po’ divertente.

      Passiamo quindi ai danni causati dalla ragnatela stessa. Inizialmente, gran parte dell’infosfera ucraina sbandierava cifre palesemente assurde, sostenendo che circa il 70% della flotta di bombardieri strategici russa fosse stata distrutta. La dichiarazione ufficiale del governo ucraino era che 40 bombardieri e velivoli di allerta precoce erano stati gravemente danneggiati o distrutti, il che equivarrebbe a circa un terzo dell’inventario russo. Un’analisi del video pubblicato dall’Ucraina, così come delle immagini satellitari, conferma circa una dozzina di perdite totali, e i funzionari della difesa occidentale hanno stimato il numero 20 , inclusi sei Tu-95 distrutti e quattro Tu-22.

      TU-95 distrutti nella base aerea di Olenya

      Contestualizzando tutto ciò, la Russia ha perso circa il 12% della sua flotta di TU-95 e il 7% dei suoi TU-22, mentre l’inventario dei TU-160 è rimasto indenne. In totale, si tratta di circa l’8,5% dei bombardieri strategici russi. Il problema, che emerge costantemente da parte ucraina, sono le aspettative assurde e una grave incomprensione del significato di “successo”. In qualsiasi paradigma realistico, distruggere quasi il 10% dei bombardieri strategici russi con droni relativamente economici sarebbe considerato un successo considerevole, ma la continua aspettativa che le capacità russe possano essere semplicemente annientate impedisce una valutazione così realistica.

      Dovremmo riconoscere i vantaggi per l’Ucraina, per non cadere nella trappola del “reggere”. È palese che “Ragno” sia stata un’operazione sia schematicamente ingegnosa che tecnicamente innovativa da parte dell’Ucraina. Colpendo cinque basi aeree russe ampiamente distanti tra loro, con risorse dislocate nel cuore della Russia, “Ragno” è stata un’operazione audace e ambiziosa, e non ha richiesto di mettere a rischio risorse ucraine particolarmente preziose. Da un calcolo rischio-beneficio, si è trattato chiaramente di un successo per l’Ucraina.

      Inoltre, bisogna ammettere senza mezzi termini che gli aerei russi distrutti sono, di fatto, per lo più insostituibili. Il TU-95 è fuori produzione da anni e si prevedeva che la flotta esistente avrebbe svolto un ruolo di supporto nel prossimo futuro. La Russia ha una certa produzione del TU-160, con forse quattro velivoli in consegna a breve termine, ma questo ovviamente non sostituirà completamente le recenti perdite. Tuttavia, le cose avrebbero potuto andare molto peggio. Le perdite sono state ridotte al minimo dal fallimento totale degli attacchi su due dei cinque aeroporti presi di mira. All’aeroporto di Dyagilevo, vicino a Ryazan, le difese aeree russe si sono dimostrate efficaci e nessun aereo è stato colpito; nel frattempo, l’attacco all’aeroporto di Ukrainka, nell’Oblast’ dell’Amur, è fallito a causa dell’esplosione del contenitore di lancio. Sembra anche che l’attacco su Ivanovo Severny abbia colpito una coppia di aerei A-50 (AEWAC), distruggendoli.

      Ci ritroviamo con un quadro piuttosto eterogeneo. L’Ucraina ha dimostrato una capacità innovativa e ambiziosa di colpire le risorse russe e ha distrutto diversi velivoli insostituibili, ma i risultati sono stati certamente ben al di sotto delle aspettative di Kiev. I russi hanno buone ragioni per ritenere di essere sfuggiti al peggio. Certamente, questo sarà un incentivo ad accelerare la costruzione di rifugi antiaerei rinforzati, in corso a ritmo lento, sebbene ovviamente non si tratti di aeroporti, dal 2023. Finora, i russi hanno dato priorità principalmente al rafforzamento degli aeroporti nel raggio d’azione dei sistemi d’attacco convenzionali ucraini (in luoghi come Kursk e la Crimea). Spider’s Web probabilmente indurrà un rafforzamento simile anche in aeroporti più remoti, un tempo considerati relativamente sicuri.

      Nuovi rifugi costruiti all’aeroporto di Khalino nell’oblast’ di Kursk

      Sommando tutto, il bilancio di Spider’s Web è piuttosto semplice: è stato un successo significativo per l’Ucraina, in quanto ha distrutto un buon numero di risorse russe di valore con un rischio minimo. Tuttavia, diversi aeroporti russi sono riusciti a sopravvivere senza perdere aerei, grazie a una combinazione di successo della difesa aerea russa e malfunzionamento ucraino. Gli ucraini hanno ottenuto un successo, ma molto più modesto di quanto avrebbero potuto sperare.

      Ma, cosa ancor più significativa, la ragnatela degrada le capacità russe in un modo che è molto improbabile che abbia un impatto concreto sulla stessa Ucraina. La perdita di bombardieri strategici, soprattutto modelli fuori produzione, aumenta la pressione sulle cellule rimanenti e riduce la capacità, ma è altamente improbabile che queste perdite comportino qualcosa di diverso da una minima riduzione degli attacchi russi contro l’Ucraina.

      La prima e più fondamentale ragione di ciò, ovviamente, è che i missili lanciati dall’aria della flotta di bombardamenti strategici costituiscono una frazione relativamente piccola delle munizioni che la Russia lancia in Ucraina. La stragrande maggioranza è stata , e continua a essere, costituita da droni (come il venerabile Geran) e dagli Iskander lanciati da terra . I Geran, in particolare, costituiscono la munizione più numerosa attualmente in uso, con centinaia di lanciati al giorno, in un contesto di rapida crescita della produzione. La partecipazione dei TU-95 agli attacchi aerei è un’occasione relativamente rara e, per quanto rumorosi e cinematografici possano essere i Big Bear, non sono minimamente la piattaforma di lancio principale in questa guerra.

      In effetti, “Ragno” offre l’opportunità di pontificare su un punto accessorio di notevole importanza. L’uso di missili da crociera lanciati dall’aria da parte della Russia è diminuito significativamente nel 2025, poiché la Russia accumula missili non solo per l’uso in Ucraina, ma anche per altre evenienze. Infatti, pochi giorni prima che “Ragno” colpisse la forza di bombardamento strategico, i media ucraini si interrogavano ad alta voce sul relativamente scarso utilizzo russo di questi sistemi , notando che i lanci aerei da parte di bombardieri strategici si erano verificati solo una manciata di volte quest’anno. Al momento, il fattore chiave che limita gli attacchi missilistici da crociera russi contro l’Ucraina non è né la carenza di missili né la mancanza di aeromobili, ma le decisioni strategiche di accumulare risorse.

      Nel grande schema delle cose, la perdita di bombardieri insostituibili comprime le capacità russe di punta, ma non in un modo che cambi i calcoli per l’Ucraina in questo momento. Distruggere un raggruppamento di TU-95 sul terreno è un successo per l’Ucraina, soprattutto considerando i mezzi a basso costo che hanno impiegato per l’incarico, ma non risolve il problema , ovvero che la Russia ha acquisito la capacità di bombardare in modo sostenibile l’Ucraina, in particolare con Iskander e Geran, il tutto accumulando risorse d’attacco. È possibile che, sulla scia di Spider’s Web, la Russia sia costretta a fare un uso più frequente del TU-160 (che è stato usato con estrema parsimonia fino a questo momento), ma è chiaro che la Russia ha molte opzioni di attacco e le sue capacità nei confronti dell’Ucraina rimangono più che adeguate. Questa è una guerra di logoramento industriale e le operazioni segrete dell’Ucraina non sono un sostituto della capacità di condurre una campagna aerea persistente.

      In definitiva, questo ci porta al punto più ampio. Spider’s Web è stato un esempio innovativo di operazione asimmetrica, ma questo dimostra semplicemente la presenza di una più ampia asimmetria in questa guerra, in quanto tale. La Russia è il combattente di gran lunga più ricco e potente in questo conflitto, il che paradossalmente significa che ha più risorse sia da utilizzare che da perdere. L’Ucraina è riuscita a distruggere quasi una dozzina di bombardieri strategici russi, ma l’Ucraina non ne possiede affatto. La Russia sarà sempre vulnerabile a perdite asimmetriche di questo tipo, perché possiede risorse che l’Ucraina non possiede. Perdere bombardieri strategici non è un bene, ma è meglio che non averli affatto. In questo conflitto, c’è ancora una sola parte che dispone di un vasto e diversificato arsenale di sistemi d’attacco prodotti internamente, e una parte che deve ricorrere ad attacchi con droni lanciati da camion (certamente molto intelligenti) a causa dell’esaurimento delle sue capacità d’attacco convenzionali .

      Colpire la cucitura: aggiornamento sul fronte del Donbass

      Sul terreno, l’asse principale di intervento dell’esercito russo continua a essere il fronte centrale del Donbass, attorno alle città di Kostyantynivka e Pokrovsk. Ciò è particolarmente vero ora che i due assi a Sud di Donetsk e Kursk sono stati in gran parte cancellati. Un rapido sguardo alla mappa della situazione rivela una crescente offensiva russa in questo settore centrale critico. Gli ultimi anni avrebbero dovuto indurci a usare con cautela termini come “sfondamento” e “collasso”, quindi mi limiterò a sostenere che l’esercito ucraino è in seria difficoltà in questo settore.

      Le ragioni sono piuttosto semplici e non risiedono solo nella crescente carenza di personale che affligge le formazioni ucraine, ma anche in una tripla vulnerabilità presente in questo particolare settore del fronte. In breve, l’asse Pokrovsk-Kostyantynivka soffre di quella che chiameremo una “tripla cucitura” che lo rende operativamente molto vulnerabile, e l’attuale offensiva russa è diretta direttamente a questa cucitura, o giunzione operativa. Approfondiamo il discorso.

      La prima cucitura, o vulnerabilità, è geografica e quindi di gran lunga la più facile da comprendere. Il problema fondamentale è che la cintura urbana nella parte occidentale di Donetsk (che va da Kostyantynivka fino a Slovyansk) si trova sul fondovalle. In particolare, nel settore di Kostyantynivka, si trovano punti elevati locali attorno a Chasiv Yar, Toretsk e Ocheretyne, tutti ormai saldamente in mano russa e che costituiscono le basi di appoggio per l’avanzata verso Kostyantynivka. A ovest di Kostyantynivka, un altopiano a forma di cuneo separa la città da Pokrovsk, ed è proprio in questo cuneo elevato che i russi stanno ora avanzando.

      Mappa altimetrica: Donbas centrale

      Il problema operativo per l’Ucraina, tuttavia, va ben oltre la mappa altimetrica. Infatti, la questione altimetrica si intreccia con problemi strutturali relativi alle difese preparate dall’Ucraina. Per comprenderlo, dobbiamo prima ricordare lo stato del fronte nel 2023. Due estati fa, l’asse principale dello sforzo russo passava per Bakhmut, ovvero un’avanzata verso ovest attraverso il centro di Donetsk. A quel punto, l’asse sud-orientale del fronte (Avdiivka, Krasnogorivka, Ugledar) resisteva saldamente per l’AFU. Di fronte alla prospettiva di un’avanzata russa direttamente da est, gli ucraini costruirono difese intorno a Kostyantynivka, rivolte a est, verso Bakhmut.

      Il crollo del fronte meridionale crea un perno nelle difese ucraine, cosicché l’asse dell’avanzata russa ora si dirama da sud-ovest di Kostyantynivka, anziché da est. Sebbene gli ucraini abbiano iniziato a costruire nuove difese (orientate verso sud) dopo il crollo del fronte meridionale, rimane un significativo divario a ovest di Kostyantynivka. Inoltre, il “nodo” in cui si intersecano le difese ucraine si trova essenzialmente al limite sud-occidentale di Kostyantynivka stessa.

      Cinture difensive ucraine (riassunto militare)

      Le recenti avanzate russe li hanno ora portati dietro le posizioni ucraine a guardia dell’accesso sud-occidentale a Kostyantynivka. Quando i russi raggiunsero Yablunivka (intorno al 4 giugno), si trovavano saldamente nelle retrovie della cintura difensiva a sud-ovest di Kostyantynivka, aprendo così alla linea ucraina l’accesso al fianco occidentale della città e collegandosi all’avanzata da Toretsk.

      Situazione approssimativa intorno a Kostyantynivka

      Data la carenza di personale dell’Ucraina, questi sistemi di trincee rischiano di trasformarsi in autostrade per le forze russe, come abbiamo visto lungo l’asse Ocheretyne nel 2024. Una volta che le forze russe penetrano in queste cinture, sono in grado di avanzare lungo la loro lunghezza fino a inoltrarsi nello spazio ucraino.

      In breve, una varietà di debolezze strutturali si sta incastrando nello stesso settore del fronte. I russi stanno avanzando da posizioni elevate e vantaggiose verso le fessure strutturali delle difese ucraine, precisamente nell’area del fronte che separa Pokrovsk e Kostyantynivka. Il risultato è un doppio accerchiamento, con i russi che si stanno facendo strada al centro verso le retrovie dietro queste città. Il terreno e l’orientamento delle linee ucraine hanno ospitato un enorme cuneo di divisione russo che reciderà le linee di comunicazione con entrambe le città. Questo sarebbe un problema grave in circostanze ideali, ma data l’incapacità dell’Ucraina di presidiare adeguatamente le proprie posizioni, è diventato una crisi.

      Nelle prossime settimane, le forze russe continueranno la loro espansione nello spazio interstiziale tra Pokrovsk e Kostyantynivka, sondando la strada verso il cuore operativo dell’Ucraina. Una volta raggiunto lo spazio appena a sud-ovest di Druzhivka, saranno posizionate per tagliare le linee di comunicazione verso entrambe le città. Contemporaneamente, continueranno a rafforzare le difese sul fianco sud-occidentale di Kostyantynivka. Con le forze russe che penetrano nel fianco sud-occidentale della città, quest’ultima si trova già in una posizione indifendibile.

      Delle due città, Kostyantynivka probabilmente cadrà per prima, con i russi che inizieranno ad assaltare la città vera e propria a luglio. In quella che definirei semplicemente una decisione di comando, i russi sono stati pazienti nell’avanzare Myrnograd e nel distruggere la spalla della posizione di Pokrovsk. A questo punto, sembra improbabile che ci riescano finché l’avanzata nel solco non avrà compromesso le linee di rifornimento dalle retrovie.

      A rischio di essere un po’ iperbolico, questo rimane l’unico settore che vale la pena osservare attentamente. Le forze russe stanno esercitando sforzi relativamente minimi sugli altri assi del fronte. Si registrano progressi graduali, ricchi di opportunità, intorno a Lyman e Kupyansk, e l’espansione della “zona cuscinetto” russa nell’oblast di Sumy merita di essere monitorata. Sembra estremamente improbabile, tuttavia, che la Russia abbia intenzione, a breve termine, di spingere il fronte verso la città di Sumy stessa; piuttosto, la zona cuscinetto mira a conquistare una linea difensiva avanzata lungo le alture sul lato ucraino del confine, mantenendo aperto un fronte vantaggioso per dissipare le risorse ucraine. Il baricentro di questa guerra rimane il Donbass centrale, e il fattore operativo chiave, in quanto tale, è stato il perno dell’asse strategico russo. Dopo essere avanzati verso ovest attraverso Bakhmut nel 2023, hanno sfondato il confine a sud nel 2024 e ora stanno avanzando ortogonalmente nella difesa ucraina tra Pokrovsk e Kostyantynivka, nel penultimo atto della campagna del Donbass prima di raggiungere l’obiettivo a Kramatorsk e Slovyansk.

      Conclusione: chiarezza strategica

      Ho scritto spesso dell’importanza cruciale di una “teoria della vittoria” quando si combatte una guerra. Questo si riferisce, in senso più semplice, alla necessità per uno Stato di avere un concetto globale per sfruttare il potere per i propri obiettivi bellici. Questo è il legamento strategico che collega le operazioni militari e la diplomazia agli obiettivi di guerra dello Stato.

      Con l’avanzare della guerra nel suo quarto anno, l’Ucraina e i suoi sostenitori occidentali hanno sperimentato diverse teorie di vittoria, che sono state silenziosamente accantonate dopo essere andate in frantumi. Nel primo anno di guerra, la teoria della vittoria ucraina incentrata sulla Russia ha creato un inaccettabile rapporto costi-benefici. Se l’Ucraina e l’Occidente avessero mostrato una risolutezza inaspettata, mantenendo l’AFU impegnata a combattere ferocemente sul campo, si sperava che la Russia si sarebbe tirata indietro dal combattere una guerra lunga, soprattutto perché le sanzioni stavano erodendo l’economia russa. Invece, la Russia ha iniziato a mobilitarsi per una lotta più lunga, e l’economia russa ha finora superato indenne le sanzioni.

      Questa teoria della vittoria fu poi sostituita da un modello basato esclusivamente sulle operazioni militari, che presupponeva che una vittoria decisiva potesse essere ottenuta a sud sfondando le difese russe nel ponte di terra. Questa teoria si dissolse in modo molto più evidente, con i mezzi corazzati occidentali che bruciavano nella steppa dopo un fallito tentativo di sfondare la linea Surovikin. Un secondo tentativo di riprendere le operazioni decisive incontrò una fine simile a Kursk.

      Nell’ultimo anno circa, la teoria della vittoria ucraina ha nuovamente cambiato rotta, in particolare sotto l’egida della nuova amministrazione Trump, a favore di termini come “attrito” e “stallo” come meccanismi per raggiungere una soluzione negoziata. Se il fronte in Ucraina può essere bloccato in qualcosa di simile a una situazione di stallo – ovvero se il costo di ulteriori avanzamenti può essere reso proibitivo per la Russia – si creeranno le condizioni per una pace negoziata .

      Al contrario, la Russia ha adottato una teoria della vittoria sostanzialmente coerente dalla fine del 2022, quando ha iniziato la mobilitazione. Questa teoria è molto semplice: gettando le basi per operazioni militari sostenibili contro l’Ucraina, è possibile mantenere una pressione costante e avanzamenti terrestri fino al crollo della resistenza ucraina o al controllo russo del Donbass. Finora, l’Ucraina non ha dimostrato capacità – né di passare all’offensiva né di fermare l’avanzata russa nel Donbass – tali da modificare questo calcolo di base.

      I commentatori occidentali raramente cercano di vedere il conflitto dalla prospettiva russa, ma se potessero capirebbero subito perché la fiducia russa rimane alta. Dal punto di vista russo, hanno assorbito e sconfitto i due migliori attacchi dell’Ucraina sul campo (la controffensiva del 2023 e l’operazione Kursk), e hanno resistito a una lunga e costante infusione di potenza bellica occidentale senza che la traiettoria della campagna terrestre o della guerra d’attacco cambiasse radicalmente. Nel frattempo, la Russia ha sostanzialmente raschiato via l’intero Donbass meridionale, spingendo il fronte oltre il confine nell’Oblast di Dnipropetrovsk, ed è pronta a chiudere il settore centrale del fronte mentre l’avanzata intorno a Pokrovsk e Kostyantynivka fiorisce.

      Ci troviamo, quindi, di fronte a una sconcertante discrepanza. Da un lato, l’amministrazione Trump si è avvicinata all’Ucraina come se la sua elezione avesse cambiato radicalmente tutto e aumentato all’istante la probabilità di una pace negoziata. La Russia, invece, ritiene, a ragione, che nulla sia cambiato. Ha assorbito tutto ciò che l’Occidente ha riversato nel conflitto e continua sia ad avanzare sul terreno sia a colpire incessantemente l’Ucraina con misure materiali che considera chiaramente sostenibili, senza gravare eccessivamente sulla vita civile in Russia.

      Se qualcuno si è sorpreso, quindi, che la Russia sia venuta a Istanbul solo per ribadire le stesse condizioni presentate fin dall’inizio, è chiaro che non ci stava prestando attenzione. La Russia non ha alcun incentivo ad ammorbidire la sua posizione finché ritiene che il calcolo del campo di battaglia sia rimasto invariato, e nulla di ciò che l’Occidente (o l’Ucraina) ha fatto dal 2022 ha dato a Mosca un valido motivo per rivedere le proprie posizioni. Le richieste di base della Russia dovrebbero essere ormai ben comprese, così come la volontà russa di raggiungere rapidamente tali obiettivi. Se l’Ucraina non rinuncerà al Donbass al tavolo di Istanbul, potrà essere conquistato dall’esercito russo. In definitiva, la differenza è minima.

      Ci rimane la formulazione di Woodrow Wilson. Non, ovviamente, la sua nobile “pace senza vittoria”, che oggi è un fallimento proprio come lo fu nel 1917. Piuttosto, ci rimane il Wilson indurito e amareggiato del 1918. Con gli Stati Uniti ormai parte attiva del conflitto, la prospettiva di Wilson si era oscurata immensamente, e ora si opponeva categoricamente a qualsiasi negoziato con una Germania imbattuta. Aveva invece concluso che “se la Germania fosse stata sconfitta, avrebbe accettato qualsiasi condizione. Se non fosse stata sconfitta, lui [Wilson] non desiderava scendere a patti con lei”.

      Se il ramoscello d’ulivo è appassito, andrà bene anche la pistola.

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