Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (2), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (2)
Abbiamo dimostrato che il moderno concetto di “nazione” nasce in un contesto filosofico massone, in opposizione all’idea imperiale e religiosa “sovranazionale”.
Ma torniamo ai Romani, quindi a Roma che la tradizione vuole fondata da vari esuli di altre città italiche, ma non è questo il tema fondante. Il tema fondante di Roma sono le nozioni di “imperator” (che non è l’imperatore, sorta di supremo re per come è indottamente e comunemente conosciuto) e di “augus”. Nozioni molto importanti per capire cosa “muove” l’antica Roma.
Imperator: è così indicato colui che dopo l’”inauguratio” è ricolmo di “augus” (per intenderci l’”ojas” indoiranico) ossia è in grado di raccogliere, determinare e confermare la “maiestas” che il dio Iupiter ha consegnato a Romulus, fondatore della città, per uno scopo: la conquista delle altre città (e del mondo intero) affinché entrino nello spazio “sacro” del re degli dèi.
Il compito di Roma non può che essere ‘imperiale’, come quello dell’impero cinese o persiano o kuṣāṇa o mongolo.
Si parte da un uomo o da una comunità investita da un compito sacro: quello di conquistare il mondo perché tutti gli uomini si sottomettano ai dettami e dell’imperatore investito dal re degli dèi o dal principio del Dharma, ricevendo in cambio la protezione affinché ognuno possa realizzare compiutamente il suo destino e comprenderne i significati ultimi.
La cittadinanza romana viene quindi via via elargita a tutti coloro, anche appartenenti a ‘nazioni’ diverse, che mostrano di essere in grado di condividere, difendere e diffondere il “mōs maiōrum” che poi è il riverbero del principio sacro della stessa “maiestas”. I cristiani con il loro Sacro Romano Impero si muoveranno nella stessa identica logica in qualità di “populus dei” guidati dal loro pastore e pontefice e con un nuovo “imperator”, a volte sì a volte no a lui sottomesso.
Vero che i Romani, come i Greci prima di loro, dividono il mondo tra loro e i “barbari”. Ma questa divisione non inerisce al “sangue”, all’eredità, ma alla capacità di dominare la “cultura” e la “lingua” (ossia il “mōs maiōrum” di riferimento). D’altronde anche i cristiani additeranno i non-cristiani come “nationes”.
Per quanto riguardai miei studi, le uniche tradizioni che fanno riferimento in qualche modo alla stretta eredità famigliare, o di casta, o di sangue, sono quella vedica (con particolare riguardo a quella ancora odierna dei Nambūṭiri del Kerala), quella giudaica (ma solo dopo la riforma esdrina), quella zoroastriana (ma solo quella dei Parsi del Gujarat). Sui Germani è più impegnativo collocarli correttamente, a parte le prime tradizioni longobarde attestate che risultano invece ben evidenti.
Tornando alla Grecia, ad Atene, Zenone di Cizio, di origini fenicie, fondava nel IV secolo a.C. la Stoa dove predicava il primo cosmopolitismo: il cosmo è l’unica patria di tutti gli uomini resi comuni nella loro capacità di pensare, trovando secoli dopo in un imperatore romano, Marco Aurelio, un fervente seguace.
Ma questo solo a veloce titolo esemplificativo. E sempre solo a veloce titolo esemplificativo, ancora secoli dopo un altro fenicio di cultura greca, Porfirio, si scaglierà contro il cristianesimo considerato una “superstitio”, o meglio, un concorrente nell’ideologia imperiale romana.
Quindi i moderni filosofi, massoni, propugnatori della nozione moderna di “nazione” si scontreranno, e non solo culturalmente, con gli eredi della idea imperiale e delle aristocrazie sovranazionali, variamente declinate nei secoli…
Ancora nella modernità, interessante, come al solito, il contributo di Giuseppe Mazzini che indirizza il concetto di “nazione” non sugli abitanti di un territorio preciso ma lo lega a un nuovo termine, quello di “patria”, a sua volta non dipendente dal territorio ma dal sentimento di condivisione tra le genti. Mazzini non era un massone, quanto piuttosto e probabilmente un “carbonaro”, quindi appartenente a un’organizzazione clandestina abbastanza simile alla prima ma di origini diverse, o se si preferisce “eretiche”.
Ecco in arrivo il “nazionalismo”, che però è cosa diversa dai moti nazionali dei nostri intellettuali, più o meno rivoluzionari, sopracitati. È la sua radicalizzazione.
Dapprima il “nazionalismo” si fonda su un diffuso vissuto di “Realpolitik”, poi declina in una vera e propria ideologia. Detto con l’accetta esso parte da intellettuali tardoromantici tedeschi con una imprecisa nozione di “Volkgeist” (nozione già utilizzata dallo Hegel!) per individuare una sorta di spirito “nazionale” che rende la nazione come un ricettacolo che sovrasta i suoi componenti indicandone il destino spesso individuato come “eletto” o “suprematista”.
Gli intellettuali che in qualche modo predicano questo indirizzo sono diversi, tra tutti spicca, quantomeno per spessore culturale e per ruolo politico, il tedesco Heinrich von Treitschke.
Nel mentre sul finire del XIX secolo il tedesco von Treitschke diffonde le sue dottrine, il francese Arthur de Gobineau diffonde le sue, raccolte nel “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane”.
De Gobineau predica la razza come il vero fondamento di una nazione. La razza ne decide anche il destino, se la razza si mischia con altre razze, quella nazione sarà destinata al declino. Va da sé che la “razza” più importante e ‘forte’ è quella “bianca”. Ma De Gobineau non inventa nulla, prima di lui altri autori si erano dilettati a descrivere le razze umane, tra tutti il tedesco Johann Friedrich Blumenbach.
Ma il periodo di De Gobineau e di von Treitschke è anche il periodo delle ricerche degli inglesi Herbert Spencer, propugnatore del darwinismo sociale, e di Houston Stewart Chamberlain devoto allievo di De Gobineau (grazie a Cosima Wagner).
La zuppa positivista e ancora liberale incontra il nazionalismo e il piatto è ora pronto per le varie dottrine naziste e fasciste (non sempre omogenee).
Ma la correlazione tra personalità, intelligenza e segno somatico non è proprio solo dei positivisti (eredi dell’Illuminismo) e dei successivi nazisti. Cesare Lombroso ed Enrico Ferri erano infatti convintamente socialisti…
Riassumendo nei primi dell’800 va in voga tra gli intellettuali massoni e romantici la critica all’idea sovranazionale delle aristocrazie europee e all’universalismo cattolico, che fonda l’idea di “nazione”.
Verso la fine dell’800 tale idea si nutre delle nozioni positiviste della “razza” e romantiche della “Volkgeist” fondando dapprima le diverse forma di “nazionalismo”, infine dei movimenti fascisti europei. I quali, sul finire della guerra, individueranno nell’Europa unita l’unica vera nazione. Così l’intellettuale fascista francese Pierre Drieu La Rochelle: «La race des Aryens retrouve son union/Et reconnait son dieu à l’encolure forte./Trois cents millions d’Humains chantent dans un seul camp./Un seul drapeau rouge à la cime des Alpes./Voici les temps sacrés remontant des enfers»…
Oggi gli eredi del nazionalismo radicale sono al contempo anche eredi dell’idea imperiale di Roma o del cosmopolita Federico II di Svevia, sono nazionalisti italiani antieuropei ma predicano il verbo europeista di intellettuali quali Drieu La Rochelle. Poche idee mal studiate e molto confuse… un po’ come la storia della vaccinazione obbligatoria criticata con motivazioni neoliberali… ma sempre tanto entusiasmo….
2 –segue, senz’altro-
NB_tratto da facebook

 

LE BOMBE SULL’AFGANISTAN HANNO FATTO UNA VITTIMA: BIDEN, di Antonio de Martini

LE BOMBE SULL’AFGANISTAN HANNO FATTO UNA VITTIMA: BIDEN
Zabibhullah Mujaid, portavoce dei Talebani ha dichiarato che il movimento degli “ Studenti in religione” é favorevole all’evacuazione degli americani.
Infatti, dalla dichiarazione di tregua in poi, gli americani non sono stati attaccati e questo ha reso disponibili concentramenti di più forze per attaccare i governativi.
L’intelligence USA ( e quella afgana) hanno realizzato gli ultimi, si spera, due buchi nell’acqua a dimostrazione – non solo della inefficienza- ma anche della mancanza di contatto con la realtà del paese e del loro stesso esercito.
1)Non si aspettavano il crollo psicologico dei militari afgani alla cessazione dell’appoggio aereo e logistico americano. Il che ha consentito ai talebani la presa di controllo di due terzi del paese in una settimana.
L’invasione d’Italia di Carlo VIII fu chiamata “la guerra dei gessi” dai segni che l’intendenza faceva sui punti di ristoro per le truppe. Fu l’impegno più gravoso data la mancanza di resistenza. E questa avanzata dei Talebani me la ricorda.
2)Prevedevano che l’attacco venisse dal sud del paese e sono stati sorpresi dall’attacco Nord-Sud. Credevano che il Nord fosse rimasto ai tempi di Massoud, il leone del Pamshir….
Su circa 140 distretti “conquistati” le truppe governative ne hanno riconquistati dieci.
Una campagna di omicidi mirati di piloti ha debilitato l’aeronautica afgana che sarebbe stato l’unico asso nella manica del presidente Ghani.
L’invio in urgenza di tremila uomini ( due battaglioni di Marines e uno di fanteria) in aggiunta ai seicento già a presidio dell’ambasciata USA e l’afflusso di militari inglesi a protezione di quella britannica, da la misura della della mancanza di cooperazione persino a livello di difesa ravvicinata sullo stesso percorso per l’aeroporto.
Ognuno per se.
La presenza di questa mezza brigata ( più i mercenari delle compagnie private ancora in loco) dovrebbe tenere i talebani lontani da Kabul per qualche tempo e permettere negoziati, ma l’afflusso dei profughi nella capitale ( ah se qualcuno avesse letto Machiavelli !) renderà la situazione alimentare e logistica presto insostenibile per gli assediati.
Uno dei giovani generali dell’esercito governativo – Koshal Sadat 35 anni- ha dichiarato : “tutto ciò di cui un soldato ha bisogno é di un vero leader” cioè che le truppe sono disposte a battersi e a cessare le diserzioni, se a capo si trovassero un vero comandante ( sottinteso, non un fessacchiotto come il presidente Ashraf Ghani).
Insomma si rivive la situazione tipica americana con un docile ometto gradito agli occidentali ma per le stesse ragioni non apprezzato dal popolo e dai suoi stessi soldati.
Il portavoce del Pentagono citato ieri sera dal corrispondente RAI Di Bella, ha detto “ il denaro non può ottenere la volontà politica.”
Una bella ammissione. Giunge con un ritardo di almeno mille miliardi di dollari ( di cui una ventina nostri).
COSA SUCCEDERÀ
Gli Stati Uniti vorranno isolare il paese sostenendo che viola i diritti umani e che potrebbe “ nuovamente ospitare terroristi” ignorando che chi ospitava Ben Laden era il Pakistan….
Oltre a ignorare la storia dell’Afganistan ignorano- evidentemente – anche la geografia: trascurano che l’Afganistan confina col Pakistan e con l’Iran due paesi che NON possono neppure volendo isolare il vicino; gran parte degli abitanti sono nomadi e vivono di pastorizia ( transumanza frontaliera) e che quindi i consigli di sanzioni sono illusori e inefficaci. Anche i vicini russi saranno lieti di riannodare i rapporti con paese che li scacciò, in nome della solidarietà tra sanzionati…
Ignorano – o fingono di ignorare- anche le cronache dei giornali.
La Turchia é in eccellenti rapporti coi paesi summenzionati e con i tre “ stan” ( Kirghizistan, Turkmenistan,Uzbechistan) e sta affacciandosi sul problema nell’ottica di “rendersi utile” e rifornire il Pakistan di equipaggiamenti militari in sostituzione di eventuali sanzioni USA.
L’Iran ha in progetto un gas-oleodotto verso la Cina ( via Pakistan e…Afganistan) e la situazione é diventata favorevole.
Il complesso militare Russo Cinese ha appena completato una manovra militare congiunta di 13.000 uomini in Cina. Tra gli obbiettivi della esercitazione, verificare la capacità dei soldati russi di utilizzare armamento cinese.
Questo significa decuplicare in poco tempo la capacità di equipaggiamento russa e la pericolosità navale della Cina.
Esistono anche altri paesi , come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che non isoleranno mai l’Afganistan e almeno questo avrebbero dovuto capirlo durante i lunghi, mesi di negoziati a Doha.
Era cominciata come una scampagnata di quei discoli della CIA a caccia di Ben Laden in Afganistan e rischia di concludersi come il più importante indebolimento strategico della storia degli Stati Uniti contro quasi l’Asia intera.
L’Organizzazione di Shangai , costituita da tutti i paesi confinanti citati, sarà lieta di accogliere il nuovo socio. By the Way, un altro sanzionato, la Bielorussia, é membro osservatore del gruppo, mentre gli USA si sono visti respingere la richiesta di adesione….
Al confronto, lo smacco siriano é una gaffe di poco conto e il problema palestinese una grana momentanea.

Stati Uniti, NATO e Unione Europea! L’illusione di un addio, il miraggio dell’autonomia_di Giuseppe Germinario

Gli alti lai hanno raggiunto alla fine l’Olimpo; sono riusciti a smuovere la magnanimità dell’Onnipotente. Per quattro anni gli orfanelli hanno smarrito la guida; hanno dovuto sopportare smarriti le bizze dell’impostore. Hanno avuto davanti a sé l’uscio maliziosamente socchiuso verso le incertezze della libertà; non dovevano far altro che liberarsi dei guardiani arcigni, ma privi di una guida. Non hanno nemmeno avuto il coraggio di sbirciare il nuovo mondo dai pertugi. Hanno tramato invece per il ritorno del vecchio padrone aspirando nient’altro che al ripristino delle sicurezze di una strada obbligata scelta da altri. Joe Biden, il nuovo messia, li ha accontentati prontamente. Ha indicato loro la strada obbligata con piglio fermo e modi cortesi; ma la direzione indicata non è proprio la medesima percorsa per trenta anni. Biden, però, impersona più l’umanità e le debolezze delle divinità greche, che la purezza del dio cristiano; il prezzo chiesto agli alleati è stato quindi piuttosto salato e guidato da una tattica levantina.

I recenti vertici del G7 e della NATO tenutisi a giugno non possono infatti essere considerati nella ordinaria routine diplomatica.

Il G7 ha certamente assunto la funzione politica di allineare preliminarmente il gruppo di paesi determinanti per lo svolgimento degli indirizzi; nella divisione dei compiti ha assunto il compito politico-culturale di offrire nuovamente al mondo, in particolare nelle zone critiche di competizione con la Cina e la Russia, il modo di vita, i valori e la generosità occidentali. Ben più corposi i due vertici successivi della NATO e con Putin.

Mi ero ripromesso di scriverne a ridosso. Non è stato possibile, ma il tempo trascorso non è passato invano.

Tra la piaggeria e il lirismo prevalenti, non sono mancati commenti e analisi più avveduti; tra questi la constatazione che nell’assemblea NATO i diversi punti di vista, gli interessi strategici potenzialmente divergenti hanno spinto l’egemone statunitense ad una salomonica divisione dei compiti tra gli alleati eurorientali impegnati a sostenere gli USA nel fronteggiare la Russia e i fondatori originari, in particolare Italia, Francia e Germania impegnati nel loro sostegno ai propositi americani di arginare la Cina nel Pacifico con alcune varianti legate al comportamento britannico. In pratica una fotografia se non una interpretazione sin troppo letterale del contenuto dei colloqui e dei testi finali concordati.

Eppure quei documenti, i finali ed i preparatori, in particolare quelli della NATO, rivelano qualcosa di ben più complesso ed articolato.

LA NATO, QUESTA (S)CONOSCIUTA

Già soffermandosi sulla constatazione “fotografica” dei testi non è sufficiente ricondurre la dicotomia (schizofrenia?) al classico schema delle divisioni e differenze tra alleati senza considerare quindi l’acceso conflitto e le incertezze ormai, con l’uscita di Trump, tutte interne alla amministrazione americana in primo luogo, ma anche in particolare e in subordine in quella francese.

Una prima chiave di interpretazione di questa complessità la si trova in alcune frasi apparentemente anodine a partire da pag 77 del documento preparatorio dell’Assemblea NATO*: “a partire dal 2014 la NATO ha adattato con successo le proprie strutture militari e la propria postura di potenza. Continua a farlo alla luce delle nuove sfide (Depuis 2014, l’OTAN a adapté avec succès ses structures militaires et sa posture de forces. Elle continue de le faire à la lumière des nouveaux défis.)”; ancora: “tuttavia il braccio politico della NATO che permette al segretario generale e all’Organizzazione stessa di adattarsi e posizionarsi in un ambiente securitario in rapida trasformazione, deve ancora evolvere (Cependant, le bras politique de l’OTAN, qui permet au secrétaire général et à l’Organisation ellemême de s’adapter et de se positionner dans un environnement de sécurité en rapide transformation, doit encore évoluer).

La riproposizione in ambito NATO della pratica funzionalista brillantemente adottata nell’ambito della Unione Europea.

Niente di originale in un caso come nell’altro. Tutto rientra da sempre nei normali canoni dell’azione politica dei centri decisionali più avveduti capaci di occupare i posti chiave, di innescare le inerzie degli apparati e di creare una situazione di fatto propedeutica alla sanzione politica o quantomeno in grado di contrastare e rendere improbabili eventuali scelte alternative. Nella fattispecie imporre di fatto con un livello di integrazione addirittura maggiore quello che gli statunitensi non riuscirono a sancire per decisione esplicita negli anni ‘50 con la CED (Comunità Europea di Difesa).

Il filo conduttore del documento è sin troppo chiaro ed esplicito e si traduce in pochi indirizzi strategici della NATO:

  • deve affermarsi sempre più come un centro di decisione politica in quanto detentrice della forza militare;

  • deve diventare una sede privilegiata di incontro, di consultazione e di coordinamento non solo dei ministri della difesa, ma anche degli esteri e degli altri ambiti che abbiano implicazione con la difesa e la sicurezza della alleanza e dei singoli appartenenti, in particolare la ricerca scientifica, le comunicazioni, l’energia; devono essere ulteriormente rafforzati i legami e il coordinamento con le strutture della UE (Unione Europea);

  • deve decidere, operare e comunicare in maniera univoca evitando progressivamente sovrapposizioni delle altre istituzioni nazionali e comunitarie concorrenti sino a curare la stessa formazione culturale e tecnica del personale e dei collaboratori nonché dell’ambiente operativo;

  • deve agire statutariamente in ambiti operativi e spazi geopolitici più ampi e globali rispetto a quelli fondativi della fase bipolare di confronto sul fronte occidentale con la Unione Sovietica ipotizzando, anche se non ancora esplicitamente, l’allargamento ad una “NATO mondiale” e praticando l’estensione dei rapporti di collaborazione;

  • deve stabilire una linea di comando più efficace che superi su più temi l’obbligo della unanimità nelle decisioni, che attribuisca maggiori poteri al Segretario Generale, compresa la maggiore autonomia nell’utilizzo delle risorse disponibili e la verifica della effettiva esecuzione delle decisioni, che stabilisca tempi certi nelle decisioni, che attribuisca infine al Comando Generale maggiori poteri nella preparazione degli interventi in situazioni di emergenza anche in anticipo e propedeutici alle decisioni politiche.

Una chiarezza, una puntualità ed una sicumera inedite ampiamente corroborate e indotte da due situazioni:

  • la progressiva affermazione pratica e ormai sempre più adozione concettuale del modello di guerra ibrida e in subordine asimmetrica che estende compiutamente il classico confronto militare diretto con armi da fuoco ai più diversi ambiti e spazi dell’agire umano e lo “diluisce” di fatto nell’ambito del più generale confronto geopolitico; una dinamica innescata inesorabilmente dall’avvento dell’economia industriale e resa organica dalle nuove potenzialità tecnologiche e dalla capacità operativa e di influenza delle grandi potenze. Un modello che implica un salto qualitativo della visione strategica e della capacità operativa e una mole immane di risorse necessarie;

  • l’accelerazione ormai trentennale dei processi di integrazione militare, innescata dalla prima Guerra del Golfo, proseguita con l’allargamento delle adesioni all’Allenza Atlantica e non ancora compiuti. Una integrazione che ha riguardato il rapporto tra le forze territoriali e le unità mobili centrali, l’integrazione e velocizzazione delle reti di mobilità e comunicazione, l’integrazione delle reti energetiche, quella dei centri di comando e la creazione di centri operativi e logistici (17?) a direzione NATO nei diversi ambiti compreso quello tecnologico. Tutti processi che stanno svuotando di fatto la capacità e le prerogative dei singoli stati nazionali europei in materia di difesa e di influenza geopolitica.

In questo quadro vengono definiti i punti dichiarati di attacco dell’alleanza: quello in atto contro la Russia, dovuto bontà loro al carattere estremamente aggressivo sul fronte europeo pur riconoscendo capacità operative non comparabili con quelle della Unione Sovietica; quello in divenire con la Cina, paese le cui ambizioni vanno contenute ma con il quale ci sono margini di trattativa e collaborazione.

In sintesi, più che l’individuazione pur indispensabile degli avversari colpisce, a parere dello scrivente, il tentativo articolato di allargare ed approfondire il campo di azione e le prerogative “statuali” su base oligarchica di una alleanza sino ad ora statutariamente definita “militare” e basata nominalmente sulla pari dignità degli aderenti. Non a caso prendono piede proposte tali quali la costituzione di una DARPA atlantica, di una agenzia quindi in grado di sviluppare l’uso civile e militare delle applicazioni tecnologiche frutto della ricerca scientifica con tutto quello che ne consegue nei rapporti con le università e con gli apparati industriali; l’uso ventilato delle forze militari a fini di sicurezza interna nei paesi dell’alleanza in risposta alle minacce del terrorismo, ma anche di fenomeni politici emergenti.

L’esigenza di rispondere tempestivamente alle dinamiche multipolari sempre più complesse e imprevedibili sono certamente un impulso potente all’accentramento politico. Un proposito più facilmente perseguibile in una struttura chiusa come la NATO nel quale il personale è selezionato sulla base della fedeltà alla missione. Più complicato e meno dissimulabile nelle intenzioni reali e nelle contraddizioni intrinseche quando deve essere adottato coerentemente dai paesi e dagli stati nazionali europei.

Su questo ci offre lumi particolari il documento conclusivo dell’assemblea, altrettanto articolato di quello preliminare; meno compassato, decisamente più pervaso piuttosto da enfasi propagandistica ed ideologica.

A prima vista ha colpito il furore con il quale si scaglia contro il pericolo ru(o)sso, reo di revanscismo, di militarismo, di autoritarismo ai danni delle democrazie dei paesi vicini; una sfrontatezza tale da rimuovere e ribaltare la realtà della delusione della fine dello spolpamento della Russia, dell’aggressività continua perpetrata ai suoi danni, dell’impronta russofoba dell’adesione alla NATO e alla UE dei paesi dell’Europa Orientale, dei colpi di mano perpetrati in Ucraina ed altri paesi; in particolare della rimozione vergognosa della questione del trattamento riservato alle popolazioni russe e russofone rimaste intrappolate nei nuovi stati frutto dell’implosione dell’URSS, tanto più grave in quanto perpetrata dai sedicenti paladini dei diritti umani.

Del tutto ignorato al contrario l’insolito lirismo, un vero e proprio panegirico di numerose pagine, riservato al decisivo contributo offerto dalla UE e dalla sua Commissione al processo di integrazione intensiva e allargamento della NATO. Un cappello addirittura imbarazzante nella sua evidenza tale da mettere in dubbio impietosamente l’immagine di relativa autonomia politica costruita intorno alla costruzione europea. Un florilegio che manca il punto qualificante e più paradossale di questo altruismo comunitario: quello dell’apprezzamento di un documento della Commissione Europea sulla politica estera e di difesa autonoma europea che prevede la costruzione di una forza militare per le missioni estere, in realtà di supporto e che ignora del tutto la creazione di una forza militare autonoma posta a difesa dei confini territoriali europei.

“Italia e il Mondo”nel proprio piccolo, grazie in particolare agli articoli di Luigi Longo, ha cercato di smontare nel merito questa immagine sottolineando in particolare la coincidenza dei progetti infrastrutturali europei con gli interessi strategici e di riorganizzazione della NATO; ci stanno ora pensando in grande gli stessi artefici principali della costruzione europea a demolirla assieme al giocattolo stesso. Un gioco rischioso che intanto di fatto mette in imbarazzo e erode ogni sponda a quella componente europeista, di impronta radicale e progressista, che fonda la propria fedeltà al progetto sul carattere endogeno della formazione e sul potenziale offerto di autonomia politica dell’istituzione rispetto a tutte le grandi potenze, compresi gli stessi Stati Uniti.

LO STATO dell’ARTE

Un gioco rischioso appunto, che rischia di creare problemi ben più gravi di quanti ne possa risolvere, ma non per questo meno sagace ed articolato.

Gli Stati Uniti, i loro centri decisori in particolare, hanno diversi problemi strategici di fondo da risolvere:

  • la individuazione e la scelta del nemico principale da affrontare con una strategia coerente. Questo nemico sta diventando oggettivamente la Cina in uno scenario nel quale sta emergendo e riemergendo l’intraprendenza di numerosi attori regionali ed alcuni “quasi globali”, come la Russia; in una situazione però nella quale gli Stati Uniti hanno grosse collusioni e interdipendenze nella Cina stessa e della cui ascesa a potenza sono di fatto uno dei principali responsabili assieme alla geniale abilità della classe dirigente mandarina;

  • il baricentro politico e militare statunitense è orientato ancora prevalentemente in Europa, area da cui trae la maggiore forza politico-economica e la maggiore capacità pervasiva; lo rimarrà per altro ancora per molto tempo. La resilienza ormai settantennale di questo enorme coagulo di potere ha consentito la formazione di potenti ed imprescindibili centri decisionali e di apparati di potere in grado di condizionare e decidere degli orientamenti e dello scontro politico interno agli Stati Uniti, come si è visto apertamente durante i quattro anni di presidenza Trump; centri difficili da scalzare, ridimensionare e riorientare a seconda delle necessità e delle condizioni;

  • gli Stati Uniti dispongono, in termini relativi, non assoluti, di una minore quantità di risorse materiali e umane rispetto ai numerosi fronti che si stanno aprendo e al peso degli avversari in lizza ferma restando la ancora sostanziale superiorità tecnologica, economica ed operativa. Sono ancor meno in grado di sostenere più di un confronto militare diretto e di gestire soprattutto l’esito dello scontro;

  • gli Stati Uniti, sfortunatamente per i loro centri decisori ancora prevalenti, fortunatamente per il resto del mondo, stanno vivendo una situazione interna nella quale gran parte, forse la maggioranza della popolazione è nettamente contraria ad ulteriori impegni militari diretti sul terreno e dotata di una superiore consapevolezza, rispetto agli europei, delle implicazioni interne della collocazione e delle scelte geopolitiche del paese. Questo grazie soprattutto alla evidenza e alla violenza dello scontro politico in atto, alla pesantezza in termini di squilibri delle conseguenze delle dinamiche concrete della globalizzazione; alla formazione infine di una sorta di platea magmatica particolarmente inquieta e manipolabile sempre più legata ad una visione assistenziale dei diritti.

In tale contesto, in attesa che lo scontro politico interno, nient’affatto sopito, si delinei e risolva più chiaramente, nella sua sostanza quindi sciolga il dilemma tra una delimitazione della propria sfera d’influenza accettando la condizione multipolare oppure la conferma della propria ambizione egemonica mondiale, ai centri decisori americani non resta che rifugiarsi sempre più nel modello egemonico britannico del secolo XIX teso a giocare sulle rivalità e a creare un equilibrio nel quale fungere da arbitro-giocatore senza eccessive esposizioni militaresche.

Da questo punto di vista il gioco europeo assume caratteristiche particolarmente complesse e sofisticate; di questo vissuto si alimenta anche la Alleanza Atlantica.

ESEMPI DI PERVICACIA

Le dinamiche in corso, compreso il manifesto programmatico appena illustrato, accrediterebbero la parvenza di autonomia istituzionale e di esercizio di sovranità della NATO; un accredito sempre in voga tra i fautori e gli esorcisti del governo mondiale.

Niente di più ingannevole.

La NATO rimane una alleanza militare con precise gerarchie interne attraverso le quali la potenza egemone americana esercita uno stretto controllo sugli alleati; le uniche libertà che possono esercitare entro certi limiti i paesi subalterni sono quelle di astenersi dalle azioni, ma mai e poi mai di agire in contrasto.

Si tratta però di un esercizio molto sofisticato, dai meccanismi assunti ormai quasi naturalmente e dove l’uso dell’imposizione esplicita pende sulla testa, ma solo come estrema ratio; un esercizio che agisce soprattutto per vie interne o sfruttando i dualismi presenti in un continente così affollato e variegato o ancora attraverso il sistema di relazioni bilaterali dirette.

Già di per sé sarebbe sufficiente osservare la localizzazione della sede di comando militare (Norfolk-USA) e il centro di elaborazione strategica della NATO e a chi deve rispondere direttamente il comandante militare.

Per chi non dovesse accontentarsi vi sono numerosi esempi di tecniche avvolgenti a conforto:

  • si parla di creare un complesso industriale-militare europeo a sostegno delle forze militari europee con il patrocinio della UE ed un primo significativo sforzo di 17 miliardi di euro? Arriva la batteria di paesi filogermanici che riescono a ridurre l’investimento a 7 miliardi e la cancelliera Merkel che esorta ad essere “inclusivi” e ad inserire le industrie americane nel pool;

  • alcuni paesi europei si avventurano a creare con successo un sistema di posizionamento satellitare simile e più efficiente del GPS (Galileo)? Il bon ton non consente sgarbi e dinieghi di principio; il prezzo dell’accoglienza è però il divieto di utilizzo del sistema a fini militari;

  • qualcosa di analogo accade con AIRBUS, nato con la contrarietà della Commissione Europea, sviluppatosi per altro quasi esclusivamente nel settore civile, incappato nello spionaggio industriale americano grazie alla posizione equivoca del proprio ex-amministratore delegato tedesco, successivamente nelle grinfie delle sanzioni economiche statunitensi per quegli stessi finanziamenti pubblici dei quali fruiscono le imprese aeronautiche americane dal proprio governo;

  • si tratta di sviluppare tecnologia “atlantica”, di creare addirittura una DARPA ( agenzia per le applicazioni miste civili-militari delle tecnologie) della NATO? L’Alleanza decide di creare il centro più importante a ridosso di quello francese, a controllarne ed assorbirne le attività. Tutto questo dopo che il governo francese, lo stesso Macron, ha consentito la cessione di ALSTOM energia, una azienda strategica nel settore nucleare civile e militare, alla General Electric americana e quest’ultima, a pochi mesi dall’acquisizione, ha annunciato la chiusura del suo centro ricerche nei pressi di Parigi con il suo corredo di novecento dipendenti altamente qualificati;

  • la NATO decide di creare qualche decina di centri operativi e logistici sparsi per l’Europa? Guarda caso chi riesce a far man bassa degli incarichi di direzione, in particolare i più strategici, è la Germania con il corollario dei paesi più germano-americanofili; il paese più debole militarmente e più occupato e infiltrato, in termini assoluti e relativi alla potenza economica, soprattutto nei settori della sicurezza, della difesa, dell’intelligence e della comunicazione;

  • Francia e Germania decidono a più riprese di creare una forza militare comune, una prima volta a ridosso dell’intervento nei Balcani negli anni ‘90? Puntualmente queste iniziative non riescono a decollare, mentre funzionano le collaborazioni tedesche con olandesi, cechi ed altri;

  • Francia e Germania decidono di incontrare Putin a ridosso del G7, vista l’analoga iniziativa di Biden? Puntualmente arriva la retromarcia per l’opposizione vivace di paesi dell’Europa Orientale russofobi, debitamente incoraggiati e sostenuti da inglesi, americani e tedeschi.

L’elenco potrebbe proseguire. Le costanti sono il ricorrente cedimento pubblico di tutti e il tornaconto politico ed economico della propria subalternità che riesce ad ottenere la classe dirigente tedesca, compresa qualche fregatura di successo come le acquisizioni in America della Bayer tedesca. È accaduto all’inizio del periodo esaminato con la guerra nei Balcani; è riconfermato appena adesso con il clamoroso via libera americano al Northstream II, dopo la beffa al diniego del Southstream all’Italia di cinque anni fa. Un chiaro messaggio a Putin di garanzia almeno temporanea di statu quo e la concessione di un ulteriore strumento di controllo tedesco, per conto terzi, della platea europea utilizzando lo strumento strategico della rete energetica.

RIMOSTRANZE e DETERMINAZIONE

Non si tratta di proseguire nelle rimostranze più o meno violente nei confronti degli americani. Le rimostranze sono comunque un segno di subalternità e di debolezza. Le classi dirigenti e i centri decisori statunitensi fanno semplicemente il loro mestiere; riescono ancora a sfruttare egregiamente in Europa il successo politico-militare ottenuto nella seconda guerra mondiale e con l’implosione della Unione Sovietica; sono stati capaci di proporsi positivamente, offrendo in cambio di subordinazione politica, un modello economico e culturale altrettanto subordinato ma di successo e proficuo anche per i subordinati pur con evidenti segni di crisi e decadenza. Modelli in larga misura adottati da quegli stessi paesi che si stanno ergendo ad alternativa geopolitica.

Una proposta positiva, proattiva che non si è ancora esaurita.

Gli indirizzi di movimento geopolitico non sono solo una presa d’atto e un utilizzo, a mo’ di constatazione, dei dualismi geopolitici presenti in Europa con i paesi dell’Est impegnati in prima linea contro la Russia e la triade italo-franco-tedesca distolta dalle tentazioni di pacificazione con i russi e indotta a limitare le potenziali relazioni strategiche con la Cina, trascinata com’è, con la complicità britannica, nella partecipazione militare marittima e in futuro aerea nel Pacifico. La Francia e la Gran Bretagna, per inciso, hanno ancora corposi interessi in quell’area.

Si tratta di qualcosa di più propositivo e complesso. Si tratta di assecondare e vellicare, in condizioni di aperta dipendenza politico-militare, le ambizioni politiche e geopolitiche della triade, soprattutto di Francia e Germania, nelle loro aree tradizionali di influenza, il Vicino Oriente, il Mediterraneo, l’Africa Sahariana e Sub-sahariana, in modo tale da evidenziare il loro contrasto di interessi con la Cina e la Russia in quelle aree. L’impressione è che sia ancora la Germania il fulcro sul quale gli statunitensi agiranno principalmente per mantenere le redini del gioco. Sta di fatto che gli Stati Uniti devono risolvere un problema di fondo ancora più complicato. La NATO nel Pacifico per ovvi motivi logistici e di geografia potrà svolgere una funzione pur importante di supporto; lo zoccolo duro delle alleanze e il teatro delle operazioni dovrà essere costruito soprattutto con gli stati e i paesi posti sul Pacifico con dinamiche affatto diverse da quelle adottate in un continente simile culturalmente e particolarmente frammentato politicamente. Non sarà semplice condurre rigorosamente al proprio gioco giganti come l’India e i paesi del Sud-est asiatico i quali si sono guadagnati recentemente l’indipendenza a scapito degli occidentali e tessono rapporti importanti con il vicino rivale.

Il nodo da sciogliere e l’ostacolo da affrontare sono le classi dirigenti, i centri decisionali e i ceti politici unionisti e dei singoli paesi europei; soprattutto la doppiezza di quelli tedeschi. Non tanto quelli politico-economici particolarmente adatti a sfruttare gli spazi ed interstizi offerti dalle congiunture politiche e ad adagiarvisi; non ha caso in questi i tedeschi non conoscono rivali. Quanto quelli presenti negli altri ambiti, particolarmente in quelli prettamente politico-istituzionali. Coaguli abbarbicati inesorabilmente a questo sistema di relazioni dal quale traggono forza e ragion d’essere.

Basterebbe ricordare la determinazione e il sollievo con i quali hanno contribuito a chiudere la parentesi di Trump, ovverossia della finestra e dell’occasione più eclatante di potersi ritagliare la propria autonomia.

L’evolversi delle dinamiche interne alla NATO cercheranno di accrescere l’incisività della sua azione, ma porteranno in seno alla alleanza militare competenze e funzioni in parte esorbitanti la missione propria dell’organizzazione e con la corrispondenza in senso sempre più univoco delle sue relazioni con gli stati nazionali e soprattutto con le strutture della UE la priveranno sempre più di uno scudo ed una maschera sino ad ora particolarmente efficaci ma in via di logoramento.

Cogliere queste dinamiche e approfittare degli spazi che inevitabilmente si apriranno in forme inedite comporta l’evaporazione di due illusioni ben radicate sia nelle componenti più servili per giustificare le proprie implorazioni che in quelle “sovraniste” più o meno presenti nei paesi europei, ma particolarmente strutturate in Francia in settori chiave, che confidano nella facilità di strade aperte generosamente dai liberatori:

  • che saranno gli statunitensi ad allontanarsi di buon grado dall’Europa e dagli europei

  • che gli sforzi di autonomia ed indipendenza politica e geopolitica comporta una sagacia e degli sforzi economici e socio-politici non particolarmente impegnativi e difficilmente perseguibili senza una particolare coesione politica.

In questo contesto è comunque possibile una azione politica interna a queste organizzazioni; deve servire però ad inibire ulteriori processi di subordinazione e soprattutto di integrazione tali da perpetuare a costi inferiori il predominio e rendere sempre più difficoltoso l’eventuale districarsi dal groviglio, piuttosto che puntare su velleitarie riforme ormai storicamente rivelatesi un fattore di paralisi o di mistificazione opportunista. Su queste basi sarà possibile determinare su basi più paritarie e di confronto i rapporti con la Cina e la Russia, ma anche con gli stessi Stati Uniti.

Contribuirebbe certamente a far uscire gli Stati Uniti da una impasse e una incertezza particolarmente rischiose per il mondo e favorevole ad incontrollati colpi di mano di centri decisori fuori controllo. Di seguito offriremo la traduzione di un articolo di “Foreign Affairs” particolarmente illuminante in proposito.

https://www.consilium.europa.eu/media/50361/carbis-bay-g7-summit-communique.pdf

https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2020/12/pdf/201201-Reflection-Group-Final-Report-Fre.pdf

file:///C:/Users/admin/Downloads/OF0116825FRN.fr.pdf

https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_185000.htm

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2021-08-04/right-way-split-china-and-russia

https://www.startmag.it/mondo/cina-russia-cyber-e-non-solo-ecco-cosa-scrive-la-nato/

Il modo giusto per dividere Cina e Russia Washington dovrebbe aiutare Mosca a lasciare un cattivo matrimonio Di Charles A. Kupchan

Questo articolo, del quale avevamo già annunciato la traduzione http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/ rappresenta la perfetta fotografia delle contraddizioni e della confusione imperante nei centri decisori statunitensi. Della serie: “conosciamo i problemi dei nostri avversari; contiamo sul fatto che saranno dirimenti nel creare fratture insanabili; agiremo per questo; non abbiamo nulla da offrire a uno dei due contendenti perché ciò avvenga”. Può darsi che i due ci caschino; mi pare però che prevalga in entrambi, giustificatamente, la diffidenza riguardo l’affidabilità del presunto portatore di carte. A meno che la classe dirigente statunitense non abbia la certezza di un’ulteriore implosione della Russia. A quel punto non resterebbe che spartirsi il bottino con una Cina strettamente contenuta sul Pacifico e con una valvola di sfogo a nord-ovest. Non pare una ipotesi fondata e nemmeno auspicabile dagli stessi avversari visto l’arsenale disponibile e la dimensione del “che fare” dopo. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Mentre Washington cerca una strategia efficace per gestire l’ascesa della Cina, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ragione a fare affidamento su uno dei vantaggi più evidenti degli Stati Uniti: la sua rete globale di alleanze. Ma anche se Biden costruisce una coalizione per domare Pechino, deve anche lavorare dall’altra parte dell’equazione indebolendo le partnership internazionali della Cina. Non può fermare l’ascesa della Cina, ma può limitarne l’influenza cercando di allontanare dalla Cina il suo principale collaboratore: la Russia.

La partnership sino-russa accresce significativamente la sfida che l’ascesa della Cina pone agli Stati Uniti. Il lavoro di squadra tra Pechino e Mosca amplifica l’ambizione e la portata della Cina in molte regioni del mondo, nella battaglia per il controllo delle istituzioni globali e nella competizione mondiale tra democrazia e alternative illiberali. Appoggiarsi al crescente potere della Cina consente alla Russia di superare il suo peso sulla scena globale e dà energia alla campagna di Mosca per sovvertire il governo democratico in Europa e negli Stati Uniti.

Il legame tra Cina e Russia sembra essere forte, ma ci sono crepe sotto la superficie. È una relazione asimmetrica, che associa una Cina ascendente, fiduciosa e egocentrica con una Russia stagnante e insicura. Questa asimmetria offre a Biden un’apertura: per mettere distanza tra i due paesi, la sua amministrazione dovrebbe sfruttare i dubbi della Russia sul suo status di partner minore della Cina. Aiutando la Russia a correggere le vulnerabilità che le sue relazioni con la Cina hanno messo in netto rilievo, in effetti, aiutando la Russia ad aiutare se stessa, Biden può incoraggiare Mosca ad allontanarsi da Pechino. Separare la Russia dalla Cina metterebbe fine alle ambizioni di entrambi i paesi,

UNA PARTNERSHIP INEGUAGLIATA

Cina e Russia possono essere in un matrimonio di convenienza, ma è molto efficace. La Cina generalmente va da sola sulla scena internazionale, preferendo rapporti transazionali e di libera concorrenza con altri paesi. Eppure fa un’eccezione per la Russia. Oggi Pechino e Mosca hanno stretto un rapporto che è “simile ad un’alleanza”, per usare il termine del presidente russo Vladimir Putin. Comprende l’approfondimento dei legami economici, compresi gli sforzi per ridurre il dominio del dollaro USA nell’economia globale; l’uso congiunto della tecnologia digitale per controllare e sorvegliare i cittadini cinesi e russi e seminare il dissenso all’interno delle democrazie mondiali; e la cooperazione in materia di difesa, come esercitazioni militari congiunte e il trasferimento di sistemi e tecnologie d’arma avanzati dalla Russia alla Cina.

L’inclinazione della Russia verso la Cina ha accompagnato il suo allontanamento dall’Occidente, che si è approfondito con l’estensione della frontiera orientale della NATO al confine occidentale della Russia. Il contatto di Mosca con Pechino si è intensificato dopo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alla Russia a seguito dell’annessione della Crimea del 2014 e dell’intervento militare nell’Ucraina orientale. Pechino ha ricambiato, appoggiandosi a Mosca per amplificare l’influenza della Cina nel mezzo della crescente rivalità economica e strategica con gli Stati Uniti. Da quando Xi Jinping è diventato presidente della Cina nel 2013, lui e Putin si sono incontrati o si sono parlati al telefono circa 40 volte.

La relazione sino-russa è fondata su una visione realistica del mondo, ed entrambi i paesi ne traggono benefici reciproci e individuali. Il lavoro di squadra diplomatico porta avanti il ​​loro obiettivo unificante di resistere a ciò che vedono come l’invadente ambizione geopolitica e ideologica dell’Occidente. La partnership consente alla Russia di concentrare la sua attenzione strategica sulla sua frontiera occidentale e alla Cina di concentrarsi sul suo fianco marittimo. La Russia ottiene notevoli entrate dalla vendita di energia e armi alla Cina, e la Cina alimenta l’espansione della sua economia e aumenta la sua capacità militare con l’aiuto delle armi russe.

Il rapporto tra Cina e Russia ha cominciato a somigliare allo stretto accoppiamento cinese-sovietico degli anni ’50.

Ma i due paesi non sono partner naturali; storicamente, sono stati concorrenti, e le fonti della loro rivalità di lunga data non sono certo scomparse per sempre. Il Cremlino è estremamente sensibile alle realtà del potere e sa benissimo che una Russia fiacca di circa 150 milioni di persone non può competere con una Cina dinamica di quasi un miliardo e mezzo di persone. L’economia cinese è circa dieci volte più grande di quella russa e la Cina è in una lega completamente diversa quando si tratta di innovazione e tecnologia. La Belt and Road Initiative (BRI) della Cina ha fatto breccia nella tradizionale sfera di influenza della Russia in Asia centrale, e il Cremlino è giustamente preoccupato che la Cina abbia anche progetti sulla regione artica.

Che la Russia sia ancora attaccata alla Cina nonostante tali asimmetrie è un potente segno della disaffezione di Mosca dall’Occidente. Eppure lo squilibrio crescerà solo nel tempo e diventerà una fonte di disagio sempre più grande per il Cremlino. Washington ha bisogno di capitalizzare su quel disagio e convincere la Russia che sarebbe meglio geopoliticamente ed economicamente se si proteggesse dalla Cina e si inclinasse verso l’Occidente.

Una mossa del genere non sarà facile da realizzare. Putin ha rafforzato a lungo la sua presa in casa giocando al nazionalismo russo e tenendo testa all’Occidente. Lui e i suoi apparatchik potrebbero dimostrarsi troppo risoluti nei loro modi e non disposti a sostenere una politica estera che non si basi su tale atteggiamento. Di conseguenza, l’amministrazione Biden deve avvicinarsi a Mosca con gli occhi ben aperti; mentre cerca di attirare la Russia verso ovest, non può acconsentire al comportamento aggressivo del Cremlino o permettere a Putin di sfruttare la mano tesa di Washington.

La sfida di Biden sarà più complicata di quella affrontata dal presidente degli Stati Uniti Richard Nixon negli anni ’70, quando si avvicinò alla Cina e riuscì a turbare le relazioni sino-sovietiche e ad indebolire il blocco comunista. Al momento della visita di Nixon in Cina nel 1972, Pechino e Mosca si erano già separate. Nixon ha avuto vita facile; il suo compito era costruire, non iniziare, una frattura. Biden affronta l’ostacolo più alto di rompere una partnership intatta, motivo per cui la sua migliore scommessa è alimentare le tensioni latenti nella relazione cinese-russa.

LA STRANA COPPIA

La Cina e la Russia hanno a lungo gareggiato per il territorio e lo status. Il confine terrestre tra i due paesi attualmente corre per più di miglia 2,600 e le loro controversie sul territorio, l’influenza nelle regioni di confine e il commercio risalgono a secoli fa. Durante i secoli XVII e XVIII, la Cina ha avuto il sopravvento e generalmente ha prevalso. La situazione è cambiata nel diciannovesimo e ventesimo secolo, con la Russia e altre potenze europee che ricorrono a un mix di predazione militare e diplomazia coercitiva per strappare il controllo del territorio alla Cina e imporre condizioni di sfruttamento dello scambio.

L’avvento al potere del Partito Comunista Cinese (PCC) nel 1949 ha aperto la strada a un periodo storicamente senza precedenti di cooperazione strategica tra Cina e Unione Sovietica. Basandosi sul loro comune impegno per il comunismo, i due paesi conclusero un’alleanza formale nel 1950. Migliaia di scienziati e ingegneri sovietici si trasferirono in Cina, condividendo tecnologia industriale e militare e persino aiutando i cinesi a sviluppare un programma di armi nucleari. Durante la guerra di Corea, i sovietici fornirono alla Cina rifornimenti, consiglieri militari e copertura aerea. Il commercio bilaterale è cresciuto rapidamente, rappresentando il 50 percento del commercio estero della Cina entro la fine del decennio. Il leader cinese Mao Zedong ha affermato che i due Paesi avevano “un rapporto stretto e fraterno.

Sembra che il compagno di Xi non giochi bene in casa per Putin.

Ma l’alleanza si è presto erosa con la stessa rapidità con cui si era formata. Mao e Krusciov iniziarono a separarsi nel 1958. Il loro litigio derivava in parte da differenze ideologiche. Mao cercò di mobilitare i contadini, alimentando il fervore rivoluzionario e lo sconvolgimento sociale in patria e all’estero. Krusciov, al contrario, sostenne la moderazione ideologica, il socialismo industrializzato e la stabilità politica in patria e all’estero. I due paesi hanno iniziato a competere per la leadership del blocco comunista, con Mao che ha osservato che Krusciov “teme che i partiti comunisti . . . del mondo non crederà in loro, ma in noi».

Tali differenze sono state amplificate dal disagio della Cina per le asimmetrie di potere che hanno decisamente favorito l’Unione Sovietica. In un discorso del 1957, Mao accusò l’Unione Sovietica di “sciovinismo delle grandi potenze”. L’anno seguente, si lamentò con l’ambasciatore sovietico a Pechino che “pensi di essere in grado di controllarci”. Secondo Mao, i russi consideravano la Cina “una nazione arretrata”. Krusciov, da parte sua, incolpò Mao per la scissione. Dopo che le truppe cinesi e indiane si scambiarono il fuoco attraverso il confine conteso nel 1959, Krusciov commentò che Pechino “desiderava la guerra come un gallo da combattimento”. A una riunione dei capi di partito del blocco comunista, ha deriso Mao definendolo “un ultra-sinistra, un ultra-dogmatista”.

Questa rottura tra i due leader ha portato al disfacimento della collaborazione sino-sovietica. Nel 1960, i sovietici ritirarono i loro esperti militari dalla Cina e interruppero la cooperazione strategica. Nei due anni successivi, il commercio bilaterale è crollato di circa il 40%. Il confine è stato remilitarizzato e i combattimenti scoppiati nel 1969 hanno quasi innescato una guerra su vasta scala. All’inizio degli anni ’70, Nixon ha capitalizzato e ha esacerbato la spaccatura raggiungendo la Cina, un processo che è culminato nella normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Cina nel 1979. Solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica le relazioni tra Mosca e Pechino si riprenderebbe.

CERCANDO DI FARE BELLO

Dopo la fine della Guerra Fredda, Cina e Russia hanno cominciato a sistemare le cose. Nel corso degli anni ’90, i due paesi hanno risolto una serie di controversie sui confini rimanenti e nel 2001 hanno firmato il Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole. Hanno gradualmente approfondito la cooperazione militare e i legami commerciali, con il primo oleodotto dalla Russia alla Cina completato nel 2010. Pechino e Mosca hanno anche iniziato ad allineare le loro posizioni presso le Nazioni Unite e hanno collaborato a iniziative volte a contrastare l’influenza occidentale, come la creazione dello Shanghai Organizzazione per la Cooperazione nel 2001 e il cosiddetto raggruppamento economico BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) nel 2009.

Questi passi incrementali verso la cooperazione bilaterale si sono approfonditi e accelerati sotto Xi e Putin, alimentati dalla rottura di Mosca con l’Occidente a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e della crescente rivalitàtra Stati Uniti e Cina. Negli ultimi anni, il rapporto tra Cina e Russia ha iniziato a somigliare allo stretto accoppiamento cinese-sovietico degli anni ’50. Basandosi sulla cooperazione militare iniziata negli anni ’90, la Russia ha aiutato la Cina ad affrontare le sue principali priorità di difesa fornendo caccia a reazione, sistemi di difesa aerea all’avanguardia, missili antinave e sottomarini. Negli ultimi anni circa il 70% delle importazioni di armi cinesi è arrivato dalla Russia. La vendita di petrolio e gas alla Cina sostiene l’economia russa e riduce la dipendenza della Cina da rotte di approvvigionamento marittimo più vulnerabili. La Russia ora rivaleggia con l’Arabia Saudita come principale fornitore di petrolio della Cina e la Cina ha sostituito la Germania come principale partner commerciale della Russia. Sotto Xi e Putin, Cina e Russia hanno unito le forze per contrastare le norme liberali negli organismi internazionali e diffondere un marchio di governance basato sul governo autocratico e sul controllo statale delle piattaforme di informazione. In molte parti del mondo, le campagne di disinformazione e le operazioni di intelligence russe si stanno combinando con la leva coercitiva offerta dagli investimenti cinesi per sostenere i regimi illiberali.

Questa cooperazione su più dimensioni è impressionante e consequenziale. Ma poggia su una base fragile e manca di un fondamento di fiducia reciproca, come ha fatto il partenariato sino-sovietico all’inizio della Guerra Fredda. Negli anni ’50, gli stretti legami tra la Cina e l’Unione Sovietica erano altamente personalizzati, rendendoli vulnerabili ai capricci del rapporto tra Mao e Krusciov. Oggi, la cooperazione sino-russa dipende fortemente dalla relazione imprevedibile tra due individui, Xi e Putin. Durante il primo decennio della Guerra Fredda, Mosca ha cercato stabilità in patria e all’estero, mentre Pechino ha favorito la rivoluzione continua. Oggi Pechino punta sulla stabilità interna e internazionale per accelerare la sua ascesa, mentre Mosca mostra i muscoli oltre i suoi confini per favorire il disordine. Durante gli anni Cinquanta, Il dominio di Mosca sulla partnership ha alimentato il risentimento a Pechino. Oggi la Cina ha il sopravvento e le forti asimmetrie di potere assalgono la Russia.

Il divario di potere è particolarmente difficile da ingoiare per il Cremlino; sembra che il compagno di Xi non giochi bene in casa per Putin, il cui marchio politico si basa sul suo tentativo di riportare la Russia allo status di grande potenza. Ma la disparità tra i due paesi è lampante e crescente. Il commercio con la Cina rappresenta oltre il 15% di tutto il commercio estero della Russia, mentre il commercio con la Russia rappresenta circa l’1% del commercio estero della Cina. E questo squilibrio sta aumentando con l’avanzare del settore high-tech cinese. Nell’Estremo Oriente della Russia, circa sei milioni di russi vivono oltre il confine da circa 110 milioni di cinesi nelle tre province della Manciuria, e la regione sta diventando sempre più dipendente da beni, servizi e manodopera cinesi. Dmitri Trenin, un importante analista russo,

La Russia ha aiutato e favorito la modernizzazione militare della Cina, forse a proprie spese.

È passato molto tempo da quando i due paesi hanno litigato apertamente per il territorio e l’influenza nelle regioni di confine. Ma il nazionalismo e l’etnocentrismo sono profondi in entrambe le culture politiche e potrebbero riaccendere dispute territoriali di vecchia data. Il South China Morning Post ha recentemente pubblicato un commento sostenendo che “il corteggiamento di Mosca da parte di Xi non ha senso perché ignora l’animosità che ha definito le relazioni sino-russe dal . . . XVII secolo”. E il sentimento anti-cinese in Russia continua a prendere piede, alimentato, come altrove, dalle origini cinesi del COVID-19. Ma tali pregiudizi sono antecedenti alla pandemia, sostenuti in parte dagli stessi pregiudizi razziali di cui Mao si lamentò circa sei decenni fa.

La crescente dipendenza economica della Russia dalla Cina la rende sempre più esposta alla leva coercitiva di Pechino e approfondisce la dipendenza della Russia dall’esportazione di combustibili fossili, la cui vendita rappresenta oltre i due terzi delle entrate delle esportazioni russe e un terzo del bilancio federale. Questo difficilmente rappresenta una buona scommessa sul futuro mentre il mondo si rivolge a fonti di energia rinnovabili. La BRI cinese sta diffondendo investimenti e infrastrutture in tutta l’Eurasia, ma l’iniziativa aggira principalmente la Russia, fornendole pochi vantaggi. Negli ultimi anni sono stati aperti solo pochi nuovi valichi di frontiera e gli investimenti cinesi in Russia sono stati irrisori.

I russi prevedono di collegare la propria Unione economica eurasiatica alla BRI, ma i due sistemi competono più che complementari. Nel 2017, l’EAEU ha proposto alla Cina 40 progetti di trasporto e Pechino li ha rifiutati tutti. Il ministro degli Esteri russo non si è presentato a una riunione ad alto livello sulla BRI lo scorso anno, indicando, secondo Ankur Shah, un analista che si concentra sulle relazioni russo-cinese, che Mosca “non si sente più obbligata a inchinarsi davanti alla cintura di Pechino e Strada.” La Cina ha di fatto sostituito la Russia come potenza economica dominante in Asia centrale e l’interesse di Pechino a sfruttare lo sviluppo economico e nuove rotte marittime nell’estremo nord, quella che la Cina chiama “la via della seta artica”, pone una chiara sfida alla strategia della Russia nel regione. I piani della Cina per l’Artico sono apparentemente complementari a quelli russi,

Nel frattempo, il rapporto di difesa tra Cina e Russia ha perso parte del suo slancio precedente. L’esercito cinese ha beneficiato dei trasferimenti di armi e tecnologie russe e Mosca ha accolto con favore le entrate e la cooperazione militare risultanti. Tuttavia, i progressi nell’industria della difesa cinese, resi possibili in parte dal furto della tecnologia bellica russa da parte delle aziende cinesi, stanno rendendo la Cina meno dipendente dalle importazioni russe. Anche l’acquisizione da parte della Cina di missili a raggio intermedio (apparentemente destinati a contrastare la presenza avanzata degli Stati Uniti) rappresenta un’ipotetica minaccia per il territorio russo. E Mosca sta senza dubbio monitorando da vicino l’arsenale in espansione della Cina di missili intercontinentali e la costruzione di nuovi silos di lancio nella Cina occidentale. La Russia ha aiutato e favorito la modernizzazione militare della Cina, forse a proprie spese.

AIUTA LA RUSSIA AIUTA SE STESSA

Se la Russia deve essere attirata verso ovest, non risulterà dalle aperture o dall’altruismo di Washington, ma dalla fredda rivalutazione del Cremlino sul modo migliore per perseguire il proprio interesse personale a lungo termine. Un’offerta di Washington per ridurre le tensioni con l’Occidente non avrà successo da sola; dopotutto, Putin fa affidamento su tali tensioni per legittimare la sua ferrea presa politica. Invece, la sfida che deve affrontare Washington è quella di cambiare il più ampio calcolo strategico del Cremlino dimostrando che una maggiore cooperazione con l’Occidente può aiutare la Russia a correggere le crescenti vulnerabilità derivanti dalla sua stretta collaborazione con la Cina.

Il primo passo di Washington dovrebbe essere quello di abbandonare la definizione della strategia statunitense “democrazia contro autocrazia”. Gli Stati Uniti e i suoi partner ideologici, ovviamente, devono assicurarsi di poter offrire ai propri cittadini e superare le alternative illiberali. Ma definire la competizione in termini apertamente ideologici serve solo a spingere la Russia e la Cina più vicine. Invece, l’amministrazione Biden dovrebbe avere una discussione sincera con Mosca sulle aree in cui gli interessi nazionali a lungo termine degli Stati Uniti e quelli della Russia si sovrappongono, anche quando si tratta della Cina.A dire il vero, Russia e Stati Uniti rimangono in disaccordo su molti fronti. Ma piuttosto che accontentarsi di un continuo allontanamento, Washington dovrebbe cercare di trovare un terreno comune con Mosca su una vasta gamma di questioni, tra cui la stabilità strategica, la sicurezza informatica e il cambiamento climatico. Questo dialogo, anche in assenza di rapidi progressi, segnalerebbe a Mosca che ha opzioni diverse dall’allineamento con la Cina.

L’amministrazione Biden dovrebbe spingere i suoi alleati democratici ad avere conversazioni simili con la Russia; anche loro possono sondare aree di reciproco interesse ed evidenziare come la crescente forza della Cina vada a scapito dell’influenza e della sicurezza della Russia. Dati i legami di lunga data dell’India con la Russia e la sua visione scettica delle intenzioni cinesi, Nuova Delhi potrebbe essere particolarmente abile nel riportare a Mosca i meriti del mantenimento dell’autonomia strategica e i potenziali pericoli di avere un rapporto troppo stretto con Pechino. Per incoraggiare l’India ad aiutare ad allontanare la Russia dalla Cina, Washington dovrebbe rinunciare alle sanzioni attualmente pendenti contro l’India per il suo acquisto del sistema di difesa aerea S-400 della Russia.

Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero anche contribuire a ridurre la crescente dipendenza economica della Russia dalla Cina. Sebbene la Cina sia ora il principale partner commerciale della Russia, il commercio della Russia con l’UE è molto più ampio del suo commercio con la Cina, rappresentando quasi il 40% del commercio estero della Russia. La decisione di Biden di dare il via libera al controverso gasdotto Nord Stream 2, che porterà il gas russo in Germania, è stato un saggio investimento nell’incoraggiare legami commerciali più profondi tra la Russia e l’Europa. E sebbene le sanzioni occidentali contro la Russia fossero una risposta necessaria al comportamento aggressivo di Mosca, hanno avuto l’effetto di spingere ulteriormente la Russia nell’abbraccio economico della Cina. Di conseguenza,

Il primo passo di Washington dovrebbe essere quello di abbandonare la definizione della strategia statunitense “democrazia contro autocrazia”.

Gli Stati Uniti e i suoi partner dovrebbero anche indicare che sono pronti ad aiutare la Russia a combattere il cambiamento climatico e a far passare la sua economia dalla dipendenza dai combustibili fossili. A breve termine, tale compito comporta la condivisione delle migliori pratiche per la cattura del metano, l’assistenza allo sviluppo di alternative verdi alla produzione di petrolio e gas e l’adozione di altre misure per limitare le emissioni russe di gas serra. A lungo termine, gli Stati Uniti dovrebbero aiutare la Russia a passare a un’economia della conoscenza, un passo che Putin non ha mai fatto, a scapito del suo Paese. La Cina condivide raramente la tecnologia; è un ricevente, non un donatore. Gli Stati Uniti dovrebbero cogliere l’opportunità di condividere il know-how tecnologico con la Russia per facilitare la sua transizione verso un’economia più verde e diversificata.

Gli Stati Uniti dovrebbero basarsi sulla conversazione sulla stabilità strategica che Biden e Putin hanno lanciato nel loro incontro a Ginevra a giugno. La violazione da parte della Russia del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio ha spinto gli Stati Uniti a ritirarsi da esso nel 2019. Gli Stati Uniti e la Russia devono ora trovare una soluzione alla loro incombente corsa missilistica e anche spingere la Cina ad accettare un accordo successivo che porrebbe dei limiti al vasto e diversificato arsenale cinese di missili a medio raggio. Anche se un patto tripartito si rivelasse irraggiungibile, tentare di negoziare potrebbe illuminare le fessure tra Mosca e Pechino, data la tradizionale riluttanza della Cina a stipulare accordi sul controllo degli armamenti.

L’Artico è un’altra area in cui Washington può aiutare Mosca a vedere gli svantaggi strategici di favorire le crescenti ambizioni di Pechino. Il cambiamento climatico sta aumentando drasticamente l’accessibilità dell’estremo nord, suscitando un nuovo interesse russo per l’importanza economica e strategica della regione e suscitando il disagio russo con la dichiarazione della Cina che è una “potenza vicino all’Artico”. Washington e Mosca difficilmente vedono d’accordo la regione, ma attraverso sia il Consiglio Artico che il dialogo bilaterale, dovrebbero sviluppare un insieme più solido di regole della strada che regolino l’attività economica e militare nell’Artico e che affrontino le loro reciproche preoccupazioni riguardo Disegni cinesi.

Infine, Washington dovrebbe incoraggiare Mosca a contribuire a controllare la crescente influenza della Cina nelle aree in via di sviluppo, compresa l’Asia centrale, il Medio Oriente in generale e l’Africa. Nella maggior parte delle regioni, la politica russa va regolarmente contro gli interessi statunitensi; Mosca vede ancora Washington come il suo principale concorrente. Tuttavia, mentre Pechino continua ad estendere la sua portata economica e strategica, Mosca capirà che è la Cina, non gli Stati Uniti, a indebolire regolarmente l’influenza russa in molte di queste aree. Washington dovrebbe sostenere questo caso, aiutando a portare gli interessi russi e statunitensi ad un maggiore allineamento e creando opportunità per coordinare la strategia regionale.

Dato l’antagonismo e la sfiducia che attualmente affliggono le relazioni tra Russia e Stati Uniti, Washington richiederà tempo e una diplomazia mirata per cambiare il calcolo strategico di Mosca. La Russia potrebbe benissimo seguire il suo corso attuale, forse fino a quando Putin non lascerà l’incarico. Ma alla luce del ritmo impressionante e della portata dell’ascesa geopolitica della Cina, ora è il momento di iniziare a seminare i semi di una spaccatura sino-russa, specialmente tra i quadri più giovani di funzionari e pensatori russi che prenderanno le redini dopo che Putin se ne sarà andato. .

Gli sforzi degli Stati Uniti per gestire l’ascesa della Cina con successo e pacificamente saranno significativamente avanzati se la Cina dovrà affrontare una pressione strategica oltre il suo fianco marittimo e non potrà più contare sul costante sostegno militare e diplomatico della Russia. Attualmente, la Cina è in grado di concentrarsi sull’espansione nel Pacifico occidentale e oltre, in parte perché ha mano relativamente libera lungo i suoi confini continentali e gode del sostegno di Mosca. Gli Stati Uniti farebbero bene a investire in una strategia a lungo termine per cambiare questa equazione, aiutando a rimettere in gioco le relazioni della Cina con la Russia. Farlo sarebbe un passo importante verso la costruzione di un ordine pluralistico multipolare e scongiurare i potenziali sforzi di Pechino per costruire un sistema internazionale sinocentrico.

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2021-08-04/right-way-split-china-and-russia

Quale razionalità? La pandemia e la filosofia, di Vincenzo Costa

Quale razionalità? La pandemia e la filosofia
La pandemia ha indotto molti filosofi, più importanti e meno importanti, a prendere posizione. Ma temo che la discussione sia divenuta l’occasione per una sorta di regolamento di conti. In questo regolamento di conti si sono sviluppate critiche che trovo mancare il bersaglio, del tutto campate in aria, in cui ci si inventa la posizione dell’altro, si operano ricostruzioni improbabili.
Io credo vi siano due posizioni da rifiutare: la prima è quella di Agamben, che non va confusa con quella di Cacciari, molto diversa. La seconda è quella del coro del “bisogna fidarsi della scienza”, un coro che oramai identifica la razionalità tout court con la fede nella scienza (da non confondere con la scienza, poiché la scienza è un’impresa razionale, mentre l’appello alla fede nella scienza è caratteristico dell’irrazionalismo di certe correnti filosofiche che si considerano custodi della razionalità).
Vorrei brevemente argomentare in tre passaggi:
1) Critica della posizione di Agamben
2) Critica della fede nella scienza e messa in luce del suo carattere irrazionalistico
3) Proposta di un modo filosofico di affrontare le questioni del rischio, attraverso un uso libero di Ulrick Beck e del principio responsabilità di Jonas.
1. Critica della posizione di Agamben
Io non sono un esperto di Agamben, e su questo non sono del tutto sicuro di cogliere nel segno. Tuttavia, a me pare che, dal punto di vista filosofico, alla base dell’impostazione assunta da Agamben vi sia un concetto ben preciso, che merita di essere contestato. Alla sua base, non vi è Heidegger né tantomeno Hegel, come pure è stato detto. In Heidegger e Hegel vi sono tanti pericoli, passaggi da sorvegliare e di cui diffidare, ma questi vanno in direzione opposta a quella che si è voluta imputare a questi filosofi. Il pericolo che si annida in Heidegger e Hegel non è il libertarismo, ma la dissoluzione dell’individuo nello spirito oggettivo (nello Stato per dirla in maniera imprecisa ma chiara) o nell’epoca. Ricordo l’invito di Heidegger a decidersi per la propria generazione, per il destino. Ricordo le lezioni del 1934 sul Volk, sulla sua preminenza. Heidegger e Hegel non c’entrano niente. Poi ovviamente ci si può confrontare in maniera più specifica e questa cosa non la temo di certo. Testi alla mano.
Alla base delle posizioni di Agamben vi è invece, mi pare, il concetto foulcaultiano di “dispositivo disciplinare”, così come viene elaborato in Sorvegliare e punire e poi, secondo me con più chiarezza, ne Il potere psichiatrico:
«Nel sistema disciplinare non si è, secondo le circostanze, a disposizione di qualcuno, ma si è perpetuamente esposti allo sguardo di qualcuno o, in ogni caso, nella condizione di poter essere costantemernte osservati»,
dice Foucault. Il problema è che questo si estende a tutto: alla disciplina scolastica, sanitaria, manicomiale etc. Tutto diventa un dispositivo disciplinare. Tutto diventa “dispositivo di potere”, che mira a controllare i corpi, il tempo etc. A questo punto il potere è dappertutto, non esistono più questioni di razionalità, perché la razionalità stessa diventa un sistema disciplinare. E la mia critica è, molto semplicemente e rozzamente: che cosa NON è un dispositivo disciplinare?
Perché la formazione, l’alfabetizzazione, la crescita culturale del popolo invece di essere strumento di progresso diviene a questo punto “dispositivo disciplinare”.
Per la verità, Foucault, soprattutto l’ultimo Foucault che civetta con Habermas, è molto ironico, Chiarisce di non essere così matto da voler abolire l’istituzione scolastica. Ma semplicemente che bisogna avere coscienza del suo potenziale di “dispositivo disciplinare”.
Questo tema dilaga invece in Agamben, dove tutto è dispositivo disciplinare, e pare che Nancy abbia raccontato che Agamben gli avesse raccomandato di non farsi operare al cuore. Ovviamente Nancy sarebbe morto. Ovunque Agamben vede dispositivi disciplinari, e così si priva della possibilità di distinguere cose diverse, cioè tutela della salute da dittatura sanitaria, e chiaramente il lockdown prima e il vaccino dopo verranno visti come dispositivi disciplinari, per cosi dire a priori.
Questa dunque la radice, credo, e detto alla buona, mentre non c’entra niente Heidegger, Hegel, o Derrida, che peraltro attacca in maniera feroce Agamben ne La bestia e il sovrano. E solitamente Derrida è delicato nelle critiche.
Posizione del tutto diversa quella di Cacciari, autore con altra base culturale, più preoccupato del funzionamento della legge, di quello che può succedere quando questa viene meno e si sviluppa l’eccesso, la tracotanza. Tema che non trascurerei, poiché di tracotanza (e spocchia) se ne vede molta in giro.
Ecco, di questa idea di dispositivo disciplinare bisogna liberarsi, perché effettivamente impedisce di confrontarsi con la scienza, che ovviamente viene immediatamente ricondotta a dispositivo di manipolazione e controllo, mentre la scienza è anche e soprattutto uno strumento adattivo per sovravvivere in un ambiente che cambia.
2. Critica della fede nella scienza e messa in luce del suo carattere irrazionalistico
La pandemia poteva essere una grande occasione per sviluppare la divulgazione scientifica e la crescita culturale del paese. Ci si poteva immaginare programmi televisivi che spiegassero la differenza tra un virus e un batterio, un virus a dna e a rna, che cosa è un rna, come funziona un dna, quali parti codificano e quali no. Ci si poteva aspettare che fosse un’occasione per avvicinare a scuola gli studenti alla scienza, a partire da un’urgenza. Niente di tutto questo. Tutto si è risolto in una sfilata di cialtroni che hanno sbagliato tutto dall’inizio alla fine: il virus è una semplice influenza, poi lo stesso competente: “non uscite di casa che morite”. Poi: la comunità scientifica assicura, con evidenze assolute, che il virus è naturale, lo mostra la sequenziazione. Ora, la stessa comunità scientifica ci dice: “certamente uscito da un laboratorio”. Come ci si può fidare? Chiaro che emergono problemi di legittimazione del sapere.
Ora il complottismo è una brutta bestia, ma bisogna farne di strada per diventare così coglioni da considerare la scienza del tutto priva di rapporto con il potere e con il profitto. Bisogna seppellire almeno un secolo di ricerca scientifica sociologica, mandare in soffitta Habermas, la sociologica dalla conoscenza, il nesso tra conoscenza e interesse. Tutte analisi fallibili, per carità, ma che ci hanno insegnato uno spirito critico verso la scienza. Spirito critico che non rifiuta la scienza, ma anzi la protegge e ne tutela la legittimazione.
Poi, si continua a dire: bisogna fidarsi dei competenti, solo loro devono parlare. Dunque, solo i medici (e quali medici) decidono per il mio corpo e la mia salute, mentre io sono espropriato da ogni decisione che riguarda proprio il mio corpo e la mia salute. Solo i competenti decidono le scelte di politica economica, perché la ggggente non capisce niente. Che poi alla fine il competente è tal Marattin, che manco due lire gli affiderei.
Ma allora, se tutto deve essere deciso dai competenti, la democrazia a che cosa serve? Che cosa rimane della democrazia? Oltre che di calcio, c’è qualcosa di cui l’opinione pubblica può discutere? Che senso ha per voi la sfera pubblica e l’opinione pubblica, che si vede espropriata di ogni terreno di discussione?
Peraltro, esiste un’ampia letteratura, a partire da Max Weber sino allo Habermas della teoria dell’agire comunicativo, che ha ipotizzato che la scienza può indicarci quali mezzi usare per raggiungere un certo scopo. MA NON Può INDICARE QUALI SCOPI SIA DESIDERABILE PERSEGUIRE. Questo significa che accanto alla razionalità scientifica (strumentale, usando un vecchio linguaggio) vi è una razionalità comunicativa, che ha strutture e risorse razionali differenti.
Tutto questo viene spazzato via con un colpo di spugna dal detto: “fidati dei competenti”, “come osi parlare, lurido parvenu”? Viene spazzata via una discussione di secoli, che temo oramai si conosca poco, e con essa il concetto stesso di democrazia. Si passa, è stato opportunamente notato da un caro amico, alla tecnocrazia.
E tutto ciò indica anche una regressione del concetto stesso di liberalismo. Per un liberale come John Stuart Mill l’appello alla fede nella scienza sarebbe suonato come una bestemmia, e lo stesso per un’intera tradizione filosofica che pure ha costruito i pilastri della filosofia della scienza contemporanea. Mi chiedo che ne avrebbe detto Schlick, ucciso da un nazista se la mia memoria non mi tradisce. Emerge invece ora un liberalismo solidale con il totalitarismo, che niente ha a che fare con la tradizione liberale classica.
Al posto di una teoria critica, che sorvegli il discorso del potere (questo è Amartya Sen e Rawls, non Foucault), emerge ora una teoria critica del tutto solidale con i discorsi di potere. La nuova “teoria critica” (o critical Thinking) non mira a mettere in luce le contraddizione del sistema, i meccanismi di oppressione (e ce ne sono tanti), non sviluppa un discorso che smaschera il potere: sviluppa un discorso contro la ggggente, contro la loro ignoranza, per mostrare che chi si oppone, chi protesta, è a priori uno scemo, uno spostato, un terrapiattista, uno che a malapena sa dire sgrunt sgrunt. E a questo punto, davvero, contraddicendo me stesso (ma mica tanto), davvero questa teoria critica che mira a produrre la spirale del silenzio, la colpa, l’ammutolire del dissenso, è un dispositivo disciplinare. E’ il totalitarismo, e deve arretrare, perché gli italiani sono ancora capaci di difendere la loro libertà.
3. Proposta di un modo filosofico di affrontare le questioni del rischio, attraverso un uso libero di Ulrick Beck e del principio responsabilità di Jonas.
Ma su questo basta. Passiamo a una parte positiva, che trarrei non dai filosofi, ma da Ulrich Beck, in particolare dalla sua distinzione tra rischio e catastrofe. Qui voglio essere davvero breve, limitarmi a indicare un punto soltanto, ma sperando che Beck venga letto un poco di più:
“Rischio non è sinonimo di catastrofe. Rischio significa l’anticipazione della catastrofe. I rischi riguardano la possibilità di eventi e sviluppi futuri, rendono presente una condizione del mondo che non c’è ancora….. I rischi sono sempre eventi futuri che forse ci attendono, che ci minacciano”
L’anticipazione della catastrofe, nota Beck, “stimola a reinventare il politico”.
Beck pensa a molte cose. Qui potremmo piegare il suo ragionamento in maniera molto semplice: occorre un principio responsabilità, precauzione, un’anticipazione della catastrofe.
Nessuno può dire che cosa i vaccini produrranno tra 10 o 30 anni. Mettiamo che siano vaccinati 54 milioni di abitanti. Mettiamo che, con tutta probabilità, i vaccini siano innocui, non producano danni futuri. Tuttavia, può accadere che li producano. Anticipazione del rischio significa:
se (dico “se”) il 10% della popolazione sviluppasse problemi (cardiaci, tumori), quale sistema sanitario al mondo potrebbe essere in grado di gestire una cosa simile?
Che cosa significherebbe? Questa è l’anticipazione della catastrofe, questo è il principio responsabilità.
Chi si salverebbe? Chi verrebbe curato? E chi non lo sarebbe? Emerge un problema di classe, di differenze di ricchezza.
Mettiamo che il danno tocchi il 5% degli attuali adolescenti, con una malattia invalidante. Quale sistema sanitario e previdenziale potrebbe sostenere un costo simile? In che mondo ci troveremmo a vivere? Chi vivrebbe e chi morirebbe?
Abbiamo, nel caso questi problemi si presentassero, gli strumenti per gestire questa situazione?
Certo, ora vogliamo rischiare, perché il PIL deve salire, e questo ci serve per avere i finanziamenti europei, che sto iniziando a maledire. Si corre un rischio, va bene, corriamolo. Ma vogliamo almeno porci il problema di anticipare la catastrofe, anche se qualcuno è certo (nella sua razionalità) che non si verificherà?
E riempire di soldi (si vedano gli aumenti del costo dei vaccini) le case produttrici dei vaccini, che così saranno le uniche a poter fare ricerca, ci mette in condizioni di indipendenza o è un altro limite alla sovranità degli stati, e alle istituzioni democratiche. Che cosa prepara per il futuro questo spostamento di denaro pubblico?
Ecco, io penso che abbiamo bisogno di un altro tipo di razionalità rispetto a quella che si sta facendo strada. Quella che si sta facendo strada è solo un metodo di dissuasione, di emarginazione, per silenziare, ma che non ci aiuta minimamente a comprendere che cosa sta accadendo e come affrontarlo.
A questo punto credo di essermi inimicato provax e novax, continentali e analitici. Pazienza, a volte bisogna andare da soli, e può non essere spiacevole.

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (1), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (1)
Tanti termini controversi a partire dalla loro polisemia. Provo a fare veloce e sintetica chiarezza (una sorta di “Bignami”), visto che in giro c’è davvero tanta confusione e, soprattutto, una stupefacente ingenuità.
Incominciamo con “nazione”. Il lemma procede dal latino “natĭo –ōni”, derivando dalla radice “nāsci” (nascere).
Da notare invece che il termine “razza” non possiede alcuna radice latina. Provenendo sì da una lingua romanza (cfr. il francese medievale “haras”) che però la prende dal norreno (G. Contini, “Studi di Filologia Italiana” 17.1959, pp. 319-327) laddove indica solo un allevamento di cavalli (vedremo poi come evolverà il lemma e la sua nozione).
I romani utilizzano il termine “nazione” per indicare una comunità indigena che abita un dato territorio. Nella modernità per indicare questa nozione viene utilizzato anche il lemma “etnia” (dal greco “éthnos”: popolo, nazione).
Diversamente “popolo” (dal latino “pŏpŭlu-m”) va a indicare la stessa comunità di genti che però risulta organizzata, ossia sottoposta a un’autorità di governo. Per inciso il latino “pŏpŭlu-m” viene dall’antico umbro “poplo” (di origine indoeuropea) dove indica anche la parte posteriore del ginocchio. In antichità quella porzione del corpo umano era connessa alla generazione (da qui la relazione con il “nascere”) in quanto organo che consente la stazione eretta del corpo umano.
Nel Medioevo i significati di “nazione” e “popolo” si sovrappongono. Così nelle università medievali le comunità di studenti che provengono da diversi paesi vengono additate con il lemma di “nazione” (“natio hispanica”, “natio italica”, etc.).
Solo la modernità ha iniziato la riflessione sui concetti che questi termini intendevano, anche se in modo spesso sovrapposto e approssimativo.
Comunque a partire dal XVIII secolo il termine “nazione” inizia a indicare un’entità organizzata dal punto di vista politico, ossia giuridico-statuale.
È Johann Gottfried Herder (“Idee per la filosofia della storia dell’umanità”, 1784) il primo a individuarne le radici “culturali”; mentre Johann Gottlieb Fichte (“Discorsi alla nazione tedesca”, 1808) è il primo che ulteriormente indica nella comune lingua la vera radice “spirituale” di una nazione, andando così a proporsi come uno dei padri spirituali del successivo “nazionalismo”.
A margine, è curioso che Fichte uno dei padri, o se si preferisce nonni, del nazionalismo (e delle sue derive radicali), era al contempo il vero padre filosofico della massoneria così come la conosceremo nel XIX e XX secolo (cfr. i suoi fondamentali contributi alla rivista “Eleusinie del XIX secolo”, 1802 e 1803)…
Subito dopo, nel 1815, il nostro Gian Domenico Romagnosi (anche lui, come lo Herder e il Fichte, massone) va a delineare la “nazione” come una realtà naturale e storica (cfr. “Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa”).
Con Pasquale Stanislao Mancini (“La nazionalità come fonte del diritto delle genti”, 1851), che parla di “personalità nazionale” e lo Hegel (“Lezioni sulla filosofia della storia”, 1837) che vede nel “popolo” un “individuo spirituale”, un “tutto organico”, chiudiamo con i padri della nozione moderna di “nazione”. Questa nozione non esisteva prima, essendo, prima, puramente descrittiva, indicativa.
Da ora la “nazione” risulta essere quella comunità di persone che condividono una “lingua”, un’eredità storica, una comune “cultura”.
Che i padri del concetto di “nazione”, e quindi i nonni del successivo “nazionalismo”, siano tutti massoni (di Mancini e di Hegel non è attestato, ma fortemente sospettato) non deve stupire: la massoneria è nata nel XVIII secolo come una sorta di fratellanza tra “liberi” intellettuali (per lo più filosofi con interessi “ermetici” come era costume dell’epoca) che intendevano opporsi al dominio culturale, e politico, degli imperi e della aristocrazie “sovranazionali” e della chiesa cattolica “universale”… va da sé che la massoneria non poteva che promuovere proprio una visione opposta all’idea di governo “universale”, “imperiale” e “sovranazionale”, alimentando le successive “rivoluzioni nazionali”.
Incredibile vero? Ma il bello deve ancora venire…
NB_tratto da Facebook

 

Stati Uniti, fuori il primo_con Gianfranco Campa

Sono cominciati i regolamenti di conti in casa democratica. Se non è la corruzione, è il sesso se non il comportamento allusivo la buccia di banana sulla quale fare scivolare le vittime predestinate. Si eliminano pericolosi concorrenti, si rimuovono personaggi scomodi sui quali addossare le responsabilità politiche di gestioni disastrose. A New York il problema è la gestione fallimentare della pandemia. In Italia sino ad ieri, stando ai nostri diffusori di veline, Cuomo è stato presentato come un esempio di gestione contrapposto al disastroso Trump. Da oggi la musica è cambiata. Un segnale che il destino di Cuomo è segnato; vedremo se riuscirà a trascinarsi dietro qualche altro nome illustre.
NB_per vari motivi la conversazione ha assunto un ritmo troppo lento e ha dovuto essere sospesa proprio sulla parte più interessante. Appena possibile riprenderemo il filo interrotto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vkx67u-stati-uniti-fuori-il-primo-con-gianfranco-campa.html

 

 

 

Il mito di Cassandra e il disprezzo dei profeti, di Davide Gionco

Il mito di Cassandra e il disprezzo dei profeti

di Davide Gionco

Secondo il racconto di Omero (Iliade, Libro XIII) Cassandra era la più bella delle figlie di Priamo, re di Troia. Cassandra aveva ricevuto dal dio Apollo il dono della profezia, il dono di prevedere il futuro.  Una volta ricevuto il suo dono, Cassandra avrebbe rifiutato di concedersi a lui. Il dio, fuori di sé dalla rabbia, le avrebbe sputato sulle labbra, condannandola con questo a restare per sempre inascoltata dagli altri.

Cassandra veniva presa per pazza, per una iettatrice, dato che annunciava le disgrazie che sarebbero ricadute sulla città di Troia. Non veniva presa in considerazione, perché annunciava cose che nessuno voleva sentirsi dire.
Una volta la città di Troia fu conquistata e distrutta dagli Achei, Cassandra venne rapita dal re Agamennone e condotta come ostaggio a Micene. Anche lì profetizzò al re che ci sarebbe stata una congiura contro lui, ordita dalla sua stessa moglie Clitemnestra, ma neppure Agamennone volle credere ad una profezia così inaccettabile. Dopo che la congiura fu messa in atto dalla moglie, come preannunciato, insieme al re Agamennone, fu anche uccisa la stessa Cassandra.

Sapere che si va incontro ad un destino inaccettabile è qualcosa che può condurre alla disperazione, per questo il nostro inconscio preferisce respingere quelle informazioni. Siccome si tratta di fatti che devono ancora accadere, non certi, si preferisce credere che “speriamo che non succeda”. E si va avanti, avendo come unico sostegno la speranza di un futuro migliore che non ci fa paura.
Sigmund Freud spiegherebbe che si tratta di impulsi irrazionali, legati al nostro istinto di sopravvivenza, che ci porta nel subconscio a sfuggire mentalmente ciò che ci potrebbe fare soffrire o addirittura morire.

Il destino dei profeti di essere inascoltati e perseguitati è qualcosa di ricorrente nella Bibbia. Ad esempio il profeta Geremia annunciava al popolo che sarebbe stato invaso dai “Popoli del Nord” (i Babilonesi), se non si fosse convertito a Yahveh e non avesse cambiato vita.
Come era accaduto a Cassandra, anche Geremia fu preso per un “annunciatori di malauguri”, non fu ascoltato, fu odiato e disprezzato e fu messo nella fossa per farlo morire.

In tempi molto più recenti, fra il 1933 ed il 1939 il giornalista americano Frederick Birchall (1868-1955) scrisse come invitato del New York Times in Europa moltissimi articoli sull’ascesa di Hitler e del nazismo, mettendo in guardia i lettori ed i leader politici sull’estrema pericolosità del fenomeno. Ma non fu creduto e non fu ascoltato, perché scriveva cose “inaccettabili”, dato che nessuno poteva accettare l’idea che Hitler avrebbe fatto ciò che la storia ci racconta che poi fu fatto dai nazisti.

San Giovanni Bosco (1815-1888) faceva fare periodicamente ai suoi ragazzi gli “esercizi della buona morte”. Oggi la morte è il più grande tabù di cui non si può discutere. Eppure per San Giovanni Bosco il ricordare ai ragazzi che “ciascuno di noi deve morire, che potremmo morire anche questa notte” non era per fare dei malauguri, ma per aiutare i suoi ragazzi a vivere in modo responsabile il tempo che ci è concesso di vivere, dato che non siamo padroni del nostro futuro e che il nostro tempo certamente finirà.

I profeti non sono coloro che preannunciano, per preveggenza, un futuro inevitabile quello che gli antichi romani chiamavano “il fato”), ma sono coloro che sanno leggere meglio degli altri i segni dei tempi, comprendendo come le cose andranno a finire.
Il termine “profeta” deriva dall’antico greco
προϕτης, che è la caratteristica di colui che è cosciente, razionale, poiché discerne ogni cosa con il “ragionamento.
Il profeta, quindi, non è qualcuno che annuncia un destino senza scampo o che diffonde dei malauguri, ma è una persone che annuncia un futuro condizionato dalle nostre scelte, avendo la piena comprensione del presente ed avendo coscienza di come la situazione si potrà evolvere.

Ma la gente non ama cambiare le proprie abitudini, perché costa fatica ed impegno. La gente non ama mettere in discussione le proprie scelte, perché significherebbe ammettere che prima ci si era sbagliati ed affrontare tutte le conseguenze sociali e materiali del cambiamento di decisione.
Ancora più difficile è ammettere da essere stati ingannati da chi ci ha convinti a prendere una decisione che poi ci rendiamo conto essere stata sbagliata.
Un detto sapiente ci ricorda che “
l’orgoglio muore un quarto d’ora dopo di noi“. Piuttosto che cedere al nostro orgoglio, si preferisce mantenere la propria decisione, anche se il profeta ci dimostra che è sbagliata e che ci porterà a conseguenze a cui non vorremmo andare incontro.

La gente preferisce una bugia rassicurante alla scomoda verità del profeta. E lo fa al punto di arrivare a mettere a tacere il profeta in qualsiasi modo: censurandolo dal punto di vista mediatico, escludendolo dal punto di vista sociale o addirittura eliminandolo fisicamente.

Ovviamente nessuno di noi è “la gente”. Siamo persone in grado di compiere le nostre scelte, di prendere atto dei nostri errori, di capire se chi ci parla è un profeta oppure no.
Dipende da ciascuno di noi, se preferiamo conformarci al fare comune della gente preferendo evitare ogni sforzo mentale e psicologico o se preferiamo invece essere persone che non si fanno sovrastare dalla paura e dall’orgoglio. Se vogliamo avere il coraggio di metterci in discussione e di ascoltare i profeti che, da che mondo e mondo, non sono mai mancati. Basta avere occhi ed orecchi per riconoscerli.

Noterella a margine, di Roberto Buffagni

Noterella a margine del post pubblicato stamani da Andrea Zhok, intitolato “LA COERCIZIONE LIBERALE”, con il quale concordo.
Ho l’impressione che stiamo assistendo all’istituzione di una vera e propria teologia civile legittimante l’ordine sociale, fondata sullo scientismo positivista, in una stupefacente fotocopia del programma di Auguste Comte: «L’Amour pour principe et l’Ordre pour base; le Progrès pour but» (“Systéme de politique positive”, 1853). Da questa teologia civile legittimante su base scientista discendono le relative inclusioni ed esclusioni culturali e politiche, che parzialmente riassorbono e integrano le precedenti, fascismo/antifascismo, fondate su una interpretazione storica (secondo me errata) che designa i fascismi come antimoderni e reazionari, “René Guénon + le Panzerdivisionen”. La definizione dei fascismi come fenomeno antimoderno facilita, ovviamente, l’integrazione del vecchio sistema di esclusioni ed inclusioni nel nuovo, che si autodefinisce identificandosi tout court con la Modernità e il Progresso (niente è più moderno e progressista dello scientismo).
Ovviamente una società che si fondi su una teologia civile scientista non può essere democratica, perché non esiste né può esistere una popolazione in grado di accedere, in massa, alle conoscenze, per es. matematiche, e ai metodi che consentono anche solo di farsi un’idea delle pratiche delle scienze dei fenomeni. La vitalità di un regime democratico nell’effettualità storica ha bisogno di tante precondizioni, culturali e sociali, ma sul piano dei principi, la democrazia moderna ha assoluto bisogno di un accordo in merito alle seguenti asserzioni: a) tutti gli uomini sono eguali, nel senso che tutti possono, almeno virtualmente, partecipare a una discussione razionale in merito ai fini che la comunità deve perseguire, sebbene la discussione in merito ai mezzi da impiegare, e la loro implementazione, possa e debba essere riservata a una minoranza tecnicamente capace b) corollario di a: gli uomini sono, almeno virtualmente, persuadibili per via razionale, ossia, tutti gli uomini partecipano, almeno virtualmente, a una medesima Ragione che scrivo con la maiuscola perché NON coincide con il solo intelletto astratto, e alla quale si può accedere per via filosofica, artistica, religiosa, sapienziale. Questo è il minimo comun denominatore umanistico sul quale hanno trovato accordo politico culture assai diverse come la cristiana, la liberale classica, la socialista.
Ora, la scienza dei fenomeni NON è in grado di fornire la minima indicazione in merito ai fini (perché viviamo, come dobbiamo vivere, che dobbiamo farne dei ritrovati della scienza, etc.). Di questo fatto nudo e crudo Comte si rese conto in un momento molto difficile della sua vita personale, ed è per questo che si inventò di sana pianta (con un po’ di copiancolla da Condorcet e Turgot) il suo demenziale progetto di “Religione dell’Umanità”, con tanto di Chiesa e Catechismo positivista, Consiglio degli Scienziati, etc. invitando per lettera il Padre Generale dei Gesuiti a collaborarvi (allora non ebbe risposta, ai suoi imitatori odierni andrà molto meglio). Non so se gli attuali powers that be si siano accorti di stare copiando il progetto di Comte, fatto sta che lo copiano perché sono andati a sbattere contro il problema che indusse il vecchio Comte a inventarselo, e che all’epoca non esisteva (ancora).
Ossia, il problema di governare una società composta da persone che, in larghissima maggioranza, hanno introiettato il senso comune relativista che logicamente discende dallo scientismo e dal liberalismo. Il senso comune relativista, in parole povere ma chiare, dice che la mia opinione vale la tua, e che è impossibile giungere, per mezzo della discussione razionale, a stabilire che una affermazione sia vera e un’altra falsa: “vera” o “falsa” non solo sul piano empirico, ossia corretta o errata (per es. perché i dati su cui basiamo l’argomento sono corretti o no) ma anche, per es., sul piano etico e metafisico, i piani più rilevanti per la determinazione dei fini; perché tutto dipende dal sistema valoriale che si adotta, e lo si adotta sempre arbitrariamente ( = vige il sistema valoriale affermato dalla forza sociale maggiore, e non ha senso interrogarsi se sia giusto o sbagliato, buono o cattivo) .
Siccome qualsiasi società ha bisogno, per non implodere nell’anarchia, che a fare il 90% del lavoro di controllo sociale sia la norma interiore, e solo il 10% la norma esteriore (polizia, tribunali, etc.), è chiaro quanto sia altamente instabile una società dove il 90% della popolazione condivide un senso comune relativista, ciascuno pensa di aver diritto alla sua opinione che vale quanto qualsiasi altra, e tendenzialmente rifiuta il principio di autorità (“Chi sono io per giudicare?” ha detto il Vicario di Cristo). L’unico salvagente a cui aggrapparsi per non annegare nell’anarchia e nell’anomia, e controllare bene o male una società molto complicata e delicata come l’industriale, pare essere la scienza, che tutti rispettano perché a) garantisce la vita quotidiana b) rende disponibile una potenza immane, ossia rimpiazza le due tradizionali sorgenti della norma interiore, il costume (vita quotidiana) e la religione (onnipotenza divina). Purtroppo però la scienza dei fenomeni sa inventare cose pazzesche, ma NON ci dice assolutamente niente in merito a come vivere, a come usare le cose pazzesche che inventa, etc.; e dunque ritorniamo alla casella di partenza, il relativismo dei valori e i suoi (enormi) problemi.
A questo punto, la mossa obbligata per i powers that be è la riedizione del programma comtiano, ossia l’invenzione di sana pianta di una religione scientista che sa di essere falsa, perché ha uno scopo puramente strumentale: non si tratta della vecchia politica dell’uso della religione come instrumentum regni, ma della fondazione di una nuova religione in perfetta, totale malafede, o, in altri termini, l’adozione affatto arbitraria -ma non esistono di altro tipo – di un sistema valoriale ufficiale che si autoconfeziona come religione laica. Naturalmente, lo si fa “per amore dell’umanità”. Come dice il don Giovanni di Moliére al mendicante che gli chiede l’elemosina “per amor di Dio”: “Te la do per amore dell’umanità”.
Al tempo di Comte, i suoi colleghi, scienziati e filosofi positivisti, attribuirono l’invenzione della religione positivista a un ottenebramento delle sue facoltà, perché a metà XIX secolo l’ambiente sociale era ancora alimentato e stabilizzato dal costume e dalla religione premoderni; e non solo non c’era alcun bisogno di ufficializzare la “Religione dell’Umanità”, ma tutti, positivisti compresi, avrebbero avuto una reazione almeno di imbarazzo, se non di rigetto, dinanzi a questa assurda, ridicola e preoccupante parodia del cristianesimo. Be’, adesso il bisogno c’è e la reazione di rigetto non ce l’ha neanche il papa, e quindi via col Progetto Comte 2, la Vendetta.
Nel Progetto Comte 2, la Vendetta, prende un rilievo enorme la manipolazione psicologica di massa, perché a) “la scienza” non ci dice nulla in merito alla persuadibilità degli uomini in quanto partecipi a una comune Ragione (metèxis, un concetto metafisico o religioso) b) “la scienza” ci dice invece un botto di cose in merito alla manipolabilità psicologica degli uomini. Regola base del positivismo è «non si può aver scienza se non di fatti». Poiché l’osservatore e l’organo osservato coincidono, non è possibile avere osservazione dei fenomeni intellettuali in atto, per cui, ritenendo impossibile la descrizione dei processi mentali e della psiche come indipendenti dai fatti fisiologici o da quelli sociali, Comte riconduce la psicologia alla biologia e alla sociologia: e qui si ritrova l’origine del Green Pass e dei metodi behaviouristici con i quali viene introdotto.
Faccio rilevare en passant che in merito all’umanità della quale si sta fondando la religione, la scienza dei fenomeni – in questo caso, la genetica – può dirci una cosa sola: che tutti gli uomini, a qualunque razza appartengano, condividono, con minime varianti, il medesimo corredo genetico, ossia che sono tutti appartenenti alla specie umana. La scienza dei fenomeni, però, NON ci dice come vada trattata, questa specie tra le specie che è la specie umana. Se si volesse massimizzare il suo rendimento, ad esempio, anche in conformità a un criterio positivista classico quale l’utilitarismo, “il maggior bene per il maggior numero”, sarebbe certamente opportuno potarne i rami secchi, ossia provvedere con i metodi adeguati a una vasta politica eugenetica, che incoraggi le caratteristiche genetiche più favorevoli e scoraggi le meno favorevoli, inserendosi – come è la norma per tutte le scienze dei fenomeni – nelle catene di causazione (non tutte individuate) del fenomeno “specie umana”. In un progettino come questo ci sta di tutto, e in questo tutto ci sono cose che oggi nessuno è in grado di immaginare, ed è anche meglio perché immaginandole potrebbero venire i capelli bianchi.
Andrea Zhok
SULLA COERCIZIONE LIBERALE
Gli stati, sotto certe condizioni di emergenza o urgenza, possono esercitare atti di imperio e coercizione sulla propria popolazione.
La coercizione classica, ad esempio la chiamata alle armi a difesa della patria, era esercitata ad un tempo come chiamata etica ad uno sforzo di protezione dell’intera collettività e come assunzione di responsabilità del governante, che si faceva garante della giustezza (e della buona gestione) dell’iniziativa.
Quest’assunzione di responsabilità, automaticamente implicita nell’atto di pubblica coercizione, non era priva di conseguenze: di fronte ad esiti nefasti di quell’iniziativa coatta i governanti erano chiamati a risponderne. Non a risponderne legalmente, con qualche forma di “responsabilità limitata”, ma fisicamente, in prima persona. L’esito tipico delle sconfitte militari era, ed è, l’abbattimento dei vertici che hanno promosso l’azione, e spesso la loro fine ingloriosa o violenta.
Questa premessa ci permette di focalizzare su cosa c’è di indecente nella forma di “coercizione soft” connessa ad iniziative come il Green Pass.
Se i nostri governanti fossero assolutamente sicuri di quello che stanno facendo, se fosse vero che l’unica strada per affrontare la pandemia in questa fase è la vaccinazione a tappeto, se fossero davvero certi – come dicono di essere – che l’operazione è del tutto sicura sul piano delle conseguenze per la salute dei cittadini, allora non ci sarebbe nessun problema a prendere la strada dell’obbligo universale.
Questo creerebbe, come è giusto che sia, due gruppi ben definiti: quelli che si assumono la responsabilità delle decisioni e quelli che le decisioni le subiscono. Tutta la cittadinanza starebbe dalla stessa parte, sarebbe accomunata da un destino comune, ed eventualmente si potrebbe mobilitare in comune nel momento in cui qualcosa nella strada presa si mostrasse erroneo o esiziale.
Ma – nonostante tutti i proclami – questa non è affatto la situazione reale. Ed è per questo che viene adottata la forma tipica della coercizione liberale: la coercizione dissimulata, recitata come se si trattasse di libera scelta.
E’ importante vedere che si tratta di un modello classico, non di una recente escogitazione in occasione del Covid. Il modello liberale è quello che ti dice che se non vuoi lavorare per un tozzo pane sei liberissimo di crepare di fame: è una tua libera scelta e nessuno ti ha costretto. Il modello liberale è quello che spacca sistematicamente la società in brandelli perché mette tutti in competizione con tutti gli altri, insegnando a vedere nel tuo vicino un avversario.
Così, il modello della coercizione liberale applicato all’emergenza Covid è quello che ti dice che nessuno ti obbliga a vaccinarti, è una tua libera scelta.
Certo, se non lo fai, o se non lo fai fare ai tuoi figli, beh, vi scordate il cinema, la palestra, il ristorante, il teatro, il bar, la piscina, il treno, l’aereo, l’università e spesso anche il lavoro.
Però è una tua scelta e nessuno ti obbliga.
Poi, è vero, a parte questo, se non lo fai vieni additato anche come un traditore, un nemico della patria, un cretino, un paranoico, un egoista, un ignorante e un perdente, alimentando l’odio o il disprezzo altrui.
Però sia ben chiaro, puoi esercitare una libera scelta.
E nel caso tu voglia esercitare la tua libera scelta, prenderti il tuo appuntamento, firmare una liberatoria, mostrando il tuo consenso (dis)informato, bene così.
Ricorda che l’hai voluto tu.
Questa procedura consente al governante di trattare con la massima serenità qualunque azzardo.
Chi se la sentirebbe di obbligare ad assumere un farmaco sperimentale un ragazzino o una donna in stato di gravidanza in mancanza di una schiacciante evidenza che le alternative sono peggiori?
Ma con la forma di coercizione liberale il problema non si pone. L’obbligo a tutti gli effetti concreti sussiste, ma assume le vesti della scelta personale, di cui si fa carico chi sceglie.
Se – Dio non voglia – tra un paio d’anni dovessimo scoprire che l’azzardo è andato male, che sussistono conseguenze rilevanti, chi pensate che sarà possibile chiamare a rispondere?
Tra un paio d’anni gli stessi che oggi imperversano con disposizioni normative e certezze apodittiche saranno irreperibili.
Chi sarà a curarsi dei suoi quattro alani nella tenuta in campagna, chi si godrà una pensione dorata, chi sarà stato promosso ad altro prestigioso incarico.
Le eventuali lamentele, gli eventuali danni saranno risolti con un’alzata di spalle da nuovi “responsabili” e con qualche mancia di indennizzo estratta dall’erario pubblico.
In ogni caso, anche se l’azzardo andasse a buon fine, o con danni collaterali non massivi, ne saremo usciti peggiori: il paese una volta di più spaccato, con un senso di impotenza diffusa e di irresponsabilità generale.
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