Donald Trump durante la conferenza stampa di oggi alla Casa Bianca alla domanda sulla situazione in Nord Corea e se aveva un aggiornamento sulla salute di Kim Jong-Un, Trump ha risposto con convinzione dichiarando il seguente: “Kim Jong Un? Non posso dirtelo esattamente. Sì, ho un’ottima idea di quella che è la situazione, ma non posso parlarne adesso, Gli auguro solo del bene. Spero che sia in salute. So come sta, relativamente parlando. Vedremo. Probabilmente sentirai di lui in un futuro non troppo lontano.”
Trump ha anche negato con veemenza le notizie sulla salute di Kim, etichettando come “fake news” il rapporto originale della CNN secondo cui il leader nordcoreano appariva essere gravemente malato.
A QUESTO PUNTO CON LE DICHIARAZIONI DI TRUMP POSSIAMO CHIUDERE TEMPORANEAMENTE LA FINESTRA DI AGGIORNAMENTO. DOPO LA DICHIARAZIONE DEI SUDCOREANI, DEI DISSIDENTI NORDCOREANI, DELLA MANCANZA DI SIGNIFICATIVI MOVIMENTI AL CONFINE TRA LA CINA E LA COREA, POSSIAMO TRARRE SOLO UNA LOGICA CONCLUSIONE: KIM JONG-UN È ANCORA VIVO. PROBABILMENTE LE NOTIZIE SUI PROBLEMI DI SALUTE SONO FONDATI, MA SIAMO QUASI DEL TUTTO CONVINTI CHE IL LEADER SUPREMO SIA ANCORA VIVO.
Reporter: Do you have any updates on Kim Jong-un's health?
Un amico mi ha appena ricordato che nel 2014 Kim Jong Un scomparse dalla scena pubblica per riemergere qualche settimana dopo usando un bastone per camminare (cosa di cui mi ero completamente dimenticato-grazie Bob). Potremmo trovarci di nuovo di fronte a una situazione simile, anche se la diagnosi medica potrebbe essere diversa rispetto al 2014. Kim Jong Un potrebbe ritornare sulla scena pubblica appena recupera le forze.
04/27/2020 Ore 22:05
Ieri abbiamo riportato la notizia, che secondo i servizi di intelligence occidentali, attivita` di mezzi e truppe di militari cinesi si sarebbero messe in movimento verso il confine nordcoreano. Oggi , grazie ai video disponibili su Open-source intelligence (OSINT) , possiamo verificare, che se movimenti di truppe ci sono state, queste non sono movimenti massicci. Dai video girati che arrivano dal distretto cinese di Changbai, quello che confina con la città Hyesan in Corea; tutto sembra normale, non c’è nessun segno di movimenti militari insoliti. Da questo possiamo dedurre che la situazione in Nordcoreana e per il momento sotto controllo.
Strada principale di Changbai che porta la confine con la Corea del Nord
Video del lato cinese a Changbai, dall’altra parte dello Yalu River si trova la citta nordcosreana di Hyesan, dai video non si notano cose fuori dall’ordinario.
04/27/2020 Ore 19:45
La TV nordcoreana ha terminato le trasmissioni per la giornata di oggi senza riportare nulla di straordinario. La novità principale è stata, come abbiamo riportato in precedenza, il messaggio di ringraziamento che Kim Jong Un ha inviato agli operai di Wonsan. Ripetiamo che il messaggio di Kim non e stato accompagnato da nessuna immagine del leader supremo. Le trasmissioni riprenderanno a mezzanotte ora italiana. Se ci sono novità vi aggiorneremo durante la notte.
04/27/2020 Ore 19:12
Christian Whiton, ex consigliere del Dipartimento di Stato di Trump e Bush, risponde alle domande delle giornaliste di Fox News sulla situazione in Nord Corea. Whiton afferma, (giustamente) che in presenza di un disabilitato leader supremo i vertici dell’esercito Coreano assumo pieno potere e si innalzano a guida del paese, fino a quando Kim si riprende oppure viene nominato il suo successore (la sorella…)
Whiton afferma anche che l’epidemia di coronavirus nella Corea del Nord è probabilmente devastante, questo avanzerebbe l’ipotesi che Kim possa essere rimasto colpito dal Coronavirus e sarebbe morto oppure in fin di vita, intubato in un reparto di terapia intensiva. La versione dell’operazione al cuore andata male sarebbe solo quindi una copertura, ricordiamo che Kim e sovrappeso, beve e fuma pesantemente…
Secondo alcune fonti di stampa occidentale, Kim Jong Un, potrebbe essere rimasto ferito durante esercitazioni militari. Il Daily Mail, cita il dissidente politico Lee Jeong Ho, rifugiatosi nella Corea del Sud ed ex funzionario del Partito dei Lavoratori, che avrebbe avanzato oggi, sul quotidiano sudcoreano Dong-a Ilbo, l’ipotesi che Kim potrebbe essere rimasto ferito durante lancio di missili balistici, lo scorso 14 Aprile.
PER PRECISAZIONE; NON C’È NESSUNA AGENZIA DI INTELLIGENCE OCCIDENTALE CHE AVANZA QUESTA IPOTESI, QUINDI AL MOMENTO NON DAREI TROPPO CREDITO A QUESTA VERSIONE DEI FATTI…
L’albero di famiglia di Kim Jong-Un, in rosso la linea diretta di parentela, in grigio le spose, le amanti e le consorti.
04/27/2020 Ore 17:30
Secondo l’agenzia di stampa di stato nordcoreana; Kim Jong Un avrebbe inviato oggi un messaggio al presidente sudafricano Cyril Ramaphosa per celebrare la festa nazionale del paese. Inoltre la TV di stato avrebbe letto un messaggio di ringraziamento di Kim Jong Un ai lavoratori che stanno costruendo il Wonsan-Kalma Tourist Resort.
Attenzione dei messaggi di oggi inviati da Kim Jong-Un non ci sono ne video, ne messaggi registrati di Kim. Chiunque può inviare un messaggio da parte del leader supremo usando gli organi di stampa di stato, questi messaggi non provano lo stato di salute di Kim…
Just Now #Breaking Kim Jong Un sent his thanks to his workers and officials at the construction site of the Wonsan-Kalma Tourist Resort. -North Korean State TV#KimJongUnpic.twitter.com/QtcGMbytof
Foto di Kim Jong-Un scattata il 6 Aprile a Wonsan: Osservando la foto si vede che Kim pur non essendo nel meglio della forma, appare nel viso molto meno afflitto rispetto alla foto del 10 Aprile. Ricordiamoci che intorno al 15 Aprile Kim e sparito di scena. Si può interpretare come un segno di deterioramento della salute del leader
04/27/2020 Ore 08:15
La dissidente Nordcoreana Yeonmi Park sostiene il seguente: “Secondo le mie fonti il dittatore codardo ed egoista; Kim Jong Un, non nè morto nè malato, si sta semplicemente nascondendo nel timore di contagiarsi di Coronavirus. Nonostante abbiano mentito al mondo che non esiste nessun caso nel paese; il Coronavirus si sta diffondendo in modo incontrollato all’interno della Corea del Nord.”
Non oso criticare l’affermazione di una cittadina nordcoreana rifugiata politica, ma con tutto il rispetto, se fosse vero che Kim si sia solo nascosto per paura del coronavirus, basterebbe anche un veloce video, una foto verificabile ed attuale da trasmettere o pubblicare al paese per dissipare i petegolezzi sulla sua salute…
The most cowardly and selfish dictator Kim Jong Un is not dead or even sick according to my source. He is hiding out in a fear of getting a Corona virus. Despite lying to the world that there is a zero case of Corona virus, it has been spreading uncontrollably within North Korea pic.twitter.com/8OBP6KolNA
La riunione sarebbe durata oltre 4 ore, secondo quanto riferito, Kim Yo-Jong ha detto ai dirigenti del partito che lei sarà la nuova leader Coreana
04/27/2020 Ore 07:37
I dirgenti del Partito dei Lavoratori della nord corea sono confluiti ieri sera in riunione, incluso il Vice Presidente e lo Stato Maggiore dell’Armata Del Popolo Coreano.
04/27/2020 Ore 04:00
Due foto satellitari della base di Sondok a confronto, prese a pochi giorni di distanze una dall’altra, più esattamente il periodo che va dal 13 al 24 Aprile. Queste foto suggeriscono movimento di mezzi militari missilistici.
La fotografia più recente di Kim Jong Un datata 10 Aprile: Non siamo esperti medici ma pur essendo una foto che proviene da fonti di regime, dal viso e dal corpo, Kim Jong Un non appare in piena forma…
ATTENZIONE MOVIMENTO DI TRUPPE CINESI VERSO IL CONFINE NORD COREANO.
Mobilitazione al confine al confine tra Cina e Corea del Nord per prevenire probabilmente incidenti. Un segno che il leader Nordcoreano sia effettivamente morto…
04/26/2020 Ore 23:50
L’Intelligence americana sostiene che ci sarebbero movimenti di piattaforme mobili di missili balistici all’aerodromo di Sondok, questo in preparazione ad un possibile lancio, forse per distrarre l’opinione pubblica straniera sulle voci riguardanti Kim Jong Un e allo stesso tempo lanciare un messaggio di forza.
04/26/2020 Ore 23:27
In Pyongyang la gente comincia a commentare (con molta cautela) sulla presunta assenza del leader dalla capitale nordcoreana. Ci sarebbero anche voci che descrivono un numero consistente di elicotteri che starebbero sorvolando basso il cielo della capitale. Una possibile spiegazione sulla presenza degli elicotteri sarebbe la preparazione di un funerale di stato…
04/26/2020 Ore 23:23
Ancora nessuna foto del leader nordcoreano; Kim Jong Un, sulla prima pagina dei giornali di stato della Corea del Nord dell’edizione del Lunedì mattina. Questa la prima pagina in anteprima
04/26/2020 Ore 23:05
Il treno di Kim Jong Un sembra essere ancora fermo nella stazione di Wonsan, 8 ore dopo l’ultima immagine satellitare della zona e stata pubblicata.
04/26/2020 Ore 20:20
“La posizione del nostro governo è chiara”, ha dichiarato Moon Chung-in, il principale consigliere di politica estera del presidente sudcoreano Moon Jae-in. “Kim Jong Un è vivo e vegeto. Si trova nell’area di Wonsan dal 13 aprile. Finora non sono stati rilevati movimenti sospetti…” La dichiarazione dei sudcoreani però lascia perplessi poiché, per loro stessa ammissione, se Kim Jong Un si trova a Wonsan, ininterrottamente, dal 13 di Aprile, viene il dubbio che qualcosa sia successo…
Se siete interessati sotto trovate il link della televisione Nord Coreana. Sul lato a sinistra dello schermo, cliccando sul Korea Central TV, ci sono due versioni; quella livestream e quella archivio. Buona Visione…
Le speculazioni sulla stato di salute di Kim Jong-Un non possono essere verificate ed è presto per giungere a delle conclusioni, ha detto oggi il legislatore russo Kazbek Taysaev dopo i suoi colloqui con il nuovo ambasciatore nordcoreano a Mosca
Domande sul perché il fratello maggiore non può appropriarsi del regno della Corea del Nord in caso di morte di Kim Jong Un sono facilmente esaudite dalla foto sotto: Il fratello maggiore di Kim Jong-Un; Kim Jong-Chul ad un concerto di Eric Clapton a Londra, 2015. In ogni caso, secondo Thae Yong-ho, ex vice ambasciatore della Corea del Nord a Londra, che disertò chiedendo asilo nella Corea del Sud; Kim Jong-Chul non si occupa di politica, conducendo una vita tranquilla a Pyongyang dove suona la chitarra in una band.
04/26/2020 Ore 07:29
Secondo il giornale The Korea Times, uno dei più importanti della Corea del Sud: sono due settimane che i media statali della Corea del Nord sono silenziosi sulle attività pubbliche di Kim Jong Un. Un segnale che non necessariamente ne conferma la morte, ma sicuramente rafforza almeno la possibilità che il leader supremo sia in gravi condizioni, incapacitato a muoversi.
Quando nel 2008 il padre di Kim Jung Un, Kim Jong Il, ebbe un ictus, fu riferito che i medici cinesi erano coinvolti nel suo trattamento insieme ai medici francesi. Muori tre anni dopo.
04/26/2020 Ore 05:05
Il senatore Lindsey Graham durante un’intervista alla Fox News ha dichiarato il seguente: “Credo che sia morto o seriamente inabilitato (riferendosi a Kim Jong Un), spero quindi che la lunga sofferenza del popolo nordcoreano otterrà un po di sollievo … Se questo uomo è morto, spero che la prossima persona lavorerà con Donald Trump per trasformare la Corea del Nord in un posto migliore”
04/26/2020 Ore 04:49
Qualcuno aspetta dietro le quinte…
04/26/2020 Ore 04:33
Il giornale sudcoreano; The Korea Herald , sostiene che Kim Jong Un non sarebbe ancora morto ma e` in uno stato vegetativo, tenuto in vita artificialmente quindi.
Massiccia operazione di spionaggio satellitare da parte della CIA (e non solo) attualmente in corso per verificare le notizie della presunta morte di Kim Jong Un. lo con ferma un articolo del NYT.
Secondo la rivista TMZ, citando fonti Giapponesi e Cinesi; Kim Jong Un sarebbe morto come risultato di un’operazione sbagliata al cuore. Notizia da prendere con le molle…Aspettiamo conferma…
Un eventuale morte di Kim Jong Un, innalzerebbe sua sorella, Kim Yo-Jong, a leader supremo del paese Asiatico. Secondo fonti vicine al governo Nord Coreano la sorella di Kim Jong Un sarebbe molto più intelligente dell’attuale leader in carica. Cominciamo a familiarizzare con la nuova possibile leader:
04/26/2020 Ore 01:30
Dal Tweet parodia del Governo Nord Coreano; il leader supremo Kim Jong-Un si starebbe godendo una meritata “vacanza” a casa… 🙂
Supreme Leader Kim Jong-Un enjoys well-deserved "staycation" at home.
Proseguiamo con la nostra carrellata sui diversi approcci alla crisi pandemica adottati dai vari paesi e spesso dalle varie regioni all’interno di essi. All’articolo iniziale (iniziatico?) di Roberto Buffagni, al podcast di Gianfranco Campa, agli elzeviri di Massimo Morigi, ai contributi preziosissimi di Giuseppe Imbalzano, alle riflessioni di T.K. de la Grange, ai contributi esterni, tutti raccolti in un apposito dossier, segue questo articolo dedicato alla Germania. Una modalità di azione sottotraccia quella adottata dal ceto politico e dalla classe dirigente dominanti di quel paese. Una costante delle tattiche adottate a partire dalla disastrosa disfatta militare del ’45. A cominciare dalla manipolazione di dati poco realistici. Non si tratta solo della casuale disparità dei criteri di rilevazione frutto ed indice della eterogeneità insopprimibile della galassia europea ed europeista e delle sue esigenze politiche. E’ probabilmente un accorgimento, certamente meno guascone rispetto a quello adottato dai francesi, teso a contenere l’allarmismo e il rischio di destabilizzazione interna, a giustificare misure meno draconiane e meno selettive nell’ambito delle relazioni sociali e soprattutto economiche e a porre, quindi, il paese in una posizione migliore rispetto a quella di paesi dai comportamenti più schizofrenici e massivi nell’agone internazionale, in particolare geoeconomico. Pur tuttavia, non si tratta di un mero espediente. L’articolo qui in basso rivela chiaramente anche il substrato di una gestione della crisi pandemica decisamente più accorta e preveggente sia nelle modalità operative che nella tempistica adottate. Probabilmente queste misure, in aggiunta alla annunciata valanga di sovvenzioni e di protezioni del proprio apparato economico, non saranno sufficienti a parare i terribili colpi di là da venire. La Germania è un paese troppo controllato, subordinato politicamente e militarmente, con una area di influenza diretta in un Est Europeo legato di contro a doppio filo piuttosto agli statunitensi ed una economia dai volumi e da una organizzazione impressionante, ma tecnologicamente poco innovativa e troppo vulnerabile dal punto di vista finanziario, troppo legata ai settori più speculativi della finanza anglosassone, troppo esposta alle crescenti instabilità e chiusure del commercio internazionale. Se a questo si aggiunge la sua atavica propensione a confondere le mire egemoniche in Europa con la predazione e l’annichilimento puri e semplici dei propri “fratelli europei” specie latini, non ci vorrà molto a valutare la effettiva dimensione e le conseguenze del suo progressivo e fatale isolamento. Al suo cospetto rifulge ancora di più la drammatica e sconsolante condizione nella quale si sta progressivamente cacciando il nostro paese. Un paese ormai da trenta anni dilaniato da conflitti politici tanto più virulenti quanto più privi di strategie e tattiche in grado di offrire prospettive nazionali dignitose e autonome. Un salto di qualità mancato e un degrado già ben avviato negli anni ’80 ma che ha conosciuto la propria apoteosi con l’epurazione di Tangentopoli e il progressivo emergere di un ceto politico particolarmente abile nell’annichilire ed asservire gli apparati e le competenze pubblici alle proprie baruffe di fazione. Una sterilità ed una miseria che ha trovato una ulteriore occasione di prevaricazione con questa crisi pandemica. Uno scontro ormai sordo e feroce disposto a sacrificare e strumentalizzare la stessa dedizione ed il coraggio manifestati dalle categorie professionali chiamate ad affrontare i rischi della crisi sanitaria. Uno scontro asimmetrico nella posizione dei belligeranti che lascia presagire la prevalenza di una fazione, quella più compromessa politicamente ma meno esposta amministrativamente, piuttosto che la possibilità di una emersione di una nuova classe dirigente o quantomeno di una vecchia almeno rinsavita, più accorta e autorevole. Da una parte le forze della maggioranza governativa detengono il controllo e quindi la più grave responsabilità politica di una gestione a dir poco contraddittoria e intempestiva della crisi. Appunto una responsabilità politica che facilmente potrà sfuggire alle pendenze giudiziarie e ai desideri di rivalsa delle vittime della mala conduzione che già si manifestano numerosi. Una elusione delle responsabilità culminata nella mancata avocazione di poteri speciali, nella assenza di direttive univoche e cogenti, nella sovrapposizione di incarichi esecutivi a persone chiaramente inadatte e spesso compromesse con il processo di debilitazione delle strutture pubbliche. Figure di secondo piano destinate a non oscurare il futuro politico dei protagonisti e una insipienza a suo modo funzionale a scaricare le responsabilità sui centri amministrativi più esposti. Un rituale del cerino acceso destinato a rimanere in mano ai responsabili regionali e amministrativi. Lo stesso gioco se si vuole che, a parti rovesciate, sta probabilmente giocando Trump con i suoi avversari democratici, impelagati nel focolaio epidemico di New York. Ma con una differenza sostanziale: gli Stati Uniti sono appunto una Federazione di Stati, non di regioni dalle competenze sovrapposte. Dall’altra una opposizione, in particolare la Lega, sua componente maggioritaria, reduce già da numerosi e clamorosi errori politici che ne hanno minato credibilità e sicumera e gestore a buon titolo di una regione, il Veneto, capace di affrontare decorosamente l’emergenza, ma anche della Lombardia, epicentro della epidemia e degli errori di gestione più marchiani e dolorosi. Nei tempi ravvicinati vincerà probabilmente chi detiene il pallino dei mezzi di comunicazione e chi potrà eludere l’agorà giudiziaria. Su questo il centrosinistra è chiaramente avvantaggiato di parecchie spanne. Bisogna dar atto della resistenza di Conte alle profferte capziose degli ologrammi di Bruxelles di utilizzo dei fondi del MES e di prestiti obbligazionari con garanzie dei singoli stati; come pure del tentativo di fronte comune dei paesi mediterranei. Tentativo per altro già messo in forse dal comportamento ambiguo e subdolo di Macron, quindi della Francia. La partita non è ancora chiusa; qualche incrinatura si intravede anche nella stessa Germania e Olanda. L’esempio preclaro della devastazione della Grecia e del vacuo successo del miracolo spagnolo sono un avvertimento, un incubo chiaro più alle popolazioni che alle élites dominanti. Lo scontro all’ultimo sangue tra reciproche debolezze, il nocciolo dell’acceso scontro politico in Italia, non lascia presagire molto di buono. I ricatti, le minacce e le ritorsioni possono essere il preludio ad un ennesimo e clamoroso cedimento, ad una definitiva capitolazione seguiti da proteste ed opposizioni di comodo. Vedremo cosa succederà domani, 7 aprile. Sorge a questo punto un interrogativo angosciante. Come possono forze politiche paralizzate da una crisi sanitaria tutto sommato circoscrivibile, se gestita a suo tempo con maggiore accortezza, contrattare al meglio la propria posizione in Europa o gestire il piano B della uscita dall’euro e dalla attuale Unione Europea senza cadere in una visione assistenzialistica e parassitaria, residuale apparentemente alternativa all’attuale? Già in almeno tre occasioni l’attuale ceto politico è mancato all’appuntamento, a volte persino offerto, negli ultimi tre anni. La stessa sottovalutazione delle implicazioni geopolitiche del comunque ben accetto sostegno umanitario lascia intravedere il pressapochismo dei passi intrapresi. Si blatera tanto di volerci liberare della signoria statunitense, ignorandone le pesanti implicazioni; in realtà si fa fatica a liberarsi persino dalle angherie e dalle grettezze del suo maggiordomo tedesco, non ostante le spinte e gli incoraggiamenti nemmeno troppo velati a saltare il fosso. Al peggio non si intravede la fine. Scusate lo sfogo. Non saremo profeti in patria, almeno in Russia hanno avuto modo di apprezzare e riconoscere la competenza professionale dell’esperto che su questo blog ci ha illuminato di cotanta sagacia e supponenza nazionali. Un sincero augurio per la nuova avventura. Giuseppe Germinario
Ecco perché in Germania si muore molto meno per coronavirus rispetto all’Italia
In Germania il tasso di letalità è 1,4%, in Italia 12,5%
In Germania la percentuale delle persone che muoiono per coronavirus è bassissima rispetto ai casi rilevati in confronto alle percentuali di letalità indicate dai dati ufficiali in Italia. In parte la differenza può essere provocata da dati ufficiali poco affidabili. Ma questa da sola non può essere una spiegazione sufficiente.
Una inchiesta del NYT di cui riportiamo la traduzione di ampi stralci ci aiuta a capire perché. Ne emerge purtroppo un quadro impietoso per l’Italia
I “corona-taxi”
Heidelberg, Germania. Li chiamano “taxi corona”: medici equipaggiati con indumenti protettivi guidano per le strade deserte per controllare i pazienti che sono a casa. Prendono l’esame del sangue cercando segni che il paziente possa avere il covid19 e che le sue condizioni possano aggravarsi. Possono suggerire il ricovero in ospedale anche a un paziente che ha solo sintomi lievi: le possibilità di sopravvivere sono notevolmente più alte se si affronta il virus all’inizio.
I taxi corona di Heidelberg sono solo una delle iniziative. Ma illustrano un livello di impegno di risorse pubbliche nella lotta contro l’epidemia che aiuta a spiegare uno degli enigmi più intriganti della pandemia: perché il tasso di mortalità della Germania è così basso?
Un tasso di letalità inferiore di 9 volte a quello dell’Italia
Il virus e la malattia risultante, Covid-19, hanno colpito la Germania con forza: secondo la Johns Hopkins University il paese ha più di 90.000 infezioni confermate in laboratorio al 4 di aprile, più di qualsiasi altro paese tranne gli Stati Uniti, l’Italia e Spagna.
Ma con circa 1.300 morti, il tasso di letalità in Germania si attesta all’1,4 percento, rispetto al 12,5 per cento in Italia, a circa il 10 per cento in Spagna, Francia e Gran Bretagna, al 4 per cento in Cina e al 2,5 per cento negli Stati Uniti. Anche la Corea del Sud, un modello di riferimento internazionale per la lotta al covid19, ha un tasso di letalità più elevato, l’1,7 per cento.
“Si è parlato di un’anomalia tedesca”, ha detto Hendrik Streeck, direttore dell’Istituto di virologia presso l’ospedale universitario di Bonn. Il professor Streeck ha ricevuto chiamate di colleghi dagli Stati Uniti e altrove. “‘Che cosa stai facendo diversamente?” mi chiedono. “Perché il tuo tasso di letalità è così basso?”
Ci sono diverse risposte dicono gli esperti, differenze molto reali nel modo in cui il paese ha affrontato l’epidemia rispetto ad altri.
Molti più test = molti casi rilevati in tempo
Una delle spiegazioni per il basso tasso di letalità è che la Germania ha testato molte più persone rispetto alla maggior parte delle nazioni. Ciò significa che individua più persone con pochi o nessun sintomo, anche tra i più giovani, aumentando il numero di casi noti ma non il numero di vittime.
Una delle conseguenze del gran numero di test è che l’età media delle persone rilevate come infette è inferiore in Germania rispetto a molti altri paesi. Molti dei primi pazienti hanno preso il virus nelle stazioni sciistiche austriache e italiane ed erano relativamente giovani e sani, ha detto il professor Kräusslich. “È iniziato come un’epidemia di sciatori”, ha affermato.
Poi con il diffondersi delle infezioni, sono state colpite più persone anziane e anche il tasso di letalità, solo lo 0,2 per cento due settimane fa, è aumentato. Ma l’età media di chi si sa che contrae la malattia rimane relativamente bassa, 49 anni in Germania, mentre in Italia è 62 anni secondo i rapporti ufficiali.
La Germania sta conducendo circa 350.000 test di coronavirus a settimana, (oltre 3 volte di più che in Italia) e comunque molto più di qualsiasi altro paese europeo. Test precoci e diffusi hanno permesso alle autorità di rallentare la diffusione della pandemia isolando i casi infettivi. Ha inoltre consentito di somministrare il trattamento salvavita in modo più tempestivo.
Preparati in anticipo alla pandemia
A metà gennaio, molto prima che la maggior parte dei tedeschi pensasse al virus, l’ospedale Charité di Berlino aveva già sviluppato un test e pubblicato la formula online.
Quando la Germania registrò il suo primo caso di Covid-19 a febbraio, i laboratori di tutto il paese avevano accumulato uno stock di kit di test.
Diagnosi precoci = meno morti
“Il motivo per cui in Germania abbiamo così poche morti al momento rispetto al numero di infetti può essere ampiamente spiegato dal fatto che stiamo facendo un numero estremamente elevato di diagnosi di laboratorio”, ha affermato il dott. Christian Drosten, capo virologo di Charité , il cui team ha sviluppato il primo test.
“Quando ho una diagnosi precoce e posso curare precocemente i pazienti (ad esempio collegarli a un ventilatore prima che le loro condizioni si deteriorino) – le possibilità di sopravvivenza sono molto più elevate”, ha affermato il professor Kräusslich.
Costanti test al personale medico
Il personale medico, particolarmente a rischio di contrarre e diffondere il virus, viene regolarmente testato. Per semplificare la procedura, alcuni ospedali hanno iniziato a eseguire test di blocco, utilizzando i tamponi di 10 dipendenti e dando seguito a test individuali solo se si riscontra un risultato positivo.
Da aprile test gratuiti su larga scala per trovare i possibili focolai
Alla fine di aprile, le autorità sanitarie hanno anche in programma di lanciare uno studio su larga scala, testando campioni casuali di 100.000 persone in Germania ogni settimana per valutare dove si sta accumulando immunità.
Una chiave per garantire test su larga scala è che i pazienti non pagano nulla per questo, ha affermato il professor Streeck. Questa, ha detto, è una notevole differenza con gli Stati Uniti nelle prime settimane dell’epidemia. “È improbabile che negli USA un giovane senza assicurazione sanitaria e prurito alla gola si rechi dal medico e quindi rischia di infettare più persone”, ha affermato.
Il caso della scuola di Bonn
Un venerdì di fine febbraio, il professor Streeck ha ricevuto la notizia che un paziente del suo ospedale di Bonn si era rivelato positivo per il coronavirus: un uomo di 22 anni che non aveva sintomi ma il cui datore di lavoro (una scuola) gli aveva chiesto di fare un test dopo aver saputo che aveva preso parte a un evento di carnevale in cui qualcun altro si era dimostrato positivo.
Nella maggior parte dei paesi, compresi Italia e Stati Uniti, i test sono in gran parte limitati ai pazienti più malati, quindi probabilmente all’uomo sarebbe stato rifiutato un test.
Non in Germania. Non appena i risultati del test sono arrivati, la scuola è stata chiusa e a tutti i bambini e il personale è stato ordinato di rimanere a casa con le loro famiglie per due settimane. Sono state testate circa 235 persone.
“Test e monitoraggio sono la strategia che ha avuto successo in Corea del Sud e abbiamo cercato di imparare da ciò”, ha affermato il professor Streeck.
La Germania ha anche imparato a correggere i propri errori presto: la strategia di tracciamento dei contatti avrebbe dovuto essere utilizzata in modo ancora più aggressivo, ha affermato.
Tutti quelli che erano tornati in Germania da Ischgl, una stazione sciistica austriaca che aveva avuto un focolaio, per esempio, avrebbero dovuto essere rintracciati e testati, ha detto il professor Streeck e non lo abbiamo fatto ma poi abbiamo imparato.
Un robusto sistema di assistenza sanitaria pubblica
Prima della pandemia di coronavirus in tutta la Germania, l’ospedale universitario di Giessen aveva 173 letti di terapia intensiva dotati di ventilatori. Nelle ultime settimane, l’ospedale ha cercato di creare altri 40 posti letto e ha aumentato il personale che era in standby per lavorare in terapia intensiva fino al 50%.
“Abbiamo così tanta capacità ora che stiamo accettando pazienti da Italia, Spagna e Francia”, ha dichiarato Susanne Herold, specialista in infezioni polmonari che ha supervisionato la ristrutturazione. “Siamo molto forti nell’area della terapia intensiva.”
In tutta la Germania, gli ospedali hanno ampliato le loro capacità di terapia intensiva e sono partiti da un livello elevato. A gennaio la Germania aveva circa 28.000 letti di terapia intensiva dotati di ventilatori, cioè 34 ogni 100.000 persone, quasi 3 volte di più che in Italia dove il rapporto è di 12 ogni 100.000 persone.
Ora ci sono 40.000 letti di terapia intensiva disponibili in Germania.
Fiducia nel governo
La cancelliera Angela Merkel ha comunicato in modo chiaro, calmo e regolare durante la crisi, imponendo misure di distanziamento sociale sempre più rigorose nel paese. Le restrizioni, che sono state cruciali per rallentare la diffusione della pandemia, hanno incontrato poca opposizione politica e sono ampiamente seguite.
Le valutazioni di approvazione verso la Merkel sono aumentate vertiginosamente.
“Forse la nostra più grande forza in Germania”, ha affermato il professor Kräusslich, “è il processo decisionale razionale ai massimi livelli di governo combinato con la fiducia di cui il governo gode nella popolazione”.
Una fiducia che riesce a guadagnarsi grazie ai fatti.
La diffusione del covid-19 ha scoperto il vaso di Pandora del complottismo; della tesi quindi della creazione artificiale del virus e della sua diffusione consapevole ad opera dei servizi americani. La verità, compresa quella dell’incidente, per ovvi motivi non la sapremo probabilmente mai. Appare però poco verosimile l’utilizzo di una arma difficilmente gestibile e il cui uso è suscettibile di ritorcersi contro l’eventuale aggressore. Tanto fervore induce piuttosto a mettere in ombra le enormi implicazioni geopolitiche e l’azione destabilizzante e trasformatrice di una tale crisi; ad oscurare le diverse modalità con le quali vari paesi hanno affrontato la pandemia. L’esempio di Taiwan è in proposito illuminante. Buon ascolto_Giuseppe Germinario
Qui sotto una sintesi scritta dell’intervento registrato di Gianfranco Campa. Si consiglia l’ascolto dei video linkati in calce al testo.
C’è un’isola che possiamo definire miracolata. La buona novella non è il risultato di un intervento divino dopo una preghiera in una piazza vuota, in un pomeriggio uggioso, recitata da un papa disorientato e inetto. Né deriva da un colpo del destino o da una buona dose di fortuna; è l’esito invece di una pianificazione esemplare, una preparazione e organizzazione stellare e una lungimiranza peculiare di un popolo che, nonostante la condizione di precaria sopravvivenza, minacciata dal malefico dragone appena fuori l’uscio di casa, riesce ad eccellere sempre e comunque, contro tutto e tutti, anche nella titanica lotta pluridecennale nel farsi riconoscere come stato e come nazione legittima dalla comunità mondiale: stiamo parlando di Taiwan.
Taiwan, l’isola che resiste e che grazie alla sua organizzazione e pianificazione è riuscita nel miracolo di controllare l’epidemia di Coronavirus. Si parla e discute tanto di come l’epidemia del Coronavirus viene affrontata e gestita nei vari paesi. Si cerca di spiegare la mortalità relativamente bassa registrata in Germania, Giappone e Corea Del Sud; si è alla ricerca del modello ideale da prendere come esempio; sarà la Svezia, sarà Israele, sarà chi sarà… In altre parole, chi dei governi e collettività mondiale si vuole prendere come esempio dal quale studiare, analizzare e copiare la migliore risposta alla crisi pandemica e prepararsi quindi alla prossima pandemia. Vi posso assicurare che un’altra pandemia verrà, è solo questione di tempo.
Comunque sia del modello Taiwan non ne parla quasi nessuno; non è una sorpresa poiché l’isola per motivi politici e storici è una nazione collocata ai margini della diplomazia mondiale. Per esempio proprio qualche giorno fa durante un’intervista televisiva, un alto funzionario dell’OMS ha evitato di rispondere ad alcune domande dirette su Taiwan. Il dottore canadese Bruce Aylward è stato intervistato da una stazione televisiva di Hong Kong (RTHK). L’intervista dell’ex vice direttore generale dell’OMS è diventata virale, scatenando feroci critiche. Nel segmento televisivo la giornalista Yvonne Tong chiede se l’OMS sarebbe disposta a riconsiderare la possibilità di far entrare Taiwan nell’organizzazione, vista la sua esclusione. Alla domanda segue un lungo silenzio di Aylward; concluso con la richiesta alla giornalista di passare ad un’altra domanda. Tong ha poi chiesto ad Aylward se poteva commentare “su come Taiwan sia riuscita a gestire finora la pandemia contenendo il virus“. Aylward ha risposto: “Bene, abbiamo già parlato della Cina e quando osserviamo le diverse aree della Cina, la realtà ci dice che hanno fatto un buon lavoro. Con questo vorrei ringraziarti molto per avermi invitato a partecipare” ha risposto Aylward staccando il video…
Il comportamento dell’OMS non è una sorpresa poiché la sua linea sembra rispecchiare la posizione della Cina su Taiwan, visto che l’OMS è ormai una organo pesantemente infiltrato dal partito comunista cinese. l’OMS non riconosce ufficialmente Taiwan. Ciò significa che in questa emergenza del Coronavirus, Taiwan rimane totalmente esclusa da riunioni importanti e conferenze globali di esperti sulla pandemia di coronavirus. Il diplomatico taiwanese, Stanley Kao, ha affermato che negli ultimi anni all’isola è stato negato il permesso di partecipare alle riunioni annuali dell’Assemblea mondiale della sanità. Questa condizione di avversione e ostilità nei confronti di Taiwan è da ricercare nella storia controversa fra il partito comunista cinese e i taiwanesi; con il progressivo aumento del peso diplomatico della Cina negli ultimi decenni, sfociato in un’aperta “guerra” diplomatica, economica e culturale lanciata dal partito comunista verso l’isola miracolosa. Al momento attuale solo 15 paesi al mondo riconoscono e hanno pieni rapporti diplomatici con Taiwan. Dal 1971 cioè da quando le le Nazioni Unite espulsero Taiwan dall’organizzazione, trasferendo il seggio alla Repubblica popolare cinese (RPC). l’isola è stata lentamente e inesorabilmente isolata, diplomaticamente messa alla periferia del mondo, esclusa dal resto delle organizzazioni mondiali incluso l”OMS.
Nonostante la mancanza di sostegno dell’Oms e l’isolamento in cui opera, l’isola ha gestito e continua a gestire la crisi del Covid19 in maniera esemplare. Quali sono i motivi di questo successo? Andiamo per ordine: Prima di tutto il sistema sanitario di Taiwan è considerato il migliore al mondo. Secondo la CEOWORLD, cioè la rivista guida a livello mondiale per amministratori delegati e professionisti esecutivi di alto livello, Taiwan si colloca al primo posto al mondo per assistenza sanitaria, mentre il sistema Italia si ritrova relegato al 37° posto. Questo dovrebbe una volta per tutte mettere a tacere le opinioni che sostengono “l’eccellenza del sistema italiano” . Tra parentesi mi fido piu dell’analisi del CEOWORLD che di quella dell’OMS il quale annovera l’Italia e la Spagna fra i 6 paesi al mondo con il sistema sanitario migliore. Il fiasco Italiano nel gestire la crisi del Coronavirus dovrebbe mettere a tacere qualsiasi proclama di eccellenza…
Parte del successo del sistema sanitario taiwanese consiste nella sua semplicità ed efficienza. Solo l’1% del budget sanitario viene speso in costi amministrativi e quindi la burocrazia è ridotta al minimo; per dirla all’americana meno ufficiali e più soldati insomma… Altro punto importante nel successo del sistema sanitario taiwanese riguarda l’efficiente sistema dell’infrastruttura tecnologica informativa; questa infrastruttura ha permesso al governo taiwanese di rispondere prontamente ed efficacemente ai primi casi di coronavirus, isolando gli infettati e separandoli dal resto della comunità, mappando nei minimi dettagli le comunità contagiate, evitando così che il virus si diffondesse a macchia d’olio, silenziosamente, tra il resto della popolazione. E’ chiaro che il sistema taiwanese non è perfetto e richiede di perfezionarsi con ulteriori accorgimenti; primo fra tutti la carenza di dottori pro-capite. Il problema è che i taiwanesi approfittano della loro assistenza sanitaria economica, accessibile e qualitativa andando dal dottore molto spesso. Come risultato il numero medio di visite mediche all’anno (12,1) è quasi il doppio paragonato a quello di altri paesi. Ci sono circa 1,7 medici a Taiwan per ogni 1.000 pazienti, che è ben al di sotto della media di 3,3 in altri paesi sviluppati. Comunque sia la sanità taiwanese rimane un buon esempio da seguire, non perfetto ma perfettibile.
Il secondo punto nel successo della gestione della crisi del Coronavirus è dovuto alla preparazione del governo taiwanese dopo la crisi del primo SARS nel 2003: Per non farsi trovare impreparati, sapendo che dopo la prima SARS sarebbe stata solo questione di tempo prima che arrivasse una seconda SARS; I taiwanesi si sono adoperati affinché tutta la catena di forniture necessarie a combattere una nuova pandemia venisse prodotta in casa senza fare affidamento a forniture straniere. Mascherine, grembiuli, occhiali di protezione, guanti, visiere, ventilatori, liquido igienizzante, medicine e molto altro viene ora prodotto internamente, senza far affidamento su altri paesi. Mentre in Europa sostenevano che le mascherine non fossero necessarie alla prevenzione del Coronavirus, Taiwan ha investito pesantemente nella loro produzione sapendo benissimo che le mascherine erano strumento essenziale nella prevenzione di COVID-19. Come se non bastasse Taiwan, tramite la mappature digitale, ha inoltre sviluppato un sistema di razionamento in base al quale ogni residente adulto è in grado di acquistare tre maschere a settimana. Per garantire che tutti i residenti rispettino la regola, le maschere possono essere acquistate presso farmacie e centri medici designati. Queste sedi hanno le strutture per scansionare digitalmente le tessere dell’assicurazione sanitaria nazionale (NHI), la qual cosa consente al governo di registrare la cronologia degli acquisti. Il razionamento però non è stato necessario poiché la capacità di produzione di mascherine è aumentata da 4 milioni nel gennaio del 2020 agli attuali 15 milioni di pezzi al giorno; ripeto, l’attuale capacità produttiva di mascherine è ora di 15 milioni di pezzi al giorno. La capacità produttiva di taiwan e talmente larga che la presidente taiwanese ha promesso di donare 10 milioni di maschere ai paesi più colpiti dal coronavirus. Il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu ha specificato che le maschere sarebbero state inviate agli Stati Uniti e alle nazioni dell’Europa occidentale. Attenzione parliamo di donazioni non di vendita. Un gesto nobile per un paese piccolo e per lungo tempo abbandonato dalla comunità internazionale a scapito dei criminali di pechino.
Un paio di giorni fa l’avatar; Ursula von der Leyen sul suo account twitter ha ringraziato taiwan per conto della comunità europea: “ L’Unione Europea ringrazia Taiwan per la donazione di 5,6 milioni di mascherine per aiutare a combattere il coronavirus. Apprezziamo davvero questo gesto di solidarietà. Questo focolaio globale del virus richiede solidarietà e cooperazione internazionali.”
The European Union thanks Taiwan for its donation of 5.6 million masks to help fight the #coronavirus. We really appreciate this gesture of solidarity. This global virus outbreak requires international solidarity & cooperation. Acts like this show that we are #StrongerTogether.
Terzo punto importante nella lotta contro Covid19: Taiwan ha messo in atto un sistema chiamiamolo di allerta precoce. In altre parole; Taiwan dopo la Sars del 2003 ha creato una Task force incaricata di monitorare il mondo a caccia di possibili segnali anticipati di pandemia. Possiamo chiamarla un servizio di intelligence incaricato di occuparsi esclusivamente di identificare possibili focolai di malattie prima che arrivino a colpire Taiwan. Questo servizio di monitoraggio è soprattutto finalizzato a cogliere gli eventi in corso nella Cina continentale. Così quando a Wuhan sono trapelati i primi segni di una nuova sconosciuta e devastante epidemia il governo taiwanese era già informato delle possibili ramificazioni e disastrose conseguenze che avrebbe potenzialmente potuto arrecare al mondo. I primi segnali si erano avuti all’inizio di Dicembre, mentre il mondo nella quasi totalità ignorava ciò che stava succedendo nella provincia di Hubei e il partito comunista cinese era intento a censurare nascondendo la apocalittica realtà. I taiwanesi si erano già messi in moto per attuare i protocolli di sicurezza sviluppati negli ultimi anni, mettendo in moto la macchina organizzativa. . “Ciò che abbiamo imparato da Sars è che dobbiamo essere molto scettici riguardo i dati provenienti dalla Cina“, ha affermato Chan Chang-chuan, decano del College of Public Health dalla National Taiwan University. “Nel 2003 abbiamo imparato una funesta lezione e quell’esperienza è qualcosa che altri paesi non hanno recepito”.
Veniano così all’ultimo quarto punto fondamentale della battaglia Taiwanese al Covid19: la chiusura totale della frontiere. Nonostante le strette relazioni ed i frenetici scambi tra Cina e Taiwan, il governo di Taipei ha immediatamente limitato gli arrivi all’isola prima dalla Cina e poi dal resto del mondo, isolando di fatto l’isola dal resto della comunità internazionale. Chi è rientrato a Taiwan è stato assoggettato ad un rigoroso protocollo di controllo , monitorato elettronicamente, tramite i propri cellulari, gli spostamenti delle persone sotto ordine di quarantena. Il Centro di comando per il controllo delle malattie (CECC) lavorando all’unisono a livello interministeriale, ha deciso di integrare i propri dati rendendoli compatibili con i dati della l’agenzia doganale e di immigrazione, la National Immigration Agency (NIA). Questo connubio ha reso possibile individuare, tramite il sistema PharmaCloud, la sequenza degli itinerari e degli spostamenti intrapresi dalle persone che entravano nel territorio Taiwanese. Ciò ha consentito ai medici di avere accesso ai dati dei contatti della persona implicata. Un fattore che ha aiutato non solo ad isolare i potenziali portatori di epidemie, ma ha anche aiutato i medici taiwanesi a determinare se i pazienti dovevano sottoporsi ai tamponi ai fini dell’accertamento della presenza del Coronavirus.
Ricapitolando quindi i punti fondamentali del modello taiwan sono i seguenti: Un’eccellente sistema di copertura sanitaria gestito efficientemente. Uso appropriato ed efficace della tecnologia informatica.Pronto monitoraggio di possibili focolai nel mondo. Produzione interna del materiale medico necessario a far fronte alla malattie e, ultimo ma non meno importante, controllo meticoloso e ferreo dei confini del paese, sia in entrata che in uscita.
Questo efficace sistema taiwanese è stato adottato dal governo neozelandese. All’inizio di marzo di quest’anno, il Dr. Ashley Bloomfield, capo del Ministero della Salute della Nuova Zelanda, ha elogiato le misure di prevenzione della pandemia adottate da Taiwan. Il dottor Bloomfield ha affermato che due paesi – Singapore e Taiwan – hanno mostrato una efficace capacità di isolare e mettere in quarantena coloro che sono venuti a contatto con casi positivi di coronavirus. Prendendo spunto dai taiwanesi la Nuova Zelanda dovrebbe muoversi in questa direzione.
Il successo di questa strategia potrebbe dare un nuovo impulso alle possibilità di riconoscimento diplomatico del paese. Nel frattempo il presidente americano Donald Trump ha firmato una settimana fa , ma per lo più ignorato dai mass media per via della crisi del coronavirus, il cosiddetto disegno di legge denominato Taipei Act. Il TAIPEI ACT segna un cambio epocale nei rapporti Taiwan-USA in chiave soprattutto anti-Cinese. Il taipei act riporta un bilanciamento nelle relazioni asiatiche migliorando il supporto degli Stati Uniti verso Taiwan e incoraggiando altre nazioni a intrecciare relazioni con l’isola. Un tentativo di isolamento di coloro che seguono gli ordini del Partito Comunista Cinese (PCC).
L’ufficio rappresentativo economico e culturale di Taipei (TECRO), l’ambasciata di fatto di Taiwan negli Stati Uniti, ha esternato la propria approvazione e gratitudine verso il presidente americano. Il presidente taiwanese Tsai ha affermato che è stato “gratificante” vedere firmata la legge TAIPEI, salutandola come un “attestato di amicizia e sostegno reciproco mentre lavoriamo insieme per affrontare le minacce globali alla salute umana e ai nostri valori democratici. Il disegno di legge ribadisce la forza congiunta di Taiwan e Stati Uniti. Inoltre, apre la strada a scambi bilaterali ampliati, preservando allo stesso tempo lo spazio internazionale del paese di fronte alla campagna di coercizione autoritaria della Cina “
Inutile dire che Il Partito Comunista Cinese è, ovviamente, meno soddisfatto della Legge TAIPEI. “Esortiamo gli Stati Uniti a correggere i propri errori, a non applicare la legge e non ostacolare lo sviluppo delle relazioni tra altri paesi e la Cina; incontrerà altrimenti inevitabilmente una risposta risoluta da parte della Cina“, ha avvertito un portavoce del ministero degli Esteri cinese. La Cina come risposta alla legge TAIPEI ha intensificato la sua campagna di pressione militare contro Taiwan conducendo provocatorie esercitazioni navali e aeree. Ma il dado è ormai tratto, la nuova guerra fredda tra i cinesi e gli americani è solo all’inizio e continuerà ad allargarsi.
Nel frattempo più di qualche nazione al mondo, a parte la Nuova Zelanda, potrebbe cogliere la novità ed adottare il modello taiwan come esempio da seguire per affrontare la prossima crisi epidemica ed economica. L’italia sarebbe una candidata eccellente per attuare queste misure, ma dubito che possa farlo anche se ci fosse la volontà, poiché attuare queste misure vuol dire andare in diretto contrasto con l’unione europea. Penso solo ai cambiamenti necessari per assicurarsi il completo controllo delle frontiere. Tali controlli sarebbero necessari per gestire in maniera competente una nuova pandemia, Ma attuare ciò vuol dire eliminare, sospendere o uscire dal trattato di Schengen. Azioni decisive e ferme che però, ahimè, i nostri politicanti attuali non sarebbero capaci di intraprendere; preferiscono seguire l’avatar di Ursula von der Leyen, che ringraziando il governo di taipei per la forniture delle mascherine ha messo a nudo l’incapacità europea di affrontare la pandemia.
I morti italiani gridano vendetta, una vendetta che richiede dei passi decisivi e drastici. L’Italia non ha bisogno dell’Europa, L’Italia ha bisogno di trasformarsi in una nuova Taiwan. Un’italia sovrana, libera, democratica, padrona del proprio destino e capace di programmare e decidere la propria risposta. L’Isola miracolata, che resiste; Taiwan segna la strada. Per l’italia il modello da seguire è quello, al resto dell’Europa alla prossima pandemia possiamo regalare eventualmente quattro mascherine per puro spirito di compassione….
Bruce Aylward @WHO did an interview with HK's @rthk_news When asked about #Taiwan he pretended not to hear the question. The journalist asked again & he even hung up! Woo can't believe how corrupted @WHO is. pic.twitter.com/uyBytfO3LP
Concludendo il suo quotidiano elzeviro su “La Stampa”, Mattia Feltri scrive, a proposito del fondamentale rapporto tra sicurezza e libertà in Paesi che possano definirsi “civili”: “…ricordiamoci che settantacinque anni fa si rischiava la vita per la libertà, ora si rischia la libertà per la vita. Speriamo che questo non dica qualcosa di noi”.
In realtà dice moltissimo. Ci racconta la fuoriuscita dalla Storia di una civiltà vecchia, non solo anagraficamente, come quella europea. Abituata a considerare vita il numero di giorni che riesce a vivere in schiavitù senza rischiare la morte. Contenta di poter essere controllata in tutto (telefono, salute, risorse mobiliari e immobiliari, pur di sentirsi “al sicuro”). Ma “al sicuro da che?”, da virus che possono anche essere creati in laboratorio, approfittando di questa ossessione securitaria, magari tranquillizzati da “scienziati” che sicuramente sapranno tutto dei loro ambiti di competenza, ma difficilmente possono vantare conoscenze anche nelle relative applicazioni militari (che sono ricche e variegate, e non sempre smontabili con semplici operazioni di reverse engineering).
L’ossessione securitaria ci ha condotto alla non-vita attuale, dove dobbiamo solo obbedire ad “ordini superiori” e farlo – ovviamente – per “il bene comune”. “Bene comune” che si identifica con la nostra “vita-morte”, naturale frutto di quella “bellezza dell’impotenza” ormai riservata al “Grande Ospizio” europeo, dove la libertà dei singoli – oggi controllatissima – si esprime nel contare, come si faceva ai tempi del servizio militare obbligatorio, quanti giorni manchino all'”alba del congedo”, partendo da 365 (visto che all’epoca la leva durava un anno). Con una piccola, ma fondamentale, differenza, i giorni che a noi mancano – per chi ancora li volesse scioccamente contare – non sono all’alba, ma al tramonto, l’ultimo, quello definitivo: la morte.
La civiltà occidentale, del tutto priva di senso del tragico, è arrivata persino a inventarsi la colossale fola della “guerra senza morti”. Invece la guerra c’è, sempre e comunque; il nemico pure, anche se lo definiscono invisibile e – come spesso è accaduto della Storia – non ci sta di fronte, ma dietro, tra quelli che amiamo ritenere “i nostri capi”; e la morte ci è costante e serena compagna, anche perché le nostre vite di poveri “servi della gleba” e non di “beati possidentes“, da tempo deprivate di tutto o quasi (ma costantemente in nome del “bene comune”…) sempre e solo quell’esito ammettono, anche se molti di noi lo vorrebbero differibile in eterno. Senza accorgercene, persi dietro il sogno di vivere in eterno, ci siamo rassegnati a perdere ogni libertà e ogni dignità, ed a morire giorno dopo giorno. Dunque a morire sempre.
Qui sotto tre articoli che testimoniano del fatto che qualcosa sta cambiando nei criteri di individuazione e gestione dei focolai di diffusione della epidemia e soprattutto nella informazione.
Non sono solo questi due testi a testimoniarlo; anche nella cosiddetta grande stampa nazionale e nel sistema televisivo qualche barlume comincia ad illuminare la reale situazione. Sono però ancora iniziative estemporanee, frammentarie e non coordinate, comunicate significativamente sottotraccia. L’inquietudine, il timore che possano emergere già in corso d’opera i gravi errori e le pesanti responsabilità di un ceto politico in varie forme al governo e di una classe dirigente, ivi compresa quella impegnata nel sistema di informazione, tali da comprometterne del tutto la residua credibilità e autorevolezza, serpeggiano e sono palpabili. La crisi pandemica sta accelerando ed accelelerà convulsamente processi in corso da almeno quindici anni.
Il nostro sistema di informazione, gran parte del ceto accademico ed intellettuale, la quasi totalità del ceto politico, in questi anni si è trastullato da miserabile saccente a denigrare e sminuire Trump come una pittoresca meteora, ad esorcizzare Putin sin dal suo importante intervento alla Conferenza Internazionale di Monaco del 2007, a fraintendere il ruolo della classe dirigente cinese, quella che più di altri ha saputo e voluto approfittare degli spazi offerti dal processo di globalizzazione per affermare e consolidare il proprio interesse nazionale piuttosto che dissolversi nel globalismo; a cullarsi soprattutto nell’illusione della fratellanza europea.
Non ha compreso, non lo vuole, che il termine di amicizia assume un significato diverso, spesso agli antipodi se attribuito alle relazioni tra individui, a quelle tra popoli e più ancora tra i centri decisionali e gli stati. Doveva sopraggiungere il bisogno insoddisfatto di banali mascherine e di ventilatori a mostrare il re nudo e il senso reale della solidarietà internazionale.
Non è bastato però! Non v’è più cieco di chi non vuol vedere; più sordo di chi non vuol sentire. Stanno ancora tergiversando, a due mesi di distanza, su un programma di parziale riconversione produttiva realizzabile in poche settimane e si spendono a piene mani a pietire a destra e a manca, trattati spesso a pesci in faccia all’estero, i materiali necessari a garantire cure e sicurezza sanitaria.
Hanno bloccato i voli diretti dalla Cina, e con quello la possibilità di controllo diretto dei punti di arrivo dei flussi; non si sono accorti delle vie alternative utilizzate e verificabili già due giorni dopo il blocco dalle fonti di intelligence e anche da internet. L’esplosione del contagio in Iran non è un prodotto del destino avverso. Troppo impegnati a considerare e a confondere la trasmissione virale e il messaggio di fratellanza e solidarietà a base di pacche sulle spalle.
Si sono profusi in appelli accorati a mantenere le distanze e al senso civico, ma hanno ignorato la formulazione, la diffusione e l’applicazione di direttive e protocolli che limitassero i contagi tra gli operatori sanitari e tra questi e il pubblico; protocolli ben conosciuti dagli esperti di gestione sanitaria e delle emergenze; esperti autorevoli, spesso e volentieri relegati nelle quarte file.
L’autorevolezza, si sa, non si accompagna, il più delle volte, all’accondiscendenza. Hanno inventato un nuovo istituto giuridico, un vero ossimoro: la decretazione di raccomandazioni e suggerimenti. Ne è conseguita una catena di comando incerta, una sovrapposizione di incarichi, direttive contraddittorie in un contesto istituzionale già reso precario e incerto da uno sciagurato decentramento regionale. Consola la premura con la quale Borrelli, il capo della Protezione Civile, sottolinea l’attenzione e la parsimonia nella gestione della spesa; vorremmo che il proconsole che gli hanno affiancato proclamasse con la stessa partecipazione.
Una tara dovuta alla situazione d’emergenza bisogna concederla
Sta di fatto che l’istituzione più preparata alle emergenze, alla logistica, al coordinamento dei vari ambiti operativi rimane tagliata fuori e relegata al ruolo di coadiutori dei vigili urbani e delle pompe funebri.
Troppi precedenti emergenziali dovrebbero suonare come campanelli d’allarme sugli appetiti famelici da soddisfare in queste contingenze. Una inadeguatezza che rischierà di condannare definitivamente il paese quando si dovrà passare dalla fase di emergenza tesa al contenimento dell’epidemia a quella presumibile di convivenza con il virus, in attesa di una cura medica risolutiva. Ben venga la solidarietà internazionale. Cina, Russia, Cuba e Stati Uniti vanno quindi ringraziati. Un po’ meno la aperta politicizzazione. Anche la solidarietà internazionale, nel rapporto tra gli stati e nelle dinamiche geopolitiche, richiede un prezzo e uno scotto specie quando a richiederla è un ceto particolarmente remissivo e inconsapevole dell’interesse nazionale. Un prezzo sia nei confronti del singolo paese solidale, sia nei confronti di altri ben presenti sul nostro suolo da decenni e che si sentirebbero minacciati dai nuovi arrivati. Nel primo caso, nella fattispecie con la Cina, non è ancora chiaro se gli accordi commerciali prevedono solo scambi di prodotti e la concessione di presidi, simili ai fondaci che concedevano le repubbliche marinare oppure arrivano a delegare almeno in parte il controllo strategico della logistica e dei flussi; lo stesso dicasi per il 5G. Nel secondo la questione è ancora più delicata e cruciale per la sovranità del paese.
Quando si decide di risvegliare l’allarme e la preoccupazione del proprio tutore bisogna avere la ragionevole certezza, almeno probabilità, di poter resistere alle prevedibili reazioni e di poter contare su di un contesto internazionale favorevole e sul sostegno fattivo di altre potenze, Il recente esempio di Tsipras in Grecia è particolarmente illuminante. La capitolazione definitiva di Syriza sotto il giogo dell’Unione Europea è avvenuta quando Putin aveva fatto capire di non avere molte armi da offrire alla resistenza greca e quando era apparso chiaro che alla Cina premeva soprattutto mettere radici nel Pireo e non compromettere la propria penetrazione commerciale nell’Unione Europea. La domanda a questo punto sorge spontanea: questo ceto politico, questa classe dirigente ha la consapevolezza sufficiente della posta in palio; ha un sufficiente controllo quanto meno delle proprie istituzioni e dei propri apparati tale da consentirle sufficiente libertà di azione? Dispone della sufficiente autonomia e visione strategica che le possa garantire di poter giocare su più tavoli piuttosto che ridursi al carnevalesco servo di più padroni? Gli antefatti sulla Libia e sulla Unione Europea lasciano dubitare pesantemente. Conosciamo la fine delle oche giulive. Il redde rationem lo vedremo probabilmente a partire dal prossimo novembre, specie se alla Casa Bianca al tanto vituperato e rozzo Trump dovesse succedere qualche democratico compassionevole, banditore di pace e fautore di guerre.
Il nostro paese avrebbe bisogno di un cambio di paradigma, a cominciare da questa emergenza sanitaria così destabilizzante. Quello che riescono ad offrire è qualche aggiustamento perpetrato per di più di soppiatto. Lo stato di emergenza rappresenta la cornice adatta a mascherarne la pochezza. A cosa potrà portare questa commistione poco virtuosa non si sa. Potranno certo offrire una qualche via di fuga o un arroccamento; a se stessi, non alla massima parte del paese. Buona lettura e ascolto, Giuseppe Germinario
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Tempi di apocalisse. La parola è greca e designa l’atto di distinzione di ciò che è coperto e nascosto. Ci si immerge quindi nel regno della verità rivelata agli uomini, prima o anche dopo ogni teologia. E’ anche l’epoca corrente. Il paese reale sta riscoprendo la geopolitica che le è propria, e le ultime notizie dal nostro confine alle porte dell’Europa sono che l’esercito turco sta usando apertamente i propri veicoli corazzati per abbattere le barriere, così come sta lanciando i propri jihadisti infiltrati con i suoi stessi commando per attaccare la Grecia perché i migranti sono stati apertamente e respinti nelle sacche. Almeno per il momento…
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Al di là della strumentalizzazione legata alla preparazione e alla raccolta di un tale numero di migranti essenzialmente non siriani, destinati a incarnare il ruolo di comparse , va ricordato che quanto sta avvenendo al confine terrestre e marittimo tra Grecia e Turchia non è una crisi migratoria, ancor meno una crisi di rifugiati. Si tratta ora, apertamente, di una guerra ibrida, o addirittura di una guerra classica sotto forma di invasione umana, iniziata dalla Turchia, anche con i suoi veicoli corazzati che sparano sulle barriere di confine.
Possiamo ancora sentire alla radio, dalle prime ore del mattino, quelle del primo caffè, “che tempi galoppanti: i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, come si sa personaggi celesti e misteriosi, menzionati nel Nuovo Testamento nel sesto capitolo del libro dell’Apocalisse, sono fuori. In altre parole, il nostro tempo presente è in linea con il loro simbolismo, generalmente mantenuto nei tempi moderni, cioè la Conquista, la Guerra, la Carestia e la Morte. Ed è un altro momento di parossismo attraverso la Hybris e la malattia che affligge la nostra povera Umanità. Tanto per il nostro tempo presente, sempre tra guerra e malattia. Ci si chiede se, come ai tempi di Omero, le nostre guerre possano poi fermarsi sotto gli effetti della pandemia”, trasmissione mattutina su 90.1 FM del 10 marzo.
Guarda caso, la Turchia è il paese che dichiara zero casi di coronavirus, zero portatori e zero morti. Il corrispondente di radio 90.1 FM ha detto che “il regime di Erdogan ha vietato tutti i riferimenti al coronavirus attraverso i media e anche i social network strettamente monitorati. Quando qualcuno su Facebook ha avuto l’idea di dire che c’erano alcuni casi non annunciati, la domanda è stata posta al ministro della Salute, [il quale] ha risposto che la polizia si sarebbe occupata del suo caso”, radio 90.1 FM, programma di Lámbros Kalarrýtis la sera del 10 marzo. Si può immaginare la già fallace argomentazione di Erdogan, apritemi i confini… e accettate il coronavirus a braccia aperte.
Geopolitica, guerra, Germania, Turchia e… coronavirus. I greci stanno guardando quello che sta succedendo in Italia in questo momento e il loro cuore è pesante. “Ah… i nostri amici italiani sono tristi”, sospirava un farmacista del nostro quartiere ad Atene l’altro giorno. In Grecia l’epidemia è appena iniziata, meno di un centinaio di casi ufficiali e noti, e nessun morto, per il momento. Torna il tempo di minacce e invasioni, ed è poi, con tutto il rispetto per i mondialisti, gli immigrati e gli altri sinistrorsi, un tempo di frontiere e di patria.
Su Internet in Grecia, le chiese dedicate alla Madonna sono a volte addobbate in città e villaggi vicino al confine con la Turchia, e poi da Cipro, Austria, Ungheria e Polonia arrivano rinforzi simbolici ma necessari in termini di materiale e di manodopera. Erdogan lascia Bruxelles visibilmente arrabbiato, e la Germania ora finge di criticare l’aggressività del suo storico alleato, la Turchia, in modo gentile.
L’apparato si è certamente ritirato dalle sue posizioni di appena un mese fa, speriamo che non sia per… balzare meglio in avanti. E sul terreno popolare, diciamo, il patriottismo rimane un valore sicuro che porta speranza, proprio come i confini di un Paese, di una nazione o di una società, perché ne incarnano il cordone sanitario in senso stretto, e anche in senso figurato. E il nostro confine tiene, grazie agli uomini e alle donne delle forze armate, grazie alla mobilitazione degli abitanti sul posto e anche in tutta la Grecia.
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Mentre la situazione è sempre più tesa al confine e i turchi non esitano a usare le loro armi, come ad esempio tentare mini intrusioni per intimidire e poi mettere alla prova le forze armate greche, senza successo, alcuni dettagli prima nascosti non passano più inosservati. Apocalisse.
Prima c’è questa… misteriosa questione del confine tra Bulgaria e Turchia. Il 27 febbraio, quando la diplomazia turca ha dichiarato che il suo Paese stava aprendo le porte “ai rifugiati che volevano andare in Europa”, in poche ore migliaia di persone sono state trasportate al confine greco sul fiume Evros. “Possiamo attraversare il confine liberamente. La polizia turca ci ha detto che le frontiere sono aperte da entrambi i lati”, hanno detto i migranti, secondo le agenzie di stampa internazionali sul territorio turco.
Di conseguenza, decine di migliaia di persone raggiungono il confine euro-turco. O per essere più precisi, decine di migliaia di persone raggiungono il confine greco-turco, lungo 212 chilometri, cercando di entrare illegalmente nel territorio europeo. Eppure nessuno appare sui 259 chilometri del confine terrestre bulgaro-turco. Bella, questa. Le autorità bulgare hanno certamente affermato che dissuadere gli immigrati è stata a lungo la loro priorità. Ciò che non spiegano, tuttavia, sono le ragioni. Anche i tedeschi della Deutsche Welle sollevano direttamente la domanda: “Perché tanta pace sul confine turco-bulgaro?”, stampa greca dell’8 marzo 2020.
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La crisi creata dalla responsabilità di Ankara sul confine greco-turco, ufficialmente per ricattare l’UE, è in realtà e prima di tutto un atto di guerra contro la Grecia, secondo una pianificazione storica della Turchia, a prescindere da Erdogan tra l’altro, e non in generale la volontà di far passare i migranti in Europa…. per un miracolo, i contrabbandieri, le mafie delle Ong dell’Onu e di Sóros, nonché il grande tour operator per i migranti musulmani clandestini che è lo Stato turco, “dimenticano” che anche la Bulgaria sarebbe un passaggio verso l’Europa. Ma non è così, e certamente questa scelta non è né casuale né del tutto estranea al punto di vista di Berlino.
Va notato che in un recente viaggio ufficiale in Turchia, il 2 marzo, il presidente bulgaro Boiko Borisov è stato ricevuto a braccia aperte da Erdogan ad Ankara e che la Germania, da parte sua, sostiene di fatto la politica di Erdogan. È stato a questo proposito che, quando una barca di una ONG tedesca che si occupa di immigrazione è stata cacciata dai porti di Lesbo per tre volte lo scorso fine settimana, l’ambasciata di Berlino ad Atene ha ritenuto opportuno rivolgersi direttamente all’ufficiale greco che comanda la guardia costiera dell’isola, anche attraverso una lettera inviata direttamente alla capitaneria di porto di Mitilene, capitale e porto principale di Lesbo.
“Tutto sommato, Berlino, come al solito nella sua consuetudine di forza occupante all’interno dell’UE, ha ritenuto opportuno farlo”. Gli interrogativi derivanti da questa vicenda sono apertamente trasmesse su Internet in Grecia, e anche alcuni media generalisti hanno finito per parlare di questa ennesima… vicenda tedesca in Grecia come la radio 90.1 FM, trasmessa da Lámbros Kalarrýtis, il 9 marzo 2020.
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“È vero che il capo dell’ufficio legale dell’ambasciata tedesca ad Atene, Wiebke Brahe, ha contattato ieri l’autorità portuale centrale di Mitilene? Da quando gli avvocati dell’ambasciata tedesca contattano i comandanti militari greci locali al posto della loro leadership politica?
“È vero che questa comunicazione riguardava la nave di una ONG, quella che nella sua lettera lei chiama semplicemente associazione, quando si sa che proprio questa ONG ha causato tanti problemi alla popolazione locale per anni? È vero che l’ambasciata tedesca ha voluto fornire i dati dei passeggeri tedeschi a bordo della nave e di un cittadino francese, senza dubbio in modo che la capitaneria di porto di Mitilene desse loro un trattamento preferenziale? È vero, infine, che un funzionario dell’Ambasciata tedesca insiste e interviene presso le autorità marittime del Ministero della Difesa e della Marina Greca su una questione di esclusiva competenza del governo greco e in particolare dei ministeri interessati”, 90.1 FM, trasmessa da Lámbros Kalarrýtis, 9 marzo 2020. e dalla stampa greca.
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Il nazionalismo turco è atavico, ufficiale e quindi messo in pratica, dalla Siria alla Grecia e dall’Iraq a Cipro. Allo stesso modo, e a parte le potenze coinvolte nel Mediterraneo orientale, la Germania, come la Bulgaria in misura minore, è tra gli alleati storici della Turchia, sia prima che dopo il kemalismo. Per inciso, ci sono quasi quattro milioni di turchi naturalizzati in Germania, che a quanto pare obbediscono innanzitutto agli ordini di ogni Erdogan di turno il giorno prima di andare a votare, e anche questo è un pezzo del puzzle, ma non il più importante.
Allo stesso tempo, e nella serie sulla geopolitica della fusione tra Paesi islamici, la Turchia invita le forze navali del Pakistan a partecipare alle esercitazioni congiunte nel Mar Egeo; inutile dire che anche la marina greca è altrettanto mobilitata e vigila sull’area, stampa greca del 10 marzo 2020. Non dimentichiamo che “dal basso verso l’alto”, tra i migranti che sono stati sfruttati e trasferiti alla frontiera greca dalla Turchia ci sono molti pakistani e afgani; tutto è coerente, è un piano e una guerra che non ha ancora mostrato tutti i suoi denti.
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Il tempo dei confini è così tornato, anche e già per le nazioni e i paesi europei. Rimane… il fronte interno. Da qualche giorno e anche da qualche notte per alcuni, la sfera di sinistra, l’antifa à la Soros e assimilata, così come molti accademici traboccanti di europeismo, così come dei loro sussidi, si sono opposti, ora che sappiamo che secondo sondaggi apparentemente attendibili, quasi il 90% dei greci è favorevole alla chiusura delle frontiere, e a fermare la migrazione e la colonizzazione de facto della Grecia da parte di queste popolazioni musulmane strumentalizzate.
Insomma, non si tratta di un delirio, come si potrebbe dire gratuito, rivolto ai popoli musulmani, che i greci hanno storicamente conosciuto e rispettato nei loro rispettivi Paesi, ma, prima di tutto, di una logica reazione di un patriottismo ancora profondamente radicato e che ha poca voglia di vedere la Grecia diventare un Paese musulmano, per di più, due secoli dopo la Rivoluzione nazionale e cristiana che ha portato alla liberazione dei greci dall’occupazione turca sotto l’Impero ottomano. Ciò che ha fatto traboccare il calderone è il numero di migranti e l’evidenza degli obiettivi espansionistici della Turchia, così come la volontà globalista di Soros, dell’ONU e di altri, di affondare o addirittura di smembrare l’attuale Grecia. Ecco quanto si dice apertamente in questo momento in Grecia.
È proprio questa evidenza che sfugge alla sfera sinistra e ad altri antifa. Allo stesso modo, è sempre più spesso suggerito da alcuni analisti e giornalisti in Grecia, come Kalarrýtis e Trángas su 90.1 FM, “che tra queste persone, ce ne sono alcune che sono pagate direttamente da Soros, o anche altrettante dalla Turchia. Queste persone hanno certamente il diritto di parlare e questo è normale, tranne che hanno dovuto mostrare un minimo di logica perché il nostro Paese è sotto attacco. Nonostante ciò, le loro argomentazioni sono esattamente quelle generate più spesso dalla propaganda di Erdogan; è triste dirlo, ma tutta questa marmaglia, compreso SYRIZA, forma al suo interno una vera e propria quinta colonna, molto attiva e dannosa. Mi dispiace, tra loro e noi c’è ora un intero confine che ci separa, come quello tra la Grecia e la Turchia sul fiume Evros. E per queste persone, la loro patria è visibilmente sul versante turco, oltre il confine”, Lámbros Kalarrýtis su 90.1 FM, 9 marzo 2020.
Detto questo, bisogna diffidare di Mitsotákis tanto quanto del suo “governo”. Ad esempio, come abbiamo appena appreso, in un incontro tra il Ministro delle politiche migratorie Mitarákis e i Presidenti delle Regioni, il 10 marzo, i politici regionali sono stati invitati ad accogliere i migranti presenti sulle isole greche del Mar Egeo, sistemandoli in numerosi appartamenti della città. Il resto non è ancora noto; relazione, 90.1 FM, 10 marzo 2020. Nulla è più ovvio di quanto non lo fosse in passato, poiché l’atmosfera è visibilmente cambiata.
Infine, come segno dei tempi, i soldati sono ovunque acclamati dagli abitanti del paese reale greco, come anche questa settimana a Lesbo, abitanti che per la sinistra, totalmente ceca di fronte al suo definitivo ritiro dalla storia europea, sono solo seguaci dell’estrema destra.
E sul lato del… lavoro pratico ad Atene, gli antifa pro-Soros e i pro-Turchi, dopo aver saccheggiato la stazione della metropolitana sotto l’Acropoli, hanno appena assalito nel centro di Atene la statua dell’eroe della Rivoluzione nazionale greca del 1821, Theódoros Kolokotrónis. Tra gli slogan che hanno profanato la statua c’era il famoso “la Grecia deve morire”, oltraggiosamente sostenuto in ogni occasione da questi individui. Noto che per queste persone, solo l’idea della nazione greca è poi imbarazzante e dannosa; tutte le altre nazioni devono ovviamente prosperare. La quinta colonna funziona in modo così classico.Un altro tema della propaganda globalista ed egualmente turca, che viene rilanciato dagli apolidi della sinistra, ad eccezione di Míkis Theodorákis e dell’attivista storico Karambélias, è la questione del diritto internazionale e degli accordi internazionali che presumibilmente impediscono alla Grecia di monitorare, controllare e persino chiudere i suoi confini se necessario di fronte a tale invasione e – allo stesso tempo – all’atto di guerra da parte della Turchia, che costituisce quindi una minaccia multipla per la sicurezza nazionale. “In questi tempi critici, il mio pensiero va ai nostri figli che difendono i confini della patria e ai coraggiosi uomini e donne del fiume Evros”, ha detto Theodorákis, stampa del 9 marzo.
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L’accademico Kóstas Grívas, che non è di sinistra, ha semplicemente ricordato “che dobbiamo tornare ai principi fondamentali del diritto internazionale per non soccombere a queste opinioni fuorvianti e subdole, che fanno parte dell’attacco in questa particolare guerra a tutto campo che la Grecia sta attualmente subendo. Soprattutto, dobbiamo ricordare che il soggetto fondamentale del diritto internazionale, ma anche il suo elemento strutturale fondamentale, sono gli Stati”.
“Sono quindi i Paesi che danno un senso al diritto internazionale. Senza di loro, non esiste nemmeno; dobbiamo anche ricordare che il sistema internazionale è fatto di Paesi e che nessuna autorità sovranazionale è al di sopra di essi. Le Nazioni Unite, come suggerisce il nome, non sono altro che una struttura burocratica che permette ai Paesi di interagire e persino di raggiungere accordi. Non funziona al di sopra di loro e solo i paesi con la loro adesione gli permettono finalmente di esistere. E per poterle dare sostanza, devono anche e prima di tutto avere una propria sostanza”, stampa greca del 9 marzo 2020.
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Non è più il tempo degli agnelli, figuriamoci delle pecore. In breve, tempi apocalittici. La stampa avverte dell’esistenza di nuclei jihadisti in Grecia, introdotti con la gentile partecipazione della Turchia, così come di quella dei governi di destra e di sinistra per più di dieci anni, compreso l’attuale governo di Mitsotákis, anche se la sua ultima gestione dell’emergenza sembra essere minima, in senso più logico. I servizi segreti greci stanno poi cercando… questi jihadisti dormienti all’interno del paese, tranne che c’era la necessità di un migliore controllo delle frontiere, forse a monte.
“Il presidente turco Erdogan aveva dichiarato in un momento insospettabile che 1201 membri dello stato islamico erano detenuti nelle prigioni turche, mentre la Turchia aveva arrestato 287 jihadisti in Siria. E questa è un’altra delle carte segrete di Erdogan, che potrebbe poi svelare nei prossimi giorni. L’attenzione si concentra anche sugli islamisti fanatici che non provengono dalla Siria ma dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Marocco, mescolati a migranti e rifugiati che minacciano di entrare clandestinamente o che sono già entrati in Grecia nelle ultime settimane”,- stampa greca del 10 marzo.
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Rivelazione ancora una volta, la parola è quindi greca, e designa l’azione di distinguere ciò che è nascosto. Ci immergiamo quindi nel regno della verità, rivelata agli uomini, prima o dopo qualsiasi teologia. Probabilmente è anche di quel periodo, perché le chiese del paese sono ormai piuttosto piene, anche a dispetto del coronavirus.
Martedì sera, 10 marzo, è stato annunciato sulla stampa greca che tutte le scuole e le università sarebbero state chiuse.
Il paese reale riscopre poi tutta la geopolitica che è propria… più il coronavirus. Sempre una questione di confini e di sopravvivenza, i nostri… gatti si azzuffano, è la stagione.
Qui sotto alcune pregnanti riflessioni di Giuseppe Masala. In questi giorni si sono susseguiti gli appelli e le stigmatizzazioni per indurre tutto il paese e le forze politiche ad adottare uno spirito unitario e di concordia nazionale indispensabile a fronteggiare l’emergenza sanitaria. Emergenza che allo stato riguarda la contagiosità piuttosto che la letalità del virus. Appelli che poggiano in gran parte su un equivoco più che mai deleterio e subordinato a dinamiche politiche potenti. La diffusione del corona virus e la gestione dell’emergenza sanitaria sono l’occasione e lo strumento per rideterminare i rapporti di forza e le relazioni geopolitiche. Da una parte il colpevole ritardo della Cina nel comunicare ed affrontare l’epidemia. Nella fattispecie vediamo che per ragioni di gestione interna e di implicita attribuzione a soggetti esterni, gli untori di turno, delle responsabilità della diffusione, tra questi numerosi paesi europei, in particolare Francia e Germania si adoperano a nascondere, minimizzare e manipolare i dati di contaminazione del virus nei propri territori nazionali; dall’altro i suddetti, spalleggiati tempestivamente dai funzionari della Unione Europea, stanno spingendo per l’approvazione definitiva entro metà marzo del MES2 ed una accelerazione della Unione Bancaria. Due trattati particolarmente deleteri per il nostro paese, in particolare nell’attuale contingenza. Una operazione di vero e proprio sciacallaggio del resto consueta nel sistema di relazioni internazionali. Per quanto riguarda le dinamiche politiche interne al paese, i provvedimenti del Governo sono comunque il frutto di pressioni, punti di vista ed interessi contrastanti; ne parleremo a tempo debito. Stanno evidenziando le crepe e le disarticolazioni delle quali soffre particolarmente il nostro apparato statale ed amministrativo. Ancora una volta anzichè a un Giuseppe, continuiamo ad assistere a più “Giuseppi”, di Mattei ne abbiamo già almeno due; bastano ed avanzano. A questo punto un Governo che si vorrebbe di “afflato nazionale”, che invoca la concordia nazionale, che cerchi piena legittimità ed autorevolezza, dovrebbe contraccambiare la richiesta di responsabilità con l’accantonamento quanto meno delle scelte più divisive del paese e delle forze politiche. Il MES2 e l’Unione Bancaria sono appunto tra le scelte più divisive e su questo le forze di governo sembrano troppo ben disposte a cedere e accondiscendere. La gestione interna dell’emergenza sta assumendo toni contraddittori e ormai grotteschi. Il virus segue certamente una logica ed una dinamica più potente delle intenzioni politiche, anche le migliori; la contraddittorietà, la comunicazione e l’uso spesso maldestri dei provvedimenti sono il frutto di un progressivo disordine istituzionale ormai ultratrentennale e di un senso civico ed uno spirito di unità nazionale quantomeno carente tanto da rendere improbo il sacrificio degli operatori impegnati nell’emergenza. Non pare proprio che questa classe dirigente, questo Governo e la stessa PdR siano in grado di contrastare queste dinamiche; ne sembrano piuttosto una espressione. Non riesce ad ottenere dai fratelli europei nemmeno forniture di mascherine, medicinali e disinfettanti, nè pare porsi il problema di cominciare a produrne in casa propria. Pare piuttosto propensa a manipolare ad uso proprio le progressive limitazioni. Il potere è protezione, e la protezione implica sempre il dominio. Non esiste la decretazione d’emergenza che si basa sul “per favore”. Le talpe che hanno diffuso in anticipo il decreto governativo di ieri vanno individuate, sanzionate, esposte al pubblico ludibrio. Lo stesso vale per i fuggitivi. Se la situazione si fa seria, e pare sia così, il governo si avochi i poteri necessari, metta fine al disordine istituzionale, consultata l’opposizione nomini un responsabile esecutivo (meglio un militare). L’opposizione, in particolare la Lega, all’inizio dell’emergenza virus ha gravemente sbagliato, attaccando il governo e facendo leva sul disordine istituzionale nel tentativo di accedere al governo. Poi i sondaggi l’hanno informata che el pueblo non gradiva, e si è corretta. Ora fa benissimo a contestare con la massima forza il tentativo di far passare i provvedimenti dei cravattari della UE come il MES. Può dunque con piena ragione condizionare il suo indispensabile appoggio alla necessaria avocazione governativa dei poteri emergenziali. Niente MES, e responsabile esecutivo dell’emergenza scelto di comune accordo. Parafrasando Giuseppe Masala ” Se la prossima settimana a Palazzo Chigi ci fosse un Generale dei Carabinieri non mi stupirei”. L’importante è che non si chiami Pietro Badoglio._Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni
Il Fiero Pasto.
Fonti dell’Eurogruppo hanno fatto sapere che è attesa l’approvazione definitiva della riforma del Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) per il 16 di Marzo. Ecco, allora, non è che ci vuole Nostradamus per capire che per l’Italia la firma del Mes significherebbe suicidarsi. Le nostre banche stanno crollando in borsa e conseguentemente lo spread Btp/Bund sta salendo. E’ evidente che avremo bisogno di finanziamenti e quelli della Bce sono vincolati all’attivazione del Meccanismo Europeo di Stabilità. Herr Weidman ha parlato chiaro: non sono all’orizzonte misure straordinarie di erogazione di liquidità da parte della Banca Centrale Europea. Letto in controluce significa: <<Chi ha bisogno di liquidità usi le procedure ordinarie attivando il Mes e firmando un Memorandum of Understanding in stile greco>>.
Ancora meno si può parlare di approvazione di norme capestro quali quella della dell’Unione Bancaria che prevedono la ponderazione del peso dei titoli di stato nazionali nel portafoglio titoli delle banche. Il cosiddetto doom loop tra banche e governi” è un concetto tortuoso e illogico che solo gli economisti – categoria maestra di pensiero gregario – può accettare. In una situazione di crollo generalizzato la logica dello spalmare il rischio sia nello spazio che nella diversificazione degli asset class non funziona: crolla tutto. Il concetto di Risk-Weighted Assets (RWA) è stato semplicemente demolito come concetto dal crollo del 2008. I tedeschi fanno finta di crederci e vorrebbero imporlo perchè è funzionale ai loro disegni. L’Italia ha un un’allocazione dei risparmi/capitali fortemente concentrata sui titoli di stato italiani e questa situazione va smontata (dal loro punto di vista) con la scusa dell’effetto contagio banche-governo. Ma le banche spagnole che hanno una distribuzione più incentrata sull’estero sono messe meglio? Non mi pare proprio, hanno centinaia di miliardi impelagati in quell’Argentina che non riesce manco a pagare le rate dell’FMI e in quella Turchia impegnata in due guerre a bassa intensità (Siria e Libia) e come se non bastasse che rischia uno scontro con la Grecia. E’ forse questa un allocazione delle risorse più razionale e meno rischiosa? Non mi pare proprio.
Perchè i tedeschi vorrebbero una allocazione meno incentrata sul nazionale da parte dell’Italia? Siamo alle solite: comportarsi alla prussiana mantenendo una parvenza di correttezza con la quale fare pistolotti morali agli altri. Ovviamente loro con questa manovra intendono attivare un meccanismo virtuoso per loro e mortale per l’Italia: convogliare verso gli assets tedeschi parte del risparmio italiano abbassando i tassi sui bund che sono già negativi e sottoponendo i capitali esteri che vi sono convogliati a una patrimoniale di fatto. Ovvero sia, le spese per l’emergenza sanitaria glielo pagano i risparmiatori italiani (che però non possono pagarle per se stessi). I tassi dei titoli italiani saliranno vista la mancanza dell’afflusso di risparmio italiano? Non c’è problema secondo loro, lo stato italiano può tranquillamente attivare il Mes firmando un Memorandum of Understendig che ci vincolerà per decine di anni a ciò che decide una società privata di diritto lussemburghese (questo è il Mes). Questo è il meccanismo. Non entro neanche nel discorso su come definire il vincolo del parlamento italiano e del governo alle decisioni di una società privata di diritto lussemburghese, dico solo che io nella costituzione italiana non vedo questa opzione che vincola il parlamento italiano nell’approvazione della legge finanziaria al placet di una società privata. Un colpo di stato bello e buono.
Semplicemente con l’attivazione di questo meccanismo mortale si vedrebbe la riedizione di quanto è accaduto con la crisi finanziaria partita nel 2008: il primo che cade viene usato come fiero pasto dagli altri che si rafforzano ed evitano così a loro volta di cadere semplicemente spolpando come degli avvoltoio il malcapitato. Chiedere ad Atene in cosa si sostanzia questo concetto. Solo che questa volta a rischiare di essere i primi a cadere siamo noi.
Scusate il sermone di primo mattino.
NOTE A MARGINE
per amore di verità, spiega però che gran parte degli scenari che descrivi a partire dal secondo paragrafo fanno parte dell’Unione bancaria e non propriamente del MES2.
In realtà, il MES2 è preparatorio all’UB, va solo precisato che su quella l’Eurogruppo è ancora indietro. Ma non di molto. E con questo governo…
e si, le due cose vanno di pari passo….del resto è stato Conte a parlare di “logica di pacchetto” non avendo capito che è proprio il pacchetto che ci uccide…
Qui sotto alcune significative considerazioni del Generale Piero Laporta. Da leggere con attenzione e con una nostra precisazione. A questo punto della emergenza un cambio della guardia al governo pare inopportuno se non esiziale; più opportuna una ampia delega ad un organismo o ad una figura preposta ad hoc_Giuseppe Germinario
Giuseppe Conte, scaricando invano sui medici le proprie responsabilità per l’epidemia, cerca di evitare di rispondere alla domanda: come si gestisce un’emergenza nazionale?
Che cos’è un’emergenza nazionale? Chi deve assumerne la gestione? Quali le modalità attraverso le quali la gestione è razionale? Innanzi tutto occorre evitare l’isteresi, cioè la reazione paradossale e fuori tempo alla sollecitazione emotiva, tanto più intensa quanto più grave è l’emergenza.
Emergenza è una serie concatenata di eventi, sul primo momento imprevedibili nei loro effetti catastrofici, ai quali è indispensabile contrapporre provvedimenti rapidi e straordinari, per circoscriverla, arrestarla, rimediare infine ai suoi effetti di breve, medio e lungo termine.
Le potenziali emergenze concernenti un’intera nazione appartengono alle seguenti famiglie: 1) bellica, 2) geosismica, 3)geometeorologica, 4) socioeconomica,5) agroalimentare, 6) finanziaria, 7) medica. ll carattere nazionale di queste crisi è improntato dalla valutazione del rischio potenziale, centrato su quattro punti. Primo: vastità in atto e potenziale del territorio coinvolto e delle risorse su quel territorio. Secondo: quantità in atto e potenziale di vittime. Terzo: durata potenziale. Quatto: capacità potenziale dell’emergenza incorso di innescare e concatenarsi con le rimanenti sei famiglie di emergenze di cui abbiamo detto.
.È ovvio che un capo di governo non possa anelare oltre la capacità di riconoscere l’esistenza d’una un’epidemia, potenzialmente in grado quindi di insinuarsi nel territorio nazionale italiano. Lo stesso capo di governo, dopo questa iniziale, banale consapevolezza, deve concentrare la sua attenzione sulle operazioni da compiere – immediatamente e le altre a seguire – per fermare il contagio aldilà delle nostre frontiere e, quando esse ne siano perforate, attuare le operazioni necessarie per rallentarlo, fermarlo, spegnerlo.
Un moderno Paese del G-20, l’Italia, avrebbe dovuto reagire sin dalla fine di dicembre, quandola reticenza della Cina e i nostri sensori a Pechino (ambasciata, servizi, turisti, osservatori e corrispondenti della stampa e della TV) dovevano allarmare. È comprensibile tuttavia che la novità del fenomeno abbia disorientato le decisioni. Questo non è tuttavia più ammissibile dai primi di gennaio, quando l’OMS accende i riflettori.
Che cosa fa un capo di governo in questi casi? Se la Protezione Civile non ha di suo attuato procedure di emergenza, come invece avrebbe dovuto, il capo del Governo costituisce una commissione tecnica, avvalendosi delle proprie enormi possibilità di consultazione ad altissimo Livello, offertegli dalla comunità scientifica, nazionale e internazionale – Istituto superiore di Sanità, CNR; autorità ospedaliere (Spallanzani, Sacco, San Raffaele, Biocampus, Gemelli, ecc.) nonché in conferenza con le autorità OMS e con le principali università mondiali. Ottenuta una prima valutazione del rischio, nomina un’autorità collegiale e multidisciplinare col compito di definire quattro obiettivi di primo tempo: 1) che cosa fare; 2) chi lo deve fare;3) quali risorse (umane, finanziarie e materiali) sono necessarie; 4) la politica delle comunicazioni, per impedire il panico in Italia e verso l’Italia.
Conseguito tale quadro, non oltre due o tre giorni dopo, tutti i competenti organismi tecnici ministeriali devono aver approntato proprie pianificazioni a breve, medio e lungo periodo, rendendole immediatamente esecutive.
ACCENTRARE L’AUTORITÀ
A questo punto il capo del governo dovrebbe aver già emanato dalla prima settimana di gennaio un decreto conseguente, per stabilire chi fa che cosa e in quali tempi. Un capo del governo, accentrandosi ogni autorità – com’è previsto dalla Costituzione, art. 117, comma d – avrebbe mantenuto pienamente operativo l’organismo consultivo multidisciplinare, per reagire tempestivamente al mutare delle situazioni. Che cos’è invece accaduto? A metà gennaio s’offriva una risposta paradossale, l’accusa di fascioleghismo, a chi chiedeva, seppure scompostamente, risposte operative a un’emergenza nazionale e internazionale.
L’assenza di decisioni pianificate, coordinate, tempestive ha fatto dilagare l’epidemia. Giuseppe Conte a quel punto s’è dichiarato 《sorpreso, come fosse una casalinga davanti alla tivvù. Ha poi reagito in ritardo e con provvedimenti sgangherati, improvvisati, taluni esagerati, altri inadeguati, mentre le amministrazioni regionali si sono scollate dal governo centrale, chi con effetti positivi, chi con provvedimenti tanto improvvisati quanto grotteschi. Tale isteria ha causato la sopravvenienza di ulteriori emergenze, com’è d’altronde naturale in tali catastrofi. All’emergenza medica, si è quindi sommata quella economica, sociale e diplomatica-internazionale, senza escluderne ulteriori a venire.
Conclusione. Conte è un inetto, oscillante fra la risposta paradossale davanti alla prima sollecitazione emotiva a gennaio, per poi rincorrere in ritardo, oltre quaranta giorni dopo, la sopravanzante e per lui “sorprendente” realtà, scaricando su altri le proprie enormi responsabilità, politiche e non solo. La nave rischia di perdere anche il timone, sbattendo sugli scogli sui quali la porta il comandante fuori di testa. È ora che l’equipaggio s’ammutini, nomini un nuovo comandante, a meno che Sergio Mattarellanon voglia condividerne le responsabilità.
Questo blog è nato con l’aspirazione di offrire uno spazio alle tesi legate al realismo politico, al conflitto politico tra centri decisionali come chiavi interpretative delle dinamiche geopolitiche e di politica interna alle formazioni sociali. Un terreno sul quale si è cimentato fruttuosamente specie negli ultimi decenni più la componente conservatrice del pensiero politico. Rimane da affrontare il nesso tra conflitto politico, dinamiche geopolitiche ed aspirazioni di cambiamento delle formazioni sociali. Tornano sul campo termini come eguaglianza, diritti sociali, gerarchie sociali, cittadinanza e relativi diritti proposti nelle varie accezioni. Qualcosa di nuovo inizia ad emergere in un altro versante politico. Per ora sono percorsi paralleli; occorre porre le premesse per un confronto su alcuni punti in comune. Giuseppe Germinario
Tesi sull’Italia e il socialismo per il XXI secolo
[Documento finale approvato dall’Assemblea Nazionale di Nuova Direzione]
1. Contro la mondializzazione
L’esposizione senza protezioni all’uso capitalistico della rivoluzione tecnologica e alla globalizzazione finanziaria sono fondamentali fattori distruttivi nel mondo contemporaneo. L’interconnessione non è un valore in sé. In assenza della capacità di mutuo riconoscimento delle identità storiche e degli ordinamenti istituzionali differenti ciò che resta è semplicemente competizione rivolta ad instaurare rapporti di dominazione. La modernità capitalistica, dissolvendo sistematicamente tutte le barriere, non produce autodeterminazione né emancipazione, ma dipendenza e servitù (talvolta coattiva, talaltra servitù ‘volontaria’, come nel caso italiano). Capitalismo è l’asservimento di ogni funzione sociale e antropologica al fine della riproduzione e accrescimento del capitale, mercificando ogni relazione, quali che siano le conseguenze.
La cosiddetta ‘finanziarizzazione dell’economia’ rende esplicito questo aspetto, in quanto indebolisce le componenti fisse, territoriali, della produzione, rendendo più facili gli spostamenti di capitale e con ciò il potere di ricatto dello stesso. I mercati finanziari (azionario, obbligazionario e monetario) appaiono come il motore centrale dell’accumulazione, indebolendo il potere contrattuale del lavoro, che viene marginalizzato. Fusioni, acquisizioni, outsourcing, riacquisti azionari, precarizzazioni, cartolarizzazioni, piramidi di controllo, elusione fiscale, sono fenomeni connessi che abbiamo sotto gli occhi costantemente. Il gigantismo dell’apparato finanziario, lungi dall’aiutare l’economia reale, sottrae risorse attraverso interessi e provvigioni, aumenta la concorrenza internazionale e alimenta la mobilità del capitale industriale. Molti piccoli risparmiatori vengono inoltre forzati ad entrare nei giochi del capitale (con pensioni private, assicurazioni, e riserve di valore per affrontare la crescente insicurezza). Essi sono perciò indotti ad allearsi al medesimo sistema che li sfrutta, prendendosi a cuore le sorte della rendita, cui partecipano in maniera marginale, ma per loro importante.
Come già altre volte nella storia, il capitalismo finanziario, con il suo potere di destabilizzazione nazionale, lungi dall’alimentare una ‘pacifica interconnessione’, accentua i tratti di ostilità internazionale, promuovendo reazioni protezionistiche e competizione, incluso il rafforzamento militare.
Se questa è la modernità, il socialismo deve percorrere vie differenti. Superare la modernità capitalistica non significa riesumare modi di vita e produzione passati, ma consentire a diverse società e culture di scoprire il proprio modo di vivere e produrre. Bisogna difendere la libertà di vivere in una dimensione che non insegua forzosamente il mito del ‘progresso’ lineare, mutuato dalla tecnoscienza, ma sia capace di coltivare le proprie capacità, sviluppare i propri talenti, portare a compimento la propria natura e far maturare le proprie migliori tradizioni. Un progresso autentico non può essere mera crescita di potenza, esercitata indiscriminatamente sull’uomo e la natura. Progresso, per noi, non è l’indefinito incremento del Pil, o delle esportazioni, o del potere della propria moneta, e neppure il mero incremento di libertà individuali. Progresso è crescita democratica, capacità storica di trovarne una sintesi tra partecipazione ed emancipazione, diritto all’autodeterminazione individuale e collettiva. Riacquisire sovranità democratica significa ribadire la capacità della politica di governare l’economia, e della cittadinanza di governare la politica; e significa farlo per sfuggire alle spinte alla massima valorizzazione del capitale e alla dipendenza dal mercato mondiale.
2) Contro il progetto imperiale europeo
Il processo di unificazione europea sancito dal trattato di Maastricht rappresenta il tentativo del grande capitale europeo, e dei suoi ceti di riferimento, di costruire un nuovo centro imperiale per partecipare al dominio del mondo. Questo progetto assegna ruoli primari e ruoli subalterni, arruolando forzatamente i paesi europei in una lotta contro altri centri imperiali (Usa, Cina, Russia). In questo contesto l’Italia è terreno di scontro tra il recente progetto imperiale franco-tedesco e il consolidato progetto imperiale statunitense. Gli effetti collaterali di questo scontro si ripercuotono sul paese in termini di perdurante stagnazione e recessione. Si tratta di una lotta che coinvolge, sia pure in forma subalterna, parte delle élite e dei capitali nazionali, in particolare al nord. Per competere in questa corsa al dominio del mondo (che non potrà non avere una dimensione militare), viene costantemente ripetuto che i lavoratori devono sacrificarsi, lo stato deve dimagrire, che le protezioni vanno tolte per esporre i lavoratori alla “durezza del vivere”. Chi deve farsi carico di questa “durezza” sono infatti sempre i lavoratori, mai il capitale. Le conseguenze sono una struttura economica indebolita, un apparato pubblico sottodimensionato, una crescita di fratture sociali e territoriali, una politica estera inesistente.
È quindi necessario revocare il processo di unificazione europeo nato a Maastricht, rompere la camicia di forza dell’Euro e restituire la sovranità monetaria ad una Banca Centrale Italiana che risponda al potere politico. Bisogna transitare verso un’economia mondiale equilibrata e rispettosa delle individualità nazionali che prediligano la domanda interna, invece che dissanguarsi in una lotta per l’espansione delle esportazioni e la relativa accumulazione finanziaria. Prediligere la domanda interna significa ritornare all’obiettivo prioritario della piena occupazione, subordinando il fine della stabilità monetaria che interessa principalmente i ceti possidenti; significa rafforzare il lavoro, sostenere i salari, spingere direttamente e indirettamente il capitale ad innovare, impedendogli di conseguire i profitti attesi con la semplice estensione dello sfruttamento.
3) Contro la guerra tra poveri
Il paese può tornare ad essere uno, a garantire il riconoscimento sociale a ciascuno, valorizzando i propri talenti, contrastando la disgregazione e l’attuale disperato ripiegamento narcisistico. Oggi, in tutte le aree decentrate o periferiche, e nei paesi semi-centrali come l’Italia, i soggetti marginali o precarizzati percepiscono l’immigrazione come causa di un’ulteriore competizione per le abitazioni, il welfare, il salario. Si tratta di una visione corretta, ma parziale. È necessario ribadire come all’origine di questa pressione sulle proprie condizioni di vita non stiano primariamente altri sfruttati di varia provenienza, ma le modalità di produzione della ricchezza. Questo passo è necessario per disinnescare la ricerca di capri espiatori in forma di xenofobia; tuttavia va parimenti respinto il principio dell’accoglienza illimitata. Gli ingressi nel paese vanno calibrati in rapporto all’effettiva e realistica capacità di accoglimento e integrazione. Sono processi che non possono essere lasciati al “mercato”, alla “libera ricerca di opportunità” della forza-lavoro internazionale. L’obiettivo dev’essere la coesione sociale e la creazione di una società “decente”, non il potenziamento di un esercito di riserva che ricatti i lavoratori.
Il capitalismo è in primo luogo allargamento dello sfruttamento abbattendo tutte le barriere al movimento di capitali e forza-lavoro. Come socialisti siamo perciò per un severo controllo dei flussi, per il rispetto della legalità, e per la piena integrazione, economica, sociale e culturale, di chi resta con noi, senza esclusioni né discriminazioni di alcun genere. Rigettiamo l’idea di società nazionali come zone di passaggio alla ricerca di sostentamento provvisorio. Non abbiamo nulla da guadagnare dal conflitto tra poveri (che è da sempre il gioco della retorica di destra). Ciò che va difeso, ovunque, è il diritto a non emigrare, a non esservi costretti da ricatti economici, costrizioni materiali o morali; ciò che va difeso, ovunque, è il diritto a vivere e lavorare in condizioni degne nel proprio paese, in primo luogo per i nostri cittadini nel nostro paese. L’autentica solidarietà internazionalista fra le classi popolari implica il diritto all’unità e allo sviluppo integrale di ogni nazione.
4) Contro le sinistre liberali
La mutazione delle sinistre in difensori dell’ineluttabilità del capitalismo e della sua mondializzazione si è vestita di modernismo e progressismo, tipiche bandiere della sinistra liberale. I propri referenti non sono più perciò i ceti popolari, ma frazioni di classe della media borghesia, connesse con il modo di produzione della “accumulazione flessibile”. Anche le sinistre radicali, figlie dell’onda lunga del ’68, si sono rifugiate nelle loro piccole ecclesie e in movimenti (settori dell’ecologismo, del femminismo, Lgbt, animalisti, pacifisti, ecc.) che rimuovono accuratamente il problema dei rapporti di potere economico, annegandolo in rivendicazioni settoriali e identitarie che preservano il sistema. Non è un caso che la cultura di queste sinistre veda come principale nemico lo Stato e assuma come obiettivo centrale la lotta alle gerarchie e all’autoritarismo (spesso etichettato come “patriarcato”). Queste rivendicazioni sono occasioni per aumentare la segmentazione sociale, e sono peraltro agevolmente integrabili nell’attuale modo di produzione, come estetica, marketing, ecc. Concentrarsi su diritti soggettivi e identità esclusive finisce per atomizzare la società, dissimulando il problema dei rapporti di forza economici.
5) Per la democrazia reale
La sfida principale del nostro tempo è quella alla democrazia reale, che non è minacciata dai movimenti populisti, ma dalla reazione ad essi da parte delle élite in tutto il mondo occidentale. Per fronteggiare questa reazione occorre una nuova classe dirigente, con una base autenticamente popolare, che non sia l’ennesima variante minore dell’ordine liberale. L’energia sociale per uscire dall’attuale impasse si può trovare solo nei ceti in maggiore sofferenza. Quelli a proprio agio, o troppo interni al modo di produzione per distaccarsene, possono solo seguire. Si pone perciò il problema dell’unificazione non solo delle classi subalterne, ma di tutto l’ampio fronte che può muoversi in direzione antiliberista e antieuropeista.
Questa forza terza, indisponibile al vecchio bipolarismo, deve porre la questione dei rapporti sociali, della subordinazione del mercato alla democrazia, chiarendo quali gruppi, ceti e posizioni, incarnano l’interesse generale dell’Italia. Essa deve inoltre porre la questione degli strumenti della democrazia, come quelli forniti dalla nuova interconnessione virtuale, estesa a tutti i cittadini, con la possibilità di avviare discussioni molecolari in ogni momento e su ogni tema. Si deve porre anche il problema del crollo delle strutture di autorità e reputazionali tradizionali, e delle sue conseguenze sulla logica della delega. Bisogna confrontarsi con la manipolazione dei dati, l’appropriazione delle informazioni nelle piattaforme proprietarie, e gli enormi rischi che ciò comporta.
6) Per una nuova coalizione sociale
Serve per questo una larga coalizione sociale, che attraversi il paese da Nord a Sud, rispondendo alle diverse esigenze delle sue aree culturali ed economiche, spesso radicate in storie secolari. Bisogna saper parlare con i neo-proletari della new economy, i professionisti in via di “uberizzazione”, i lavoratori autonomi sfruttati e marginali, i pensionati a basso reddito e negletti, la parte ancora reattiva del sottoproletariato urbano. Per fare ciò bisogna superare i modelli utili ma insufficienti dei meet-up, o delle effimere mobilitazioni social, attraendo a sé i segmenti di piccola borghesia operanti sul mercato interno, il ceto impiegatizio pubblico, e parte dei ceti medi riflessivi, staccandoli dall’egemonia esercitata dalla borghesia cosmopolita e dal settore dedito alle esportazioni.
Oggi nessun soggetto privilegiato della storia può guidare in esclusiva una transizione al socialismo. E lo stesso socialismo deve essere declinato in modo da consentire una pluralità di vie, integrate nelle comunità territoriali, con le loro tradizioni storiche e le matrici costituzionali. Il socialismo sarà inclusivo, democratico, storicamente e territorialmente radicato, o non sarà.
Il ‘soggetto’ di questa trasformazione non può più essere unilateralmente una frazione qualificata della società. Non può esserlo la vecchia classe operaia ormai frammentata e dispersa; né possono esserlo le “classi riflessive” della nuova economia della conoscenza, spesso in prima fila per la conservazione dei loro declinanti, piccoli, privilegi; né non meglio precisate “moltitudini”, con il loro rifiuto di porre la questione del potere; né le “donne”, quasi fossero una classe a sé stante. Il blocco sociale capace di riaprire il futuro può solo essere una rete contingente di soggetti sociali, sensibili alle diseguaglianze orizzontali e verticali, tra periferie e centri. Quest’aggregazione contingente deve prendere le mosse dai danni creati dallo sviluppo unilaterale della valorizzazione capitalistica, dai luoghi dove le condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi non gode di posizioni privilegiate. È qui che nasce la resistenza da cui partire.
Il punto diventa quindi costruire linee oppositive al capitalismo che passino innanzitutto per i differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. È la divaricazione tra i ‘vincenti’ – che riescono a fare il proprio prezzo e si muovono nei centri geografici funzionali al sistema – e i ‘perdenti’, che il prezzo lo subiscono e stazionano in area periferica – a definire il campo della lotta di classe per un socialismo del XXI secolo. Solo focalizzando su tale frattura si può reggere lo scontro con l’Unione Europea e con quella parte del paese che dell’UE si serve per affermare i propri interessi, spacciandoli per necessità o interesse collettivo.
7) Per un’economia umana
La piena occupazione garantita dev’essere un obiettivo guida, per rovesciare i rapporti di potere contrattuale. Che siano i datori di lavoro privati a dover competere per acquisire i migliori lavoratori, e non questi ultimi a doversi svendere, in una competizione al ribasso fratricida. Bisogna imporre un ‘pavimento’ al mercato del lavoro che non possa venire compresso e salga progressivamente. Tale “pavimento” non può essere il risultato della semplice fissazione legale di un salario minimo, ma è l’effetto di un mutamento dei rapporti di forza nel mercato del lavoro ottenuto grazie ad un forte intervento pubblico di rilancio dell’occupazione attraverso piani di lavoro di ultima o di prima istanza.
Con salari e diritti crescenti il capitale, pubblico e privato, sarà costretto a investire in tecnologia, innovazione e qualità. In quest’ottica la Pubblica Amministrazione deve essere messa nelle condizioni di funzionare adeguatamente, svolgendo il ruolo di occupatore di Prima Istanza, con assunzioni massicce e quanto mai necessarie, oltre a quello di riserva di buona occupazione transitoria, come parametro per l’intero mercato del lavoro.
Un robusto pool di imprese di stato, nei settori strategici e a vocazione monopolistica, dovrà rianimare il modello di economia mista che ha fatto la fortuna del nostro paese, e che si sta affermando imperiosamente nelle economie in crescita egemonica nel mondo (Cina in primis). Il rafforzamento della domanda aggregata interna potrà riattivare lo spirito dei lavoratori italiani, rianimando le periferie depresse, e spegnendo le lotte tra ultimi e penultimi. Il ripristino del controllo sui movimenti di capitale con la sua subordinazione alla funzione sociale, la demercificazione del lavoro e della natura, la cura, il sostegno e la protezione ai piani di vita di ciascuno, la capacità costituente esercitata dal basso e dalle periferie sono i capisaldi del socialismo che cerchiamo.
Questo modello va a fornire un incremento di domanda anche al commercio mondiale, che in questo modo troverebbe nuove risorse e fattori di crescita sufficienti per essere basato su rapporti equilibrati fra aree e paesi. Sarebbe superato il tentativo odierno di operare un abbattimento tecnocratico, e ad ogni costo, di ogni frontiera per trovare i mercati e la domanda di beni che nel frattempo si è perduta abbattendo il salario, a partire da quello europeo. Anche e soprattutto per questa via passa il riequilibrio fra apertura democraticamente vagliata dei mercati e sovranità democratico-costituzionale. Solo per questa via è proponibile qualunque idea reale e non mistificata di internazionalismo.
In questo quadro un rilievo particolare dovrà essere dato alla “questione ambientale”, che lungi dall’essere una moda passeggera, rappresenta un orizzonte decisivo per le sorti dell’umanità futura. La pulsione alla competizione anarchica, sotto regime capitalistico, rende inevitabile una costante devastazione degli equilibri ecologici e organici. Emergerà perciò con sempre più chiarezza la necessità di superare questo modello di sviluppo autodistruttivo. Il socialismo, come subordinazione del mercato a politiche democratiche e finalità umane, è la forma dell’unica soluzione possibile. L’antico slogan “socialismo o barbarie” dovrebbe oggi essere declinato in “socialismo o collasso ecologico del pianeta”.
8) Per il perseguimento dell’interesse nazionale in un’ottica multipolare
Puntare su di uno sviluppo del mercato interno mostra il sovrapporsi di interesse nazionale e interesse di classe. Aumentare le opportunità dei lavoratori e delle imprese italiane, e ridurre la dipendenza dalle esportazioni, rappresentano insieme una conquista di indipendenza geopolitica e di benessere sociale. Oggi più che mai c’è la necessità di un forte settore pubblico dell’economia, capace di riequilibrare i rapporti di forza tra lavoro e capitale, e di rilanciare il ruolo dell’Italia in una direzione geopolitica multipolare. Senza coltivare avventure imperiali o neocoloniali, ma anche senza diventare una zattera alla deriva nel mediterraneo.
Nonostante in Occidente tutti facciano finta di non accorgersene, il bipolarismo della Guerra Fredda è finito da trent’anni. È ora di aggiornare le nostre priorità e smettere di reiterare le costanti storiche della nostra politica estera: l’irrilevanza nel dibattito interno e l’affidamento esclusivo all’alleato forte. Due caratteristiche che entrambe mal si coniugano con la promozione dell’interesse nazionale in un multipolarismo come quello attuale. Mai come oggi gli obiettivi geostrategici dell’Italia differiscono tanto da quelli americani quanto da quelli dei competitors europei.
Se recuperassimo tutti gli strumenti – politici ed economici – che si confanno a uno Stato sovrano, potremmo rilanciare il nostro ruolo di media potenza, con un ritrovato attivismo che – lungi dal ripercorrere tristi esperienze coloniali passate – riesca a valorizzare al meglio la nostra collocazione geografica.
L’Italia ha interesse al sorgere di un mondo multipolare con un nuovo equilibrio internazionale. La subalternità ad un occidente che non riesce a liberarsi del fallimentare modello neoliberale può essere superata solo se si istituiscono relazioni eque con il mondo emergente, e se si valorizza la nostra collocazione nel mediterraneo. Senza rigettare le tradizionali relazioni con il centro europeo e con gli Stati Uniti, solo un multilateralismo che giochi su più tavoli – Africa, Russia, Cina, India, America Latina – può consentire di ridurre la nostra subalternità. Costruire un socialismo per il XXI secolo implica perciò anche difendere il proprio apparato pubblico e le proprie aziende strategiche, incluse quelle militari ed energetiche, dalle altrui mire di dominio.
9) Per un socialismo plurale nel XXI secolo
I socialismi del XXI secolo non dovrebbero essere progressisti più di quanto non siano conservatori. Essi non dovrebbero cioè predicare la convergenza di tutta l’umanità in una forma di sviluppo culturale predefinita. Gran parte dei fallimenti e delle sconfitte del socialismo storico è dipesa da questa ambizione, non troppo dissimile dalle pulsioni uniformanti ed astratte del capitalismo. Bisogna andare oltre i modelli di socialismo storici (previo loro approfondito studio, che rimane cruciale) prestando attenzione alle forme innovative che si sono sviluppate in Cina e nei paesi “bolivariani”. I socialismi per il XXI secolo devono fare buon uso dei mercati, ma impedendo che si saldino in un unico illimitato ‘sistema di mercato’. I mercati sono esistiti ben prima del capitalismo ed esisteranno dopo di esso, né devono per forza avere carattere capitalista. L’istituzione dei mercati può far leva su forme di organizzazione sociale decentrata che si può fondare sullo scambio di surplus tra pari, senza che siano indefinitamente e automaticamente traducibili in un unico metro di valore; va rigettato il modello esemplificato dai mercati finanziari, dove tutto è ininterrottamente mobile, mercificato e liquido in vista di un margine quale che sia di profitto. Rilanciare la tradizione socialista, questa volta ancorandola a forme di vita plurali e rispettose dei propri percorsi, significa liberarsi da un modello che riduca gli scambi sociali alla pratica della domanda ed offerta. Percorsi socialisti plurali, possono consentire l’esistenza di mercati contenuti da una sfera sociale più ampia, rigettando invece la risoluzione del ‘sociale’ nel mercato. L’orizzonte di un socialismo del XXI secolo è dunque quello di comunità in cui l’economia non è sovraordinata alla società ma sottomessa a un controllo pubblico, trasparente, plurale e democratico, comunità capaci di fondarsi sulla creatività, sulla capacità socializzante dell’umano e sulla logica del dono. Essere anticapitalisti significa riconoscere che “il vero è nell’intero” e che l’economico è solo una delle dimensioni della vita, né autosufficiente né auto-consistente.
10) Che fare?
Come diffondere oggi in Italia un autentico progetto socialista? Si tratta di un’impresa difficile perché radicale. Ed è radicale perché non vuole semplicemente riproporre l’intervento statale del passato, ma inaugurare una nuova azione pubblica, evitandone le forme monopolizzate dall’interesse privato dei partiti e dei manager di stato. Che fare, dunque, concretamente? È necessario prima di tutto uno sforzo per acclimatare il progetto socialista in un paese che, pur avendone disperato bisogno, lo teme, essendosi abituato negli anni a pensare in maniera antisocialista. L’Italia ne ha bisogno perché oggi solo l’intervento statale e la proprietà pubblica possono guidare una ripresa. Le sconsiderate privatizzazioni dei decenni scorsi rendono necessaria una radicale inversione di rotta verso la ricostruzione di uno stato capace di direzione politico-amministrativa, e democraticamente controllato. Ma gli italiani oggi temono questo indirizzo, sia per l’aspettativa (mediaticamente coltivata) del malfunzionamento di tutto ciò che è pubblico, sia soprattutto perché la struttura sociale italiana è stata consapevolmente costruita (dalla DC, dal craxismo, dalla “modernizzazione” neoliberista) in modo da ostacolare le concentrazioni operaie e favorire l’impresa individuale o familiare. Da ciò emerge la propensione a vedere nello Stato un protettore occasionale, che però non deve pretendere tasse o dirigere l’economia. Il problema, acuito dal fatto che spesso nella stessa famiglia si intrecciano redditi da lavoro dipendente e redditi d’impresa, non può essere affrontato con leggerezza, perché la microimpresa, con i suoi vizi e le sue virtù, è in ogni caso, e soprattutto in periodo di crisi, fonte di sopravvivenza per numerosissime famiglie.
Questa tensione tra Stato e privato, inevitabile nelle attuali condizioni, dev’essere dislocata verso il sistema del credito (banche, ma specificamente la BCE). La via maestra per la ripresa e per una possibile redistribuzione passa infatti per la monetizzazione del deficit dello Stato, non il rigore fiscale. Il problema dell’infedeltà fiscale deve ovviamente essere affrontato, ma con provvedimenti rivolti ai vertici della piramide sociale, e potrà essere pienamente risolto solo nella scia di una ripresa del paese, distinguendo tra evasione di sopravvivenza ed evasione opportunista. La prospettiva dovrà essere quella di una regolarizzazione progressiva e non traumatica delle microimprese, basata sullo scambio tra lealtà fiscale e normativa dal lato privato, e servizi efficienti dal lato pubblico.
In questa prospettiva, fondamentale giacché riguarda una cultura diffusa nel paese, è necessario costruire una strategia politica che non si limiti a declamare le buone ragioni del socialismo, dell’intervento pubblico, dell’euroscetticismo, ma individui i modi concreti per dar loro corso. L’obiettivo fondamentale non è affatto “l’unità della sinistra” contro la “destra fascista”. La destra attuale non è fascista, anche se ha pericolosi tratti autoritari. E d’altra parte la sinistra non è affatto democratica (anche se molti suoi elettori e militanti lo sono): non lo è perché il suo globalismo sconsiderato ha sottomesso il paese alla dittatura dello spread, perché (come la destra) ha sfasciato la Costituzione del ’48, perché (come la destra) mostra costantemente impulsi censori rispetto all’espressione del dissenso. In queste condizioni, è assai difficile dire se un futuro governo autoritario sia oggi più favorito da istanze di destra o di sinistra.
L’obiettivo fondamentale dev’essere quindi la lotta contro ogni riproposizione del bipolarismo, e dunque anche contro il maggioritario che lo accompagna. Il bipolarismo serve infatti a consolidare la subordinazione del paese attraverso uno scontro fittizio fra due poli, divisi su questioni secondarie, ma uniti dalla fedeltà atlantica ed europea. Ciò vale con tutta evidenza per il polo di sinistra, anche se il M5S dovesse stabilmente parteciparvi. Ma vale anche per il polo di destra, perché ha già dimostrato di alimentare un euroscetticismo di facciata, sostenendo l’irreversibilità dell’euro, e di essere avverso ad ogni rafforzamento dell’impresa pubblica e ad ipotesi di nazionalizzazione. Per rompere il bipolarismo è necessario ricostruire un terzo polo, dialogando con la parte critica dell’elettorato e della militanza M5S, raccogliendo tutte le forze che sono sovraniste in quanto socialiste, ma soprattutto dando espressione a chi da decenni non ha rappresentanza politica: la vasta e frammentata classe dei lavoratori subordinati, dei precari, dei disoccupati.
Un tale terzo polo non può nascere attorno alla mera parola d’ordine negativa dell’Italexit. L’evidente balbettio dei sedicenti sovranisti gialloverdi di fronte all’Ue, le convulsioni della Brexit, la presa nell’opinione pubblica del ricatto dello spread, rendono difficile – salvo brusche accelerazioni della crisi europea – aggregare consensi decisivi, solo ponendo al centro la prospettiva dell’uscita dall’UE. Tenendo ferme le ragioni per un’uscita dai trattati, bisogna innanzitutto accumulare le forze su espliciti contenuti positivi (più stato, piena occupazione, mercato interno, Sud…). Per farlo lanciare un programma che indichi l’uscita come condizione della propria piena realizzazione, ma che sia articolato in obiettivi intermedi parzialmente perseguibili anche in ambito UE.
• In questa prospettiva Nuova Direzione deve impegnarsi a:
I. Ribadire una dura critica all’Unione europea, sviluppando su ciò attività di formazione e controinformazione, anche in connessione con altri soggetti.
II. Costruire progressivamente un programma socialista per il paese, articolato in obiettivi di fase concretamente perseguibili. Qui l’elaborazione concettuale deve accompagnarsi alla costruzione di alleanze politiche con soggetti collocati criticamente nei diversi partiti, nell’apparato dello stato, nel mondo delle imprese e del sindacato, nei luoghi di maggiore conflitto sociale.
III. Inserirsi in tutte le esperienze di conflitto che esprimano un netto dissenso verso la situazione generale del paese e verso le politiche di indebolimento delle condizioni dei lavoratori: crisi industriali, regolarizzazione dei precari, contrasti tra banche e debitori, e così via.
IV. Promuovere, o comunque intercettare, quei conflitti con radicamento territoriale in cui si presenti una lotta fra centro e periferia, Hinterland contro città, Sud contro Nord e così via. Il fine non è disgregare, ma riaggregare su nuove basi ciò che si sta irrevocabilmente frammentando. Il fine è presentarsi come movimento per l’unità d’Italia: unità fra i suoi diversi lavoratori, fra questi e le piccole e medie imprese, fra tutti i territori che il neoliberismo italiano, rappresentato dalla sinistra come dalla destra, mette in infinita competizione a solo vantaggio del capitalismo e dell’Unione Europea.
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TESI AGGIUNTIVA
I nodi storici d’Italia: classi, Stato, sovranità
Nei momenti di crisi e difficoltà emergono le caratteristiche di fondo di un paese. La storia non dimentica, i nodi vengono al pettine. Quello che siamo ora è scritto nel percorso. Per questo, al fine di prescrivere una terapia, sono necessarie un’anamnesi e una diagnosi.
Il parto della nazione italiana è stato complicato. Fra le opzioni che si sono confrontate nell’intento di unificare l’Italia, alla fine ha vinto quella sabauda, anche grazie alla tattica cavourriana che si muoveva fra le potenze del tempo sfruttandone i conflitti. La vittoria dell’opzione monarchica ha comportato l’imposizione dello Statuto Albertino e del modello statale piemontese, senza alcun passaggio costituente, e ciò anche a causa della debolezza politico-programmatica delle correnti democratiche e dello stesso garibaldinismo. Sono state unificate in modo repentino realtà sociali, modelli istituzionali e monete diverse. Così l’Italia è nata da subito affetta da condizioni di squilibrio. L’unificazione, costruita con una mobilitazione contraddittoria delle masse, allora in gran parte contadine, e delle varie borghesie, ha prodotto il rifiuto del nuovo Stato in varie parti del paese, rifiuto sollecitato dalla reazione borbonica, dal clero e, all’inizio, anche dai più coerenti fra i repubblicani e garibaldini. La Chiesa, allora unica “forza nazionale”, dopo l’occupazione dei territori pontifici e la presa di Porta Pia, è stata all’opposizione del nuovo Stato, fino ai Patti Lateranensi.
Da questa modalità di unificazione nasce la questione meridionale. La questione agraria, in particolare, non è mai stata un punto centrale nel processo di unificazione per le forze repubblicane egemonizzate da ceti intellettuali borghesi e piccolo borghesi. Il fascismo utilizzò le masse contadine in maniera del tutto subalterna e reazionaria. Da queste modalità di unificazione nasce anche il sentire lo Stato come esterno, quando non avverso. Priva dell’ancoraggio di un’appartenenza forte, di istituzioni solide, e di una vera classe dirigente nazionale, l’Italia ha manifestato tratti di incertezza fin dalle origini.
La partecipazione delle masse cominciò a mutare le cose con il nascere del movimento socialista. Un primo risultato politico di questo mutamento sarà il suffragio universale maschile nel 1912.
L’entrata guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale evidenziò la gracilità del nuovo Stato dal punto di vista militare e di coesione sociale. La larga insoddisfazione popolare seguita alla guerra e i conflitti che ne derivarono comportarono una dura reazione delle classi agrarie e industriali e della monarchia, nell’assenza di politiche adeguate da parte delle opposizioni. La nazionalizzazione delle masse da parte del fascismo e il sovrapporsi dello Stato fascista a quello monarchico furono solo in grado di sopire gran parte dei problemi o di celarli fino a che la guerra non portò il paese allo sgretolamento.
L’8 settembre segnò così la fine ingloriosa di un altrettanto inglorioso periodo, assestando un colpo mortale al sentimento nazionale. L’indebolirsi dell’idea di nazione ha intaccato tanto l’idea dell’autonomia che il valore attribuito all’interesse generale. Esito della sconfitta furono anche la perdita di rango nel consesso internazionale (un rango che era peraltro soprattutto una finzione) e la subalternità, che dura tutt’oggi, agli USA.
La Resistenza rappresentò tuttavia un correttivo a questa condizione. La presenza di forze antifasciste che si erano formate nell’esilio e nella clandestinità consentì di portare il paese alla transizione verso la Repubblica e all’elaborazione della Costituzione, e di non farlo divenire un protettorato anglo-francese. La Resistenza, unico riscatto del popolo italiano, prima ancora che tradita fu troppo breve e troppo circoscritta territorialmente per incidere in maniera duratura sul profilo della Repubblica. E già durante i lavori della Costituente si inaugurava la subordinazione della politica italiana agli Usa. La Costituzione, del resto, fu un obiettivo quanto mai alto se si constata quanto marginalmente era prevalsa nel referendum la scelta della Repubblica, a testimonianza di come fosse ancora forte la resistenza conservatrice delle classi borghesi, della Chiesa e anche di parti consistenti delle classi popolari, contadine in particolare.
Così lo spirito e la lettera della Costituzione (la centralità del lavoro, il ruolo dello Stato finalizzato a rimuovere e a promuovere diritti ed uguaglianza, l’economia mista, la finalizzazione dell’impresa privata all’interesse generale), vennero contraddetti dal ruolo centrale assunto dagli esponenti liberisti (in primo luogo Einaudi) e dal permanere di personale fascista nei ranghi dello Stato, mentre ne venivano espulsi molti membri di origine antifascista. Ciò garantì, almeno inizialmente, una significativa continuità sia con il regime monarco-fascista che con precedente Stato liberale.
La Costituzione del ’48 non ebbe dunque modo, per ragioni interne ed internazionali, di attuarsi completamente. Ma, anche grazie alla sua promulgazione, le forze sociali e le tendenze culturali di cui essa era espressione non potevano più essere escluse dall’agone politico: ed è per questo che essa costituì lo scudo del pur relativo avanzamento dei ceti popolari degli anni ’60 e ’70, e, in quanto tale, fu sottoposta ai più duri attacchi. Se il primo periodo del centro sinistra sembrò iniziare ad attuare alcuni dei dettami della Carta, negli stessi anni e in seguito si poté assistere a una serie di assalti, politici, militari, istituzionali alla logica costituzionale.
Quegli assalti, che andavano dai minacciati golpe allo stragismo, dall’uccisione di Moro alle trasformazioni derivanti dall’ingresso del paese nell’Ue, culminarono nella Seconda Repubblica, inaugurata dall’ambigua stagione di “Mani Pulite”. E non è un caso se chi lasciò che Moro fosse ucciso, dimostrando quanto limitata fosse la nostra sovranità, fu anche artefice di una sottomissione della costituzione ai dettami di Maastricht.
Ciononostante, la presenza egemone nella Resistenza di forze politiche non-liberali se non addirittura anti-liberali permise che la sopravvivenza post-bellica – aspramente combattuta dalle forze liberali - dell’IRI, creata dal regime fascista per affrontare le conseguenze della Grande Depressione del ’29, diventasse il perno del decollo italiano (il cosiddetto ‘miracolo’, che avvenne con tassi di crescita ‘cinesi’) che cambiò drasticamente, si può dire per la prima volta nella storia italiana, le condizioni di vita materiali di ampie masse di popolazione.
Il mondo liberale che aveva mal sopportato la permanenza dell’IRI, nonché il predominio dei partiti di massa, aspetti che aveva continuamente combattuto nel dopoguerra, iniziò già dagli anni ’70 una violenta controffensiva. Approfittando della crisi politica di fine ’70, riuscì a imporre un passaggio del paese sotto il ‘vincolo esterno’ europeo con l’ingresso nello SME che, ulteriormente rafforzato dal divorzio Bankitalia-Tesoro, preluse allo smantellamento dell’IRI e quindi alla demolizione delle condizioni politiche della crescita economica del paese, riportando la gestione economica complessiva nelle mani di quelle forze liberali che se ne erano sentite limitate dalla Resistenza, dalla Costituzione e dai partiti di massa.
Infatti, la seconda repubblica è stata, in realtà, una sorta di golpe continuato contro la Costituzione, e il popolo italiano, consentito dai Presidenti della Repubblica, dalla Corte Costituzionale, dai partiti “contro-riformati”. È stata la repubblica “della società civile” e non più delle classi, del “cittadino-consumatore” e non più del lavoratore. La repubblica senza ideologie, tranne il liberismo. La seconda repubblica ha vissuto, e così è tutt’ora, in un’orgia di leggi elettorali rapidamente cambiate per favorire questo o quello, di liberalizzazioni e privatizzazioni, di riduzione dei diritti del lavoro, blocco dei salari, disoccupazione a due cifre, povertà, diseguaglianze, assorbimento subalterno dei sindacati, modifiche al titolo V che frantumano il paese e preludono a richieste di disunioni ulteriori (come l’autonomia differenziata). Ha partecipato a guerre destabilizzanti condotte per “esportare la democrazia”, ossia a guerre di occupazione per l’egemonia mondiale dell’occidente e del suo paese guida, gli Usa. Fino ad arrivare al masochismo di una guerra alla Libia voluta da nazioni concorrenti quali Francia ed Inghilterra, dopo che solo qualche tempo prima si era siglato un accordo storico con la Libia stessa. La partecipazione a questa guerra è stato un tradimento, oltre che della Carta, anche dell’interesse nazionale.
L’adesione all’Unione europea ha aggravato la subordinazione del paese. Oltre agli Usa ora ci si è subordinati alla finanza, ai mercati, ai paesi europei più forti politicamente o economicamente. La classe dirigente italiana ha pensato di poter così governare con il vincolo esterno le recalcitranti classi popolari italiane. La garrota dell’Unione e dell’euro comportano un declino continuo sul piano sociale, economico, culturale, democratico.
Stando così le cose, non stupisce che il paese dia sempre maggiori segni di scollamento. Tutto sembra crollare ma nessuno appare responsabile di alcunché. Il paese sta perdendo il senso di appartenenza ad una storia. Siamo fra le nazioni con il maggior grado di diseguaglianza, la giustizia è sempre più lenta, e meno cieca di quanto dovrebbe, la corruzione dilaga. Si sente la mancanza di uno Stato che, in realtà, in Italia non è mai “stato”. C’è una crisi conclamata delle élite.
Tutto ciò crea insicurezza, rancore, rabbia che però restano a livello individuale. La rabbia non prende la strada del conflitto, della lotta. Un tempo ci si rivolgeva alla sinistra per risolvere i problemi: ora non più. La cosiddetta sinistra è parimenti colpevole dello stato di cose presente. Ai cittadini non sembra rimanere altro che la protesta elettorale. E questo accade proprio quando la democrazia (e con essa le elezioni) è sempre più una finzione, in quanto le decisioni vengono prese altrove: da Bruxelles o dai “mercati”. Milioni di cittadini ad ogni votazione vagano da partito a partito alla confusa ricerca di protezione, ordine, cambiamento. Non è dunque un caso che il paese rimanga inquieto, conflittuale. I lavoratori e le masse non sono assopiti, anche se non sanno bene cosa fare: viviamo una continua transizione verso il nulla. L’Italia si presenta come una pentola in continua ebollizione che sembra non scoppiare mai.
Questo stato di cose impone di andare alla radice dei problemi: è tempo ormai di riconquistare la sovranità nella politica interna ed estera, conformemente ai principi costituzionali e all’interesse nazionale. La seconda guerra mondiale è finita da settant’anni, e l’abbiamo ormai pagata abbastanza! Del resto, l’Alleanza atlantica, già discutibile negli intenti originari, alimenta oggi conflitti e aggressioni su vasta scala, divenendo così seriamente controproducente per gli interessi nazionali e popolari. Lo stesso discorso vale per l’Unione Europea, dove gli interessi internazionali di Francia e Germania non sono affatto coincidenti con quelli dell’Italia.
L’interesse nazionale del popolo italiano richiede una neutralità attiva e funzionale alla pace, in particolare nel Mediterraneo. La globalizzazione e il liberismo, la competizione di tutti contro tutti, hanno fallito: serve più Stato, lo Stato della Costituzione. forte contro i forti. Servono programmazione, controllo dei capitali, delle merci e delle persone per una buona e piena occupazione, affinché i lavoratori non siano merce ed il lavoro non sia tortura ed usura. Serve una nuova idea di società e una nuova idea di economia e di rapporto con l’ambiente. Un’economia per la società e non una società per l’economia.
La risposta a tutto ciò può ancora essere trovata nella Costituzione del 1948. La Costituzione non è dietro di noi. Essa è un obiettivo che ci sta davanti, per cui è necessario costruire un popolo e uno Stato. A tal fine serve una memoria storica che ci ricordi le lotte che, dalla Resistenza agli anni ’70 e oltre, hanno tentato di costituire pienamente la nazione, le reazioni antipopolari e antinazionali delle classi dominanti, le circostanze che fanno sì che oggi l’interesse nazionale, l’interesse ad avere una nazione sovrana e capace di crescere nella pace, coincida ormai con quello delle classi subalterne. A tal fine servono nuove culture politiche, nuovi partiti capaci di riprendere il cammino e ricucire i fili che la regressione degli ultimi decenni sembra aver reciso.
alcuni commenti
Roberto BuffagniAndrea Zhok Senz’altro. A me non dà fastidio Marx, che è un pensatore di prim’ordine. La zavorra viene dopo, con il marxismo e con la sua decadenza, sia teorica sia politico-effettuale. Poi naturalmente ciascuno ha il suo bagaglio. La strada è lunga, i rifornimenti scarsi, il clima inospitale, e quindi vedrai che tanta parte del bagaglio che ciascuno si porta nello zaino andrà scaricato a lato strada 🙂
Andrea ZhokRoberto Buffagni Anch’io credo che in un senso antropologico primario il confronto sia tra individualismo liberale e comunitarismo. Tuttavia il comunitarismo non può sopravvivere senza una cornice statale compensativa delle dinamiche pervasive del mercato, e solo nella tradizione marxiana ci sono gli strumenti per operare quella compensazione. (Se il comunitarismo si riduce a chiacchiera, come invocazione alla ‘comunità’ e alla ‘famiglia’ senza far seguire nessuna politica strutturale che arresti i processi di disgregazione liberal-capitalistici, allora è solo fuffa: persino Blair e Reagan sono stati detti ‘comunitari’ in questo senso esteriore.)
Roberto BuffagniAndrea Zhok Il socialismo non implica l’adesione al marxismo né alla vicenda storica della II Internazionale, su questo non ci piove. La contrapposizione teorica basilare è fra individualismo liberale e comunitarismo (varie forme e declinazioni possibili di – ). Farlo capire a molti se non tutti non è facilissimo però.
Andrea ZhokRoberto Buffagni Beh, direi che nel mondo prossimo venturo ci sarà la scelta tra essere prosciugati da potenze maggiori o giocare le proprie carte con i relativi rischi. Non vedo altre opzioni.
Quanto al tema del ‘socialismo’, l’adozione del termine è stato oggetto di discussione, proprio per la consapevolezza dei problemi connotativi del termine. Oggettivamente e concettualmente è il termine più difendibile, proprio per la sua storia plurale (il socialismo è alla base di Gramsci come di Sombart, per intenderci). Nel tempo vedremo come sviluppare l’uso del termine o se trovare altri riferimenti espressivi meno problematici.
Roberto BuffagniAndrea Zhok Sì, certo, il multilateralismo è una grandissima occasione per una media potenza come l’Italia. Bisogna essere molto bravi però, c’è anche da farsi tanto male.
Andrea ZhokRoberto Buffagni La risposta è il multilateralismo. Anche se la Cina non è l’URSS, un gioco di sponda con la Cina (e magari anche la Russia) potrebbero consentire margini di manovra non troppo dissimili da quelli del secondo dopoguerra.
Roberto BuffagniMolte buone cose. Obiezioni a prima vista: 1) se nel blocco sociale antiUE non ci stanno anche i capitalisti “nazionali”, cioè quelli che hanno bisogno di un aumento della domanda interna e di una politica di investimenti pubblici, si va poco lontano. Se il problema politico da risolvere è l’indipendenza d’Italia (e lo è) il blocco sociale che lo persegue deve essere interclassista. Individuare come nemico principale “il capitalismo” è esatto sul piano teorico, sbagliato sul piano politico perché nessuno può proporsi politicamente, cioè in termini di obiettivo strategico effettualmente perseguibile e raggiungibile, una vera e propria uscita dal sistema capitalistico, cioè a dire una rivoluzione dell’ordine di grandezza della russa 1917 2) capisco che non ci siano altre parole a disposizione per quel che volete intendere, ma parlare di “socialismo” quando nessuno sa di preciso che cosa sia è un suicidio comunicativo. Segnalo che per una larga parte della popolazione la parola “socialismo”, che viene intesa come un eufemismo per “comunismo” a meno che non sia identificata con l’esperienza craxiana, si associa a a) esperimento storico totalitario e fallito b) miseria, prepotenza burocratica, niente che funzione c) egalitarismo demenziale, sindacalismo oppressivo, tasse insopportabili d) per concludere, la reazione emotiva alla parola “socialismo” è uguale e contraria alla reazione emotiva alla parola “fascismo”. in entrambi i casi il rapporto tra reazione emotiva e realtà effettuale è tenue, perché offuscato e distorto da settanta anni di uso strumentale dell’antifascismo & dell’anticomunismo, ma in politica le reazioni emotive contano eccome 3) la Costituzione del 1948 ha molti pregi, ma non è replicabile a piacere la situazione geopolitica che la consentì. Il lavorismo e il keynesismo della Costituzione prevedono l’esistenza in vita dell’URSS, in ragione della quale il sistema capitalistico e le potenze a guida USA furono costrette a cercare vaste alleanze, a impedire che los pueblos d’Europa diventassero comunisti, e in generale a presentarsi come alternativa più efficace e umana al sistema comunista. Sintesi: il comunismo fu un’idea radicalmente sbagliata, ma l’esistenza dell’URSS fu un’ottima cosa per l’effetto di bilanciamento e limitazione che conseguì. 4) Non è esatto parlare di “neutralità in vista della pace”, perché è sempre “in vista della pace” che si fanno le guerre (bisogna solo vedere che pace). La neutralità è un obiettivo strategico che personalmente condivido, ma al sostantivo “neutralità” va aggiunto l’aggettivo “vigile”, in soldoni: bisogna armarsi di più, non di meno, perché si vis pacem (la TUA pace) para bellum. Non commento la sintesi storica perché non voglio eccedere in lunghezza. Troppo difficile trovare una sintesi accettabile in poche righe.
Andrea GalassoRoberto Buffagni, sì, ma quello che dico è: cosa ci farebbero gli USA concretamente se provassimo a rilanciare le summenzionate politiche di welfare? In che modo si attiverebbero per impedirlo? E perché?
Siamo sicuri, peraltro, che sia stata proprio l’esistenza dell’URSS che impediva il neoliberalismo, e magari non altre cause strutturali afferenti alla dialettica interna del capitalismo?
Roberto BuffagniAndrea Galasso Perchè l’URSS non è crollata in seguito alla ricezione di una raccomandata a.r., mittente “Eredi di Keynes”, che annunciavano la scomparsa del caro estinto. E’ crollata per tante ragioni , in buona parte endogene. Premessa la mia pittoresca ignoranza in materia economica: volevo soltanto rilevare un fatto storico, questo: che il welfare state del secondo dopoguerra, e l’illuminata politica non solo economica statunitense (v. rifiuto del piano Morgenthau e varo del piano Marshall) è motivata anch’essa da molte cose (tra le quali anche il dibattito accademico in materia economica) ma senz’altro da una Cosa grossa come una casa, cioè il bisogno degli USA di cercare vaste alleanze e consensi in Europa e nel mondo; alleanze e consensi che dipendevano, in larga misura, dalla possibilità di garantire sicurezza e buon tenore di vita alle popolazioni sconfitte d’Europa. Gli americani hanno condonato pressoché in blocco il debito tedesco post IIGM, e grazie a questo condono la Germania non solo ha decollato economicamente, ma si è schierata compatta (nella sua porzione occidentale) a favore degli USA e del capitalismo liberale, e contro il comunismo e l’URSS. Ora, l’URSS e il comunismo non ci sono più, è crollato il celebre Muro di Berlino, e gli USA sono stati travolti da una ventata di hybris con pochi precedenti nella storia, che gli ha fatto pensare di poter essere non l’egemone mondiale, ma il vettore di una riconfigurazione del mondo totale nella quale ci fosse posto solo per il proprio modello di vita. Che fosse una cazzata si poteva capire anche subito, ma ci hanno provato lo stesso. Il risultato è l’oggi di cui parliamo.
Roberto Buffagni
Noterella militare. Il problema strategico è molto semplice: conformare lo schieramento cioè il sistema di alleanze + la struttura di comando e controllo al conflitto principale, che NON è destra/sinistra, e neanche capitalismo/proletariato, ma mondialismo/nazionalismo + individualismo /comunitarismo. Sul piano operativo (=soggettività politica) la traduzione del problema strategico è: alleanza Stato-Lavoro, dove “Lavoro” comprende anche un settore, il più possibile ampio, delle imprese (in particolare quelle che si basano sul mercato interno e hanno bisogno di rilancio della domanda interna + pianificazione economica statale) , e “Stato” indica anzitutto le prerogative “régaliennes” dello Stato, quelle che hanno la forza sufficiente a bilanciare e contrastare le pretese di direzione politica che si arroga il settore economico (“Ministeri della forza”). L’avversario principale è PIU’ avanti nell’opera di riconversione e adeguamento al conflitto principale dello schieramento (esemplare l’esperimento Macron), noi siamo più indietro. Se non si risolve il problema strategico dello schieramento e del sistema di alleanze si perde, se si risolve si vince. Il conflitto interno al campo antimondialista che si avvita intorno ai temi destra/sinistra, fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo, incapacita la formazione dello schieramento strategicamente corretto. Se si sbaglia la strategia, nessun successo tattico avvicina alla vittoria, salvo errori strategici decisivi dell’avversario, sui quali è meglio non contare perché esso è più forte e coeso. Raccomandabile essere pronti a fornire risposte adeguate e progettazione credibile per il momento in cui verranno al pettine gli errori strategici compiuti dalle forze politiche (provenienti sia da destra sia da sinistra) che sinora hanno interpretato (male) il “sovranismo”, cioè il coacervo delle opposizioni, variamente motivate e consapevoli, al mondialismo. Le suddette forze hanno sbagliato e continuano a sbagliare, tutte, le scelte strategiche fondamentali, e dunque nel giro di due.- tre anni cominceranno a perdere in modo vistoso (“perdere” può essere declinato come vera e propria sconfitta elettorale oppure come “vittoria con le idee degli altri”, ossia adeguamento di fatto alla linea dell’avversario). Finché l’errore strategico e la conseguente sconfitta non sarà chiara a molti se non tutti, non ci saranno spazi di azione politica efficace (=capacità di accedere al governo+sapere che farne). Quando l’errore strategico sarà manifesto, ci sarà spazio di azione e direzione politica. Imprevedibile, ora, con quale strumento la “azione e direzione politica” potrà esercitarsi.
La fase di incipiente multipolarismo sta evidenziando sempre più la precarietà e la volatilità del sistema di relazioni internazionali. L’evidente squilibrio di forze esistente ancora tra i vari poli evidenzia ancora una volta come non esista in realtà un diritto internazionale così come lo si intende all’interno della area di giurisdizione degli stati; gli ultimi avvenimenti in Medio Oriente, legati all’uccisione del generale Soleimani, evidenziano come gli atti politici spesso e volentieri non si premurano nemmeno di assumere una copertura giuridica e di legittimità_Buon ascolto_Giuseppe Germinario