DUE APPUNTATI E DUE STUDENTESSE, di Antonio de Martini

L’argomento è delicato e si presta alle più svariate strumentalizzazioni. L’affare Weinstein negli USA e Brizzi in Italia ha ridato vita a una campagna isterica e scandalistica sugli abusi sessuali ai danni delle donne. Il campionario delle accuse va dall’abuso violento, al mercimonio tra sesso e carriere, sino alle avances troppo invadenti e a quelle appena accennate. Weinstein ha più volte ventilato che a tempo debito pubblicherà i testi di messaggi e dichiarazioni con l’obbiettivo di riequilibrare in qualche maniera il rapporto tra vittime e carnefici delineato grossolanamente nella campagna mediatica. L’epilogo naturale di tanta acredine non è soltanto la condanna e la giusta persecuzione dei casi di abuso concreto, ma l’estensione agli estremi della casistica di abuso stesso sino alla stesura di decaloghi, poi di comandamenti e poi di leggi di morale e salute pubblica per l’applicazione delle quali non mancheranno certamente i Savonarola di turno dediti alla missione. Nel frattempo anche questo “argomento” si presta ad essere uno strumento efficace per liquidare e neutralizzare avversari nella vita civile e nel confronto politico.

Chi nel proprio lavoro, specie se prossimo ai luoghi decisionali, non ha assistito oltre a soprusi vili a carriere miracolose e vergognose legate a curricula con referenze legate alle capacità “seduttive”?

Tralascio anche le conseguenze soprattutto nefaste ed inibitorie, spesso opportunistiche che l’affermazione di questi codici moralistici stanno avendo nel rapporto affettivo tra i ragazzi dei due sessi. Sarebbe un discorso troppo complesso per l’economia di questo articolo.

Non sono mancate comunque iniziative di buon senso.

L’appello firmato, tra gli altri, da Catherine Deneuve ne è un esempio  https://www.ilfoglio.it/societa/2018/01/10/news/appello-monde-deneuve-172508/

La reazione appare però ancora inadeguata.  

La vicenda di settembre scorso con i due carabinieri protagonisti in divisa di prestazioni sessuali con due turiste americane alticce si inquadra in questo clima. Nel caso più favorevole ai militi, l’episodio denota comunque un comportamento a dir poco riprovevole e meritevole di sanzioni. Il caso peggiore, però, quello di violenza, vien dato per scontato sia dall’iniziale campagna di stampa, sia, fatto preoccupante ma prevedibile vista la statura del personaggio, dallo stesso Ministro Pinotti, dimentica del necessario equilibrio richiesto dalla sua funzione. Ora cominciano a circolare i primi verbali degli interrogatori riguardanti la vicenda e con essi i dubbi sulle versioni e le preoccupazioni sull’influenza che un clima di caccia alle streghe può esercitare sull’orientamento dei giudici. Da qui il commento sagace di Antonio de Martini. Buona lettura, Giuseppe Germinario Tratto da facebook

 

I DUE APPUNTATI E GLI INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO.

Sarebbe forse meglio dire i due allupati, ma il processo ai due carabinieri ( non si dice più militari dell’Arma, perché adesso sono diventati Forza Armata), rischia di assomigliare a quello dei due marò che furono vittime, non difese, di una campagna nazionalista indiana, come costoro rischiano di essere sacrificati sull’altare del femminismo isterico americano non garantiti da un giudice imparziale.

Leggendo il resoconto dell’interrogatorio di una delle due querelanti sul Corriere della Sera raccontato da una donna, ho tratto l’impressione – più di una impressione- che il giudice abbia preso le parti della americana chiamata sul banco dei testimoni, ma questo è un problema della difesa.

Cerco di fare un discorso generale. Esistono tre tipi di rapporti sessuali:

a) consensuale , in cui entrambi i partecipanti ci danno dentro con entusiasmo. Chiaro.

b) Stupro: in cui uno dei due, generalmente il maschio, usa o minaccia una qualche forma di violenza. Chiaro.

c) tra i due tipi di rapporto c’è una terza zona che possiamo definire una ” no men’s land”, una zona grigia, che risulta irta di trappole e mine. Ma che non è stupro. È complicato.

La vicenda che si sta valutando a Firenze, è certamente un rapporto del terzo tipo.

La ragazza interrogata tra mille divieti posti da un giudice iperprotettivo, ha ammesso che ricorda di essersi baciata, fatta togliere il top è poi “essersi sentita debole” e ” non ricordare più nulla” tranne che fu oggetto di sesso penetrante che non avrebbe voluto avere. Ma non ricorda se lo disse.

Alla domanda ” se non ricorda, come fa ad essere sicura dell’avvenimento?” ha risposto di ” aver sentito un fastidio lì.” Ha aggiunto, con singolare capacità mnemonica selettiva, che si sentiva intimorita dal fatto che il militare avesse un’arma.

Ma fu lei, l’americanina (41 anni, studentessa di che?) a chiamare i carabinieri alla discoteca per sentirsi protetta proprio da quell’arma?
Fu lei a dare il proprio numero di telefono ( esatto).

Il giudice ha impedito di fare la domanda se portasse o meno le mutande.

Un vero peccato.

Qui sotto il link con il resoconto dell’interrogatorio

http://27esimaora.corriere.it/18_febbraio_13/trova-sexy-divise-domande-choc-aula-due-ragazze-stuprate-a2853158-1103-11e8-ae74-6fc70a32f18b.shtml

Qui sotto l’intera trascrizione dell’articolo:

 

Il triangolo imperfetto_Un anno di Trump_19° podcast, di Gianfranco Campa

Ad un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca si può tentare un primo bilancio della azione di Donald Trump. Gianfranco Campa, all’inizio del suo intervento, ci rivela le fondamenta e le ragioni di interesse che consentono l’instabile equilibrio tra il Presidente, il vecchio establishment neoconservatore repubblicano e l’imprescindibile elettorato più militante e critico verso la vecchia guardia. La definitiva defenestrazione di Bannon, grazie anche ai suoi incredibili harakiri, ha spianato la strada ad un accordo, per quanto difficoltoso, sulla politica interna che ha consentito di portare avanti buona parte del programma presidenziale già dal primo anno di insediamento. Un dinamismo i cui risultati stanno incrinando le certezze di vittoria del Partito Democratico Americano alle prossime elezioni congressuali di medio termine.

Molto più controverse e contraddittorie risultano essere le linee di politica estera. Appare insolitamente evidente l’esistenza di più canali diplomatici e di diversi centri strategici in diretta competizione tra loro e su linee divergenti e contraddittorie; come pure l’esistenza di canali alternativi di comunicazione con i competitori geopolitici non corrispondenti ai canali ufficiali. Una fase nella quale le logiche apparenti stridono con quelle più profonde e riservate. Un chiaro indizio che l’equilibrio faticoso e precario in questo ambito coinvolge forze molto più potenti e temibili in una condizione molto più sfavorevole rispetto alle intenzioni dichiarate da Trump nella sua campagna elettorale. Su questo piano si riscontreranno i maggiori effetti della defenestrazione di Bannon. Antonio de Martini, nel post precedente pubblicato su questo sito, ha rivelato con particolare perspicacia l’essenziale della reale posta in palio riguardante l’uso “del bottone più grosso” http://italiaeilmondo.com/2018/01/14/il-bottone-piu-grosso-di-antonio-de-martini/ . Si profila un equilibrio tra poteri, soprattutto dello stato profondo che sembra concedere qualcosa di significativo sul piano interno in cambio di una “armonizzazione” maggiore delle intenzioni trumpiane con i canoni classici della politica estera e della diplomazia americane. Sono comunque equilibri dinamici che non consentiranno comunque il ritorno allo “statu quo ante” sia per il rafforzamento progressivo degli altri attori geopolitici, ad eccezione ahimè degli stati europei, che per i diversi assetti interni alla potenza tuttora prevalente. Sta di fatto che anche su questo piano, la tattica de “l’America first” con l’indebolimento dell’approccio multilaterale e la rinegoziazione su base bilaterale dei trattati con gli USA sta modificando pesantemente e in maniera duratura le modalità e i contenuti delle relazioni internazionali. A prescindere dal suo esito tutt’ora incerto, penso che ricorderemo per tanto tempo questa presidenza. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-1

MARE NOSTRUM_UNA CHIOSA A “UN PIVOT MEDITERRANEO PER L’ITALIA”_ GIUSEPPE GERMINARIO

Qui sotto il link di un articolo decisamente interessante, apparso sulla rivista Eurasia, riguardante una possibile ricollocazione geopolitica dell’Italia che consentirebbe una maggiore autonomia di azione senza necessariamente rimettere radicalmente in discussione l’attuale sistema di alleanze incentrate sulla Unione Europea e sulla NATO. Il fulcro dell’azione politica, in sostanza, dovrebbe volgersi verso il Mediterraneo e verso l’Africa nel vicinato prossimo e verso l’Asia, la Russia e la Cina in quello lontano. E’ indubbio che, pur all’interno dei pesanti vincoli di subordinazione ed alleanza, ci siano margini di agibilità che la nostra classe dirigente nemmeno sogna di utilizzare. L’esempio positivo della Turchia, per altro, mi pare fuorviante; come pure quello della Polonia, giacché l’Italia gode, a dispetto della presunta perifericità del paese, della stessa attenzione strategica da parte delle potenza dominante. La condizione di frammentarietà e debolezza politica ed istituzionale difficilmente consentirebbe di sostenere  una pressione analoga a quella subita dalla Turchia. E infatti appare propedeutico e decisivo l’orientamento politico strategico della classe dirigente dominante per intraprendere una qualsiasi strada di maggiore autonomia. La vicenda delle sanzioni alla Russia, tra i tanti, assume la veste di un vero e proprio paradigma. Non sono solo uno strumento offensivo contro la Federazione Russa, sono anche uno strumento di compattamento dell’alleanza atlantica; si stanno rivelando, sorprendentemente, nella loro opacità ed arbitrarietà di applicazione un modo particolarmente subdolo di ridefinire i rapporti interni all’alleanza stessa e di danneggiare i paesi diretti dalla classe dirigente più prona. La volontà di una classe dirigente è, però, solo una condizione, sia pure determinante. Il problema è innanzitutto come si forma e costruisce una classe dirigente alternativa, visto che quella attuale non pare offrire nessuna capacità di analisi e possibilità di redenzione. E tuttavia occorre prestare un occhio più attento alla condizione oggettiva del paese. Su questo l’articolo assume, a mio avviso, una postura un po’ troppo ottimistica sia pur nella cautela in esso suggerita rispetto a soluzioni-panacea quali quella dell’uscita dall’euro. Intanto, ancora una volta, l’estensore sembra fondare sulle capacità economiche e sulle potenzialità produttive la possibilità di redenzione dalla condizione di asservimento. Purtroppo numerosi eventi ed episodi attestano ormai quanto queste potenzialità siano piegate e conformate dalle esigenze politiche e rese praticabili da una credibilità e autorevolezza politica della classe dirigente purtroppo in via di esaurimento. Il paese, inoltre, sta erodendo drammaticamente piuttosto che acquisendo le capacità tecnologiche e produttive necessarie a dar corpo a queste politiche. Ma non solo quelle; anche dilapidando le stesse capacità e qualità professionali che non ostante tutto riesce ancora a formare. La classe dirigente sta perdendo progressivamente e consapevolmente il controllo e la capacità di indirizzo dei residui atout disponibili. Non è un caso che gli americani si siano concentrati nell’acquisizione dei settori strategici, anche quelli in apparenza meno significativi come la ceramica; non è un caso che francesi e tedeschi si siano concentrati sulla logistica, sul drenaggio del risparmio e sull’acquisizione di marchi, in particolare di quelli che potessero qualificarli con miglior lustro, sotto mentite spoglie, in Medio Oriente. Due esempi tra tutti, l’Edison e l’Italcementi, concesse anch’esse allegramente rispettivamente in mano francese e tedesca. Una gran parte dell’apparato produttivo, per altro, è costituito da componentistica legata ormai mani e piedi al prodotto finito della grande industria tedesca. La storia dello sviluppo industriale del paese è lì a rammentarci, per altro, che i momenti di maggior espansione e di sviluppo qualitativo dell’economia, in particolare dell’industria, a partire da metà ‘800, si sono ottenuti guardando a nord e ad ovest, il più delle volte obtorto collo. Emblematico ed illuminante a proposito il contenuto dell’acceso dibattito degli anni ’50, propedeutico al “miracolo economico”. La stessa impresa straordinaria di Mattei all’ENI, pur con tutti i margini di audacia ed autonomia che costui si è concesso e per i quali ha pagato drammaticamente dazio, consistevano sì in una apertura verso i paesi mediterranei, africani e mediorientali, che consentisse soprattutto l’approvvigionamento necessario alla compartecipazione, però, del paese al miracolo economico euroccidentale. Non a caso Mattei contrastò l’ostracismo dei settori più retrivi dell’industria italiana, anch’essi favorevoli ad una espansione verso il Mediterraneo, sostenne lo sviluppo dell’industria di base, specie energetica, siderurgica e chimica, antagonista a quelli e si alleò con la nascente industria meccanica, notoriamente direttamente legata ai centri americani. Nell’attuale condizione, uno spostamento del baricentro rischierebbe di asservire ulteriormente il paese al vero dominus dal secondo dopoguerra ad oggi, gli Stati Uniti. La condizione preliminare di una svolta è, diversamente, l’assunzione del controllo delle principali leve di governo e di indirizzo del paese; il patto europeo, negli attuali termini, inibisce questi sforzi secondo modalità ben più complesse della mera introduzione della moneta unica, l’euro e della imposizione delle norme di stabilità finanziaria, sui quali si incentra purtroppo la quasi esclusiva attenzione dei critici. Una rinegoziazione piuttosto che una rottura presupporrebbe l’esistenza di una classe dirigente ancora più determinata e capace e di un contesto ben diverso, quanto meno di una Unione Europea molto più ristretta e gestibile degli attuali ventisette aderenti. Una rideterminazione del “pivot” non può prescindere quindi da un lavorio sagace in grado di favorire il cambiamento degli equilibri politici in Francia e Germania, senza il quale rischiamo di trovarceli come avversari sempre più dichiarati, in una Europa sempre più frammentata e rissosa, ma sempre a supporto della potenza dominante. A maggior ragione le implicazioni sarebbero determinanti se il paese, motu proprio, dovesse allargare il raggio di azione a Cina e Russia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

UN PIVOT MEDITERRANEO PER L’ITALIA

RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITÀ STRUMENTALE di G. La Grassa

Pubblichiamo qui sotto un  interessante saggio di Gianfranco La Grassa sul concetto di razionalità strategica e razionalità strumentale. La definizione ad inizio dello scritto introduce, in realtà, rapidamente al tema dell’analisi concreta delle formazioni sociali partendo dalle dinamiche conflittuali tra centri strategici e dal tentativo di riproporre in maniera più corretta e realistica la questione di una loro trasformazione che porti all’emancipazione degli strati subalterni. Un chiaro superamento della rappresentazione dualistica del conflitto sociale.

Lo scritto, tuttavia, apre più o meno esplicitamente numerose questioni piuttosto che risolverne come del resto è ovvio che sia per un tentativo di rottura critica di chiavi di interpretazioni ormai inadeguate e deleterie.

  • tende a liquidare troppo sbrigativamente il lavoro di ricerca teorico-filosofico teso ad individuare le caratteristiche intrinseche del politico e le relazioni di questo con gli altri ambiti dell’agire umano e tra esse la funzione della cooperazione oltre che del conflitto; un tale impegno è ovviamente parte integrante del contesto storico, sociale e culturale nel quale agisce ma è altrettanto indispensabile per individuare ed inquadrare sistemicamente le nuove chiavi di interpretazione, l’analisi concreta e gli obbiettivi politici senza sostituirsi ad essi, specie in Italia dove il dibattito in merito langue da almeno quarant’anni
  • il saggio, al pari delle precedenti elaborazioni di La Grassa, attribuisce un ruolo prioritario all’azione dei centri strategici, quindi all’azione e ai loro disegni politici; sottolinea che, con il rapporto capitalistico, il politico pervade ed agisce nell’economico; per meglio dire, è una mia precisazione, il ruolo politico della e nella funzione economica si accresce. Ma sino a che punto in termini assoluti e soprattutto rispetto agli altri ambiti?
  • l’autore parla di conflitto tra formazioni sociali capitalistiche e tra centri strategici (capitalistici?) in esse e tra di esse. Poiché, secondo definizione marxiana, il capitalismo è un rapporto sociale di produzione, laddove il possessore dei mezzi di produzione sovrasta il salariato, non si rischia di tornare alla surdeterminazione dell’economico, al meglio del politico nell’economico, rispetto agli altri ambiti?
  •  GLG sancisce l’inesistenza del “popolo”; sembra ricondurre la sua estinzione al processo di frammentazione e specializzazione proprio delle formazioni capitalistiche più mature ed evolute e all’incapacità, quindi, dei loro centri strategici di garantire i sufficienti livelli di coesione e di assimilazione identitaria necessari a garantire la sostenibilità interna ed esterna di esse. Mi pare una affermazione troppo apodittica che tende a sottovalutare le capacità di ricomposizione, magari sotto nuove vesti e nuovi nuclei, dei centri strategici e ad assecondare la facile, ma a mio avviso poco fondata, contrapposizione tra ad esempio i comunitaristi portatori della positiva pienezza dei valori umani, alla Fusaro e de Benoist, e i mercificatori alienatori della natura umana, propri dei capitalisti globalizzatori
  • con l’occasione il prof. La Grassa riprende il tema dell’emancipazione degli strati subalterni e delle particolari condizioni di crisi sistemica di particolari formazioni che potrebbero favorire la loro sollevazione e affermazione. Non si tratterebbero più di classi in sé, ma di gruppi o strati ben condotti da centri ben determinati ed alternativi. Il discorso nella fattispecie, una caratteristica comune a tutti, compreso chi scrive, rischia di cadere nell’indeterminatezza ed oscillare inconsapevolmente tra l’utopia di una società libera e egualitaria e l’azione magari anche meritoriamente redistributiva interna al sistema, ivi comprese le gerarchie stabilite. GLG avverte per altro saggiamente delle capacità dinamiche, propulsive e di sviluppo di un sistema fondato sulla concorrenza; della capacità, quindi, di riassorbimento, il più delle volte, delle contraddizioni più esplosive. Si tratta comunque di un avvertimento molto più opportuno e proficuo se finalizzato ad individuare nelle formazioni sociali e nei processi riformatori e rivoluzionari quelle figure e strati sociali e quei centri strategici i quali, per acquisire il controllo del potere o la partecipazione ad esso siano disposti a riconoscere un ruolo ed una condizione diversa e migliore, ivi compresa la mobilità, agli strati più subalterni. Anche in questo caso, però, il rischio di scambiare il classico piatto di lenticchie alle prospettive di sviluppo dinamico e duraturo è sempre presente. L’esperienza dei paesi socialisti, ancorché poco studiata, è tutta lì a dimostrarlo.

Mi sembrano cinque dei punti già sufficienti a consentire un’ulteriore spinta alle ipotesi di ricerca suggerite dal professore. Buona lettura_ Giuseppe Germinario

 

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GIANFRANCO LA GRASSA _ RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITA’ STRUMENTALE  http://www.conflittiestrategie.it/razionalita-strategica-e-razionalita-strumentale-di-g-la-grassa

 

  1. Non intendo qui diffondermi troppo sui due tipi di razionalità (e di funzioni); su entrambe sono state scritte infinite pagine e considerazioni. Mi interessa semmai chiarire alcune differenze e distinzioni. Innanzitutto, la metis – l’astuzia, il raggiro, l’inganno, ecc. (“il cavallo di Troia”) – fa parte dell’arte strategica, ne può in certi casi costituire l’aspetto principale, ma non fa conseguire, in ultima analisi, una vera supremazia, non consente di prevalere se non in casi assai particolari e magari in presenza di una discreta dose di ingenuità dell’avversario. Nemmeno credo si possa identificare la funzione strategica con la mera volontà di potenza, comunque quest’ultima possa essere intesa.

La strategia non è solo “arte”, non è solo carattere vitalistico e prorompente di una “personalità” – anche collettiva, in senso allora assai lato – portata a prevalere e a subordinare le altre, quelle “nemiche”. La strategia esige un elemento intuitivo (almeno all’apparenza), il cosiddetto colpo d’occhio, ma deve strettamente intrecciarsi con una precisa valutazione della situazione sul campo: risorse a disposizione, articolazione e movimento delle forze in campo, attenta mappatura e studio di quest’ultimo; con rapida presa in esame di ogni mutamento della situazione stessa e delle risposte da dare ai cambiamenti.

D’altra parte, la valutazione della situazione sul campo non è eseguita in base alla semplice razionalità strumentale, quella del minimo mezzo o del massimo risultato; quest’ultima attiene principalmente all’ambito economico in senso stretto, pur se poi è stata ampliata ai vari aspetti della vita personale e collettiva (sociale). Sia per quanto concerne la sua applicazione in campo economico sia per il suo generalizzarsi ad altri settori di attività, detta razionalità si è affermata essenzialmente in epoca capitalistica. Nella stessa conduzione delle attività produttive, agricole e artigianali, in formazioni precapitalistiche, essa non veniva affatto in evidenza; i saperi produttivi, frutto di una lunghissima e in genere lenta accumulazione storico-culturale, non avevano molto a che vedere con una mentalità semplicemente strumentale, che sarebbe anzi stata una vera “palla di piombo ai piedi” per artigiani e contadini delle società precapitalistiche, e avrebbe condotto alla disgregazione delle stesse per l’impossibilità di conciliare la struttura produttiva con quella del potere (che è poi quanto in definitiva accaduto durante la lunga transizione dal feudalesimo al capitalismo). In ogni caso, anche nella formazione sociale del capitale la posizione di preminenza attribuita alla razionalità strumentale ha carattere largamente ideologico. Certamente essa è creazione del capitalismo, e in quest’ultimo viene largamente utilizzata nei vari ambiti dell’attività sociale, ma non assurge affatto alla posizione di vertice nell’agire delle “classi” dominanti nemmeno in questa forma di società.

E’ stato un errore dello stesso marxismo – tutto centrato sul problema dell’ottenimento del massimo profitto (e quindi della massima estrazione del pluslavoro/plusvalore) da parte del capitalista, visto come essenzialmente proprietario e non invece quale agente di strategie – pensare che la razionalità strumentale (quella della cosiddetta efficienza) sia non solo acquisizione fondamentale del “modo di produzione” capitalistico, ma sorregga l’insieme dei rapporti caratteristici della società da questo strutturata e ne alimenti la dinamica decisiva; e rappresenti addirittura una conquista della Ragione che, sciolta dall’esigenza (del puro proprietario) di conseguire il massimo utile individuale, sarebbe cruciale anche nella futura società comunista onde sviluppare le forze produttive e conseguire quella massa di beni, cui potrebbe attingere ogni membro della società “secondo i suoi bisogni”.

 

  1. L’analisi della situazione sul campo – configurazione di quest’ultimo, forze in campo, ecc. – e le risposte ai mutamenti della stessa non si basano quindi sul mero principio del minimo mezzo o del massimo risultato; nel contempo, esse non consistono certo esclusivamente nel colpo d’occhio, nell’intuizione dell’agente strategico. Quest’ultima ha un che dell’arte, ma l’analisi e le risposte di cui si parla sono più vicine allo spirito dell’osservazione scientifica. Infine, nella preliminare individuazione delle tecniche e delle metodiche da impiegare per far fronte ai problemi osservati e analizzati, inizia a farsi avanti la razionalità della “efficienza economica”, quella del minimo mezzo, insomma quella detta strumentale. Quest’ultima ha dunque un ruolo subordinato, non è funzione esplicata dagli agenti “dominanti” (sto parlando delle differenti funzioni, non degli individui empirici che le supportano e che possono esercitarne contemporaneamente più d’una). Per il dominio, cioè per conquistare la supremazia attraverso la lotta, occorre l’analisi – assimilabile all’osservazione scientifica – e l’“artistico” colpo d’occhio sull’insieme e le sue intrinseche, ma non manifeste, potenzialità dinamiche (forza e direzione dei possibili eventi da provocare o impedire o deviare, ecc.) che debbono essere volte al successo della propria lotta tesa a prevalere.

Per ottenere la “vittoria in battaglia” sono perciò necessarie soprattutto le funzioni del “comandante in capo” (che, ovviamente, non è obbligatoriamente un solo individuo), capace di cogliere quello specifico potenziale insito nell’insieme, e le funzioni dello “Stato Maggiore” atte a svolgere i compiti relativi alla lucida e “scientifica” analisi del campo e delle forze in campo, con tutto ciò che segue. Il potenziale dell’insieme è la ben nota singolarità, che non è soggetta a generalizzazioni; pur se le varie “battaglie” svoltesi in passato, e le innumerevoli mosse strategiche in esse impiegate, sono sempre sottoposte a studio e a vaglio accurato in previsione di quelle future. L’analisi e valutazione del campo e delle forze in campo sono invece soggette a queste generalizzazioni (di tipo scientifico, per l’appunto), ma non debbono pesare sulle decisioni da prendere in future “battaglie” secondo una loro scolastica e pedantesca ripetizione, che condurrebbe quasi sempre a “sconfitta”. Ancor meno debbono pesare, sulle decisioni strategiche cruciali prese nella lotta per la supremazia, le tecniche e metodiche secondo cui vengono in essa impiegate “efficientemente” determinate risorse; tecniche e metodiche che, come sopra rilevato, attengono ai compiti delle funzioni strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato.

 

  1. L’aver posto tali funzioni (rette dalla razionalità strumentale) come essenziali e pervasive dell’intera attività dei dominanti capitalistici (trattati quali meri proprietari dei mezzi produttivi e finanziari) – e averne addirittura fatto una conquista generale del pensiero umano per ogni futuro sviluppo e trasformazione della società, addirittura in direzione del presunto comunismo – ha veramente ottuso le capacità critiche degli anticapitalisti. Quella che è soltanto ideologia – con la solita funzione di mascheramento delle fonti effettive del predominio degli agenti capitalistici, che non sono affatto semplici proprietari – è passata per una conquista fondamentale del pensiero razionale; una conquista, come altre del capitalismo, da mantenere e sviluppare poiché se ne supponeva l’indispensabilità anche ai fini della transizione al socialismo e poi comunismo.

Se, come ho chiarito più volte negli ultimi anni, fosse stata valida l’ipotesi di Marx relativa alla formazione, per dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico, del lavoratore collettivo cooperativo, in cui tutte le diverse funzioni (intellettuali e manuali, direttive ed esecutive) si sarebbero integrate in un unitario e compatto tessuto produttivo, allora la sussistenza di tale mascheramento ideologico non avrebbe alla fine nuociuto più che tanto. Il movimento reale – non l’opera di costruzione del socialismo da parte di presunte avanguardie della Classe (per antonomasia) – avrebbe condotto all’esaurirsi delle funzioni produttive dei proprietari capitalistici, trasformati in rentier, e all’affievolirsi dello spirito di competizione per la supremazia di dati gruppi sociali su altri. A questo punto, la razionalità del minimo mezzo sarebbe in effetti divenuta quella prevalentemente applicata nelle attività sociali (non della sola sfera economica) in quanto dirette soprattutto allo “sfruttamento” del “fondo naturale” per ottenere di che soddisfare i bisogni degli individui stretti in una società coordinata e di cooperazione, senza conflitti antagonistici né sfruttamento degli uomini su altri uomini.

Poiché la dinamica capitalistica, intrinseca o meno che sia, non conduce affatto in simili direzioni virtuose, è ovvio che le conclusioni da trarre sono totalmente differenti. La razionalità strumentale diventa un semplice mezzo per procurarsi, nel migliore (più efficiente) modo possibile, le risorse necessarie all’espletamento delle funzioni legate alla lotta per la supremazia, e che sono quelle appena sopra illustrate. La formazione sociale si frammenta, si segmenta e si stratifica sempre più complessamente, le minoranze predominano sulle maggioranze, ma attraverso lo scontro tra i vari gruppi di agenti di cui sono composte, gruppi che applicano strategie di lotta ai fini della prevalenza di alcuni su altri. Non si va minimamente formando alcun vertice ristretto e sempre più unitario di sfruttatori. La lotta tra gruppi conosce varie “periodicità” – da me adombrate con i termini di monocentrismo e policentrismo – che sono fasi (epoche) diverse in riferimento sia a quella da me indicata quale formazione sociale in generale sia alla formazione globale, costituita da una mutevole articolazione di tante formazioni particolari fra loro in conflitto, con i connessi fenomeni comportanti lo sviluppo ineguale dei vari gruppi capitalistici, in sede “nazionale” come “internazionale”.

In una società per null’affatto interessata da un movimento interno di omogeneizzazione e compattamento “armonico”, bensì da processi di frammentazione crescente e di – più o meno acuta a seconda di un periodico “pulsare” per epoche o fasi dell’evoluzione capitalistica – interazione contraddittoria e conflittuale tra i suoi vari comparti (o raggruppamenti, dominanti e non), le funzioni strumentali, attinenti al conseguimento del massimo risultato, scadono a semplice mezzo per procurarsi, con la massima “economicità”, le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni strategiche, compito precipuo degli agenti dominanti in reciproca lotta per gruppi (per “bande”) ai fini della supremazia. A questo punto, sono gli “Stati Maggiori” con i loro “Comandanti in capo” a rappresentare quella “classe capitalistica”, che il marxismo pensava fosse invece costituita da semplici proprietari. Questi avrebbero esercitato una funzione produttiva propulsiva nel capitalismo concorrenziale – poiché il conflitto era visto dai marxisti come un fatto prevalentemente economico, un fenomeno in ultima analisi orientato dalla finalità del massimo prelievo di plusvalore in quanto profitto dell’impresa capitalistica – mentre sarebbero divenuti parassiti e “similsignori” nel capitalismo monopolistico strutturato in grandi società per azioni. Si sarebbe trattato certamente di “signori” differenti da quelli feudali o protocapitalistici per il tipo di rendita percepita: non più dalla terra, non più dal semplice prestito in denaro, ma prevalentemente dalla proprietà azionaria, dalla “attività” di “staccare cedole”.

Nella società capitalistica realmente affermatasi, strutturata in gruppi sempre più numerosi e in crescente disarticolazione, con “successiva” (in senso logico) ri-connessione interattiva tramite forme varie di conflitto di periodicamente differente intensità e acutezza, i dominanti sono gli agenti strategici (del “colpo d’occhio d’insieme” e dell’analisi del campo e delle forze in campo) che rendono la società capitalistica un terreno di battaglia, in cui tutti, ai più vari livelli della scala sociale, sono coinvolti; anche se gli strati sociali bassi sono quasi sempre truppe al seguito degli “Stati Maggiori”, ecc. Solo raramente, in particolari frangenti storici (congiunture), le truppe –  “incontrando” dati gruppi di dirigenti e di capi – sono in grado di nuocere agli agenti dominanti in una certa fase di acuto scontro tra questi ultimi; ma non è affatto deciso ineluttabilmente, come il novecento ha ampiamente dimostrato, quale sia l’effettivo sbocco degli eventi “rivoluzionari”. Sia l’ideologia dei dominanti (agenti capitalistici), sia quella degli un tempo oppositori e intenzionati a trascinare le “truppe” (le masse popolari) contro il loro potere, hanno provocato un totale annebbiamento della strutturazione della formazione capitalistica: sia di quella in generale sia di quella globale con le sue articolazioni particolari.

 

  1. E’ ormai indispensabile uscire – puntando intanto su di essa il riflettore del pensiero critico – da questa ideologia della razionalità strumentale in quanto elemento fondante e carattere decisivo della struttura capitalistica e dunque del movimento dei suoi rapporti di dominazione/subordinazione; un elemento che sarebbe negativo se utilizzato dai proprietari (dei mezzi produttivi) per sfruttare il lavoro (estorsione del massimo pluslavoro/plusvalore), ma che la “rivoluzione comunista” avrebbe potuto rovesciare in positivo, “estraendone il nocciolo razionale”, eliminando la proprietà privata e affidando il coordinamento cooperativo della produzione alla classe lavoratrice (cioè alle sue pretese “avanguardie”).

Deve essere contrastato questo ottundimento del pensiero, che ha condotto a pratiche inizialmente anche “eroiche” e che hanno rappresentato il famoso “assalto al Cielo”, ma che poi si sono, loro, rovesciate in aberrante dominazione di masse “abbrutite” da parte di capi degenerati in perpetua lotta (assassina) fra loro. Un comunismo, incapace di uscire dalla ideologia “annebbiante” fin qui illustrata, ha avuto un suo grande periodo in cui è sembrato essere il movimento di emancipazione dei diseredati contro i bestiali sfruttatori capitalisti (e colonialisti e imperialisti), ma ha poi abdicato completamente ai suoi ideali originari per divenire il peggiore e più devastante dei movimenti politici esistenti nell’ambito del capitalismo. Basta dunque con il comunismo in tutte le salse lo si voglia cucinare; e basta con il marxismo che ha toccato l’apice di quanto poteva farci conoscere per poi decadere a “dottrina religiosa” del tutto ottenebrante; una “religione” che non è nemmeno più l’oppio dei popoli, ma solo di piccole sette di inutili cultori del nulla teorico e politico.

Tuttavia, la reazione a questo annebbiamento ideologico non deve portare a rivalutare le sconfortanti banalità dell’ideologia conservatrice neoliberista o delle sue versioni “riformiste” neokeynesiane. Dalla padella nella brace; peggio la toppa dello strappo! Questa è l’alternativa che ci offre un ceto intellettuale fra i più fatui e sciocchi annoverati nella storia dell’Umanità; un vero campionario di “idioti con alto quoziente di intelligenza”, come recitava un “salmo” del movimento sessantottardo, che volentieri sostituirei con la più incisiva battuta di quel genio che fu Ettore Petrolini: “idioti con lampi di imbecillità”.

Ogni inizio è senza dubbio difficile. E’ tuttavia necessario che soprattutto i più giovani, e liberi di mente, non ottenebrati da quel cumulo di fanfaluche ammassate dagli intellettuali soprattutto negli ultimi trenta-quarant’anni, si mettano in moto al più presto; e prendano a calci chiunque parli di liberismo, di keynesismo, di marxismo; chiunque ancora si riempia la bocca di quelle ormai sconce parole – sia chiaro: di ben altro significato ed elevatezza molto tempo addietro – che sono democrazia liberale, socialismo, comunismo, con tutte le loro infinite variazioni.

 

  1. Cominciamo con il riportare al centro della questione, cioè dell’organizzazione dell’attuale società nella sua globalità (mondialità), il principio della preminenza delle funzioni strategiche che sottomettono, piegano ai loro fini, quelle strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato. In questo contesto, non mi sembra di alcun interesse lanciarsi in disquisizioni filosofiche o simili chiedendosi se lo spirito di competizione – teso però alla preminenza tramite prepotenza, sopraffazione, asservimento (e anche inganno e raggiro) esercitati dagli uni sugli altri – sia connaturato o meno all’essere umano. La millenaria storia dell’Umanità non induce certo all’ottimismo in proposito, ma tenuto conto degli orizzonti temporali su cui siamo in grado di allargare la nostra “vista” (teorica), compiendo analisi e sviluppando argomentazioni dotate di un minimo di realismo e credibilità, è assolutamente inutile arrovellarsi sulla “natura” umana, sulle “costanti antropologiche”, e via dicendo. Credo che discussioni del genere abbiano senso, così come ha senso dibattere sulla religione, sull’esistenza o meno di un Essere chiamato Dio e su molti altri problemi dello stesso ordine che, se hanno da sempre spinto grandi intelletti a profondervi le migliori energie, non sono evidentemente destituite di significato come spesso pensano coloro che hanno cervelli simili a computer, e sistemi nervosi solo dediti alle più elementari sensazioni animalesche.

Tuttavia, per una analisi che in qualche modo si richiami alla scienza della struttura e dinamica della società nell’attuale epoca storica – un’analisi che voglia porre le basi di prese di posizione pratico-politiche in essa, pur se magari ancora assai generali e non indirizzate alla soluzione di problemi “puntuali” – non è gran che rilevante decidere se le tendenze al conflitto per la preminenza, tramite sconfitta e subordinazione dell’avversario, fanno parte dell’intima costituzione dell’essere umano oppure se vi sono speranze circa l’avvento, in un futuro imprecisato, di una società fondata su rapporti interindividuali, al limite ancora competitivi, non però caratterizzati dalla prevaricazione, dalla menzogna e subornazione, ecc. Penso che chi non accetta la società così com’è adesso, diciamo pure quella capitalistica (perché abbiamo in definitiva a che fare con strutture sociali di questo tipo), debba mantenere un atteggiamento di contrasto e di critica radicale dello spirito conflittuale, basato sulla prepotenza e ricerca del predominio, che in detta società si dispiega pienamente in tutte le sue sfere (economica, politica, ideologico-culturale); non ci si deve però porre nella situazione del “profeta disarmato”.

E’ ora di farla finita con la favoletta della non violenza gandhiana, che sarebbe il miglior modo di vincere le proprie battaglie e di porre le basi per una organizzazione sociale di pace e armonia. A parte le falsità storiche raccontate dall’agiografia di Gandhi, che non era poi così pacifico come si vuol far credere (ai gonzi), la sua vittoria è nata dalla reale sconfitta subita dall’Inghilterra nella seconda guerra mondiale. Apparentemente tale paese faceva parte delle potenze vincitrici, ma in realtà uscì dalla guerra nettamente ridimensionato, avendo definitivamente perso il suo ruolo di grande potenza capitalistica e imperialistica (coloniale). Non poteva in nessun caso mantenere l’India nella situazione precedente la guerra, così come dovette rinunciare alle sue altre sfere di influenza asiatiche e africane. Non parliamo del “pacifismo” attuale dell’India, dotatasi dell’arma atomica, in ricorrente conflitto con il Pakistan, con alcuni (molti) suoi governi locali che reprimono moti popolari tipici di un paese lanciatosi nello sviluppo ad alti ritmi, con le sue “naturali” conseguenze fortemente squilibranti in termini sociali.

Oggi, c’è solo da decidere se è relativamente prossima (qualche decennio) una nuova epoca policentrica, con il rinnovarsi dei conflitti per la supremazia tra le diverse formazioni particolari componenti quella globale; oppure se permarrà ancora a lungo una sostanziale preminenza, sempre più deficitaria comunque, degli USA mentre altri paesi (Russia, Cina, India, Giappone, ecc.) non riusciranno ad andare oltre un conflitto tra potenze di carattere “regionale” (degli outsiders insomma). Credo che la tendenza sia verso un autentico conflitto policentrico, preceduto comunque da un periodo, probabilmente di alcuni decenni, in cui si assisterà al rafforzamento delle potenze “regionali”. E tenendo sempre in debito conto il problema dello sviluppo ineguale, per cui si verificheranno durante tale periodo delle “sorprese”: qualche formazione particolare (paese), oggi in ascesa, si arresterà e “deluderà” le aspettative, mentre magari ne verrà fuori alla distanza qualche altra.

Non si deve comunque contare – per tutto il periodo lungo il quale si sarà in grado di formulare qualche previsione in base al processo di gestazione di nuove categorie teoriche interpretative (ipotetiche) – sull’affievolirsi delle tendenze al conflitto e al predominio. E si deve tener presente che le tendenze in questione saranno prevalentemente guidate dai gruppi dominanti strategici di diverse formazioni capitalistiche. I conflitti più acuti si svilupperanno tra: a) la potenza (formazione particolare) centrale odierna e le potenze per il momento regionali, che non possono rinunciare (pena la decadenza dei gruppi dominanti all’interno di esse) al tentativo di contrastare il predominio della prima; b) tra le formazioni particolari o pienamente sviluppate capitalisticamente (USA in testa) o in forte ascesa quanto a sviluppo capitalistico e quelle arretrate o che hanno appena iniziato il loro sviluppo (ad es. l’Iran). In queste formazioni, ancora non pienamente maturate dal punto di vista capitalistico, i gruppi dominanti appaiono in buona parte con-fusi con la massa del popolo, un aggregato anche in tal caso non del tutto omogeneo, ma comunque nemmeno scisso in raggruppamenti ben distinti come nel capitalismo avanzato; un aggregato spesso cementato da una solida cultura comune, spesso da una forte religione. Assai meno acuti e rilevanti appaiono, al presente, i conflitti interni alle formazioni particolari capitalisticamente avanzate, dove la frammentazione sociale è assai spinta e l’interazione tra i vari comparti, in orizzontale e in verticale, non sconvolge la riproduzione capitalistica dell’insieme societario, poiché ci si limita a ridiscutere sia la divisione della “torta” (prodotto complessivo sociale) – il che implica mutamenti di condizioni di vita e di lavoro dei vari comparti in oggetto – sia le rispettive posizioni quanto a “fette di potere”, a status, a diritti e doveri, ecc.

 

  1. Una volta fissato un quadro orientativo di larga (larghissima) massima, si deve decidere dove collocarsi nello svolgimento della propria attività teorica e pratica; ricordando che la teoria – nella misura in cui sia solo quella di carattere scientifico attinente alla “visione” della struttura e dinamica della società – è in definitiva un lato della pratica stessa. Ha certo suoi caratteri propri, esige particolari strumentazioni, ma non “sta da un’altra parte”, non risponde ad altre esigenze, quelle che definiamo, non importa se propriamente o meno, “spirituali”. In questo senso, “la teoria è grigia” e tale deve rimanere. Non è che ciò la renda impermeabile alla penetrazione, mascherata e inconsapevole, di una qualche ideologia; ma deve stare sempre in guardia contro simili influssi (pur non sapendo in anticipo da che parte arriva il pericolo), deve compiere i suoi passi con prudenza e sempre sorvegliandosi. Non punta in ogni caso ad accendere gli animi, a suscitare entusiasmi, a dare un senso alto alla propria lotta. Questi compiti spettano ad altri lati dell’agire umano.

Guai se Lenin fosse sceso nell’agone della rivoluzione russa con in mano Il Capitale o anche semplicemente il suo Che fare o il saggio sull’imperialismo; guai se avesse “predicato” la teoria del valore lavoro e insegnato che questa dà la certezza dello sfruttamento della forza lavorativa (dei dominati); guai se avesse spiegato il concetto di modo di produzione (e l’intreccio tra forze e rapporti produttivi), se si fosse messo ad elucubrare sullo sviluppo ineguale, e via dicendo. Avremmo una rivoluzione in meno e un mondo assai diverso; e chissà se in poche righe, in un qualche manuale di storia, verrebbe ricordato che in un qualche anno dell’inizio del novecento, in un qualche luogo della Russia, un pazzo furioso era stato picchiato a sangue (forse ucciso) da masse popolari mentre stava vaneggiando e pronunziando parole smozzicate, prive di senso compiuto; e aveva malamente reagito all’indifferenza degli astanti, li aveva insultati, minacciati, maledetti per la loro ignoranza.

 

  1. A me sembra evidente che chi vive nel nostro paese debba accettare la prospettiva di sviluppare la propria attività (teorica e pratica) nell’ambito di una formazione particolare appartenente all’area del capitalismo avanzato, di quella tipologia che in altra sede ho indicato quale formazione dei funzionari (strategici) del capitale. E’ nell’ambito di questa che si dovrà “studiare” come muoversi, almeno in un primo approccio orientativo. Viene in evidenza, innanzitutto, l’impossibilità di trascurare l’humus conflittuale in cui si attua la riproduzione dei rapporti tipici della società in questione. Due errori sono da evitare. In primo luogo credere di poter contrastare immediatamente e direttamente la mentalità del conflitto per il predominio, che permea la società ad ogni livello. Non si tratta di un comportamento tenuto soltanto dagli agenti dominanti. Questi, essendo una minoranza, avrebbero già perduto ogni potere – ed è quanto pensava Marx che non immaginava affatto un capitalismo tanto durevole – se la conquista della supremazia non fosse il movente dell’agire in ogni più piccolo ambito della società. L’ideologia dei dominanti chiacchiera in continuazione della cooperazione, dell’utilità di unirsi, ecc. Ma ogni coagulazione di gruppi di individui si verifica sempre con il fine di meglio lottare contro altri gruppi; non ci si allea per spirito di fratellanza, ma perché, come dice il detto popolare: “l’unione fa la forza”. Anche dove, a parole, si celebra ad ogni istante l’amore (ad es. nella famiglia), in realtà si vivacizza sovente un confronto più o meno aspro o invece attutito dalla “giusta” valutazione delle rispettive posizioni di forza.

E’ ovvio che si cerchino tutti i marchingegni (legali) possibili per contemperare l’uso reciproco della violenza, per non andare incontro alla generale disgregazione e indebolimento, ecc. Ma si tratta del conseguimento di equilibri del tutto instabili che, qualunque sia la loro assai diversa durata, sono comunque soltanto periodiche soste tra uno squilibrio e l’altro. Non si raggiunge per via puramente formale ciò che non diventa insito nel movimento riproduttivo dei rapporti sociali. Nella società capitalistica, d’altronde, si è solo verificata l’estensione alla sfera economico-produttiva del principio del conflitto, che in altre epoche storiche vigeva soprattutto in quella politico-militare e in quella ideologico-religiosa. Certamente, questa estensione ha “involgarito” le classi dominanti; la generalizzazione della forma di merce, che significa la pervasività sociale del pagamento in denaro, ha reso tutto “comprabile”: l’onore, la dignità, il coraggio, la lealtà, ecc. Tutte queste belle qualità, però, servivano nelle precedenti epoche a stabilire regole diverse, e forse più “nobili”, di scannamento generale (o di duello individuale). Il principio del conflitto per sopraffare gli altri e assumere la predominanza non è però differente da quello degli “ultimi”….cinque o diecimila anni (o quanti? Credo da sempre).

Lo sviluppo nella “pacifica” India è del tutto simile a quello in atto nella “crudele” Cina; poiché è comunque disarmonia, squilibrio, lotta. Prima si sviluppano alcune regioni del paese e poi, sussistendo certe politiche effettuate da dati gruppi dominanti, assistiamo ad un trasmissione del dinamismo all’insieme, ma senza che si verifichi alcun livellamento delle differenze; quasi sempre, invece, in accentuazione. L’arricchimento di una parte della società – dei gruppi dominanti – è poi seguito, sempre se vengono attuate le opportune politiche, da un più “timido” innalzamento del livello di vita degli strati sociali dominati, e non in modo uniforme ed eguale neppure in quest’ambito. Il realismo impone di prendere le mosse dalle considerazioni appena fatte, non dalle menzogne, consapevoli o meno che siano, di ideologi imbonitori al servizio delle classi dominanti (sempre, anche quando sembra che difendano i dominati). Qui si pone quel problema che i vecchi “marxisti” incanalavano, con “falsa coscienza”, nella discussione sul rapporto tra riforme e rivoluzione. Ormai, tale problema non mi sembra proprio debba essere più posto nei termini di un tempo ben lontano.

I vecchi comunisti e marxisti pensavano l’attività riformistica – necessitata qualora ci si trovasse in un contesto sociale ancora fortemente dominato dalla classe capitalistica proprietaria – quale periodo di training e di accumulazione delle forze della classe in sé portatrice della rivoluzione. Le riforme, attuate nella sfera della distribuzione e del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (salariati), avrebbero vieppiù messo in evidenza l’impossibilità di contrastare per tale via lo sfruttamento (estrazione di pluslavoro, sia pure nella ingannevole forma del valore-lavoro delle merci, che sembra assicurare il mero scambio di equivalenti); nel contempo, tramite le lotte riformistiche si sarebbe rinsaldata l’unione della classe deputata al rivolgimento dei rapporti capitalistici, già in via di compattamento a causa del movimento intrinseco alla riproduzione sociale, teso alla già rilevata formazione del lavoratore collettivo cooperativo.

Una volta abbandonata questa scorretta e ormai inaccettabile visione della dinamica capitalistica, e appurata la crescente frammentazione (segmentazione e stratificazione) del tessuto sociale, le lotte dei vari raggruppamenti – di lavoratori o meno; e di lavoratori sia salariati che cosiddetti autonomi – restano strettamente confinate al livello distributivo della riproduzione dei rapporti sociali. I problemi della crisi, non nel suo semplice aspetto economico che è il meno dannoso e pericoloso per i dominanti capitalistici (malgrado l’enfasi posta su di essa dagli epigoni di Marx), nascono proprio dalle modalità assunte dallo sviluppo nell’ambito sia della formazione in generale che, soprattutto, di quella globale con riferimento all’articolazione di quelle particolari che la compongono. Lo sviluppo, causato dalla forte tensione dinamica impressa dalla lotta per la preminenza (estesasi nel capitalismo anche alla sfera economico-produttiva), provoca scissioni e distanziamenti tra ceti sociali e tra le diverse formazioni particolari (in genere paesi o gruppi degli stessi); diventano così molto probabili periodiche acutizzazioni delle tensioni sociali e delle lotte che da queste derivano.

Tuttavia, la situazione si aggrava nettamente quando si verifica lo sviluppo ineguale: sia tra gruppi dominanti diversi in una certa formazione particolare sia tra differenti formazioni particolari nell’ambito di quella globale. E’ l’alterazione dei rapporti di forza tra gruppi sociali, in specie tra quelli dominanti e soprattutto quando i mutamenti avvengono rapidamente in seguito a lotte estremamente acute, a provocare crisi politico-istituzionali, ideologico-culturali, ecc. che lacerano il tessuto sociale con possibilità di ristrutturazioni radicali. Le stesse considerazioni valgono per le crisi legate all’affermarsi di differenti rapporti di forza tra formazioni particolari e al precipitare di scontri accesi tra di esse per la preminenza globale. Va anche detto che spesso, e più facilmente, le crisi interne a determinate formazioni e quelle inerenti al confronto tra più formazioni in ambito (geopolitico) globale si intrecciano e alimentano vicendevolmente.

E’ bene ricordare ancora una volta che, per quanto riguarda sia la lotta tra gruppi all’interno di una data formazione particolare sia il conflitto tra più formazioni particolari, le crisi di maggiore intensità e ampiezza si manifestano quando lotta e conflitto si inaspriscono soprattutto tra dominanti. Se una certa costellazione di forze dominanti (costituita da intrecci di agenti strategici delle varie sfere sociali) fa entrare una formazione particolare in situazione di difficoltà, stagnazione, crisi, malcontento sempre più generalizzato, ecc., è più probabile, almeno in un primo tempo, l’emergere di altri gruppi dominanti che si pongono in alternativa. Così pure, quando si transita alle fasi policentriche, il conflitto si acutizza specialmente, provocando i più netti risultati trasformativi (passaggi d’epoca), tra formazioni particolari dell’area a capitalismo avanzato, caratterizzate da differenti ritmi di sviluppo, che non accettano più di sottostare alla formazione particolare fino ad allora in posizione predominante.

 

  1. Non è qui il caso di riferirsi specificamente alla formazione particolare Italia, che andrà analizzata ad un “più basso” livello di astrazione teorica. Tuttavia, sia pure per linee assai generali e generiche, è bene trarre alcune conclusioni da quanto fin qui sostenuto. Non esiste intanto alcuna classe, in via di omogeneizzazione e compattamento, da cui emerga uno strato di élite in grado di avere una visione complessiva e ben delineata della necessaria prassi trasformativa del capitalismo; per di più nella direzione di una determinata società altra del tipo del comunismo. Nemmeno è più possibile pensare ancora alla formazione, pur in qualche modo artificiale, di avanguardie “di classe”, che presuppongono pur sempre la sussistenza dell’in sé di quest’ultima, dunque di un movimento oggettivo verso la suddetta sua omogeneizzazione e compattamento, che faccia da supporto alla soggettiva azione rivoluzionaria delle avanguardie in questione.

Esistono sempre, in ogni epoca e in numero maggiore o minore, singoli gruppi di soggetti (individui) – per null’affatto caratterizzati in maggioranza da una determinata collocazione “di classe”, anzi provenienti dai più svariati comparti in cui si frammenta vieppiù la società del capitale – che si pongono criticamente rispetto ai caratteri di prepotenza, sopraffazione (e certo inganno, raggiro, ecc.), tipici del conflitto in questa (come in precedenti) forma di società. Tali gruppi di “critici” si espandono e rafforzano nelle situazioni in cui le tensioni sociali si fanno via via più acute: sia all’interno di una formazione particolare come tra più formazioni (in sviluppo ineguale) nell’ambito di quella globale. Tali gruppi perdono le loro potenzialità – e al limite possono di fatto costituire una “carta di riserva” per i dominanti – se “distraggono” forze da una critica sociale adeguata; soprattutto quando, con estremismo apparente, predicano l’eguaglianza, il pacifismo e altre favole edificanti. In primo luogo, bisogna comprendere la positività della competizione, se sfrondata dei lati di aperta violenza per conquistare la supremazia eliminando o asservendo i competitori. In secondo luogo, va rilevato che la critica alla forma assunta dal conflitto nel capitalismo deve comunque tener debito conto di essa e saperla gestire e sfruttare per i propri fini.

Le “anime belle”, spesso non proprio in buona fede, sono comunque, quand’anche “oneste” (anzi, sono ancora più pericolose in tal caso), del tutto negative e vanno combattute perché indeboliscono l’azione critica. E’ perfettamente inutile cercare di sfuggire alla contraddizione: da una parte è obbligatorio criticare, anzi opporsi drasticamente alla forma capitalistica del conflitto per la preminenza; tuttavia, è nel contempo necessario condurre la propria azione contro i gruppi dominanti, sapendo di strategia e del misto di forza e malizia che l’agire trasformativo (“rivoluzionario”) comporta nell’attuale società. Così pure, è indispensabile orientare i dominati – e prima di tutto unire i raggruppamenti decisivi degli stessi (che non sono affatto in via di amalgama) – per ottenere i risultati trasformativi (di rivoluzionamento sociale); nel contempo, bisogna saper entrare, e proprio nei momenti in cui ciò diventa possibile, nelle contraddizioni tra gruppi dominanti, le cui interrelazioni conflittuali e rispettivi rapporti di forza sono differenti in epoche diverse, in fasi mono o invece policentriche. E via dicendo.

Di tutto ciò è meglio essere ben edotti, avendo inoltre la piena consapevolezza che la propria azione tende a convergere, e rischia di confondersi, con quella degli agenti politici da me denominati rivoluzionari dentro il capitale, messi in campo da nuovi gruppi di dominanti intenzionati, una volta rottisi gli equilibri precedenti, a rovesciare il potere dei vecchi gruppi, le cui strategie – sia interne ad una formazione particolare sia applicate al confronto tra più formazioni –  aprono congiunture di crisi, di tensione sociale, di sfarinamento delle istituzioni, di caduta del consenso, ecc. In definitiva, si tratta delle stesse congiunture in cui si manifestano le maggiori possibilità d’azione da parte dei gruppi anticapitalistici. A causa di questa confusione, di questa “fatale” vicinanza di intenti “rivoluzionari” profondamente diversi, non è mai assicurato il successo, nemmeno nei momenti di massima crisi interna a date formazioni particolari, delle forze che agiscono specificatamente contro il capitale.

 

  1. Riassumiamo. Quella che continuiamo a chiamare società capitalistica – composta da ondate successive di sviluppo di formazioni sociali caratterizzate da via via differenti strutture di rapporti (capitalismo “borghese”, dei “funzionari del capitale”, ecc.) – non ha (più) molto a che vedere con le indicazioni forniteci dalla teoria di Marx; a meno di non rifarsi alla banale ripetizione delle “giuste” previsioni marxiane circa la centralizzazione monopolistica dei capitali, la generalizzazione della forma di merce e la continua estensione del mercato globale, e via cianciando. Se Marx avesse “scoperto” solo simile “acqua calda”, sarebbe veramente uno studioso di secondo rango. Ha detto molto di più, può quindi stimolare ben altre formulazioni teoriche; queste però debbono oggi soltanto aiutarci a percorrere nuovi sentieri. Le riflessioni di Marx vanno prese come un invito pressante a rimuginarne di nuove, che si distanzino dalle sue; è ben noto che, quando ci si allontana criticamente da un grande pensatore, non lo si abbandona e tanto meno lo si tradisce, bensì lo si usa – proprio mediante la negazione determinata delle sue tesi – quale pungolo ancora fecondo e vitale. Solo i dottrinari “chiesastici”, quali sono i rimasugli marxistoidi d’oggi, non capiscono tale problema e ci propinano sterili rimasticature del passato remoto.

I gruppi dominanti non tendono a centralizzarsi ed unificarsi, permangono invece in conflitto continuo con alternanza di acutizzazione e attenuazione dello stesso; quell’alternanza che, al livello delle interazioni fra formazioni particolari nell’ambito di quella globale, danno vita alle epoche (di lunga durata) di mono e policentrismo. All’interno delle singole formazioni particolari, le fasi di accentuazione dello scontro tra dominanti conduce, non però necessariamente e ineluttabilmente, a congiunture di “rivoluzione” con sbocchi non predeterminati: contro o dentro il capitale (più facilmente si realizza la seconda soluzione). Le modalità del conflitto sono quelle da sempre in uso tra i dominanti nelle diverse forme storiche di società; solo che in quelle precapitalistiche, le strategie del conflitto per la supremazia, fondate su forza e astuzia (detto in estrema sintesi), erano utilizzate nelle sfere politico-militare e ideologico-culturale, mentre nel capitalismo pervadono pure l’intera sfera economica duplicatasi in merce e denaro (produzione e finanza), una sfera che fornisce a questo punto i mezzi essenziali per l’attuazione delle strategie in ogni ambito sociale.

Un conflitto del genere produce sviluppo, e tramite questo consente l’egemonia dei gruppi dominanti e l’accettazione del dominio da parte dei sottoposti che migliorano comunque – come tendenza di lungo periodo – le loro condizioni di vita; diciamo pure quelle materiali, ma con ciò non si incrina di un ette il consenso generalizzato per questa forma sociale. Oltre allo sviluppo, il conflitto produce anche segmentazione e stratificazione crescenti della società, con interazione, quanto meno non armonica, tra i vari spezzoni e comparti sociali (segmenti e strati). Lo sviluppo è esso stesso disarmonico, avviene con ritmi diseguali in tempi e spazi diversi e conduce a periodi (e aree) di acutizzazione. Soprattutto nei periodi e aree (formazioni particolari o loro gruppi) in cui si accentuano disarmonia e crisi, si rafforza la “disaffezione” e spesso l’antagonismo nei confronti delle modalità di uno sviluppo fondato sulle strategie del conflitto per prevalere con la forza e con l’inganno; inizialmente lo scontro si fa più acuto tra i dominanti, ma ne vengono poi investiti sempre più largamente tutti gli altri ceti sociali.

I gruppi di agenti che criticano apertamente le caratteristiche del conflitto strategico tra dominanti – gruppi del tutto minoritari e relativamente isolati nelle fasi di attenuazione delle lotte e di prevalente consenso al capitale – non sono avanguardia di “una classe”, ma hanno anzi “estrazione sociale” assai composita. Chiedersi che cosa li unisca e che cosa essi rappresentino oggettivamente non è senza senso, ma credo costituisca in determinati periodi un esercizio perfettamente inutile. E’ più interessante chiedersi come mai essi – in genere figli di una passata epoca di acutizzazione del conflitto interdominanti – si trovino in situazione di crescente debolezza e di isolamento nell’ambito di formazioni particolari, man mano che queste accedono agli alti gradini dello sviluppo capitalistico, nel raggiungimento dei quali il processo di differenziazione sociale ha sciolto la “massa” del popolo dai suoi legami con più antiche tradizioni e culture. Non esiste anzi nemmeno più un popolo in senso proprio, bensì un insieme articolato di vari comparti sociali fra loro in interazione, diversamente posizionati sia in orizzontale che in verticale.

I gruppi critici (anticapitalistici) debbono comportarsi piuttosto differentemente nei periodi di attenuazione e in quelli di accentuazione degli scontri. Essi si muovono necessariamente tra molte contraddizioni che vanno assunte consapevolmente e senza pretese di una “purezza” di intendimenti, che si pretendono rivolti all’“amore per il popolo”, ormai del tutto inesistente come appena rilevato. E’ necessario condurre una critica delle modalità strategiche del conflitto tra dominanti, demistificando le varie ideologie “armoniciste” (e di falsa cooperazione) che le occultano e mistificano; e tuttavia si debbono conoscere tali modalità e rivolgerle contro i dominanti. Vanno condotte azioni politiche – sottoposte all’attento vaglio di date ipotesi teoriche circa la struttura e dinamica capitalistiche – atte a favorire il collegamento tra gli strati “bassi” della società (quelli più nettamente dominati) e la possibile loro alleanza in un dato “blocco sociale”; sarebbe però un errore decisivo dimenticare la lotta interdominanti e non assumere determinate posizioni in grado di acuirla e di favorire comunque i gruppi nuovi e più dinamici contro quelli ormai intorpiditisi e tendenzialmente parassitari. E’ semplicemente sciocco e avventuristico – tanto da far pensare talvolta alla mala fede di certi finti critici del capitalismo – inimicarsi proprio gli strati sociali “bassi” predicando contro lo sviluppo (solo “materiale”; che “orrore”! Questo però lo affermano certi intellettuali dalla pancia fin troppo piena); e tuttavia non vi è dubbio che non ogni tipo di sviluppo favorisce la crescita delle forze dette “antisistema”.

In ogni caso, si tenga presente che le possibilità “rivoluzionarie” si presentano soprattutto nelle congiunture di crisi. Ovviamente, come più sopra rilevato, non si tratta mai di crisi puramente economiche; occorrono ben altre condizioni di sfilacciamento della trama sociale complessiva, di affievolirsi del consenso e di forti incrinature degli apparati politici e istituzionali. Condizioni simili rendono perciò problematico lo sviluppo; questo diventa del resto ancora più debole, incerto e soggetto ad inversioni di tendenza anche in seguito al sempre più duro confronto interdominanti, che vede spesso intrecciarsi il conflitto tra formazioni particolari nel contesto globale e quello tra gruppi dominanti “vecchi” e “nuovi” all’interno delle formazioni particolari. Qui nasce allora una ulteriore complicazione per i gruppi di agenti politici che nutrono aspirazioni anticapitalistiche. La loro lotta si interseca, e rischia di confondersi, con quella degli agenti “rivoluzionari” dentro il capitale, intenzionati a rilanciare il sistema capitalistico sostenendo sia i nuovi gruppi di agenti capitalistici in una data formazione particolare, sia la propria formazione particolare contro le altre sul piano internazionale (epoche policentriche). Anche per questo, pur in congiunture adatte è comunque difficile l’attività dei gruppi anticapitalistici, che debbono porre molta attenzione a quanto predicano, pena l’alienarsi le simpatie di gran parte dei segmenti e strati – perfino di quelli situati nei bassi gradini della scala sociale (ed economica) – che tendono allora a raggrupparsi in “blocco sociale” sotto la direzione dei suddetti “rivoluzionari” dentro il capitale.

Se l’esperienza del fascismo, ma soprattutto del nazismo, non ha insegnato nulla, allora poveri noi! Vogliamo ancora sostenere la menzogna, sciocca e illusoria, che le masse erano antifasciste e antinaziste, che sono state subornate (chissà come e perché), che sono state piegate antidemocraticamente con la pura violenza? Se vogliamo continuare ad autoingannarci, seguendo i mediocri antifascisti che blaterano sciocchezze da tempo immemorabile, sotto la copertura della vittoria delle “democrazie” capitalistiche (il “migliore involucro della dittatura borghese” per Lenin), facciamolo pure; ma non avremo imparato nulla dall’esperienza storica. E ripeteremo i clamorosi errori degli anni trenta; non solo l’errore di definire socialfascisti i socialdemocratici, ma anche quello di aver in seguito costituito con questi ultimi un’alleanza “antifascista” confusa e pasticciata, che ha posto una bella pietra tombale su ogni velleità anticapitalistica. Non entro evidentemente in questa sede in una discussione, più storica che teorica (ma comunque orientata da nuove ipotesi teoriche), che sarebbe lunga e qui sviante. Certo, se qualcuno infine assolvesse un compito del genere, si farebbe chiarezza su temi ormai avvolti dalla spessa nebbia ideologica sparsa dai vincitori (capitalisti tanto quanto i perdenti).

 

  1. Questo è un altro piccolo pezzo di una lenta e faticosa costruzione teorica, che tenta in ogni caso di staccarsi dai vecchi lidi senza affatto perderne la memoria. Pur dove magari non sembra, mi confronto in realtà sempre con il passato (non solo teorico), sforzandomi però di prendere un diverso indirizzo. Non ho certo la pretesa di possedere le capacità intellettive di alcuni grandi di tempi trascorsi – non mi riferisco semplicemente a Marx e ai marxisti – che hanno dato forti contributi alla crescita di una teoria della società, soprattutto di quella capitalistica; una teoria capace anche di suggerire precise pratiche politiche ed economiche. Resto inoltre ben saldo sulla posizione assunta da Althusser quando affermò che Marx ha aperto alla scienza il Continente Storia.

Malgrado quanto appena ricordato, sono sempre più convinto della necessità di percorrere nuove strade, tornando eventualmente sui propri passi se ci si accorge di essere incappati in un “cul di sacco”; non arretrando però fino a ritrovarsi al punto di partenza per poi fermarsi e segnare il passo con stanche giaculatorie. Del resto, tanto per fare un esempio eclatante, Galileo, pur essendo un genio, non giungeva all’altezza di pensiero di Aristotele; eppure seppe mandare al diavolo gli aristotelici del suo tempo. Non mi sembra di vedere oggi in giro geni “galileiani”, ma ciò non deve impedire ad alcuna persona appena un po’ sensata di mandare infine al diavolo i marxisti o i weberiani o gli schumpeteriani o i keynesiani….ecc. ecc. (tanti sono i grandi del passato) onde avviarsi lungo sentieri non ben segnati, estirpando intanto un bel po’ di erbacce che intralciano il cammino.

Quindi mi sento tranquillo: non sono presuntuoso e tanto meno folle, so bene di essere lontanissimo dai livelli di intelligenza di Marx, ma anche di tanti altri marxisti minori. Tuttavia, sono del tutto insoddisfatto delle attuali analisi della società da qualsiasi parte provengano; credo perciò che ci sia spazio per pensare e “innovare”. Comunque tento, e andrò avanti passin passino, con estrema prudenza. Solo alla fine, se ne avrò il tempo, sonderò la possibilità di elaborare il tutto in un nuovo libro che segni un deciso passo in avanti rispetto agli Strateghi del capitale.

 

 

La saga dei Saud_una conversazione con Antonio de Martini

L’Arabia Saudita sta vivendo da tempo una defatigante fase di successione all’interno della dinastia regnante. Il sistema di trasmissione del potere ha sino ad ora consegnato le leve di governo ad una paradossale gerontocrazia. L’ascesa di Selman sembra contraddire questa prassi e condurre all’epilogo la saga; con essa il perseguimento di alcuni capisaldi della politica estera e della politica interna sta trovando nuove ed inquietanti modalità operative, grazie anche agli sconvolgimenti in corso nella casa-madre americana_ Buon ascolto_ Germinario Giuseppe

https://www.youtube.com/watch?v=hyxQVMqEkG8&t=72s

MASSIMO MORIGI A PROPOSITO di CRISTIANESIMO, TOLLERANZA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. NOTE A MARGINE A TACCUINO FRANCESE! CHE COSA CI INSEGNA LA CRISI DEL FRONT NATIONAL? DI ROBERTO BUFFAGNI

15 Haec cum audisset quidam de simul discumbentibus, dixit illi: “Beatus, qui manducabit panem in regno Dei”.  16 At ipse dixit ei: “Homo quidam fecit cenam magnam et vocavit multos; 17 et misit servum suum hora cenae dicere invitatis: “Venite, quia iam paratum est”. 18 Et coeperunt simul omnes excusare. Primus dixit ei: “Villam emi et necesse habeo exire et videre illam; rogo te, habe me excusatum”. 19 Et alter dixit: “Iuga boum emi quinque et eo probare illa; rogo te, habe me excusatum”. 20 Et alius dixit: “Uxorem duxi et ideo non possum venire”. 21 Et reversus servus nuntiavit haec domino suo. Tunc iratus pater familias dixit servo suo: “Exi cito in plateas et vicos civitatis et pauperes ac debiles et caecos et claudos introduc huc”. 22 Et ait servus: “Domine, factum est, ut imperasti, et adhuc locus est”. 23 Et ait dominus servo: “Exi in vias et saepes, et compelle intrare, ut impleatur domus mea. 24 Dico autem vobis, quod nemo virorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cenam meam” ”

 Evangeliun Secundum Lucam 14: 15-24

 

Facendo i più vivi complimenti all’analisi politica svolta per “L’Italia e il Mondo” da Roberto Buffagni in “Taccuino francese! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?”, (1) un’analisi dove la puntuale conoscenza delle forze politiche che si scontrano sullo scenario transalpino viene eccellentemente unita ad una visione in profondità degli ultimi due secoli di storia francese, tale che vista l’importanza di questa nazione per la modernità politica occidentale, il “Taccuino francese!” può veramente aspirare ad essere una prima ricognizione non solo dei nostri problemi italiani (ed auspicabili soluzioni, posto, non mi stancherò mai di ripetere che in storia e nella vita delle società non si danno soluzioni come in matematica ma, semmai, nuovi problemi, dialetticamente connessi con quelli che li hanno preceduti) ma anche di quelli di tutte le odierne c.d. “democrazie”, è proprio sull’aspetto definito nell’analisi di Buffagni “metapolitico” (cioè della Weltanschauung e della politica culturale che dovrebbero connotare le consapevoli e più culturalmente attrezzate attuali forze antisistema) che si pone la necessità di una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema. Una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema che non può assolutamente sfuggire all’impostazione “culturalistica” datane da Antonio Gramsci quando nei suoi Quaderni del Carcere a livello di strategia politica preconizzava la graduale ed inesorabile conquista attraverso una lunga e paziente guerra di posizione delle “casematte” politico-culturali del nemico (dal suo punto di vista di comunista queste casematte erano occupate dalla borghesia e il movimento rivoluzionario non solo avrebbe dovuto battere il nemico di classe ma anche insignorirsi dei migliori valori di questa classe, in modo che non solo questi valori passassero al proletariato ma anche che i migliori rappresentanti della classe egemone ora sconfitta passassero dalla parte del proletariato) e formulava, con mentalità molto sorelliana, il mito del “moderno principe”, che non si riassumeva certo nell’ingannevole figura del classico “uomo forte”ma che rappresentava, piuttosto, la sintesi dialettica, incarnata in un movimento politico che sapesse fondere il momento più politico con quello di cultura politica – Buffagni lo definisce metapolitico – , fra le spinte dal basso politiche e culturali provenienti dal proletariato e le migliori istanze della borghesia che pur doveva venire sconfitta tramite la predetta guerra di posizione all’interno della società. Insomma, per Gramsci la cultura “nazionalpopolare” non era solo uno strumento per comprendere la società italiana del suo tempo ma era, soprattutto, un progetto rivoluzionario “in fieri” che doveva preludere alla rivoluzionaria vittoria del proletariato. E veniamo quindi ora ai punti “metapolitici” dell’articolo di Buffagni. Per farla breve, ed anche perché questo a mio giudizio è il cuore di tutto il ragionamento di Buffagni, cito direttamente il punto 3 che afferma: “L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo”. Ora, a parte il fatto che il termine ‘mondialismo’ dice troppo o troppo poco (ma si tratta di intendersi, tutti, compresi lo scrivente, soffrono della mancanza, dopo il fallimento storico delle esperienze e categorie marxiste, di un adeguato lessico rivoluzionario e ‘mondialismo’ – preso cum grano salis e con la consapevolezza della sua natura di strumento provvisorio da sostituire quanto prima con ben altre e più ficcanti terminologie, e il Repubblicanesimo Geopolitico è anche, se non soprattutto, impegnato nella formulazione di queste nuove “categorie del politico – può ben indicare la retoricizzazione a scopi di dominio politico interno e di proiezione imperialistica degli ideali democratici e dei c.d. diritti umani), è sull’opposizione totale e totalitaria all’illuminismo e all’universalismo che è necessario spendere qualche ulteriore riflessione (e diciamolo chiaramente anche qualche critica). Questo per due fondamentali motivi. Punto numero uno. Proprio perché come già affermato nelle vicende storiche e sociali non si danno mai soluzioni ma semmai nuovi problemi od assetti dialetticamente legati agli stati precedenti e che magari soddisfano, almeno parzialmente e per brevi periodi, coloro che li hanno generati ma che, in nessun modo, possono essere chiamati soluzioni alla stregua delle soluzioni matematiche, non ha dal punto di vista prettamente teorico alcun senso affermare che si è contro o a favore di una determinata situazione o periodo storico. O per essere ancora più radicali – ed anche apparentemente auto contraddittori – la teoresi politica e culturale è allo stesso tempo dialetticamente contro tutta la realtà che l’ha preceduta ma è anche attratta inesorabilmente da questa stessa realtà. Questo per il molto semplice e banale motivo che senza polarità di attrazione-repulsione della realtà che gli si pone di fronte, non solo non è possibile modificare la realtà stessa ma non esisterebbe nemmeno, a meno che non si voglia cadere nella “storia monumentale” di nietzschiana memoria, la teoresi stessa. E questa dialettica di attrazione-repulsione della teoresi verso la realtà non è altro, se ci si pensa bene, che la trasposizione su un piano prettamente teorico della dinamica del confronto-scontro strategico che avviene negli altri livelli della realtà, dalla evoluzione delle istituzioni e consuetudine umane all’evoluzione degli organismi in natura. Ma su questo fondamentale aspetto non mi voglio ora dilungare oltre, atteso che tutti i lettori sono a conoscenza della hegeliana dialettica servo-padrone ed anche perché – si parva licet componere magnis – è un aspetto che ho già precedentemente trattato e che troverà una ulteriore sistemazione nelle mie prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico. Secondo – ed ultimo – fondamentale motivo per cui il punto 3 dell’articolo di Buffagni necessita di una ulteriore messa a fuoco: è vero noi siamo tutti, tanto per intenderci su un piano di praticità operativa e retorica e in attesa anche di più scaltrite categorie politiche – contro l’universalismo ed il mundialismo ma – e qui ritorna in campo l’impostazione culturalistica di Gramsci – non dobbiamo assolutamente dimenticare (e Buffagni nei suoi punti assolutamente non dimentica) che universalismo e una delle sue degenerazioni che chiamiamo per comodità operativa mondialismo, sono l’ultimo anello di una catena che parte dal mondialismo (e mondializzazione altrimenti detta globalizzazione) occidentale iniziata coll’impero romano, proseguita dal cristianesimo e sfociata per ultimo in epoca moderna nelle grandi illusioni illuministe prima e marxistiche in finale di partita: tutto ciò per dire che ragionando con procedure dialettiche e gramsciane sembra veramente difficile che possa avere vita e forza politica, come invece sembra voler indicare Buffagni, una cultura nazionalpopolare che inglobi al suo interno una prospettiva cristiana ma rifiutandone ab imis l’universalismo relegandola ad una sorta di astratto momento ma disgiunto dall’azione vera e propria. In esergo a queste brevi considerazioni ho posto la parabola del convito dal Vangelo secondo Luca. Il padrone dice ai servi, costringete la gente ad entrare nel banchetto (compelle intrare: Luca 14:23). Nella tradizione della Chiesa, da Agostino a S. Tommaso d’Aquino, questa parabola è sempre stata citata per giustificare la persecuzione e la conversione forzata degli atei e degli infedeli. Se il lascito del cristianesimo riguardo ai rapporti col diverso fosse solo l’universalistico e mondialistico compelle intrare non ho nessuna remora ad affermare, nonostante tutti gli sforzi di sintesi dialettica che si debbono compiere in sede di teoresi, che non avrei proprio nessuna difficoltà a schierarmi toto corde contro cristianesimo, illuminismo e – ovviamente ça va sans dire – contro l’universalismo retorico e contro la sua ulteriore ed imperialistica estensione del mondialismo. Ma il cristianesimo non è stato solo questo, è stato, anche se perseguitato, spesso il suo contrario, e dal punto di vista storico e quindi della teoresi non è forse del tutto inutile ricordare che il concetto di tolleranza, ancor prima di assumere le modalità liberali di individualismo metodologico come infine sono state elaborate prima auroralmente e contraddittoriamente da Hobbes (libertà di coscienza ma solo nel foro interno e decisionismo sovrano che prevale nella società esterna schiacciando il sorgere pubblico di sette e divisioni all’interno della stessa), poi da Spinoza e infine definitivamente compiute in Locke, fu nella modernità occidentale elaborato dalle sette ereticali sorte in seguito alla Riforma, sette ereticali che, in polemica con la riforma stessa, affermavano, in buona sostanza, che l’amore universalistico che deve unire tutti gli uomini impedisce senza possibilità di alcun dubbio che qualcuno sia costretto ad entrare, sia cioè costretto a convertirsi. E queste sette e movimenti ereticali che fecero della tolleranza il loro maggiore lascito religioso, politico e culturale (gli eroici nomi delle loro guide spirituali: Sebastiano Castellione, (2) Bernardino Ochino, i Sozzini) erano gli eredi culturali del miglior e più scaltrito umanesimo italiano (il suo principale ed archetipo esponente, Lorenzo Valla) che tramite la loro critica filologica avevano ben capito che il compelle intrare ed altri luoghi comuni testuali, compormentali e culturali del cristianesimo o erano stati mal interpretati allo scopo di politiche di puro potere o, comunque, come tutti le umane imprese che nascono e muoiono nella storia, andavano debitamente contestualizzati tenendo sempre presente come stella polare l’universalismo dell’amore – e quindi della tolleranza – che giudicavano come il vero cuore pulsante del cristianesimo. Penso che una Kultur che avversi l’universalismo liberista e l’imperialista mondialismo e che partendo dalla storia della modernità occidentale sia sempre più radicata fino a diventare nazionale popolare (e quindi politicamente efficace) debba tenere ben presente anche questi elementi e del cristianesimo (3) e di questo aspetto di storia della religione che si sono manifestati proprio con estremo rigore e vigore in Italia. Concludo con una situazione estranea al bell’articolo di Buffagni ma che, anche se con una battuta, ci consente e di stigmatizzare il falso mondialismo democratico e di mostrare che l’ epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (progetto che fu anche di Gramsci, anche se con categorie per ora smentite dalla storia, ma avendo ben presente che si doveva dare origine ad un movimento politico-culturale “nazionalpopolare” e quindi radicato nella storia storia) non significa la falsa visione, portata a livello di massa, di un mondo intrinsecamente violento ma la consapevolezza molto strategica ma non necessariamente violenta che, esprimendoci con Alexander Werndt “anarchy is what states make of it”. (4) La bestiale repressione in Catalogna – e tanti saluti alla democrazia e ai diritti politici universalistici del mondo liberal-liberista falsamente propagandati dall’UE – ha fatto sì che, in piena tradizione esegetica cristiana mainstream di Luca 14: 15-24, si sia passati dal compelle intrare al compelle legnare. (5) Si tratta, in senso terroristico e con una versione della Kultur occidentale che noi avversiamo (contraddizione: non avevo appena detto che non si fanno i processi alla storia?) assieme ad una ulteriore conferma del detto wendtiano – ma in negativo, cioè della capacità umana, anziché di essere artefice del suo destino come indica la citazione wendtiana, di compiere il male – anche, attraverso la sua totale e speculare antitesi, dell’indicazione su cosa si deve intendere per ‘epifania strategica’. Una epifania strategica ed un senso delle più profonde e migliori radici della Kultur occidentale (6) che è del tutto assente nella mente e negli occhi spenti di questa attuale brutale Europa politica liberal-liberista e – usiamo ancora una volta questo termine sicuri che sappiamo capirci – mondialista.

Massimo Morigi – 4 ottobre 2017

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NOTE

1 Agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/, http://www.webcitation.org/6tvriCfRo e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F09%2F29%2Ftaccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni%2F&date=2017-10-03 .

2 Nell’ottobre 1553 venne messo al rogo a Ginevra l’antitrinitrario Michele Serveto (Michel Servet, Villanueva de Sigena, 19 settembre 1511 – Ginevra, 27 ottobre 1553). L’anno successivo stigmatizzando la decisione di Calvino di mettere a morte Serveto, Sebastiano Castellione (Sébastien Castellion, o Chatellion o Châteillon, in italiano Sebastiano Castellione, Saint-Martin-du-Frêne, 1515 – Basilea, 29 dicembre 1563) con lo pseudonimo di Martin Bellius pubblica il “De haereticis an sint persequendi” dove attraverso citazioni di diversi autori fra cui Martin Lutero, Erasmo da Rotterdam, Sebastian Frank e lo stesso Castellione, Castellione mostra l’insensatezza dell’intolleranza vista l’assoluta soggettività delle opinioni umane e, soprattutto, nella consapevolezza che il vero può essere avvicinato solo con una libera ricerca. Celebre la sua frase sul rogo di Serveto “Tuer un homme ce n’est pas défendre une doctrine, c’est tuer un homme. Quand les Genevois ont fait périr Servet, ils ne défendaient pas une doctrine, ils tuaient un être humain : on ne prouve pas sa foi en brûlant un homme mais en se faisant brûler pour elle” che consegna l’ “uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo” come una delle massime pietre miliari non solo della cultura occidentale ma anche (e ci sia concesso per un attimo il peccato dell’universalismo) di tutte le culture dell’uomo.

3 Altro tratto del cristianesimo fondamentale per il Repubblicanesimo Geopolitico per un’ulteriore sviluppo di una Kultur realmente alternativa alle attuali scemenze liberal-liberiste, e cioè il tormentato rapporto del cristianesimo di S. Paolo con la legge civile, è stato affrontato nel nostro “Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica” , che è stato pubblicato originariamente per “L’Italia e il Mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2017/07/29/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6sMcGBjay e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F07%2F29%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-31) e che poi è stato anche caricato autonomamente su Internet ed ora è quindi consultabile, oltre che su altre piattaforme, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia600809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf .

4 “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” è il titolo di un articolo di Alexander Wendt comparso nel 1992 sulla rivista “International Organization” (Alexander Wendt, “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425), articolo nel quale viene esemplarmente esposto quell’approccio costruttivista che ha rivoluzionato la dottrina delle relazioni internazionali e che ha profonde affinità con l’impostazione dialettico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico. L’articolo è ora anche consultabile su Internet, oltre altre piattaforme, all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf , mentre per l’importanza per il Repubblicanesimo Geopolitico del costruttivismo di Alexander Wendt, oltre a vedere “Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari”, pubblicato prima sul “Corriere della Collera” all’ URL https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/ e ora anche sull’ “Italia e il Mondo” all’ URL http://italiaeilmondo.com/2017/03/16/repubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6t4eGt59y e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F03%2F16%2Frepubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi%2F&date=2017-08-29), si rinvia, more solito, per la “dialettizzazione” del costruttivismo wendtiano alle prossime “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico”.

5 Proseguendo con gli ignobili giochi di parole, ma per certe situazioni e certi uomini non si può sprecare troppa intelligenza, dopo l’indegno discorso di re Filippo VI di Spagna in seguito alla brutale e bestiale repressione in Catalogna per un referendum definito incostituzionale (ma ammesso e non concesso che lo fosse, sarebbe bastato non riconoscerne il risultato, cercando di non farlo svolgere si denuncia la propria coda di paglia e, comunque, ne viene posto, de facto, un sigillo di legittimità se non giuridica certamente politica), ora per le vicende di Spagna al “compelle legnare” bisogna anche associare un “compelle regnare” (o, con (in)felice sintesi “per regnare compelle legnare”: comunque, non si sa bene ancora per quanto, visto che la giustificazione di un’istituzione anacronistica come la monarchia nei regimi a c.d. democrazia rappresentativa si giustifica proprio per essere una voce , in ragione della sua natura non elettiva e quindi non sottoposta ad alcuna spinta elettoralistica, volta unicamente alla concordia del popolo, al di sopra delle fazioni e contro ogni demagogia – e nel caso della Spagna – delle bestialità autoritarie di leader politici – e degli agenti strategici politico-militari nostalgici del franchismo – che devono rispondere ai peggiori istinti totalitari del loro elettorato …).

6 Il Repubblicanesimo Geopolitico è debitore a Walter Benjamin, oltre alla elaborazione delle “categorie del politico” dell’ ‘iperdecisionismo’ e dello ‘stato di eccezione permanente’ che animano le “Tesi di filosofia della storia” (cfr. sull’argomento i nostri Massimo Morigi, “La Democrazia che sognò le fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico”) e Id.,Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola”, entrambi lavori pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” e consultabili anche su varie piattaforme Web), anche del suo particolare messianismo, non rivolto verso un imprecisato futuro ma inteso a salvare quanto nel passato era stato cacciato ai margini della storia ed oppresso. A questo proposito Benjamin creò la metafora del “balzo di tigre nel passato”. Nella Weltanschauung del Repubblicanesimo Geopolitico, questo messianico “balzo di tigre nel passato” si tramuta in un’ epifania strategica che per realizzarsi si pone l’obiettivo di una Kultur non statica ma sempre in fieri , attraverso la quale vengano recuperate e rese strategicamente operative e vincenti tutte quelle situazioni e (fallite) soluzioni che nel passato appartennero agli agenti omega-strategici: «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso. Così per Robespierre l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.»: Walter Benjamin, tesi n. 14 di “Tesi di filosofia della storia”.

RAPPORTO CONFIDENZIALE, di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa, dalla sua postazione particolare, ci introduce amabilmente ormai da alcuni anni tra i retroscena e nei meandri della politica americana attraverso affreschi ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/crepe-nellimpero-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-il-19-marzo-2012-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/ ) e rapidi flash ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/la-rivolta-degli-sceriffi-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-su-www-conflittiestrategie-it-il-18-giugno-2016/ ). Adesso tocca ad uno dei dinosauri di quello scenario, pur pesantemente acciaccato ormai, ad essere oggetto di attenzioni: Hillary Clinton. Se la rappresentazione offerta dalla CNN dovesse essere corretta, c’è da rimanere esterrefatti. Possibile che un politico di quel livello, dal curriculum così impressionante, sia capace di una analisi ed una interpretazione così rozza e squinternata dell’esito delle recenti elezioni presidenziali? Ad un politico ancora in attività, seppure sulla via del tramonto, non è possibile pretendere un giudizio obbiettivo, indipendente dalle conseguenze politiche. Colpisce, però, la rozza strumentalità delle accuse e l’incapacità di cogliere la novità e l’efficacia della conduzione della campagna elettorale del suo acerrimo avversario; il mix di raccolta di dati, gestione, intervento mirato sul territorio, uso combinato di tecniche tradizionali e innovative. Un errore imperdonabile , per una professionista della politica. Ci sarebbe da prendere atto di un fallimento quasi esistenziale di questa classe dirigente formatasi negli anni ’90 e successivi in un agone senza veri competitori e avversari politici, se avversari possono chiamarsi i vari Boris Eltsin, Scalfaro, Letta, D’Alema, Ciampi, Merkel, Sarkozy. Una classe dirigente abituata evidentemente a vincere facile e poco avvezza allo scontro duro con competitori reali. Una classe dirigente che ha infatti dilapidato in pochissimi anni un potenziale egemonico apparentemente superiore a quello dell’Inghilterra del secolo XIX. Lascio al più autorevole Campa il compito di discettare in futuro della condizione del suo paese. Preme sottolineare, piuttosto, la conferma della condizione peregrina della nostra classe dirigente, in particolare della cosiddetta sinistra. Abbiamo visto, in questi anni recenti, dirigenti qualificati, come Massimo d’Alema, gonfiare talmente di compiacimento il proprio gracile corpo da insufflare persino le proprie gote al cospetto e nelle grazie ostentate di Hillary Clinton; abbiamo visto i suoi numerosi epigoni, in particolare di genere femminile, tra questi la Dassù, la Pinotti, la Mogherini, accorrere affannosamente e senza ritegno, al momento dell’assegnazione del loro incarico istituzionale, nemmeno dai diretti referenti istituzionali americani, ma attraverso i sensali, capaci di aprire loro almeno le porte di servizio ( http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/giuseppe-germinario/.  ) Una progenie politica che, evidentemente, ha evitato di analizzare seriamente gli errori e i meriti del proprio passato;  ha semplicemente rimosso gli antefatti e, con questo, pronto a assorbire dai più potenti il peggio, trascinando il paese lentamente nella attuale disastrosa condizione, pur di sopravvivere a se stessi. Sembrano ormai destinati a soccombere; ma non è detto che il paese, pur liberatosi dal fardello, riesca ugualmente ad emergere. Germinario Giuseppe

Il libro di Hillary Clinton sulla campagna presidenziale dell’anno scorso, uscirà nelle librerie degli Stati Uniti il 12 Settembre, ma già si conoscono importanti passaggi dei suoi contenuti del testo  dal titolo “What Happened” (Cosa e` Successo). Potrei spiegare tranquillamente io alla Signora Clinton cose è successo; ma la Clinton nel libro si ostina ad elaborare una serie di teorie che hanno contribuito secondo lei alla sconfitta della sua campagna elettorale e di conseguenza alla vittoria del presidente Donald Trump.

Il libro è stato acquistato in Florida dalla CNN una settimana prima del previsto lancio. Grazie alla sua tempestività si possono apprezzare alcuni passaggi dell’opera.

Puoi biasimare i dati, incolpare il messaggio, incolpare tutto quello che vuoi – ma io ero il candidato” scrive.Era la mia campagna, quelle sono le mie decisioni“. La Clinton ammette di aver anche sottovalutato Trump.

Penso che sia giusto dire che non ho capito quanto velocemente il terreno si stava spostando sotto i nostri piedi“, scrive. “Stavo correndo una tradizionale campagna presidenziale con politiche accuratamente pensate e coalizioni costruite minuziosamente, mentre Trump stava gestendo un reality show televisivo che ha saputo coltivare in modo irresistibile facendo leva sulla rabbia degli americani“.

Poi la Clinton punta il dito contro il direttore dell’FBI James Comey quando ha riaperto l’inchiesta sullo scandalo delle emails classificate.”La lettera di Comey ha sconvolto la campagna presidenziale” scrive Clinton.

Nel libro, Clinton parla anche del suo matrimonio con l’ex presidente Bill Clinton e osserva che  “Ci sono stati momenti in cui ero profondamente incerta se il nostro matrimonio doveva continuare o meno, ma in quei giorni mi sono fatta le domande importanti: lo amo ancora? Posso rimanere in questo matrimonio senza diventare irriconoscibile a me stessa- contorta dalla rabbia, dal risentimento o dalla solitudine? Le risposte erano sempre affermative”.

Ha anche affrontato l’intromissione della Russia nelle elezioni del 2016 e si chiede se una risposta più forte da parte del presidente Barack Obama avrebbe aiutato. Su Vladimir Putin, Clinton sostiene di aver meditato una vendetta; “non avrei mai immaginato che Putin avesse l’audacia di lanciare un massiccio attacco contro la nostra democrazia, proprio sotto i nostri nasi – e di averla fatta anche franca”. Personalmente su questo passaggio non saprei se ridere o piangere talmente ridicola risalta la affermazione di Clinton. HC si rammarica per non avere potuto fargliela pagare, a Putin. “Non aspettavo altro che mostrare a Putin come i suoi sforzi per influenzare le nostre elezione, installando un amichevole burattino (Trump), erano falliti”, scrive. “So che Putin gode di tutto quello che è successo, ma ride bene chi ride ultimo…“.

Inoltre Clinton afferma che “Ci sono  molte persone che speravano che anche io scomparissi, ma sono ancora qui.”

Apparentemente la Clinton nel libro attribuisce anche molte colpe della perdita delle elezioni anche  a Bernie Sanders, Joe Biden, Barack Obama e altri.

L’uscita del libro di Clinton avviene nel momento in cui il libro della sua guida spirituale, il pastore Metodista; Bill Shillady è stato ritirato dagli scaffali delle Librerie con l’accusa di Plagio. Il libro intitolato: “The Daily Devotions of Hillary Rodham Clinton” (Le devozioni quotidiane di Hillary Rodham Clinton),  è una raccolta delle e-mails che lui e altri ministri hanno inviato all’ex Segretario di Stato ogni quotidianamente durante la campagna presidenziale del 2016. Ogni e-mails devotamente composta ogni mattina alle 4 in punto, conteneva un brano della Scrittura, un breve sermone e una preghiera per lei da recitare quel giorno.

Alla fine sulla domanda della Clinton; Cosa e Successo? La risposta è più semplice di quello che sembra: E` successo che Trump ha vinto e la Clinton ha perso. Quello che invece continuiamo a non sapere e che fine hanno fatto le 33.000 emails che la signora Clinton ha eliminato dal suo server…Quello si richiede una risposta che ancora non è arrivata e forse mai arriverà…

Penso che ogni analisi sia superflua. Ogni volta che sento la Clinton parlare, scrivere o semplicemente respirare, mi rendo conto che con tutte le sue debolezze, le sue incertezze, la sua approssimazione, Trump a suo modo e` stata una salvezza.

LETTERA DAL PROFESSORE, a cura di Giuseppe Germinario

Pubblichiamo, autorizzati, la lettera di un professore italo-americano, insegnante di liceo a San Francisco. Dal testo si comprende come il dibattito ormai del tutto distorto sull’antifascismo, sui diritti umani, sul politicamente corretto non sia una prerogativa italiana. Si può affermare con certezza, al contrario, che le campagne orchestrate dai grandi organi di informazione siano solo un aspetto di una pratica certosina pluridecennale che ha messo le prime radici negli Stati Uniti sino alle sue ultime degenerazioni moralistiche ed inquisitorie pervasive dei diversi ambiti della società, a cominciare dal settore dell’istruzione, denunciate dalla lettera. In Italia, quello che ci appare una novità, a cominciare dall’impegno messianico e ottuso della nostra Presidente della Camera, Laura Boldrini, non è altro che il rimasuglio ripetitivo, nemmeno troppo convinto, di una violenta battaglia politica il cui epicentro è localizzato di là dell’Atlantico

«Fino a pochi giorni fa i neo-nazisti in America erano quattro gatti,
psicopatici, buoni al massimo ad essere messi alla berlina dai Blues
Brothers. Qualche settimana fa, sono andati a Charlottesville in cerca
di attenzione. La Cnn si è occupata di loro con una diretta non stop. La
presenza delle telecamere ha galvanizzato la protesta e la
contro-protesta, così ora i nazisti, da quella caccola che erano, si
sentono importanti. La diretta televisiva a Charlottesville ha aperto
una lattina piena di vermi e ora non c’è più modo di rimettere i vermi
nella lattina.

Tutto questo è il risultato di una mentalità che nasce nelle high
schools, forse anche middle schools, dove tutti i temi politicamente
corretti costituiscono una specie di dogma e dove si sviluppa la
retorica del “safe space”, lo “spazio sicuro”. Gli insegnanti sono
invitati a mettere sulla porta della loro aula un adesivo che dice
“questo spazio è sicuro”, cioè è uno spazio dove non si mette in
discussione la teoria gender, non si parla di diritto alla vita dei
nascituri, nessun comportamento sessuale è criticato. Sono incluse in
questa retorica anche tutte le teorie pseudo scientifiche su come
l’apprendimento, e perciò la conoscenza, dipenda dal soggetto e non
dall’oggetto che viene studiato. Non è un caso che l’oggettività del
metodo di conoscenza è sotto attacco.

Un altro grande dogma indimostrato che comincia dai livelli scolastici
inferiori è quello di tutta una serie di “disordini”, il più famoso dei
quali è l’Add, Attention Deficit Disorder, o il suo fratellino Adhd,
Attention Deficit and Hyperactivity Disorder. Ce ne sono molti altri e,
anche se la definizione di disordine enuncia chiaramente che non sono
patologie, vengono di fatto trattate come tali, in molti casi con
psicofarmaci. La conseguenza è che un numero sempre crescente di
ragazzini è considerato non responsabile delle proprie azioni (il ché
potrebbe essere vero nel caso di una patologia), in quanto ha un
“disordine”.

*Il cestino dei deplorevoli
*Qualunque tentativo di discutere seriamente “dogmi”, è presentato ai
ragazzini come una forma di attacco a loro stessi. Questo li educa a
considerare qualunque sfida alla versione corrente del politicamente
corretto come un’offesa inaccettabile, un attacco che provoca loro una
sorta di dolore mentale. Da qui si capisce come, arrivati
all’università, questi ragazzi considerino non solo un loro diritto, ma
quasi un dovere impedire di parlare a chiunque dica una cosa diversa dal
sistema di pensiero dello “spazio sicuro”.

Si potrebbero citare molti episodi, mi limiterò a quanto accaduto al
Middlebury College a fine febbraio. Alison Stanger, una professoressa di
sinistra, aveva invitato Charles Murray, un sociologo conservatore, a un
dibattito pubblico. Gli studenti erano così infuriati che li hanno
attaccati fisicamente e la professoressa ha subìto una contusione. La
presenza di un conservatore nel campus non li faceva sentire sicuri, in
quanto i conservatori sono tutti per definizione intolleranti. Questione
di “feeling”.

Qualunque pensatore non in linea con l’ultima versione del politicamente
corretto è automaticamente immesso in quello che Hillary Clinton ha
definito “il cestino dei deplorevoli”. Nella mente dei ragazzi educati
alla retorica dello spazio sicuro, tutti quelli che sono al di fuori di
tale spazio sono i mostri che popolano il buio dei bambini: odiano i
gay, le donne, i neri e le minoranze; sono fascisti e nazisti. Neanche
essere gay li salva, infatti Milo Yiannopoulos ha ricevuto gli stessi
trattamenti. Questo dimostra che quelli che difendono non sono i gay
reali, ma solo quelli politicamente corretti; non i neri reali, ma solo
quelli politicamente corretti. Se un afro-americano esprime un punto di
vista “conservatore” diventa subito una legittima preda degli attacchi
verbali più feroci, senza tema di razzismo.

Allora si capisce l’enorme pubblicità data al fenomeno, fino a ieri
marginale, dei neo-nazisti. Infatti consente di dire alla generazione
dello “spazio sicuro”, cioè il terreno di coltura degli elettori liberal
del presente e del futuro: “Avete visto che avevamo ragione? Tutti
quelli che non sono d’accordo con noi sono in realtà dei mostri, dei
nazisti. Non esiste complessità di temi o di posizioni, il mondo si
divide in noi e loro. Noi siamo i buoni e loro i cattivi”. I cliché di
Hollywood avevano già preparato il terreno da tempo».

 

 

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (2a parte)

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (1a parte)

LA RIMOZIONE DI UN EVENTO EPOCALE

Entrambi i limiti interpretativi pagano lo scotto di una rimozione o, nel migliore dei casi, di una valutazione del tutto parziale delle implicazioni di un evento politico epocale cruciale: la sconfitta militare, l’occupazione territoriale, la distruzione di un regime istituzionale, per altro odioso, la riduzione e lo smembramento territoriale della Germania.

La dimensione catastrofica di quella resa consentì ai due vincitori, l’URSS e gli USA, di decidere delle sorti di quel paese. Per quel che ci riguarda più direttamente, in quanto forza di occupazione gli Stati Uniti determinarono il carattere federale oltre che parlamentare del regime nella sua parte sud-occidentale, il suo carattere antisovietico, la limitazione drastica delle forze armate, in particolare quelle terrestri e l’infiltrazione e l’organizzazione delle principali istituzioni e sistemi.

Il carattere di occupazione di quella presenza non ancora risolto definitivamente nemmeno dagli accordi che hanno sancito negli anni ‘90 l’unificazione tedesca.

Una modalità di dominio non risolvibile con il controllo di una parte limitata delle élites dominanti del paese sconfitto e con azioni complottistiche tese a determinare direttamente le azioni dei vertici politici; piuttosto una azione altamente sofisticata e persuasiva tesa soprattutto ad orientare ed indurre, addirittura a creare delle dinamiche inerziali capace di attirare e integrare progressivamente in un sistema occidentale le varie formazioni sociali e i vari stati nazionali caduti nella rete dei liberatori. Un sistema fortemente attrattivo, capace nel rispetto delle gerarchie fondamentali, di offrire sviluppo ed una relativa libertà di azione, ma proprio per questo ancora più pervasivo. In questa trama la Germania Federale ha assunto un ruolo importante, superiore alle stesse aspettative delle élites tedesche emerse dalla sconfitta militare, in parte per merito proprio, soprattutto per scelta del vincitore. Accantonate rapidamente le tentazioni, vellicate soprattutto da Francia e Regno Unito, di ridurre il paese ad una condizione preindustriale, senza nulla cedere sulla capacità di controllo, si optò per un rapido sviluppo che stabilizzasse un paese alleato ai confini cruciali della propria zona di influenza, contribuisse economicamente e produttivamente al sostegno della macchina bellica e neutralizzasse le residue ambizioni egemoniche di Francia e Gran Bretagna. Il pegno da pagare in termini di sovranità fu estremamente pesante con un sistema di controllo e infiltrazione particolarmente intricato e insindacabile, per altro sancito, che riguardava non solo l’intelligence e le forze armate, ma anche il sistema politico, amministrativo e comprendente anche, un aspetto del tutto ignorato dai redattori di Limes come da gran parte dei giornalisti e studiosi, gli organi di informazione e le strutture economiche.

In settant’anni le cose possono cambiare; ma non è questo, sostanzialmente, il caso della Germania.

Le tentazioni e qualche timido e sporadico tentativo di affrancamento non sono certo mancati. Durante la guerra fredda il tentativo più coerente fu portato avanti negli anni ‘70 con l’ “oestpolitik”. Si trattò in realtà di una “interpretazione” troppo estensiva del processo di distensione, più che altro un riconoscimento meno precario delle rispettive zone di influenza, inaugurato dalle due superpotenze. Per ricondurre alla mansuetudine nell’ovile della pecorella inquieta, agli americani fu allora sufficiente assecondare i timori francesi di un rigurgito delle ambizioni tedesche e la loro conseguente improvvisa conversione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea e innescare una politica di riarmo missilistico. Con la crisi e la caduta del blocco sovietico si presentò un contesto apparentemente più favorevole a vellicare ambizioni più audaci.

SUSSULTI DI EGEMONIA

Il tentativo più organico e strutturato avvenne nella seconda metà degli anni ‘80 quando, percepita la crisi imminente del blocco sovietico e forte dei legami più o meno circospetti stretti con quella parte della loro classe dirigente legata al commercio e al finanziamento del debito estero, una parte dell’establishment tedesco tentò per alcuni anni di organizzare e sostenere il sistema bancario dei paesi dell’Est-Europa per favorire la ristrutturazione economica e salvaguardare buona parte di quella classe dirigente. Fu l’atto e il momento che suscitò, nei confronti dell’élite tedesca, le stesse premure dedicate a quella italiana. Il luogo di raccolta degli accoliti fu diverso; con gli uni si scelse il Panfilo di Sua Maestà, al largo di Roma; con gli altri un più modesto albergo bavarese. Anche il numero di convitati differiva; ben più numeroso sulla prestigiosa imbarcazione, limitato a meno di dieci persone nel gasthof. Non si è trattato, probabilmente, di un mero omaggio alla italica convivialità rispetto alla proverbiale essenzialità teutonica; deve aver influito la diversa funzione che i comprimari, inglesi nell’una e francesi nell’altra, hanno assunto nell’iniziativa; soprattutto, è stata la perdurante e progressiva frammentazione politica ed istituzionale dell’Italia rispetto alla Germania a determinare le diverse caratteristiche dell’iniziativa, i diversi sviluppi e gli esiti opposti pur in una comune riconfigurazione della subordinazione politica all’alleato d’oltreatlantico.

Il tentativo più intraprendente fu posto in atto durante la guerra civile in Jugoslavia conclusasi, al momento, con la frammentazione di quel paese e con una conflittualità latente pronta a riemergere. L’iniziale spinta propulsiva alla divisione fu data soprattutto dalla Germania sino ad essere rapidamente assorbita pur con qualche attrito significativo da quella americana. L’evento bellico rappresenta comunque una svolta significativa che vede il gruppo dirigente egemone in Germania passare da una politica di cooptazione e sostegno delle vecchie classi dirigenti riformate dei paesi del blocco sovietico ad una di progressiva aperta ostilità verso la Russia e tesa a favorire la liquidazione delle stesse nei paesi dell’Europa Orientale e nei Balcani. Una scelta indubbiamente vantaggiosa nell’immediato perché ha consentito di riprendere e perseguire una politica di influenza ed integrazione economica esattamente lungo i corridoi tracciati dai colonizzatori tedeschi nel corso dei secoli sino alla metà del ‘800 senza dover contestare i legami di subordinazione con lo stato egemone americano e indebolendo vistosamente la posizione politica ed economica dei due altri grandi paesi fondatori della UE, la Francia e l’Italia. Una scelta deleteria dal punto di vista strategico nel caso la Germania dovesse aspirare ad una maggiore e decisiva autonomia politica che richiedesse un avvicinamento duraturo e stabile alla Russia di Putin proprio perché troverebbe nei più importanti paesi dell’Europa Orientale e della penisola scandinava i più fieri oppositori a tale svolta con scarse possibilità di un loro ricambio con centri politici più duttili.

I messaggeri in quell’albergo bavarese devono evidentemente essere stati particolarmente persuasivi anche se assecondati dalle circostanze propizie della morte violenta dei due nuovi paladini della ostpolitik, Herrhausen di Deutsche Bank e Rohwedder di Treuhandanstalt.

Da questi due eventi a cavallo della riunificazione si è dipanata la condizione di un paese ormai al centro di attenzioni e sospetti, ma incapace di una politica assertiva capace di aggregare forze e in grado tutt’al più di neutralizzare e fiaccare le forze di potenziali rivali nel campo “amico” europeo.

Negli ultimi venti anni i pochi atti politici autonomi di quella classe dirigente sono consistiti nella non partecipazione ufficiale alle avventure militari, in particolare Libia ed Iraq, salvo garantire efficacemente, ma in modo discreto, i propri servizi logistici e di intelligence come avvenuto in Libia. Per il resto si è rifugiata in annunci velleitari, quali la creazione di una forza militare congiunta e integrata con i francesi, miseramente fallita o nel perseguimento classico di una politica di influenza a rimorchio nel vicinato, come avvenuto in Ucraina, con grave pregiudizio delle relazioni con i russi o nel supporto opportunistico e lucrativo alla destabilizzazione specie nel Grande Medio Oriente. La Germania, infatti, lemme lemme risulta costantemente tra i primi fornitori ufficiali di armi e munizioni dei Sauditi, impegnati in Yemen, dei Giordani e della pletora di governi a supporto delle primavere.

I LIMITI STRUTTURALI

Una fondata e non frettolosa elezione della Germania a protagonista geopolitico e antagonista naturale degli Stati Uniti non può prescindere da una analisi della condizione strutturale del paese.

La particolare struttura federale già dibattuta nelle università americane a partire dagli anni ‘30 e imposta nel regime di occupazione assegna importanti competenze di politica estera ai laender in cooperazione e spesso in conflitto tra loro e con lo stato centrale, indebolendone di fatto coerenza e incisività. Un esempio significativo si può trarre dal ruolo decisivo assunto dal Governo Bavarese nella fomentazione della guerra civile in Jugoslavja e nella capacità di trascinare altre regioni di stati confinanti su questo indirizzo in opposizione alle direttive dei rispettivi stati nazionali. Una organizzazione istituzionale che riesce comunque a mantenere una propria operatività grazie al ruolo unificante delle grandi associazioni verticali entro le quali si compongono gli interessi lobbistici e gli indirizzi di buona parte dei centri decisionali.

A garantire, più che la coerenza, l’incisività di una struttura così articolata fa difetto però l’estrema permeabilità delle strutture di intelligence e degli apparati coercitivi e di controllo, il retaggio più pesante della disfatta militare e del conseguente regime di occupazione. La vicenda delle intercettazioni americane ai danni della Cancelliera ha semplicemente rivelato il livello di integrazione ed infiltrazione dei servizi tedeschi con quelli americani; la susseguente rimozione del responsabile, più che la volontà una riorganizzazione e una depurazione delle strutture, ha rivelato la stizza di un capo politico per la pubblicità imbarazzante di quei segnali di attenzione. Per il carattere di riservatezza insito, i Servizi di Sicurezza sono particolarmente vulnerabili; la permeabilità, comunque, investe un po’ tutti gli apparati coercitivi e sanzionatori dello stato germanico, compreso quello militare ancora particolarmente debole.

Una chiosa a parte merita il sistema di informazione, quasi del tutto allineato all’ortodossia atlantica. Con l’eccezione di alcune testate nazionali a tiratura limitata ed alcune testate locali il livello di controllo del sistema mediatico è impressionante. Una capacità di indirizzo delle testate e di legame diretto con singoli giornalisti. È del resto notoria la meticolosità con cui i vari centri strategici americani curano le relazioni con i media istituzionali. Le campagne giornalistiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sono sempre stati strumenti propedeutici al conflitto politico, al condizionamento dei centri e all’eliminazione degli avversari, anche se la diffusione dei network on line ha in parte facilitato la possibilità di centri politici alternativi e ridefinito le modalità di manipolazione dell’informazione. In Germania, nella fattispecie, colpisce il fatto che la componente più orientata ad una politica autonoma con la Russia, un tempo significativa, trovi sempre meno spazio mediatico e non riesca ormai da anni a creare una opinione pubblica favorevole a sostegno delle proprie scelte.

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

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