Breve consuntivo sulla Siria, di Antonio de Martini

Mi pare una sintesi efficace ed una valutazione attendibile di quanto sta accadendo attualmente in Siria ad opera di un personaggio che ha conosciuto e vissuto come pochi la Siria  _ Giuseppe Germinario

SIRIA: ASSAD MOSTRA DI NON CADERE NELLA TRAPPOLA DEL ” FRONTE SUD” E SI RIPRESENTA ALLA FRONTIERA LIBANESE PER RIAPRIRE IL CONTENZIOSO CON GLI ISRAELIANI. di Antonio de Martini

SIRIA: ASSAD MOSTRA DI NON CADERE NELLA TRAPPOLA DEL ” FRONTE SUD” E SI RIPRESENTA ALLA FRONTIERA LIBANESE PER RIAPRIRE IL CONTENZIOSO CON GLI ISRAELIANI. di Antonio de Martini

Sbarcando in Israele per una visita ufficiale predisposta da tempo, il ministro della Difesa russo  Sergei Shoygu si è trovato di fronte a uno dei rompicapo classici del Vicino Oriente: pensava di fare un incontro in atmosfera serena sfuggendo all’inverno di Mosca per qualche giorno e la patata bollente gli è caduta in mano all’improvviso, rivoluzionando l’agenda dell’incontro che peraltro  conferma il nuovo ruolo di arbitro della Russia nel contenzioso mediorientale, accettato anche da Israele.Due giorni fa un aereo di Tsahal è stato attaccato nei cieli del Libano da un sistema missilistico AS 200 in dotazione alla contraerea siriana e l’aeronautica, israeliana ha risposto con sospetta immediatezza attaccando la centrale radar che aveva diretto il tiro dal territorio siriano, distruggendola.

E’ necessaria una premessa mnemonica, necessariamente lunga, ai lettori: il Libano, piccolo e disarmato, è da sempre oggetto di contesa tra i suoi due potenti vicini. Entrambi considerano i cieli libanesi  zona propria sorvolandoli a piacimento, ma dall’inizio della guerra nel 2011 Israele non era più stato contrastato nelle sue scorrerie sul cielo di Beirut.

Assad, preso da altre più pressanti preoccupazioni e ansioso di non accumulare nemici, ha per sei anni ” sorvolato” sulle circa cento incursioni compiute dagli israeliani con due diverse motivazioni: impedire il trasferimento di ” armi strategiche a Hezbollah” e reagire a colpi perduti che colpivano il territorio israeliano senza troppo badare a chi era il mittente.

Ora che la situazione si era andata calmando si è constatato che almeno una delle due motivazioni era artefatta e – poiché le incursioni dell’aeronautica di Tsahal avevano sempre come obbiettivo installazioni militari governative – gli “insurgents” operanti ai confini israeliani avevano preso l’abitudine di sparare qualche colpo di mortaio  ( curando che non colpisse nessuno) sul territorio occupato da Israele, in maniera da ottenere di fatto un appoggio aereo “a richiesta” sotto forma di legittima rappresaglia.

L’intervento dell’aeronautica russa pose fine a questa ambigua forma di sostegno aereo ai ribelli.

Dato che le FFAA di Israele già assistevano i feriti ribelli più gravi  , fino a prelevarli con elicotteri per ricoverarli ed operarli, questo secondo “coordinamento” colp- di-mortaio-senza-danni-intervento-aereo-anti-esercito-siriano, è diventato un ulteriore elemento di accusa di ingerenza israeliana nel conflitto.

Con l’affievolirsi delle prospettive di vittoria dei mercenari ribelli, gli israelo-americani hanno precauzionalmente cessato ogni azione proveniente dalla Giordania e più in generale nelle zone prospicienti il confine israeliano.  Per evitare ogni minimo  rischio,  hanno cessato di pagare e rifornire le truppe in tutta l’area e creato una newsletter finta filo governativa mirante a suggerire la strategia desiderata  ” southfront” che osanna ogni piccolo progresso delle truppe lealiste nell’area di Deir el Zohr. In occidente il bollettino  ha trovato adepti, ma non nel Levante. Oltretutto la terminologia usata dagli arabi non è quella e i filmati e le cartine particolareggiate non fanno parte dell’arsenale siriano.

L’attacco missilistico dei siriani  all’aereo militare  israeliano che solcava i cieli del Libano ha il significato che Assad considera la guerra sul proprio territorio liquidata, che non ha abdicato al ruolo di protettore del Libano e che non abboccherà al giochino di contrastare i curdi che hanno occupato Rakka ” la capitale del Califfo”. Ai curdi ci pensano le truppe irachene che hanno occupato Kirkuk e costretto a un armistizio i seguaci di Barzani che si sono impegnati a rientrare nei confini del 2003 ossia all’inizio dell’avventura di Bush il piccolo, mentre i curdi di Rakka saranno presto impegnati dai turchi che hanno gia annunziato ufficialmente di aver installato “posti di osservazione ” nella zona di Idlib, ossia in territorio siriano ( zona di Aleppo, per intenderci). Nessuna protesta di sovranità violata da parte della Siria.

Gli israeliani, dal canto loro, hanno preferito mettere alla prova le intenzioni siriane proprio mentre arrivava  Sergei Shoygu, responsabile dei rifornimenti di nuove armi alla Siria, per poter disporre di un mediatore autorevole in caso di aggravamento della crisi nascente dal test libanese.

Si torna alla casella di partenza in questo gioco di scacchi in cui tutti sembrano conoscere le regole ad eccezione degli americani che sono riusciti in una nuova performance: hanno unificato turchi, siriani e iracheni contro i curdi.

Dopo l’Operazione ” Pace in Galilea” del 1982 in cui si volle costringere alla pace con Israele  il Libano togliendogli anche un pezzo di territorio ( e che ha dato vita a Hezbollah), assistiamo agli ultimi fuochi della “Operazione Assad” che mirava ad eliminare la Siria come avversario di Israele e che ha trasformato un oculista nel protagonista principale  della politica araba e del Levante.

TEOLOGI FAI DA TE ? AHI, AHI, AHI, ! , di Antonio de Martini

Un po’ di ricostruzione storica serve ad inquadrare il presente di un paese, o meglio della sua classe dirigente attualmente in auge, il quale sorprendentemente comincia a guardarsi anch’essa intorno sino a cercare accordi con gli avversari di sempre, compresa la Russia. Segno che la fase multipolare sta accelerando le dinamiche di confronto. Non è detto, però, che dietro tali passi ci sia la comprensione, benevola ma alquanto discreta, del beffardo Trump _ Giuseppe Germinario

Mohammed ibn Abd el Wahab ( che d’ora in poi chiameremo MAW) è vissuto nel XVIII secolo e gran parte del disordine sociopolitico e militare attuale si deve a lui ed alla intuizione che mettendo le sue idee al servizio delle ambizioni di uno sceicco di periferia in quel di Day’rrya ( un paesino grande come uno sputo) ha provocato un moto ondoso che continua ancor oggi anche se a più riprese stroncato con la forza.

Basterà in questa sede sapere che di regni sauditi ce ne sono stati tre e che il patto tra MAW e lo sceicco Saud ( dei bani Hanifa) fu molto semplice e rispecchiante quello che Guglielmo di Occam propose alla Repubblica di Venezia ( “defende me gladio, te defendam calamo”) rafforzato dall’impegno di sposarsi tra membri dei due clan senza mai che discendenti di Abdel Wahab ( MAW) si candidassero a gestire il potere politico e i Saud quello religioso.

Dopo tre secoli il patto regge ancora e si basa sul programma di unificazione della penisola araba e di riforma salafita dell’Islam.

L’arricchimento seguito allo choc petrolifero del ’74 ha provocato un allargamento degli orizzonti che presto o tardi dovremo fermare con la forza e la forca, come la volta scorsa.

L’ultimo regno saudita, ai primi dell’800, irritò la sublime porta al punto che il Califfo, rischiando il rifiuto da parte dello pseudo vassallo egiziano, gli diede L’ incarico di farla finita voi wahabiti.

Mohammed Alì, un soldato di ventura albanese che si era impadronito dell”
M Egitto, volse la palla al balzo per affermare la propria legittimità e organizzò una spedizione militare nella penisola arabica conclusasi con la cattura e impiccagione del re saudita.

Così cessò il secondo regno saudita e iniziò la dinastia egiziana che portò al re Farouk.

Un sincero amico dell’Italia, di fronte al quale Weinstein era un chierichetto, ma che Churchill definì “uno sfrontato” perché a ventun anni gli si rivolse con franchezza chiedendo come compenso di guerra la Cirenaica.

Per sistemare la crisi del vicino oriente, serve un altro Mohammed Ali.

BATTERI GEOPOLITICI, di Gianfranco Campa

Le notizie ( https://www.popsci.com/antibiotic-resistance-meat-farming-tax ) https://www.popsci.com/antibiotic-resistance-meat-farming-tax che arrivano dalla comunità medico-scientifica sono estremamente preoccupanti. In un recente incontro gli scienziati biomedici della Società Americana per la Microbiologia hanno rivelato che un gene chiamato MRC-1, presente nei batteri, conferisce agli stessi una resistenza a tutti gli antibiotici, inclusa la Colistina. La Colistina, conosciuta anche col nome di polimixina, è un farmaco di vecchia data creato da un ricercatore giapponese nel 1949. L’effetto collaterale più deleterio della Colistina è la pesante nefrotossicità e per questo motivo non è stata più utilizzata come antibiotico dalla comunità medica; questo fino a qualche anno fa, quando l’ascesa di microbi resistenti agli antibiotici tradizionali ha forzato la comunità scientifica a riesumare dagli armadi la Colistina per usarla come “arma di ultima speranza” per aver ragione di quelle infezioni resistenti ormai a tutti gli altri antibiotici. Ebbene, l’avvento dell’MRC-1 ha rivelato che anche quest’ultima arma è antiquata e quindi non rimane niente a disposizione della comunità medica da contrapporre ai superbatteri.

La scoperta del MRC-1 è relativamente nuova, avvenuta in Cina poco più di due anni fa. Gli scienziati trovarono un gene che permette ai batteri di diventare resistenti ad una classe di antibiotici conosciuti come polimine, comunemente utilizzati per combattere i superbatteri resistenti agli antibiotici più tradizionali. Contro MCR-1 anche le polimine erano diventate superflue eccetto in un primo momento, appunto, la Colistina; le ultime notizie sono preoccupanti poiché ci dicono che ora anche la Colistina è diventata inefficace. In altre parole l’MRC-1 rende invincibili i batteri, rendendo nuovamente mortali malattie precedentemente trattabili come per esempio la Polmonite. L’altra notizia è che la presenza dei batteri contenenti l’MRC-1, due anni fa, era circoscritta alla sola Cina; ora questi si stanno diffondendo anche nel resto del mondo. Molti scienziati hanno descritto questo avvenimento come una drammatica svolta epocale, un evento apocalittico, immune da contromisure adeguate. Tra qualche anno torneremo all’era pre-antibiotici, quando la gente moriva o si ammalava gravemente semplicemente per un’infezione più o meno banale, come detto prima la Polmonite, ma anche la Clamidia, la Gonorrea, la Tubercolosi, la Cistite, la Salmonellosi e così via. Insomma uno scenario appunto apocalittico. Attualmente 700.000 persone all’anno muoiono per infezioni resistenti ai farmaci. Secondo gli esperti nei prossimi tre decenni intorno ai 10 milioni di persone moriranno ogni anno per infezioni ormai intrattabili con gli attuali farmaci. Sul Guardian, Jonathan Pearce, l’immunolo del British Medical Research Council, ha detto che “ La Chirurgia in generale, i parti cesarei e la stessa chemioterapia, i quali devono il loro successo all’uso concomitante degli antibiotici, diverranno operazioni ad alto rischio”. Torneremo insomma all’era pre-antibiotici. Consideriamo questi cambiamenti potenzialmente catastrofici per la Medicina e l’umanità in generale.

Gli scienziati e le varie organizzazioni mondiali sulla salute hanno cominciato a proporre piani concreti, idee e soluzioni da proporre per allontanare questo incombente, catastrofico scenario.

Tra le varie opzioni, la riduzione drastica degli usi di antibiotici particolarmente nell’ambito degli allevamenti intensivi dove praticamente il loro abuso, negli allevamenti di animali da macello, ha contribuito a creare lo scenario apocalittico cui stiamo andando incontro. Non è un caso che l’MRC-1 sia stato individuato per la prima volta in Cina, paese in cui si fa uso indiscriminato di antibiotici per scongiurare il rischio di infezioni negli allevamenti intensivi, in particolare quelli dei maiali, dove si ritrovano a stretto contatto un numero elevato di animali. Gli allevatori Cinesi usando gli antibiotici anche per aumentare velocemente il peso e la massa muscolare degli animali. Qualcuno dirà vabbè, ma quelli sono i cinesi; noi italiani siamo più sensibili ai problemi di salute e ambientali. Nulla di più falso! Uno studio condotto l’anno scorso dall’associazione CIWF Italia ha rivelato che gli allevatori locali fanno uso massiccio degli antibiotici; il doppio rispetto all’utilizzo medio nella Comunità Europea. Secondo questo studio, il 71% degli antibiotici venduti in Italia finisce negli allevamenti. In Europa solo la Spagna e Cipro stanno peggio di noi. Negli Stati Uniti l’80% degli antibiotici viene usato negli animali in salute, non in quelli malati. Una stima mondiale rivela che 131.000 tonnellate di antibiotici vengono usati tutti gli anni negli allevamenti. Secondo il CDC Americano, il Centro per il Controllo e Prevenzione delle Malattie, due milioni di Americani vengono annualmente a contatto con infezioni resistenti agli antibiotici. Nel 2016 le Nazioni Unite hanno indetto un’assemblea straordinaria sul tema della resistenza dei microbi agli antibiotici. Da questa riunione sono venuti fuori dei programmi per cercare di fermare questa minaccia. La prima, ripeto, quella di bandire l’uso di antibiotici negli allevamenti. Questa soluzione è però ormai tardiva; sarebbe come chiudere la stalla con i buoi ormai scappati. L’altra soluzione sarebbe di cercare di coinvolgere più attivamente le grandi industrie farmaceutiche nella ricerca di un farmaco che possa risolvere il problema; questa sarebbe la soluzione forse più logica.

Ci sono poi altre soluzioni dalle significative implicazioni politiche e geopolitiche.

Di certo non sono un esperto in Biologia/ Medicina; non mi azzardo, quindi, a fare analisi sulle proposte prettamente scientifiche per risolvere questa crisi incombente. Vorrei piuttosto soffermarmi un attimo sull’aspetto prettamente politico delle proposte fatte.

Come diceva Rahm Emanuel, sindaco di Chicago ed ex Chief of Staff di Obama; “Non lasciare mai che una grave crisi vada sprecata. Queste congiunture ci offrono la possibilità di fare cose che non si potevano fare prima”; così ci è voluto poco per i soliti ignoti (noti) per arrivare a proporre soluzioni dalle pesanti implicazioni politiche e geopolitiche. La più interessante è quella che, al bando degli antibiotici negli allevamenti (cosa buona e giusta), si accompagna la proposta di ridurre il consumo di carne attraverso un pesante sistema di tassazione. In un articolo uscito sul Popular Science, l’Epidemiologo dell’Istituto di Biologia Integrativa di Zurigo, il Dottor Thomas Van Boeckel e i suoi colleghi hanno calcolato che si dovrebbe ridurre il consumo di antibiotici negli animali di almeno il 60 % entro l’anno 2030. Questo viene ottenuto riducendo l’uso di agenti antimicrobici intorno ai 50 mg per chilogrammo di prodotto animale. Questo specifico approccio comporta una serie di regolamentazioni, di sorveglianza e monitoraggio da erigere a livello mondiale. La Cina e il paese che fa più uso di antibiotici, pari a 318 milligrammi per chilogrammo di prodotto animale contro, per esempio, gli 8mg della Norvegia. Come si può indurre la Cina e a loro volta gli allevatori Cinesi ad allinearsi ad un eventuale trattato internazionale visto che la Cina non fa neanche parte dell’OECD? Per Van Boeckel la soluzione deve andare di pari passo con la riduzione di consumo di carne a livello mondiale. In altre parole bisognerà ridurre drasticamente il consumo di carne. In questa ottica hanno calcolato che, limitando il consumo quotidiano di carne a 40 grammi, si ridurrebbe del 66 % il consumo globale di carne. Secondo i ricercatori la riduzione delle razioni di carne porterebbe anche significativi benefici ambientali.

A parte la necessità di nuovi trattati e di conseguenti sistemi di monitoraggio, come pensano esattamente i nostri geni al lavoro di risolvere il problema di implementare la cosiddetta riduzione del consumo di carne? La soluzione consisterebbe nella proposta di imporre una tassa del 50 % sul costo attuale della carne. In altre parole, al un costo verosimile per chilo di vitello di venti euro, bisognerebbe aggiungere il 50% di tassa (chiamiamola anti-carne). Il costo finale sarebbe quindi di 30 euro. Un’altra soluzione sarebbe la tassazione delle aziende farmaceutiche, imponendo una imposta sui prodotti antibiotici fatturati, destinati all’impiego animale. La proposta comporterebbe due problemi: primo, l’aumento della tassazione su antibiotici ad uso animale comprometterebbe anche le cure legittime di gatti, cani e tutti gli animali domestici soggetti a malattie e cure del veterinario. Il secondo, una tariffa o meglio una tassa sugli antibiotici colpirebbe anche le stesse case farmaceutiche che investono nella ricerca scientifica di questi prodotti; colpirebbe, in altre parole, quella stessa industria che potrebbe trovare la soluzione contro i superbatteri.

Ci sono inoltre delle considerazioni importanti da fare a livello geopolitico. Pare che questo catastrofico evento possa dar vita a nuove occasioni per creare ulteriori trattati internazionali e imporre nuovi strumenti di controllo, monitoraggio e regole associate ad un aumento di tasse e/o di tariffe. Insomma assisteremmo alla nascita di nuove entità sovranazionali usate come strumento di oppressione della sovranità. In realtà potrebbe però esserci anche una risposta diametralmente opposta a quella descritta sopra; una crisi sanitaria su scala mondiale potrebbe invece incoraggiare la chiusura di frontiere, frenare l’immigrazione e bandire prodotti da vari paesi mettendo a rischio i meccanismi di scambio economici, un ritorno quindi al sovranismo nazionale come tentativo di controllare e gestire la crisi incombente. D’altronde è indubbio che c’è una diretta concomitanza fra l’avvento degli antibiotici, un’apertura graduale alla globalizzazione e la decadenza del concetto Stato-Nazione. Gli anni ‘50 e ‘60 con l’arrivo degli antibiotici e dei vaccini hanno visto di pari passo una graduale caduta di barriere fra i vari stati. Comunque sia, in mancanza di un rimedio veloce ed efficace all’incombente crisi sanitaria su scala planetaria, i sistemi e i meccanismi geopolitici ed economici mondiali sarebbero stravolti pesantemente. Non vorrei apparire troppo pessimista, ma inquietanti nubi nere si stanno accumulando all’orizzonte; segno che la tempesta è in arrivo.

Meglio essere preparati.

CONTRO L’EUROPA DELLE REGIONI PER L’EUROPA FEDERATA DELLE NAZIONI SOVRANE E PROTAGONISTA NELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

E PENSARE CHE C’ERA IL PENSIERO

 

Il secolo che sta morendo è un secolo piuttosto avaro
nel senso della produzione di pensiero.

Dovunque c’è un grande sfoggio di opinioni
piene di svariate affermazioni
che ci fanno bene e siam contenti

Un mare di parole un mare di parole
ma parlan più che altro i deficienti.

Il secolo che sta morendo
diventa sempre più allarmante
a causa della gran pigrizia della mente.

E l’uomo che non ha più il gusto del mistero
che non ha passione per il vero
che non è cosciente del suo stato

Un mare di parole un mare di parole
è come un animale ben pasciuto.

E pensare che c’era il pensiero
che riempiva anche nostro malgrado
le teste un po’ vuote.

Ora inerti e assopiti aspettiamo
un qualsiasi futuro
con quel tenero e vago sapore
di cose oramai perdute.

Va’ pensiero sull’ali dorate
va’ pensiero sull’ali dorate.

Nel secolo che sta morendo
s’inventano demagogie
e questa confusione è il mondo delle idee.

A questo punto si può anche immaginare
che potrebbe dire o reinventare
un Cartesio nuovo e un po’ ribelle

Un mare di parole un mare di parole
io penso dunque sono un imbecille.

Il secolo che sta morendo
appare a chi non guarda bene
il secolo del gran trionfo dell’azione

Nel senso di una situazione molto urgente
dove non succede proprio niente
dove si rimanda ogni problema

Un mare di parole un mare di parole
e anch’io sono più stupido di prima.

E pensare che c’era il pensiero
era un po’ che sembrava malato
ma ormai sta morendo.

In un tempo che tutto rovescia
si parte da zero.
E si senton le note dolenti di un coro
che sta cantando

(sull’aria di va pensiero)
Vieni azione coi piedi di piombo
Vieni azione coi piedi di piombo

Giorgio Gaber*

  1. Avanzerò alcune riflessioni a partire dalla richiesta di indipendenza della Catalogna, una delle 17 Comunità autonome della Spagna con una popolazione di 7.522.596 pari al 16.2% che, insieme alle tre grandi Comunità dell’ Andalusia (con 8.370.368 abitanti, pari al 18%), di Madrid (con 6.377.634 abitanti, pari al 13,7%) e della Valenciana (con 4.935.010 abitanti, pari al 10,6%), costituisce il 58.5% dell’intera popolazione spagnola che è di 46.468.102. La Catalogna è una delle Comunità autonome più industrializzate.

confronto spagna catalogna

Questa regione ha un livello di autonomia più vicino al concetto di federazione ( tra le regioni della Spagna), per dirla con Emilia Giuron Reguera ( docente di diritto costituzionale dell’Università di Cadice in Andalusia):<< […] Il decentramento spagnolo si colloca oggi in una posizione intermedia tra regionalismo e vero e proprio federalismo. […] Gli elementi peculiari di alcune Comunitá Autonome, chiamati fatti differenziali, trovano riconoscimento negli Statuti di Autonomia e perfino nella Costituzione, come segni di autoidentificazione. La Costituzione del 1978 è la prima ed unica costituzione spagnola che riconosce i fatti differenziali. Cinque sono le situazioni di differenziazione sono il regime di diritto civile forale, il pluralismo linguistico, un livello di governo intermedio diverso alle Province chiamati “Diputaciones Forali” in Paesi Baschi e “Cabildos” in Isole Canarie e Baleari, proprie forze di policia e il sistema di finanziamento.

In particolare, l’elenco dei fatti differenziali per Comunità Autonoma è il seguente:

  1. Paesi Baschi: territori forali (Alava, Guipùzcoa e Vizcaya), lingua, diritto civile forale, polizia propria e sistema di finanziamento speciale.
  2. Catalogna: lingua, diritto civile speciale e polizia propria.
  3. Galicia: lingua e diritto civile forale.
  4. Navarra: diritto civile forale, polizia propria, sistema di finanziamento speciale (“convenio economico”), ed euskera (cioè, la lingua basca) nel area bascoparlante.
  5. Canarie: “Cabildos” e particolare regime economico e fiscale, giustificato nell’insularità.
  6. Le Baleari: Lingua, “consigli insulari”, diritto civile speciale.
  7. Comunità Valenciana: lingua e diritto civile.
  8. Aragona, soltanto il diritto civile.>> (1).

spagna comunità

 

Si pone, quindi, la domanda: perché i decisori della Catalogna dichiarano lo status di indipendenza ben sapendo della sfida impari (2) sia in relazione alla Spagna ( intesa come nazione e come stato, chiarirò dopo cosa intendo) sia in relazione all’Unione Europea? Cosa cela questa mossa apparentemente rischiosa che non ha niente a che vedere con l’autodeterminazione nè con la democrazia, mentre molto ha a che fare con la frattura sociale e territoriale di una nazione e con il disegno dell’Europa delle regioni (3) portata avanti dal 1957 dai servi decisori europei nel quadro delle strategie USA? Cercherò di avanzare delle ipotesi per cercare di rispondere a queste domande, e questo, a prescindere da come evolverà o involverà la situazione in Catalogna, mi auguro la meno triste per la popolazione.

 

  1. La definizione di nazione data da Iosif Stalin, in un saggio pubblicato nel 1914 e approvato da Vladimir Lenin, è la seguente:<< una comunità umana stabile, storicamente costituita, nata sulla base di una comunanza di lingua, territorio, vita economica e formazione psichica che si traduce in comunità culturale >> (4).

E’ una definizione nell’essenziale ancora valida. Le radici territoriali dell’individuo sessuato sono fondamentali per la sua crescita, benessere, sicurezza, formazione e cultura. La specie umana sessuata è l’unica specie che può vivere solo in comunità ( a prescindere dalla qualità della comunità) anche se si è data assurde organizzazioni territoriali quali sono le grandi città ( metropoli, megalopoli) dove i concetti di autodeterminazione e di democrazia sono aleatori perché sfuggono al concetto di limite nell’accezione dei classici greci (5). La questione delle regioni e dei loro equilibri economici, sociali, territoriali vanno inquadrati nell’insieme dello sviluppo della nazione. Le regioni con più sviluppo vanno viste nella logica dello sviluppo ineguale del sistema sociale capitalistico nazionale. Quindi lo sviluppo di alcune regioni a scapito di altre è da leggere nella realizzazione delle strategie dei decisori egemoni nelle diverse fasi storiche dello sviluppo del Paese. E’ demagogia da furfanti sostenere che le regioni ricche devono gestire in maniera autonoma le risorse (soprattutto finanziarie) senza riferimento al sistema Paese; significa la rottura della solidarietà, dell’anima di una nazione: è la barbarie! Altro sarebbe, invece, rivedere le strategie di sviluppo delle regioni, configurate diversamente, quali macro-regioni dell’intero sistema nazionale (come alcune università italiane stanno facendo da tempo con i loro decisori di riferimento). E’ nella dialettica dei rapporti sociali tra dominanti (con il loro conflitto interno) e dominati (con la loro lotta interna) che va affrontata la questione nazione e non la questione regione.

Per questo non ho mai capito l’internazionalismo, non quello solidale e politico, ma quello senza nazioni, senza conoscenza del territorio (quanti comunisti non conoscevano l’ambiente dove vivevano, però erano internazionalisti), senza relazione, sessuata, con la natura, eccetera (6). Così come non ho capito, in nome della mondializzazione, la confusione tra circolazione di merci, di capitale e di persone e la perdita delle radici territoriali di appartenenza che è altro dal confronto tra popoli diversi per storia e cultura. Questa questione è stata e continua ad essere una grande lacuna, soprattutto di origine marxiana, che è quella che a me interessa con i vari ripensamenti, rifondazioni e abbandoni.

Le nazioni, sia in Occidente sia in Oriente, hanno diverse configurazioni territoriali peculiari, perché diverse e peculiari sono la natura, i paesaggi, la storia dei popoli; ma hanno in comune una cosa: la concezione del potere-dominio che viene realizzata attraverso le proprie architetture istituzionali che sono espressione dei rapporti sociali storicamente dati. Per me, infatti, lo stato non è altro che l’articolazione territoriale delle architetture istituzionali ( le casematte gramsciane) dove si svolge e si decanta il conflitto strategico (inteso nell’accezione lagrassiana) e si egemonizzano, in una situazione di equilibrio dinamico del dominio di volta in volta egemone, la nazione, i continenti, il mondo (7).

 

  1. Parlare di autodeterminazione (dei decisori in nome del popolo), di democrazia ( di una minoranza in nome del popolo) e di fine della nazione è fuorviante perché non si coglie l’essenza del problema che è quello di una accelerazione della fase dell’Europa delle regioni che, attraverso la frammentazione dei territori nazionali, renderà l’Europa uno spazio funzionale alle nuove strategie di dominio mondiale monocentrico degli Stati Uniti che, distruggendo le nazioni, invalideranno qualsiasi possibilità di fondazione di politica autonoma dell’Europa quale protagonista tra l’Occidente e l’Oriente, quantomeno per ritardare la fase policentrica ( che comporta la guerra come scontro finale tra schieramenti delineati di potenze mondiali- anche se nutro forti dubbi sulla sopravvivenza complessiva delle stesse, considerati gli arsenali nucleari a disposizione).

Con l’Europa delle regioni l’Europa non sarà più un soggetto politico attivo nella fase multicentrica (avviata con andamento sempre più accelerato) così come lo fu nelle precedenti fasi multicentriche dei secoli passati a partire, per dirla con Giovanni Arrighi, dal primo ciclo sistemico di accumulazione, quello genovese-iberico, dal XV secolo agli inizi del XVII (8).

Si smantellano le nazioni, dopo un lungo processo iniziato tra la fine del 1700 e quasi tutto il 1800, per costruire una Europa di macro regioni a servizio degli interessi statunitensi, per meglio controllare e indirizzare sia l’orientamento politico europeo, sia per utilizzare lo spazio europeo per le loro strategie nel Mediterraneo, nell’Africa e nel Medio Oriente, contro le potenze mondiali emergenti (Russia e Cina con la loro visione di sviluppo e le loro aree di influenza ), così da impedire la relazione euroasiatica fortemente temuta dagli USA.

Non vedremo più la cartografia dell’Europa che rappresenta il simbolico delle nazioni asservite agli interessi della potenza mondiale egemone degli USA.

europa

Ma, a partire dalla cartografia dell’Europa independentista, dovremo immaginare una Europa delle regioni formata da macro aree ancora una volta (il tutto torna ma in maniera diversa) definite o ri-definite dal disegno degli agenti strategici pre-dominanti statunitensi e sub-dominanti europei (9) per la ri-affermazione monocentrica del dominio mondiale (10) [tutti i programmi di cooperazione territoriale europea (Interreg, Espon, SSSE, eccetera) hanno già in parte delineato alcune macroregioni].

Tutto quanto fin qui evidenziato è a prescindere dal conflitto strategico interno agli USA che si sta definitivamente orientando verso la strategia di potenza mondiale basata sulla forza e sulla violenza perché altrimenti incapace di ri-lanciare la propria egemonia a partire da un nuovo modello di sviluppo, una nuova visione, una nuova idea di società. L’illusione del cosiddetto trumpismo è finita. E’ stata una ideologia negativa basata sul multicentrismo (soprattutto l’apertura con la Russia), sul rilancio dell’economia reale con più equilibrio tra i settori economici (soprattutto la politica del re-investimento interno), eccetera. E’ stata una operazione dei decisori priva di qualsiasi base strutturale radicata nella società e senza alcun controllo delle casematte istituzionali, importanti del potere.

 

europa indipendentista

 

 

Si configura un triste immaginario di frammentazione e dissoluzione delle relazioni sociali e territoriali delle nazioni, con drammi umani inenarrabili; la storia recente lo sta a dimostrare soprattutto in Europa, nell’Africa settentrionale e nel Medio Oriente; inutile aggiungere l’elenco delle nazioni distrutte.

Qui sta l’importanza di difendere la nazione: i decisori partendo dagli interessi della propria nazione possono sviluppare un progetto di Europa federata e sovrana. Se non si è sovrani, si è servi delle potenze mondiali egemoni di turno.

Il conflitto strategico all’interno delle nazioni deve avere come obiettivo la sovranità per ridare la possibilità all’Europa di essere un soggetto protagonista nella fase multicentrica. Certo il degrado sociale europeo è grave, il secolo iniziato è un secolo piuttosto avaro nel senso della produzione di pensiero e nell’immaginare prìncipi gramsciani all’altezza dei tempi.

La Catalogna è l’inizio simbolico della fase di regionalizzazione dell’Europa: è il laboratorio per realizzare il processo di regionalizzazione e verificare le relative reazioni dei popoli. Questo processo, comunque, è iniziato con l’implosione dell’ex URSS (1990-1991) e con il processo di integrazione europeo attraverso le regioni [ avviato con il preambolo del Trattato di Roma del 1957 (CEE) e proseguito con lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE) della Unione Europea della prima metà degli anni novanta del secolo scorso].

Ogni nazione europea ha la sua Catalogna in pectore e si prevedono in Europa scenari cupi (11).

 

 

La citazione scelta come epigrafe è tratta da: Giorgio Gaber, Pensare che c’era il pensiero, www.giorgiogaber.it, 1995-1996.

 

 

NOTE

 

 

  1. Emilia Giron Reguera, Esperienza e prospettive del regionalismo in Spagna, www.crdc.unige.it, anno?, pp.12-13 e pag.19.
  2. Alberto Magnani, Quanto costerebbe alla Catalogna il divorzio dalla Spagna ( e dalla UE) in Il Sole 24 Ore del 5/10/2017; Comidad, Prove tecniche di euro-destabilizzazione, www.comidad.org, 28/9/2017; Federico Dezzani, “Lo Stato nazionale è superato”: perché Bruxelles tifa per la secessione della Catalogna, www.federicodezzani.altervista.org, 20/9/2017.
  3. Con la definizione di Europa delle regioni non intendo riferirmi ai teorici dell’ascesa delle regioni e del tramonto delle nazioni, per una sintesi rinvio a Mario Caciagli, Le regioni nell’Unione Europea in Quaderni di Sociologia n.55/2011.

Con una lettura critica sul ruolo delle politiche regionali dell’Unione Europea rimando a: Maria Rosaria Prisco, Spazio, luoghi, territorio: ripensare la spazialità delle politiche di coesione territoriale in www.mensotef.uniroma1.itsites/dipartimento/…/Maria Rosaria Prisco_67-84.pdf; Marco Cremaschi, L’Europa delle città. Accessibilità, partnership e policentrismo nelle politiche comunitarie per il territorio, Alinea editrice, Firenze, 2005; Commissione Europea, Sull’attuazione delle strategie macroregionali dell’UE,www.ec.europea.eu/regional…strategy/pdf/report_implem_macro_region_strategy_it.pdf, 16/12/2016.

  1. La citazione di Iosif Stalin è tratta da Costanzo Preve, Il tempo delle ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Vangelista, Milano, 1993, pag.25.
  2. Per questi temi rimando a Lewis Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1967, Volumi I, II, III.
  3. Maura Del Serra, Dialogo di Natura e Anima, Editrice C.R.T., Pistoia, 1999.
  4. Credo che sarebbe utile avviare una ricerca sull’intreccio tra l’intuizione gramsciana delle casematte e il conflitto strategico lagrassiano: Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, Einaudi, Torino, 1975, quaderno 7, Volume II; Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma, 2005.
  5. Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010, pp. 143-179.
  6. E’ utile mantenere la concezione servo-padrone nell’accezione di La Boètie ( la servitù volontaria), invece di quella hegeliana della Fenomenologia dello Spirito (la coscienza servile).
  7. Per una riflessione sulle trasformazioni territoriali mondiali nella fase multicentrica, si rinvia a Pierluigi Fagan, Lo spazio politico nel mondo multipolare. Nuovi stati, secessioni, sovranità, www.pierluigifagan.com, 4/10/2017.
  8. Si veda l’intervista, da me non condivisa, a Franco Cardini, “L’Italia unita un pateracchio. Presto una crisi cambierà il volto dell’Europa”, www.liberoquotidiano.it, 10/10/2017.

“QUESTA DONNA PAGATA IO L’HO !” , di Antonio de Martini

La prima volta che notai il fenomeno fu nel film ” “Shinue l’egiziano” con Edmund Purdom. Avevo 14/15 anni.
Un polpettone pseudo biblico.

Notai un “cammeo” fatto da una attrice sconosciuta e piacente a nome Bella Darvi.
Recitava tanto male che se ne accorse anche un adolescente arrapato come me.

Anni dopo scoprii che era stata inserita nel cast perché era la “caralcuore” del produttore Darryl Zanuck.

Poi scoprii che Jane Russel ( “gli uomini preferiscono le bionde”) era molto ammirata dal produttore Howard Hughes e così via.

Ingrid Bergmann, nelle sue memorie e interviste, racconta che per fare entrare meglio Antony Perkins nella parte del giovane innamorato di ” Le piace Brahams” se lo portò a letto fin dal primo incontro. Fu un successo.

Molti giornali parlavano apertamente de ” il divano del produttore” e Otto Preminger fu colui che “fece il provino a Jean Seberg” per ” buongiorno tristezza” e a Tippi Hiddren per “gli uccelli.”

Grande ė stata la mia meraviglia quando lo scandalo contro Harvey Weinstein, nei giorni scorsi è stato montato a freddo.

L’accusa è ” comportamento inappropriato” – nessun reato dunque, ma uno sputtanamento sistematico sotto forma di stillicidio moralistico dal pulpito dei media per metterlo fuori gioco.

È a malapena trapelato che Harvey Weinstein era in trattativa con Michel Moore per fare un film su Donald Trump, certo non elogiativo, visto che sono entrambi contribuenti del partito democratico. Potrebbe essere.

Ma, badiamo al sodo.

A me interessa il candore ipocrita delle “vittime” che confessano di aver giaciuto col Tycoon di Hollywood, ammettendo di averlo fatto per ottenerne l’appoggio e lo hanno annunziato come se fosse una novità assoluta che ,dopo anni, ancora le sconvolge la psiche.

Il povero, perverso, Harvey, fatemelo chiamare così, considerava le attrici – a detta loro- come pezzi di carne. Incluse Lea Seydoux e la Delevigne entrambe lesbiche dichiarate sui media.

Harvey aveva certamente una predilezione per l’esibizionismo e si mostrava in accappatoio in camera sua alle vergini in cerca di scritture notturne o circuiti di distribuzione dei loro films e confessava un ” penchant” per il cunnilingus, proponendosi, ammettono, senza violenza.

UNA PER TUTTE

Asia Argento, all’epoca dei fatti maggiorenne da ben tre anni, ci racconta che, “per farlo smettere” ha dovuto fingere un orgasmo.
Non ci dice cosa pensava di fare nottetempo nella camera da letto di un albergo con un produttore dalla lingua piuttosto chiacchierata.

Poi ci informa – sempre sul New Yorker che ho pubblicato due giorni fa- che il rapporto è durato cinque anni, lui l’ha anche presentata alla mamma e le ha pagato la bambinaia per la pargola.

A me sembra un sempliciotto più che un predatore.

Lo definirei puttaniere solo se posto in relazione alle signore che hanno frequentato, lautamente compensate, il suo talamo.

Anche dal punto di vista morale, il povero Harvey deve essersi ritenuto in regola, avendo seguito l’esempio di re Davide ( senza peraltro mai uccidere il marito delle Betsabee di turno) e non pochi altri regnanti e patriarchi biblici.

Le ragazzine al vecchio re Davide le forniva il gran sacerdote e a gratis per consentirgli di superare la depressione. Lui, invece, ne discuteva con Lombardo in termini di incarichi retribuiti e distribuzione sul mercato USA.

Queste signore, ora che hanno incassato notorietà e denaro cercano di ribaltare sul vecchio cliente il naturale senso di colpa scaturente dal meretricio praticato in giovane età.

Non sono un rabbino, ma non mi sembra kosher.

L’autunno della Fronda, di Roberto Buffagni

La vicenda catalana, che con l’odierna dichiarazione di indipendenza in standby tocca un vertice di comicità ineguagliato a memoria d’uomo, ci parla però di qualcosa di molto, molto serio. Ci parla della nuova fase in cui è entrata la Rivoluzione (con la Maiuscola) che da cinque secoli trascina con sé, non si sa dove, la civiltà europea e occidentale, e dunque il mondo. Pare follia impiegare questi paroloni per un’avventura politica di Peppa Pig® qual è l’indipendentismo catalano, come andare a caccia di tordi con i missili terra-aria. Ma «On a remarqué, avec grande raison, que la révolution …. mène les hommes plus que les hommes la mènent. Cette observation est de la plus grande justesse… […] Les scélérats mêmes qui paraissent conduire la révolution, n’y entrent que comme de simples instruments; et dès qu’ils ont la prétention de la dominer, ils tombent ignoblement.» (De Maistre, Considérations sur la Révolution, 1796).

La vicenda catalana ci parla infatti di una crisi che non è soltanto la crisi politica degli Stati nazionali, che si rivelano fragili, disuniti, disfunzionali: è la crisi del simbolo politico, del cosmion1 che ordina(va) e illumina(va) di significato la forma di civiltà assunta dall’Europa dopo la fine delle guerre di religione. Come tutti i simboli, un cosmion entra in crisi quando non ci parla più. Un simbolo può ammutolire per infiniti motivi; ma trattandosi di un simbolo politico, di solito la sua voce si fa fioca per l’azione congiunta di un abuso di autorità e di una contestazione di autorità. Se il dissenso in merito all’ordine non può essere ricomposto, entra in campo la nuda violenza politica, e il clamore delle armi copre la voce del simbolo.

La forma primaverile di questa lotta fra le autonomie e gli Stati sono le guerre della Fronda, che vedono lo Stato assoluto nascente opporsi agli “stati”, nel senso che questa parola assume nell’antica istituzione francese degli “Stati generali”: la forma politica che rivestono le autonomie sociali, allora rappresentate dai grandi signori e dai Parlamenti2. Lo scontro tra stati e Stato nasce dalla crisi di un altro grande cosmion: la cristianità medievale, frantumato e ammutolito dalle guerre di religione; e si svolge contemporaneamente in Inghilterra (Cromwell contro gli Stuart) e in Francia (de Retz e Condé contro Mazzarino e Turenne). In Inghilterra vincono gli stati, in Francia lo Stato3.

Oggi assistiamo (e volenti o nolenti partecipiamo) alla forma autunnale della lotta fra autonomie sociali o stati e lo Stato nazionale. Autunnale, per due ordini di ragioni. Anzitutto, lo Stato nazionale europeo non basta più a se stesso – non può autolegittimarsi – almeno da quando, entrato in crisi lo Stato liberale, sono sorti gli Stati nazionali totalitari fascista e nazista, sconfitti sul campo nella Seconda Guerra Mondiale. Lo Stato nazionale europeo è stato poi arruolato, insieme al cristianesimo, nella gigantomachia tra USA e URSS. Conclusa quella, la potenza imperiale egemone ha trattato gli Stati nazionali europei come un residuo o un ostacolo, come dimostrano sia l’appoggio americano all’Unione Europea, che agli Stati nazionali risucchia autorità e potenza, sia il disinvolto intervento nella guerre civili jugoslave, con la promozione delle indipendenze e la creazione dello Stato fantoccio del Kosovo. Ma ecco il secondo ordine di ragioni: questa Fronda 2.0 è autunnale cioè decadente perché entrambe le forze che la combattono, stati e Stato nazionale, sono in via di esaurimento, e alle loro spalle si stagliano forze imperiali nascenti: anzitutto la neocristianità russa, ma anche la Cina neoconfuciana. Questi, infatti, paiono essere i nuovi cosmion, i nuovi simboli politici che sorgono per rispondere alla sfida culturale e politica dell’impero statunitense. Dove l’insorgere, con Trump, di una nostalgia di Stato nazionale declinata in forma di isolazionismo pasticcione, illustra la crisi della potenza egemone mondiale in seguito ai terribili errori strategici, frutto di arroganza e avidità, commessi dopo il crollo del suo nemico storico, l’URSS.

Per trarre una conclusione provvisoria, potremmo dunque dire che la vicenda catalana ci insegna, per ora, questo: che lo Stato nazionale è un simbolo politico morente, che sopravvive come monumento storico-turistico, come nostalgia di un ordine perento, rifugio provvisorio di chi si sente debole e minacciato, psicofarmaco contro l’angoscia di un futuro che si profila caotico e minaccioso. E che gli stati che lo attaccano, come le iene e gli sciacalli attaccano il leone ferito, letteralmente non sanno quello che fanno, neppure che al leone ferito basta ancora una zampata per disperderli. Per finire, ci insegna di nuovo che l’Unione Europea non sarà mai un simbolo politico vitale. Non è un impero. Non è uno Stato nazionale. E’ un fascio di stati, un insieme arlecchinesco di forze economiche, sociali e politiche incapaci di legittimarsi e di fiorire in un ordine simbolico, che quando le cose si fanno serie – quando la crisi culturale e politica lo tocca da vicino – è costretto puntellare ipocritamente lo Stato nazionale del quale continua a minare le basi.

1 “Cosmion” è un’espressione che prima Adolf Stohr e poi Eric Voegelin impiegano per definire il simbolismo politico, pensato in analogia con il cosmo, che conferisce senso a una forma di civiltà e ne costituisce l’ordine politico. C’è dunque il cosmion imperiale ellenistico o romano, ma anche il cosmion dello Stato nazionale assoluto, etc.

2 I Parlamenti francesi dell’ancien régime sono istituzioni giuridiche con il compito di registrare gli atti del potere regale. Sono anche e soprattutto le istituzioni nelle quali siedono i rappresentanti delle 40.000 famiglie che detengono la ricchezze commerciale e industriale del regno di Francia, mentre i grandi signori frondisti sono i detentori di una larga quota delle terre, e, naturalmente, sono professionisti della guerra.

3 Le ragioni del diverso esito sono molteplici. Non secondaria la diversa statura dei contendenti, re Giacomo commette gravi errori politici e sul campo non si dimostra all’altezza di Cromwell, mentre Mazzarino e Turenne sono più che validi avversari di un politico geniale come Retz e di un grande soldato come Condé. Il risultato determina la diversità storica di cultura politica, che permane tuttora, tra l’anglosfera e il continente europeo: nei paesi anglosassoni lo Stato nazionale non assumerà mai il valore simbolico e la forza politica che invece prende nell’Europa continentale (la direzione politica del Regno Unito non deve la sua efficacia a uno Stato nazionale razionalmente strutturato, ma alla permanenza di un nucleo dirigente che si riproduce per cooptazione ed è l’erede diretto dell’alleanza tra alta aristocrazia e grande commercio che con la guida di Cromwell sconfisse re Giacomo) . In seguito alla sconfitta patita dall’Europa continentale nelle due guerre civili europee e all’egemonia dell’anglosfera, la cultura politica anglosassone, che privilegia sullo Stato nazionale la “società civile” ovvero, nell’accezione contemporanea, le autonomie sociali, ha egemonizzato anche l’Europa continentale: come ognuno vede.

DAL NOSTRO INDIGNATO SPECIALE, di Giuseppe Germinario (scritto il 18/10/2011)

Qui Nuova Yorke! Così annunciava i propri servizi televisivi Ruggero Orlando, il primo corrispondente della RAI negli Stati Uniti. Non so se, effettivamente, le trasmissioni giungessero da oltreatlantico o fossero costruite,con uno scenario artefatto alle spalle del cronista, in gran parte nei più economici studi romani.

Se sono riusciti a riprodurre la battaglia di Tripoli in Qatar, ad uso e consumo della disinformazione e del morale dei combattenti sul posto, figuriamoci con che facilità, pur con i minori mezzi di allora, si riesca a simulare la presenza sul campo degli intrepidi corrispondenti.

Si sa come buona parte degli affanni in diretta dei cronisti, compresi quelli di guerra, siano dovuti alle arrampicate sulle scale di casa propria piuttosto che alle concitazioni e ai rischi di resoconti testimoniali sul posto propri dei classici giornalisti di inchiesta.

Il caso di “occupy Wall Street” rende superfluo ogni dubbio e rende perfettamente superflua anche ogni trasferta, per altro costosa, dei professionisti della verità.

Partito da Madrid, il movimento ha realizzato la maggior evidenza mediatica quando si è insediato in piazza Zuccotti, nei pressi di Wall Street; pare, tuttavia, clonato nelle caratteristiche di fondo.

Con l’eccezione della manifestazione di sabato scorso a Roma, l’adesione di massa a tale movimento è inversamente proporzionale al risalto mediatico garantito dai mass media, quasi a volerne forzare l’esistenza ed il successo in una sorta di accanimento terapeutico.

Di Onda in Onda, l’energia che li muove è, ormai, in via di esaurimento. È come la marea dei piccoli mari chiusi, come l’Adriatico che con i suoi flebili movimenti muove i mille detriti e gli avannotti sino a far intravedere o sfiorare, a questi soggetti passivi, la riva senza mai raggiungerla, due metri avanti e due indietro; non ha la forza di rovesciare sulla riva il prodotto del proprio ventre, in attesa rassegnata della inesorabile risacca che li riporti in alto mare in balia dei pesci più grossi e del caso.

Quanto più, negli anni che procedono, le idee e le rivendicazioni si dissolvono nella nebulosa di bisogni generici, tanto più il rituale si ripete più stancamente e, nella fase crepuscolare, vede apparire, a movimentare la scena, i personaggi più equivoci e le azioni più nichiliste, odiose e distruttive le quali, nel migliore dei casi riescono a prendersela con i totem, nemmeno con i sacerdoti che li hanno fabbricati; in altre parole, il più implicito ed efficace riconoscimento della religione dominante, proprio da parte dei presunti detrattori più viscerali.

Così vediamo sfilare sul palco di Zuccotti Park dispensatori delle peggiori banalità; sulla stampa personaggi, da Obama a Krugman, predisposti alla massima comprensione ma con un minimo di distinzione dei ruoli; per arrivaread Assange e a Draghi, il quale ultimo si dice arrabbiato quanto gli indignati.

Dal conflitto soggettivo di Kramer contro Kramer dei primi due alla sintesi teologica assoluta e perfetta, al mistero del Dio uno e trino impersonificato dal quarto, già massimo dirigente di Goldman & Sachs, poi controllore di quest’ultima nei panni di direttore di Banca d’Italia e BCE ed ora aspirante indignato. Un emulo del Supremo per il quale tempo e spazio non hanno significato.

Non so se tale perfezione sia legata all’abilità del personaggio o alla costrizione dovuta alla scarsezza di attori in grado di rappresentare i vari ruoli sul palcoscenico; propenderei per la seconda ipotesi, vista la facilità con cui le vicende politiche dell’ultimo ventennio hanno di fatto divorato tanti astri nascenti e vecchie volpi.

Sta di fatto che a Zuccotti Park, come altrove, prima si raccolgono le truppe, le si muove e poi si bandisce un’asta dove elencare le rivendicazioni e i beni da reclamare, nonché le prescrizioni da rispettare.

La cornucopia rischia di essere addirittura insufficiente visto che le rivendicazioni dovrebbero soddisfare il 99% della popolazione defraudata dal restante 1%; potrebbe addirittura trasformarsi in un vaso di pandora e seminare tra i questuanti la zizzania ancor prima di stabilire le priorità nell’elenco, pardon nel cahier de doléance del terzo stato al sovrano assoluto.

È la percentualizzazione inconsapevole della previsione di Marx di una moltitudine immensa sfruttata parassitariamente dalla quota restante infima della popolazione, con l’aggravante, rispetto allo scienziato, di considerare l’aspetto distributivo piuttosto che i rapporti di produzione.

A meno di un mese dall’apparizione, l’elenco di richieste e prescrizioni è già impressionante e sorprendente, alcune accettabili, altre decisamente reazionarie e velleitarie; si va dalle energie alternative, al consumo locale, alla sanità e istruzione garantita, al posto di lavoro garantito secondo aspirazioni e livello di istruzione, alla finanza gestita localmente, all’incentivazione della cooperazione, alla redistribuzione della terra.

Le prescrizioni riguardano una precisa gerarchia delle retribuzioni, per altro quantificate, secondo il ruolo assolto nella società, a cominciare da quello privilegiato dell’insegnante, l’abolizione dell’esercito e dell’industria militare, della finanza speculativa; curiosamente, ma forse non casualmente, si chiede la messa in stato di accusa della precedente amministrazione del guerrafondaio Bush per le sue due guerre e la legislazione speciale che ne è derivata, omettendo la richiesta a carico del pacifista Obama, per le sue cinque guerre dichiarate e le innumerevoli sotto copertura attualmente in corso.

Tutto questo, comunque, compreso il folklore, è una caratteristica comune alle onde e ai movimenti di questi ultimi venti anni; come è comune la chiave interpretativa degli eventi legata al predominio del potere economico su quello politico, al dominio e all’asservimento del pianeta alle mire della finanza e delle multinazionali e alla certezza di distruzione del nostro pianeta legata a questo dominio.

Tralascio le implicazioni di tale impostazione, più volte sottolineate dal blog e che impediscono di individuare la natura reale e complessa dei conflitti tra gruppi strategici e stati, il ruolo che in essa hanno i blocchi sociali e le cosiddette masse.

Quello che mi preme sottolineare è l’accentuazione del valore etico e morale delle scelte di quel movimento sino a spingersi alla valutazione della moralità delle persone e all’eticità dei comportamenti, compresa quella dei genitori verso i figli.

Non penso siano i diretti successori ed esegeti degli anabattisti tragicamente isolatisi, nel loro folle rigore e massacrati a Muenster; avendo minori pretese, la conseguenza sarà l’infiltrazione dei peggiori moralisti e demagoghi pronti a distinguere tra mercato corretto e distorto, tra finanza globale e locale e tra politici politicamente corretti e corsari.

Il richiamo alle primavere arabe, la comprensione esercitata da pulpiti i più sorprendenti, le condanne a senso unico dei guerrafondai inducono a pensare che questo movimento non rischia di essere infiltrato e deviato, ma parte già tarato e compromesso; in gran parte i componenti rappresentano la successione di quella parte di ceto medio oggetto di drastico ridimensionamento ed incapace di garantire ai figli un’analoga posizione sociale se non riproponendo una impossibile forma parassitaria ed assistenziale cui si va ad aggiungere una buona parte di ceto medio produttivo in crisi, soprattutto, per il declino di potenza ed economico di numerosi paesi.

La rivendicazione generica di istruzione rappresenta, forse, l’elemento emblematico di questa caratteristica.

Le capacità metamorfiche di queste onde periodiche permettono di inglobare anche singoli aspetti e obbiettivi dei movimenti sovranisti (gestione del debito, sovranità monetaria corrispondente alla sovranità statale) e renderle sfuggenti e oggetto di critica necessaria e sempre aggiornata; la loro fedeltà dichiarata ai principi costitutivi delle varie formazioni (vedi il preambolo del manifesto di “occupy Wall Street”) indica chiaramente la totale subalternità di questo movimento, non al Sistema, ma a singole componenti di esso.

Gli stessi bonari suggeritori, a cominciare da quel filantropo di George Soros, sono gli stessi agenti profittatori della speculazione che spingono, adesso, per un controllo pubblico e per vincoli rigidi delle banche la natura e finalità dei quali è tutta da verificare. Anche su questo riescono a raccogliere miracolosamente il consenso unanime di statisti, o presunti tali e movimentisti folgorati dalla lungimiranza e apertura democratica delle loro fondazioni culturali, compresa quella propinata sulle ali dei cacciabombardieri umanitari.

Tra i primi, da rilevare la sagacia e le capacità preveggenti di D’Alema, presidente del COPASIR, il quale, non più di tre mesi fa, auspicava e preconizzava una ripresa dei movimenti capaci di una spallata risolutiva contro il Governo.

Il futuro immediato, compresa la stesura definitiva del programma, sarà rivelatore dei fini e della composizione di questa ultima vague; quello che è certo, è l’apparente spontaneità di tutto questo; cosa che, il più delle volte, viene confusa con la facile e disordinata ricettività dei messaggi in determinati ambienti, sia in quelli apertamente nichilisti che in quelli più composti.

Questo vale soprattutto per quei paesi destinati a pagare maggiormente il peso del loro degrado e della loro subordinazione, in primo luogo l’Italia.

Il successo di questo tipo di manifestazioni – l’Italia, in questo, pare detenere il primato – è direttamente proporzionale all’ambiguità o inesistenza di programmi e alla quantità di illusioni in omaggio per coprire le peggiori svendite. Il solito modo per raccogliere gli scontenti dietro il carro dei loro benefattori e delle loro sanguisughe.

L’ORA X DELLA CATALOGNA, L’ULTIM’ORA DI PUIGDEMONT, di Giuseppe Germinario

Carles Puigdemont ha confermato la dichiarazione di indipendenza della Catalogna ed auspicato una trattativa con il Governo Centrale di Spagna

Raramente accade di una classe dirigente così platealmente votata al suicidio come quella catalana, senza nemmeno l’aura romantica che spesso riveste i predestinati al sacrificio patriottico. Un epilogo tanto tragico quanto farsesco del destino individuale di questi condottieri. Non di tutti, beninteso. I più scaltri e furbi hanno istigato, hanno saputo defilarsi e alcuni arrivano ora a proporsi come mediatori con buone probabilità di qualche riconoscimento istituzionale nel prossimo futuro.

Un gruppo dirigente evidentemente privo di qualsiasi memoria storica. La Catalogna, in epoca moderna, ha conosciuto vari moti indipendentistici conclusisi inesorabilmente tutti più o meno tragicamente nel giro di pochi giorni o mesi.

Privo di cultura istituzionale visto che non solo ha violato apertamente la legge dello Stato centrale, anche se questo è pressoché la norma nei tentativi secessionistici, pur con le recenti eccezioni legate al dissolvimento del blocco sovietico; ha forzato, violato e gestito malamente le procedure della propria istituzione regionale che hanno portato al referendum e alla proclamazione di indipendenza e dirottato apertamente risorse pubbliche a fini privati legati alla promozione mediatica e lobbistica del progetto secessionistico in particolare negli Stati Uniti.

Privo soprattutto di basilare cultura ed accortezza politiche.

Ha con ogni evidenza del tutto sottostimato le implicazioni militari di un tale atto e la capacità reattiva di uno stato e governo centrale lesi in una delle loro prerogative fondamentali. Il recente accordo tra il Governo Centrale e la Regione Basca che riconosce ad essa ulteriore ampia autonomia e addirittura la prerogativa dell’imposizione fiscale deve averli indotti a sopravvalutare gravemente l’indebolimento delle capacità di difesa delle prerogative dello Stato Centrale. Un indebolimento certamente in atto grazie al processo di integrazione militare nella NATO e politico-economico nell’Unione Europea che ne ha accentuato la subordinazione politica e ridotto l’agibilità, ma non ancora del tutto compiuto. La Spagna ha infatti pagato il proprio relativo e fragile sviluppo economico incentrato soprattutto sull’edilizia, sulla creazione di infrastrutture e sul turismo con una cessione significativa del controllo delle proprie attività industriali più importanti; al pari dell’Italia e di altri paesi europei politicamente malconci e a causa di un contesto territoriale determinato dall’esistenza di ben quattro principali grandi nazionalità, ha ceduto maggiormente alle lusinghe europeiste di una regionalizzazione sovrana in grado di agire direttamente con le istituzioni comunitarie, aggirando le prerogative, il coordinamento e gli indirizzi dello stato centrale. Il risultato è la sovrapposizione di una subordinazione storica alla potenza americana a quella franco-tedesca, analoga a quella italiana anche se parzialmente contenuta dai retaggi nazionalistici più pervasivi legati al recente passato franchista.

Ha sorprendentemente glissato sulla indispensabile compattezza quantomeno della popolazione catalana necessaria a sostenere un confronto così aspro e definitivo. Il movimento indipendentista si sta rivelando invece una realtà politica significativa ma minoritaria non solo nell’intera Catalogna, compresa quella non interessata dall’azione referendaria, ma anche nell’epicentro stesso del conflitto, la zona di Barcellona.

Riguardo all’indispensabile sostegno internazionale necessario a rompere l’isolamento e a trarre energia, aiuto militare e appoggio politico sembra aver ignorato le conseguenze dell’appartenenza della Spagna alla Unione Europea e alla NATO. I legami ed il sostegno internazionale, i quali comunque non mancano, non possono infatti manifestarsi con le stesse modalità che hanno caratterizzato le primavere arabe e i movimenti secessionisti e sovvertitori di questi ultimi anni. La grande novità dell’evento di rottura riguarda proprio la sua collocazione geopolitica; non più ai margini della sfera occidentale e nelle zone di attrito con Russia e Cina, bensì al centro dell’Europa occidentale.

Sul tavolo dei congiurati non potevano certo mancare opzioni più graduali ed avvolgenti che implicassero un’alleanza con le altre comunità nazionali di Spagna, compresa quella della costruzione di uno stato federale ormai resa verosimile e praticabile dal recente accordo già citato con i Paesi Baschi.

Quale nefasta congiunzione astrale ha determinato alla fine l’attuale piega degli eventi?

Certamente hanno assunto un ruolo importante le ambizioni e le rivalità all’interno del gruppo dirigente catalano il quale tenta alla fine di trovare una loro compensazione ed uno loro spazio nella neonata entità statale; ma queste trovano espressione solo nel particolare humus e retroterra alimentatosi nella regione.

Nella Catalogna di questi ultimi anni si è condensato un sodalizio sempre più complice tra un gruppo di politici locali, ben radicati negli interessi della comunità e con una visione megalomane della propria collocazione nel contesto internazionale, e la componente sinistrorsa e movimentista riconducibile a Podemos e Sinistra Unita.

Dei primi va sottolineata la pervicacia con la quale hanno confermato la propria collocazione nella NATO e nella UE, l’ostinazione nella ricerca di un sostegno lobbistico negli ambienti angloamericani, per la verità con ampio dispiego di risorse e scarsi risultati. Apparentemente nulla di anomalo rispetto alla necessaria ricerca di alleanze, sostegno o quantomeno neutralità che tutte le forze irridententistiche, rivoluzionarie portano avanti nella loro azione. I legami professionali e la storia di gran parte di questi dirigenti inducono però a pensare a qualcosa di deleterio.

Dei secondi, in particolare di Podemos, va rilevata con qualche attenzione in più la loro impostazione politica. La formazione di questo gruppo dirigente, in particolare di Pablo Iglesias inizia negli ambienti universitari di Los Angeles, la fucina che ha generato il movimento degli indignati e di Occupy Wall Street  http://italiaeilmondo.com/2017/10/11/dal-nostro-indignato-speciale-di-giuseppe-germinario-scritto-il-18102011/( http://italiaeilmondo.com/2017/10/11/dal-nostro-indignato-speciale-di-giuseppe-germinario-scritto-il-18102011/ )di alcuni anni fa; prosegue con un immersione, non priva di contrasti, nei movimenti culturali latinoamericani che hanno sostenuto le svolte di numerosi regimi di quel continente; si insedia nelle università di Madrid e Barcellona, in particolare negli ambienti accademici, dalle quali partono le spinte organizzative e la formazione del soggetto politico. La quasi totalità dell’impegno si fonda su tecniche di comunicazione basate su un particolare recupero del concetto gramsciano di egemonia; elude il problema del controllo degli strumenti coercitivi e punta sulla manipolazione dei sistemi mediatici, per altro nemmeno controllati direttamente. Si tratta in particolare di imporre un linguaggio e i propri contenuti. Il mondo viene schematicamente diviso tra un 1% di dominanti e un 99% di defraudati; il conflitto deve concentrarsi con azioni di partecipazione dal basso; le rivendicazioni si riducono a mere politiche di diritti e di redistribuzione. In Spagna il successo politico del movimento si basa su una campagna mediatica su scala nazionale e sull’alleanza su base locale con le forze autonomistiche e le varie opposizioni sociali.

Il movimento indipendentista catalano è figlio di queste impostazioni, in linea per altro con i tentativi passati. Fonda la propria azione politica sulla base di colpi di mano e di smaccata manipolazione mediatica degli eventi. Una esasperazione analoga a quella cui stiamo assistendo negli Stati Uniti e che sta minando progressivamente la credibilità degli artefici. La gestione strumentale ed approssimativa del referendum, la montatura della critica verso atti repressivi in realtà alquanto blandi stanno spingendo in un vicolo cieco il gruppo dirigente catalano in una azione puramente simbolica e verbale che potrà trovare alimento, probabilmente, solo in provocazioni sempre più pericolose e strumentali. Non si conoscono le effettive capacità e propensioni del governo catalano a condurre in questa maniera e sino in fondo il gioco; c’è di che dubitarne. Come c’è da dubitare delle solide convinzioni di un popolo indipendentista così lesto a smobilitare la piazza, un minuto dopo le dichiarazioni solenni del Presidente Puigdemontes, non ostante l’ombra minacciosa delle forze lealiste in campo.

La conferma della dichiarazione di indipendenza di oggi al parlamento catalano, con un dilazionamento dei suoi effetti, rappresenta una mossa disperata che non cambierà un destino personale ormai segnato dei responsabili catalani e il declino delle formazioni politiche citate già per altro in corso.

Una debolezza che rischia di spingerli sempre più sotto la protezione e il salvacondotto esterni. Non sono mancati a queste forze gli incoraggiamenti, il sostegno e il supporto dei soliti centri di potere che hanno contribuito a sconvolgere l’intera area mediterranea; nemmeno è mancato il sostegno discreto e qualche incoraggiamento altrettanto discreto di centri presenti nei paesi europei.

È mancato rumorosamente, questa volta, l’aperto e sfrontato supporto diplomatico americano messo all’opera direttamente nelle piazze in Egitto, in Ucraina, in Siria, in Kossovo nel recente passato.

Segno che il fronte non è più così compatto e che il confronto in corso negli Stati Uniti sta lasciando la propria impronta anche in Europa.

Quello in corso in Catalogna rappresenta comunque un test, probabilmente anche una forzatura determinata dalla perdita parziale delle leve di comando, di quanto la politica di destabilizzazione e del caos sia ormai esportabile in Europa. Qualche riflesso visibile lo stiamo vivendo anche in Italia con la vicenda del referendum lombardo-veneto. Friedman tempo fa ci aveva avvertiti. Il suo fallimento indurrà, probabilmente, a riproporre, ma sotto mutate spoglie, quella politica; certamente contribuirà a mettere in crisi e a far piazza pulita di queste sedicenti forze di opposizione perfettamente complementari all’azione degli attuali establishment sino a determinarne l’ulteriore sopravvivenza. Si auspica da più parti il successo di una qualsiasi politica di destabilizzazione, perché potrebbe favorire di per sé la formazione di nuove classi dirigenti più autonome e più sensibili alla costruzione di formazioni sociali più coese ed eque, adatte a sostenere il confronto che sta covando nel mondo. È invece proprio la modalità di svolgimento di questo confronto sia all’interno che tra esse che determina la qualità della formazione dei centri strategici.

Il compito faticoso degli analisti e soprattutto dei pochi politici dediti alla causa è appunto quello di discernere il grano dal loglio piuttosto che dedicarsi alla contemplazione del caos primordiale.

CASA NOSTRA O COSA LORO? I MEDIA CONTINUANO A OMETTERE NOTIZIE DI RILIEVO, di Antonio De Martini (pubblicato su facebook)

 

Durante la visita del re saudita Salman ben Abdulaziz a Mosca, i corrispondenti italiani ci hanno detto che hanno parlato di petrolio.
Può darsi benissimo.

La SAMI (Saudi Arabian Military Industries) ha pubblicato un comunicato informando che sono stati sottoscritti una serie di MOU ( memorandum of understanding) – d’ordine del figlio del re, il crownprince Mohammed ben Salman – con la
Rosoboronexport, per la fornitura del sistema antiaereo A400 famoso ormai in tutto il vicino oriente per la sua inesorabile efficacia.

Altre forniture coinvolte,i missili anticarro Kornet -EM, i LRM TOS-1A e dei lanciabmbe ags30 con le granate relative, un numero imprecisato di Kalashnikov col relativo munizionamento è peggio di tutto, uno dei MOU riguarda l’impianto in Arabia Saudita di fabbriche, con particolare riguardo ai sistemi AS400.

Questo passo gravido di conseguenze, indica che la Russia è in Arabia per restarci; che il principe saudita vuole mostrare indipendenza rispetto all’alleato americano che continua a rifornire anche il rivale Katar ad onta delle sanzioni decise dai sauditi.
E soprattutto che la lobby delle armi ha perso l’esclusiva di un cliente che solo lo scorso anno ha piazzato ordini per 80 miliardi di dollari.

L’ AS 400 che era la garanzia di inattaccabilità dell’Iran potrebbe essere una garanzia a breve scadenza e quindi è bene che non disobbedisca a Mosca; che gli Emirati ( alleati dei sauditi nella vicenda Katar) mostrano interesse per i caccia S35 russi che surclassano nettamente i 24 Rafale francesi comprati dal Katar e che il cugino del crownprince , oggi agli arresti a casa, potrebbe a breve tornare in auge tra gli yankees visto che il giovane Mohammed non si limita a fare il galletto con gli yemeniti, ma alza la cresta anche con gli USA.

Siamo in un’altra vigilia di crisi e i nostri media ci tengono all’oscuro.

Forse vogliono scongiurare l’accaparramento delle scatole di sardine da parte delle nostre massaie.

MASSIMO MORIGI A PROPOSITO di CRISTIANESIMO, TOLLERANZA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. NOTE A MARGINE A TACCUINO FRANCESE! CHE COSA CI INSEGNA LA CRISI DEL FRONT NATIONAL? DI ROBERTO BUFFAGNI

15 Haec cum audisset quidam de simul discumbentibus, dixit illi: “Beatus, qui manducabit panem in regno Dei”.  16 At ipse dixit ei: “Homo quidam fecit cenam magnam et vocavit multos; 17 et misit servum suum hora cenae dicere invitatis: “Venite, quia iam paratum est”. 18 Et coeperunt simul omnes excusare. Primus dixit ei: “Villam emi et necesse habeo exire et videre illam; rogo te, habe me excusatum”. 19 Et alter dixit: “Iuga boum emi quinque et eo probare illa; rogo te, habe me excusatum”. 20 Et alius dixit: “Uxorem duxi et ideo non possum venire”. 21 Et reversus servus nuntiavit haec domino suo. Tunc iratus pater familias dixit servo suo: “Exi cito in plateas et vicos civitatis et pauperes ac debiles et caecos et claudos introduc huc”. 22 Et ait servus: “Domine, factum est, ut imperasti, et adhuc locus est”. 23 Et ait dominus servo: “Exi in vias et saepes, et compelle intrare, ut impleatur domus mea. 24 Dico autem vobis, quod nemo virorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cenam meam” ”

 Evangeliun Secundum Lucam 14: 15-24

 

Facendo i più vivi complimenti all’analisi politica svolta per “L’Italia e il Mondo” da Roberto Buffagni in “Taccuino francese! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?”, (1) un’analisi dove la puntuale conoscenza delle forze politiche che si scontrano sullo scenario transalpino viene eccellentemente unita ad una visione in profondità degli ultimi due secoli di storia francese, tale che vista l’importanza di questa nazione per la modernità politica occidentale, il “Taccuino francese!” può veramente aspirare ad essere una prima ricognizione non solo dei nostri problemi italiani (ed auspicabili soluzioni, posto, non mi stancherò mai di ripetere che in storia e nella vita delle società non si danno soluzioni come in matematica ma, semmai, nuovi problemi, dialetticamente connessi con quelli che li hanno preceduti) ma anche di quelli di tutte le odierne c.d. “democrazie”, è proprio sull’aspetto definito nell’analisi di Buffagni “metapolitico” (cioè della Weltanschauung e della politica culturale che dovrebbero connotare le consapevoli e più culturalmente attrezzate attuali forze antisistema) che si pone la necessità di una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema. Una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema che non può assolutamente sfuggire all’impostazione “culturalistica” datane da Antonio Gramsci quando nei suoi Quaderni del Carcere a livello di strategia politica preconizzava la graduale ed inesorabile conquista attraverso una lunga e paziente guerra di posizione delle “casematte” politico-culturali del nemico (dal suo punto di vista di comunista queste casematte erano occupate dalla borghesia e il movimento rivoluzionario non solo avrebbe dovuto battere il nemico di classe ma anche insignorirsi dei migliori valori di questa classe, in modo che non solo questi valori passassero al proletariato ma anche che i migliori rappresentanti della classe egemone ora sconfitta passassero dalla parte del proletariato) e formulava, con mentalità molto sorelliana, il mito del “moderno principe”, che non si riassumeva certo nell’ingannevole figura del classico “uomo forte”ma che rappresentava, piuttosto, la sintesi dialettica, incarnata in un movimento politico che sapesse fondere il momento più politico con quello di cultura politica – Buffagni lo definisce metapolitico – , fra le spinte dal basso politiche e culturali provenienti dal proletariato e le migliori istanze della borghesia che pur doveva venire sconfitta tramite la predetta guerra di posizione all’interno della società. Insomma, per Gramsci la cultura “nazionalpopolare” non era solo uno strumento per comprendere la società italiana del suo tempo ma era, soprattutto, un progetto rivoluzionario “in fieri” che doveva preludere alla rivoluzionaria vittoria del proletariato. E veniamo quindi ora ai punti “metapolitici” dell’articolo di Buffagni. Per farla breve, ed anche perché questo a mio giudizio è il cuore di tutto il ragionamento di Buffagni, cito direttamente il punto 3 che afferma: “L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo”. Ora, a parte il fatto che il termine ‘mondialismo’ dice troppo o troppo poco (ma si tratta di intendersi, tutti, compresi lo scrivente, soffrono della mancanza, dopo il fallimento storico delle esperienze e categorie marxiste, di un adeguato lessico rivoluzionario e ‘mondialismo’ – preso cum grano salis e con la consapevolezza della sua natura di strumento provvisorio da sostituire quanto prima con ben altre e più ficcanti terminologie, e il Repubblicanesimo Geopolitico è anche, se non soprattutto, impegnato nella formulazione di queste nuove “categorie del politico – può ben indicare la retoricizzazione a scopi di dominio politico interno e di proiezione imperialistica degli ideali democratici e dei c.d. diritti umani), è sull’opposizione totale e totalitaria all’illuminismo e all’universalismo che è necessario spendere qualche ulteriore riflessione (e diciamolo chiaramente anche qualche critica). Questo per due fondamentali motivi. Punto numero uno. Proprio perché come già affermato nelle vicende storiche e sociali non si danno mai soluzioni ma semmai nuovi problemi od assetti dialetticamente legati agli stati precedenti e che magari soddisfano, almeno parzialmente e per brevi periodi, coloro che li hanno generati ma che, in nessun modo, possono essere chiamati soluzioni alla stregua delle soluzioni matematiche, non ha dal punto di vista prettamente teorico alcun senso affermare che si è contro o a favore di una determinata situazione o periodo storico. O per essere ancora più radicali – ed anche apparentemente auto contraddittori – la teoresi politica e culturale è allo stesso tempo dialetticamente contro tutta la realtà che l’ha preceduta ma è anche attratta inesorabilmente da questa stessa realtà. Questo per il molto semplice e banale motivo che senza polarità di attrazione-repulsione della realtà che gli si pone di fronte, non solo non è possibile modificare la realtà stessa ma non esisterebbe nemmeno, a meno che non si voglia cadere nella “storia monumentale” di nietzschiana memoria, la teoresi stessa. E questa dialettica di attrazione-repulsione della teoresi verso la realtà non è altro, se ci si pensa bene, che la trasposizione su un piano prettamente teorico della dinamica del confronto-scontro strategico che avviene negli altri livelli della realtà, dalla evoluzione delle istituzioni e consuetudine umane all’evoluzione degli organismi in natura. Ma su questo fondamentale aspetto non mi voglio ora dilungare oltre, atteso che tutti i lettori sono a conoscenza della hegeliana dialettica servo-padrone ed anche perché – si parva licet componere magnis – è un aspetto che ho già precedentemente trattato e che troverà una ulteriore sistemazione nelle mie prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico. Secondo – ed ultimo – fondamentale motivo per cui il punto 3 dell’articolo di Buffagni necessita di una ulteriore messa a fuoco: è vero noi siamo tutti, tanto per intenderci su un piano di praticità operativa e retorica e in attesa anche di più scaltrite categorie politiche – contro l’universalismo ed il mundialismo ma – e qui ritorna in campo l’impostazione culturalistica di Gramsci – non dobbiamo assolutamente dimenticare (e Buffagni nei suoi punti assolutamente non dimentica) che universalismo e una delle sue degenerazioni che chiamiamo per comodità operativa mondialismo, sono l’ultimo anello di una catena che parte dal mondialismo (e mondializzazione altrimenti detta globalizzazione) occidentale iniziata coll’impero romano, proseguita dal cristianesimo e sfociata per ultimo in epoca moderna nelle grandi illusioni illuministe prima e marxistiche in finale di partita: tutto ciò per dire che ragionando con procedure dialettiche e gramsciane sembra veramente difficile che possa avere vita e forza politica, come invece sembra voler indicare Buffagni, una cultura nazionalpopolare che inglobi al suo interno una prospettiva cristiana ma rifiutandone ab imis l’universalismo relegandola ad una sorta di astratto momento ma disgiunto dall’azione vera e propria. In esergo a queste brevi considerazioni ho posto la parabola del convito dal Vangelo secondo Luca. Il padrone dice ai servi, costringete la gente ad entrare nel banchetto (compelle intrare: Luca 14:23). Nella tradizione della Chiesa, da Agostino a S. Tommaso d’Aquino, questa parabola è sempre stata citata per giustificare la persecuzione e la conversione forzata degli atei e degli infedeli. Se il lascito del cristianesimo riguardo ai rapporti col diverso fosse solo l’universalistico e mondialistico compelle intrare non ho nessuna remora ad affermare, nonostante tutti gli sforzi di sintesi dialettica che si debbono compiere in sede di teoresi, che non avrei proprio nessuna difficoltà a schierarmi toto corde contro cristianesimo, illuminismo e – ovviamente ça va sans dire – contro l’universalismo retorico e contro la sua ulteriore ed imperialistica estensione del mondialismo. Ma il cristianesimo non è stato solo questo, è stato, anche se perseguitato, spesso il suo contrario, e dal punto di vista storico e quindi della teoresi non è forse del tutto inutile ricordare che il concetto di tolleranza, ancor prima di assumere le modalità liberali di individualismo metodologico come infine sono state elaborate prima auroralmente e contraddittoriamente da Hobbes (libertà di coscienza ma solo nel foro interno e decisionismo sovrano che prevale nella società esterna schiacciando il sorgere pubblico di sette e divisioni all’interno della stessa), poi da Spinoza e infine definitivamente compiute in Locke, fu nella modernità occidentale elaborato dalle sette ereticali sorte in seguito alla Riforma, sette ereticali che, in polemica con la riforma stessa, affermavano, in buona sostanza, che l’amore universalistico che deve unire tutti gli uomini impedisce senza possibilità di alcun dubbio che qualcuno sia costretto ad entrare, sia cioè costretto a convertirsi. E queste sette e movimenti ereticali che fecero della tolleranza il loro maggiore lascito religioso, politico e culturale (gli eroici nomi delle loro guide spirituali: Sebastiano Castellione, (2) Bernardino Ochino, i Sozzini) erano gli eredi culturali del miglior e più scaltrito umanesimo italiano (il suo principale ed archetipo esponente, Lorenzo Valla) che tramite la loro critica filologica avevano ben capito che il compelle intrare ed altri luoghi comuni testuali, compormentali e culturali del cristianesimo o erano stati mal interpretati allo scopo di politiche di puro potere o, comunque, come tutti le umane imprese che nascono e muoiono nella storia, andavano debitamente contestualizzati tenendo sempre presente come stella polare l’universalismo dell’amore – e quindi della tolleranza – che giudicavano come il vero cuore pulsante del cristianesimo. Penso che una Kultur che avversi l’universalismo liberista e l’imperialista mondialismo e che partendo dalla storia della modernità occidentale sia sempre più radicata fino a diventare nazionale popolare (e quindi politicamente efficace) debba tenere ben presente anche questi elementi e del cristianesimo (3) e di questo aspetto di storia della religione che si sono manifestati proprio con estremo rigore e vigore in Italia. Concludo con una situazione estranea al bell’articolo di Buffagni ma che, anche se con una battuta, ci consente e di stigmatizzare il falso mondialismo democratico e di mostrare che l’ epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (progetto che fu anche di Gramsci, anche se con categorie per ora smentite dalla storia, ma avendo ben presente che si doveva dare origine ad un movimento politico-culturale “nazionalpopolare” e quindi radicato nella storia storia) non significa la falsa visione, portata a livello di massa, di un mondo intrinsecamente violento ma la consapevolezza molto strategica ma non necessariamente violenta che, esprimendoci con Alexander Werndt “anarchy is what states make of it”. (4) La bestiale repressione in Catalogna – e tanti saluti alla democrazia e ai diritti politici universalistici del mondo liberal-liberista falsamente propagandati dall’UE – ha fatto sì che, in piena tradizione esegetica cristiana mainstream di Luca 14: 15-24, si sia passati dal compelle intrare al compelle legnare. (5) Si tratta, in senso terroristico e con una versione della Kultur occidentale che noi avversiamo (contraddizione: non avevo appena detto che non si fanno i processi alla storia?) assieme ad una ulteriore conferma del detto wendtiano – ma in negativo, cioè della capacità umana, anziché di essere artefice del suo destino come indica la citazione wendtiana, di compiere il male – anche, attraverso la sua totale e speculare antitesi, dell’indicazione su cosa si deve intendere per ‘epifania strategica’. Una epifania strategica ed un senso delle più profonde e migliori radici della Kultur occidentale (6) che è del tutto assente nella mente e negli occhi spenti di questa attuale brutale Europa politica liberal-liberista e – usiamo ancora una volta questo termine sicuri che sappiamo capirci – mondialista.

Massimo Morigi – 4 ottobre 2017

ooooooooooooooooo

NOTE

1 Agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/, http://www.webcitation.org/6tvriCfRo e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F09%2F29%2Ftaccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni%2F&date=2017-10-03 .

2 Nell’ottobre 1553 venne messo al rogo a Ginevra l’antitrinitrario Michele Serveto (Michel Servet, Villanueva de Sigena, 19 settembre 1511 – Ginevra, 27 ottobre 1553). L’anno successivo stigmatizzando la decisione di Calvino di mettere a morte Serveto, Sebastiano Castellione (Sébastien Castellion, o Chatellion o Châteillon, in italiano Sebastiano Castellione, Saint-Martin-du-Frêne, 1515 – Basilea, 29 dicembre 1563) con lo pseudonimo di Martin Bellius pubblica il “De haereticis an sint persequendi” dove attraverso citazioni di diversi autori fra cui Martin Lutero, Erasmo da Rotterdam, Sebastian Frank e lo stesso Castellione, Castellione mostra l’insensatezza dell’intolleranza vista l’assoluta soggettività delle opinioni umane e, soprattutto, nella consapevolezza che il vero può essere avvicinato solo con una libera ricerca. Celebre la sua frase sul rogo di Serveto “Tuer un homme ce n’est pas défendre une doctrine, c’est tuer un homme. Quand les Genevois ont fait périr Servet, ils ne défendaient pas une doctrine, ils tuaient un être humain : on ne prouve pas sa foi en brûlant un homme mais en se faisant brûler pour elle” che consegna l’ “uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo” come una delle massime pietre miliari non solo della cultura occidentale ma anche (e ci sia concesso per un attimo il peccato dell’universalismo) di tutte le culture dell’uomo.

3 Altro tratto del cristianesimo fondamentale per il Repubblicanesimo Geopolitico per un’ulteriore sviluppo di una Kultur realmente alternativa alle attuali scemenze liberal-liberiste, e cioè il tormentato rapporto del cristianesimo di S. Paolo con la legge civile, è stato affrontato nel nostro “Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica” , che è stato pubblicato originariamente per “L’Italia e il Mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2017/07/29/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6sMcGBjay e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F07%2F29%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-31) e che poi è stato anche caricato autonomamente su Internet ed ora è quindi consultabile, oltre che su altre piattaforme, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia600809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf .

4 “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” è il titolo di un articolo di Alexander Wendt comparso nel 1992 sulla rivista “International Organization” (Alexander Wendt, “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425), articolo nel quale viene esemplarmente esposto quell’approccio costruttivista che ha rivoluzionato la dottrina delle relazioni internazionali e che ha profonde affinità con l’impostazione dialettico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico. L’articolo è ora anche consultabile su Internet, oltre altre piattaforme, all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf , mentre per l’importanza per il Repubblicanesimo Geopolitico del costruttivismo di Alexander Wendt, oltre a vedere “Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari”, pubblicato prima sul “Corriere della Collera” all’ URL https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/ e ora anche sull’ “Italia e il Mondo” all’ URL http://italiaeilmondo.com/2017/03/16/repubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6t4eGt59y e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F03%2F16%2Frepubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi%2F&date=2017-08-29), si rinvia, more solito, per la “dialettizzazione” del costruttivismo wendtiano alle prossime “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico”.

5 Proseguendo con gli ignobili giochi di parole, ma per certe situazioni e certi uomini non si può sprecare troppa intelligenza, dopo l’indegno discorso di re Filippo VI di Spagna in seguito alla brutale e bestiale repressione in Catalogna per un referendum definito incostituzionale (ma ammesso e non concesso che lo fosse, sarebbe bastato non riconoscerne il risultato, cercando di non farlo svolgere si denuncia la propria coda di paglia e, comunque, ne viene posto, de facto, un sigillo di legittimità se non giuridica certamente politica), ora per le vicende di Spagna al “compelle legnare” bisogna anche associare un “compelle regnare” (o, con (in)felice sintesi “per regnare compelle legnare”: comunque, non si sa bene ancora per quanto, visto che la giustificazione di un’istituzione anacronistica come la monarchia nei regimi a c.d. democrazia rappresentativa si giustifica proprio per essere una voce , in ragione della sua natura non elettiva e quindi non sottoposta ad alcuna spinta elettoralistica, volta unicamente alla concordia del popolo, al di sopra delle fazioni e contro ogni demagogia – e nel caso della Spagna – delle bestialità autoritarie di leader politici – e degli agenti strategici politico-militari nostalgici del franchismo – che devono rispondere ai peggiori istinti totalitari del loro elettorato …).

6 Il Repubblicanesimo Geopolitico è debitore a Walter Benjamin, oltre alla elaborazione delle “categorie del politico” dell’ ‘iperdecisionismo’ e dello ‘stato di eccezione permanente’ che animano le “Tesi di filosofia della storia” (cfr. sull’argomento i nostri Massimo Morigi, “La Democrazia che sognò le fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico”) e Id.,Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola”, entrambi lavori pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” e consultabili anche su varie piattaforme Web), anche del suo particolare messianismo, non rivolto verso un imprecisato futuro ma inteso a salvare quanto nel passato era stato cacciato ai margini della storia ed oppresso. A questo proposito Benjamin creò la metafora del “balzo di tigre nel passato”. Nella Weltanschauung del Repubblicanesimo Geopolitico, questo messianico “balzo di tigre nel passato” si tramuta in un’ epifania strategica che per realizzarsi si pone l’obiettivo di una Kultur non statica ma sempre in fieri , attraverso la quale vengano recuperate e rese strategicamente operative e vincenti tutte quelle situazioni e (fallite) soluzioni che nel passato appartennero agli agenti omega-strategici: «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso. Così per Robespierre l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.»: Walter Benjamin, tesi n. 14 di “Tesi di filosofia della storia”.

1 369 370 371 372 373 385