Le celebrità che vaneggiano di ammazzare Trump: una storia vecchia, noiosa e pericolosa di  Victor Davis Hanson

 

Le celebrità che vaneggiano di ammazzare Trump: una storia vecchia, noiosa e pericolosa

di  Victor Davis Hanson, 2 giugno 2019

 

 

Di recente, la scrittrice newyorkese Fran Lebowitz, invitata da Bill Maher nel suo programma HBO, gli ha detto che il governo USA dovrebbe sbolognare il presidente Trump “ai suoi amichetti sauditi, sai quelli che si sono sbarazzati di quel giornalista?”

Secondo la Lebowitz è spiritoso dire in diretta TV che il presidente degli Stati Uniti andrebbe fatto a pezzi come il giornalista e attivista politico saudita Jamal Kashoggi.

Ormai, la mini-industria di celebrità che invocano la morte violenta o l’assassinio del presidente Trump è una storia vecchia e noiosa, e sta diventando pericolosa.

Come seguissero un copione, attori, cantanti, comici e banali entertainer gareggiano a chi fantastica il modo più splatter di ammazzare il presidente: ma così facendo, insinuano nelle menti degli squilibrati immagini sempre più atroci di violenze immaginate, forse persino approvate da icone del cinema e celebrità della cultura pop.

Il celebre chef Anthony Bourdain, recentemente scomparso, meditava di avvelenare Trump.

David Crosby, il musicista, pensava di incenerirlo.

L’attore Johnny Depp and il rapper Snoop Dogg preferivano sparargli.

L’ex presentatrice della CNN Kathy Griffin,  il comico George Lopez, e il cantante Marilyn Manson immaginavano una decapitazione.

Il gruppo rock Pearl Jam ha presentato l’immagine di Trump come carogna decomposta.

La cantante Madonna e il musicista Moby hanno optato per gli esplosivi.

Il teatro pubblico di New York City ha fantasticato di pugnalarlo.

L’attore Robert De Niro pare abbia la patetica fissazione di colpirlo ripetutamente alla testa.

La comica Rosie O’ Donnell ha sognato Trump che precipita in un burrone.

L’attore Mickey Rourke ha minacciato di bastonare Trump, mentre a quanto pare Charlie Sheen ha pregato per un intervento divino che lo elimini.

Il comico Larry Wilmore dice che si contenterebbe di un buon vecchio strangolamento.

 

Hollywood, naturalmente, si è fissata nell’odio per Trump fin dal primo annuncio della sua candidatura: un’ossessione condivisa dalla CIA dell’era Obama, dalla FBI e dal Dipartimento di Giustizia.

Eppure, che celebrità, autori ed entertainer liberal fantastichino in pubblico di ammazzare un presidente conservatore non è proprio una cosa nuova.

L’ex presidente George W. Bush era un bersaglio preferito degli auguri di morte di questa gente. Ricordate l’episodio di “Game of Thrones” del 2012 dove si vedeva la testa di Bush infissa su una picca? Il columnist del “Guardian” Charles Brooker ha evocato gli assassini di ex presidenti: “John Wilkes Booth, Lee Harvey Oswald, John Hinckley Jr.: dove siete adesso che abbiamo bisogno di voi?”

La Alfred A. Knopf  ha pubblicato il romanzo di Nicholson Baker Checkpoint, un libro che consta interamente di dialoghi monotoni tra personaggi noiosi che propongono vari modi di ammazzare Bush. Nel 2006 il cineasta Gabriel Range ci ha beneficiato del  “docudrama” Death of a President, dove si mette in scena un tentativo – riuscito – di assassinare George W. Bush.

Ma le nostre celebrità d’ élite non si limitano a immaginare la violenta dipartita di presidenti conservatori come George W. Bush e Donald Trump. Va benissimo qualsiasi eletto conservatore, la sua famiglia compresa.

Proprio ora, l’attore e comico Jim Carrey ha twittato che gli piacerebbe che l’attuale governatrice repubblicana dell’Alabama Kay Ivey fosse stata abortita. “Secondo me, se interrompete una gravidanza lo dovreste fare prima che il feto diventi governatore dell’Alabama”. Così, pensa Carrey, Kay Ivey non avrebbe potuto varare la legge restrittiva sull’aborto. Per migliorare l’effetto, Carrey ha allegato al suo tweet la macabra illustrazione di uno strumento chirurgico che risucchia la testa della Ivey, fotomontata sul corpo di un feto nel grembo materno.

L’estate scorsa Peter Fonda, un’icona del cinema anni Sessanta, ha immaginato una forma di violenza particolarmente patologica ai danni del figlio più piccolo di Trump, Barron: “Dovremmo strappare Barron Trump dalle braccia di sua madre e chiuderlo in una gabbia insieme a dei pedofili. Poi vediamo se sua madre trova il coraggio di mettersi contro al gigantesco str… che ha sposato.”

Provate a sostituire il nome di Obama al nome di Trump: attacchi così abietti garantirebbero a chi li porta l’ostracismo, la distruzione della carriera e persino conseguenze legali.

Ci ricordiamo lo sconosciuto clown di un rodeo che nel 2013 fu bandito a vita dalla Fiera dello Stato del Missouri perché uno dei suoi assistenti s’era comprato una normalissima maschera da Obama e l’aveva indossata lavorando nell’arena?

Lo scandalo universale contro il clown del rodeo si fondava su questa tesi dei liberals: dileggiare il presidente degli Stati Uniti non solo era razzista, ma pericoloso, perché istigava chi odiasse Obama a passare dal pensiero all’atto.

E allora perché  le celebrità di sinistra manifestano tanto odio politico?

Primo, danno per scontato che i loro pretesi fini, eguaglianza e giustizia, giustifichino qualsiasi mezzi atto ad approssimarvisi, oscenità e incitamenti alla violenza compresi. Per i militanti della giustizia sociale, i “social justice warriors”, anche le morbosità sono segno che si sta dalla parte giusta. E se qualche squilibrato prendesse sul serio le celebrità che parlano a vanvera di ammazzare o colpire Trump, e realizzasse una delle loro numerosissime fantasie? Ne proverebbero rimorso, le celebrità? Forse no, visto l’odio speciale che nutrono per il conservatorismo in generale e per la famiglia di Trump in particolare.

Secondo, le celebrità (molte neanche hanno finito le scuole superiori) sono per natura un po’ arroganti, e spesso proprio stupide. Confondono la loro bravura di attori o cantanti con una specie di intelligenza o erudizione. Ma sin da Platone, i filosofi ci hanno avvisato che le capacità attoriali sono piuttosto un talento naturale che acquisito, e possono non aver nulla a che fare con l’intelligenza, la saggezza o la sapienza.

Terzo, le celebrità non temono conseguenze. La maggior parte dei boss dell’industria dello spettacolo sono anche loro di sinistra. Persino gli attacchi più ignobili ai conservatori possono diventare utili mosse di carriera. Come le élites dei ricchi, pensano che essendo privilegiati e influenti, dovrebbero andare esenti dalle conseguenze legali di pubbliche dichiarazioni in cui si auspica la morte di un presidente in carica.

Quarto, le celebrità adorano l’attenzione del pubblico, e più ne hanno meglio è, specie se la carriera o l’età è sul viale del tramonto. Per i vanitosi in declino, anche la cattiva pubblicità è buona pubblicità. La carriera di Madonna, Moby, Robert De Niro, o Rosie O’ Donnell non è in fase ascendente.

Quinto, molti tra coloro che manifestano tanto odio e scurrilità sono prodotti diretti o indiretti degli anni Sessanta e Settanta, che hanno distrutto le norme sociali e sdoganato l’oscenità. Per celebrità del genere, parlare a vanvera della morte di un presidente fa parte della cultura di tutta una vita, è il tipo di volgarità che danno per scontata nella musica, nel cinema e nella comicità. Parlando in generale, gli attori che da giovani sono rozzi e volgari invecchiano male. Il Peter Fonda che in Easy Rider era uno spirito libero che parla a ruota libera in sella alla moto, adesso che replica il suo gergo da ribelle a settant’anni e passa sembra un vecchio rimbambito.

Ultimo, Hollywood e le celebrità vivono in un mondo che non c’entra niente con il resto dell’America. Ricchezza, isolamento, governanti, camerieri, giardinieri, il clima e il privilegio di Malibu, Montecito, Beverly Hills o Santa Monica non sono la normalità americana. Praticamente nessun americano vive la vita regale di un Jim Carrey o di un Johnny Depp. Il teatro pubblico di New York non ucciderebbe ritualmente sulla scena ogni sera Trump se rappresentasse il Giulio Cesare nelle campagne dell’Alabama o al centro dell’Oklahoma.

Se qualcuno crede che la spiaggia di Malibu rifletta la norma del comportamento o del modo di pensare americani, ha dei seri problemi con il principio di realtà. Dunque, aspettatevi che la voga delle celebrità che fantasticano l’assassinio di Trump continui, finché non succederà una di queste due cose: o il paese, collettivamente, gli dice “adesso basta”; o le chiacchiere morbose sull’assassinio portano all’omicidio reale.

 

Victor Davis Hanson

Victor Davis Hanson è uno storico militare americano, editorialista, ex professore di studi classici, e uno studioso della guerra nell’antichità. E’ stato professore di Studi Classici alla California State University di Fresno, e oggi è il Martin and Illie Anderson Senior Fellow presso la Hoover Institution, Stanford University.  Il suo libro più recente è: The Second World Wars: How the First Global Conflict was Fought and Won (Basic Books).

LA COMMISSIONE EUROPEA PROPONE UNA PROCEDURA DI INFRAZIONE PER DEBITO ECCESSIVO ALL’ITALIA. PERCHE’? a cura di Luigi Longo

LA COMMISSIONE EUROPEA PROPONE UNA PROCEDURA DI INFRAZIONE PER DEBITO ECCESSIVO ALL’ITALIA. PERCHE’?

a cura di Luigi Longo

 

Riporto la nota di Domenico Rondoni [referente economico del MMT (Modern Money Theory) – Umbria], apparsa sul sito www.ariannaeditrice.it del 6/6/2019, per porre la seguente domanda: perché l’Italia che ha aumentato il rapporto debito/Pil meno degli altri paesi europei nel periodo 1992-2017 verrà sottoposta alla procedura di infrazione per debito eccessivo?

Propongo una riflessione non interessata ad evidenziare a) la debolezza e il degrado peculiare politico e sociale dell’Italia (attacco alle risorse mobili e immobili, assalto definitivo al cosiddetto made in Italy, distruzione delle imprese strategiche ormai definitivamente in mano straniere…); b) l’ideologia (nell’accezione negativa del termine) del governo per il cambiamento (sic) dei cosiddetti sovranisti, populisti in Italia (e in Europa) che non hanno una strategia per liberarsi dal giogo assurdo dei sub-dominanti europei (Germania e Francia): per loro la politica non è la reale prassi di cambiamento ma è un gioco di potere maldestro dentro la logica del capitale; c) l’Italia e l’Europa come espressioni geografiche dei predominanti statunitensi a prescindere dal loro insanabile (un indicatore del declino irreversibile) conflitto interno tra gli agenti strategici; d) il nuovo ri-equilibrio che la fine della UE comporterà con le nuove relazioni tra i sub-dominanti europei e i pre-dominanti statunitensi.

La riflessione che qui avanzo è interessata piuttosto a rilevare la mancanza di un progetto strategico di ri-fondazione dell’Europa che passa attraverso la fuoriuscita dei Paesi europei dalla NATO (il progetto Usa della fase multicentrica) che è una delle importanti istituzioni mondiali per il dominio Usa.

Altro che fuoriuscita dall’euro: per fare cosa? Per rimanere ancora sotto la sudditanza statunitense? Per rimanere nella incapacità di aprire relazioni di cambiamento con l’Oriente le cui potenze mondiali (soprattutto Russia, Cina) sono per un equilibrio multicentrico del dominio?

La UE (il progetto USA del secondo dopoguerra) è finita e occorre ri-pensare un’altra Europa fondata su nazioni autodeterminate e sovrane (con la loro storia, il loro territorio, la loro geografia, la loro cultura) con una idea di sviluppo e di ri-pensamento della modernità a partire dalla rottura del dominio statunitense perché gli Stati Uniti d’America restano il grande collante culturale ed il grande garante geopolitico-militare della riproduzione capitalistica mondiale.

La crisi della modernità occidentale è un altro indicatore del declino egemonico statunitense.

 

 

 

 

 

RICAPITOLIAMO

di Domenico Rondoni

Ci fanno entrare nell’euro con un rapporto debito/pil piu alto di tutti.
In questi 25 anni difficilissimi aumentiamo il rapporto debito/pil di meno di tutti.
E ora ci aprono una procedura di infrazione per DEBITO ECCESSIVO!?!?
Cioé è come se convinco uno zoppo a fare i cento metri con i normodotati, lo zoppo facendo un miracolo e lasciandoci quasi le penne arriva primo, ed io gli azzoppo pure l’altra gamba perché non ha fatto il record del mondo!!
Ma ci rendiamo conto in che gabbia di matti ci hanno cacciato?
Se questi non capiscono che il cosidetto debito pubblico è uno STRUMENTO DI CRESCITA ECONOMICA che va GESTITO ed AUMENTATO, non resta davvero altro da fare che evadere dal manicomio….

 

 

 

 

33° podcast_2a parte. Gordon e la Fallaci, di Gianfranco Campa

Continua la rievocazione di Gianfranco Campa della  straordinaria impresa che ha portato più volte l’uomo a calpestare il suolo lunare. Fu la dimostrazione e la sanzione del definitivo predominio tecnologico americano, ma anche una costruzione epica che ha contribuito non poco ad alimentare l’attrattività del modo di vita americano; del suo modo di porsi e di proiettarsi nel futuro e in nuovi spazi. L’autore lo rievoca arricchendo la narrazioni di episodi inediti o poco conosciuti.

Due rettifiche che però non snaturano il resoconto. L’Apollo 12 rientro sulla Terra il 24 novembre, non il 18; l’astronauta Gordon morì ovviamente nel 2017, non nel 1917

BANDE E BANDERUOLE, DI SINAGRA, CUCINOTTA, de Martini, MASALA

GUERRA TRA BANDE, di Augusto Sinagra

È superfluo aggiungere commenti allo schifo che stiamo vivendo per la ignobile immagine che la magistratura e il CSM stanno dando di sé per colpa di pochi o tanti, non importa.
Certamente ci sono magistrati che in silente e diuturna fatica danno eccellente prova di essere veramente servitori della legge. Ma come tutti gli onesti, non fanno notizia, specie se sono minoranza.
Desidero ora riprendere una acuta osservazione del Prof. Vincenzo Cucinotta, Ordinario nell’Università di Messina e del quale mi onoro di essere Collega e amico.
Che il cosiddetto “gruppo Palamara” ricomprendente molti altri magistrati e componenti del CSM, ha agito (e agisce ancora?) come un gruppo di potere, una lobby, un centro di interferenze, un comitato d’affari ovvero, per semplicità di linguaggio e per sintesi, come una “banda”, è evidente, ma per una esigenza logica oltre che per una evidenza pratica, è altrettanto evidente che tale “banda” non poteva agire solitariamente bensì in contrapposizione ad altra “banda” portatrice di interessi altrettanto illeciti e altrettanto contrapposti.
Dunque, le indagini che attualmente svolgono gli inquirenti dovrebbero essere rivolte anche alla individuazione e al perseguimento dei componenti di altra “banda” o di altre “bande” contrapposte.
Signori, questa è oggi la magistratura!
Questo è oggi il Consiglio Superiore della Magistratura!
Del figlio di Bernardo Mattarella ho già detto. Non occorre aggiungere altro. Basta il suo silenzio.
Altro Capo di Stato che per molti versi ha onorato la Repubblica e che mi voleva bene, il Prof. Francesco Cossiga, in un’occasione certamente meno grave mandò i Carabinieri al CSM per porre termine ad una seduta illegittimamente convocata.
Come ho già detto altre volte, ormai sono vecchio e come fanno i vecchi amo ricordare cose del passato: ero da due anni in magistratura e partecipai al Congresso della ANM che si svolgeva a Catania nel 1967. Incautamente portai con me mia mamma per farle rivedere Catania dove io nacqui. Presi la parola e proposi la immediata abolizione del CSM. Fui coperto di insulti ma rivendico a me stesso capacità profetiche o di preveggenza.
Se non si vuole abolire il CSM, urge riformarlo funditus con la preliminare abolizione per legge delle “correnti” attraverso le quali si combattono i magistrati dell’una e dell’altra banda. Il CSM venga composto da soli magistrati che, divisi per grado e per funzioni, vengano estratti a sorte, abolendo altresì le designazioni da parte del Parlamento dell’attuale quota di componenti. I Partiti devono restare fuori dal CSM che va presieduto, sì, dal Capo dello Stato ma prima questi deve essere eletto all’esito di un suffragio popolare.
Siamo stanchi e troppo abbiamo subito dai Napolitano e dai Mattarella, per citare solamente gli ultimi due.

SCORRI BANDE, di Vincenzo Cucinotta

Ma sbaglio, o sta cominciando una narrazione della vicenda Palamara che non potrebbe mai stare in piedi?
Qui, si parla solo di questa cricca, ma è evidente che ce ne deve stare un’altra che avversa la prima.
Cioè, io non capisco, come si forma una maggioranza nel CSM, sia plenum che commissione? O è preordinata e allora è anche peggio, oppure ognuno va a cercare i membri con i quali costruire una maggioranza. I metodi di Palamara saranno indecenti, ma alla fine non è che se ne possano usare di molto migliori, si tratta sempre di meccanismi che inevitabilmente in qualche misura riproducono meccanismi mafiosi, cioè il consenso è sempre ottenuto in camera caritatis.
Una lettura credibile della faccenda potrebbe essere che una cricca che aveva elaborato un piano per portare il proprio uomo alla guida della procura di Roma, abbia incontrato sulla sua strada la cricca Palamara, e stia usando armi perfino peggiori di quelle di Palamara (io considero riprendere una ricevuta di un pranzo che ci si fa pagare dall’amministrazione, un metodo abietto per fare fuori una persona).
Una domandina sul perchè la stampa parli solo di una delle due cricche, mi parrebbe doveroso farsela.
Qualcuno poi dica a Mattarella che egli, da PdR protempore, ha la presidenza del CSM, mi pare che si sia voltato da tutt’altra parte, e anche questo è un dato di cui tenere conto.

I PRES. DELLA REP. E IL CSM, di Antonio de Martini

Come è noto, i magistrati del CSM vengono eletti in parte dal Parlamento con una votazione.
La dove c’è una votazione, li vi sono accordi politici che cercano equilibri tra i membri togati e quelli scelti dai Parlamentari.

Ho conosciuto il magistrato PALAMARA quando era un giovane assegnato a Roma dopo il prescritto primo periodo in Calabria.

Il padre era un magistrato morto in servizio. Era rimasto orfano giovanissimo e allevato da uno zio.

Accompagnato da un cugino, Palamara jr. veniva a casa mia a vedere con la mia TV la sua Roma alla domenica.

Non lo vedo da oltre venti anni e ho considerato non seria la sparata televisiva di Cossiga – ripescata negli archivi TV da qualcuno che deve aver lasciato tracce- come una delle tante di un personaggio umorale, ma oggi sintomo di una trappola ben preparata.

Tre giorni Prima, mi dice un uccellino, Mattarella aveva fatto un appello ufficiale a “ votare il candidato migliore”. Invano ?

Agnosco stilum romanae ecclesiae.

Per quanto possa valere la mia esperienza degli uomini e delle metodiche compromissorie, ritengo sia un uomo onesto e sospetto che il polverone sia stato alzato per descrivere sui giornali avvenimenti compromissori della pace familiare.

C’è evidentemente chi pensava – e Il presidente del CSM tra questi- che il procuratore generale di Roma dovesse essere scelto dallo Spirito Santo.

La democrazia – e l’autonomia della magistratura – prevedono invece che sia scelto dagli uomini e che la scelta sia preceduta da confronto, anche con oppositori e possibilmente senza intralciare il lavoro.

Contraddittorio il comportamento di chi – Mattarella per non fare nomi ma solo i cognomi- esalta regolarmente i processi democratici e il dialogo a patto che si risolvano in suo favore.

Quando i risultati gli sono avversi o avvengono a sua insaputa, si dichiara
“ sconcertato ”e vuole dare la colpa allo statuto che “va cambiato”.

Se un dibattito avviene anche fuori dalle sedi istituzionali, ritengo la responsabilità sia di chi dirige l’organismo e non ha creato spazi di confronto adeguati o li inquina con lo zittìo.
O no?

Il Testo, il Contesto e il Trojan, di Giuseppe Masala.

Quando la magistratura è scossa da un terremoto c’è un cambio di regime in corso. Cosa stia succedendo non lo sappiamo: non ne conosciamo né la genesi nè il reale decorso degli eventi. Però possiamo valutarne i primi effetti.
Chiaro indebolimento del Presidente della Repubblica: inutile che ci giriamo attorno; l’uomo era ed è evidentemente scosso, vuole metterci una pezza. Il Grande Burattinaio che ha spinto tutti i corifei dell’informazione a paventare una caduta del governo è lui. Voleva un governo amico e fedele per gestire la mina che è scoppiata al CSM. Vista la malaparata ha provato poi a sondare per sostituire Fofò Bonafede al Ministero della Giustizia facendo circolare il nome di un avvocato torinese vicino alla Lega. I due dioscuri hanno risposto picche. Il governo va avanti e niente rimpasti. E ci credo, i dioscuri non sono certamente dei giureconsulti né degli intellettuali ma da uomini d’azione cresciutia a calci in faccia dati e ricevuti hanno capito benone cosa sta succedendo. Infine il poveruomo ha ricevuto Bonafede a Palazzo. I giornali di regime con eloquio paludato hanno spiegato che il Ministro ha rappresentato al Grande Capo quello che stava succedendo, le sue preoccupazioni e, ovviamente, ha detto che le istituzioni sono compatte. Ce lo sto vedendo Fofò Bonafede che dice queste cose. Qui, l’unico preoccupato è l’inquilino, come usa dire, “del Colle”.
Anche Conte s’è scoperto: è schierato con l’uomo del Colle ma i due dioscuri se ne impippano altamente. Figuriamoci.

Cosa succederà non è dato sapere, ma chi ne esce indebolito già lo sappiamo. Il prossimo inquilino del Colle sarà votato dai Grandi Elettori e da un Trojan. Questa è la Costituzione materiale della Terza Repubblica.

NB_Tratti da facebook

La loro Wehrmacht era migliore della nostra armata Di Max Hastings

Qui sotto la traduzione di un articolo apparso oltre trenta anni fa sul WP riguardante il comportamento delle forze alleate occidentali nell’ultimo conflitto mondiale;  una analisi accurata in particolare della condotta delle forze alleate del fronte occidentale europeo. Una qualità ed una serietà del servizio giornalistico del tutto sconosciuta alla attuale redazione della testata. Un modo inoltre di rendere giustizia al comportamento meschino mantenuto nelle celebrazioni con la grave omissione del valore e del tributo determinante dell’impegno russo nel conseguimento della vittoria contro il nazifascismo. Un comportamento teso a rappezzare e giustificare anche nell’attuale contingenza politica il ruolo della NATO. Giuseppe Germinario

La loro Wehrmacht era migliore della nostra armata
Di Max Hastings; Max Hastings ha scritto 10 libri,
incluso ‘Overlord: DDay,
6 giugno e
1944.’ 5 maggio 1985

https://www.washingtonpost.com/archive/opinions/1985/05/05/their-wehrmacht-was-better-than-our-army/0b2cfe73-68f4-4bc3-a62d-7626f6382dbd/?fbclid=IwAR37baxYDOBazwoHr1zMss5id9Gj4-H6lPbT7zJhR1rrw2l44I2x-whJ-4k&noredirect=on&utm_term=.bcb617f17597

 

LA PROPAGANDA è un ingrediente ineludibile del conflitto moderno. Nella seconda guerra mondiale fu considerato essenziale nella lotta per sconfiggere l’esercito tedesco perché i popoli della Grande Alleanza dovevano essere convinti della superiorità qualitativa dei loro combattenti rispetto a quelli del nemico. Un Dogface (Faccia da cane si riferisce ad un soldato dell’esercito degli Stati Uniti che serve nella fanteria, specialmente durante la seconda guerra mondiale) , un tommy (Tommy è un termine informale per definire un soldato semplice nell’esercito britannico) valeva tre kraut dalla testa di legno (Soldati Tedeschi). I “robot” di Hitler non avrebbero potuto mai eguagliare l’immaginazione e l’iniziativa dei soldati alleati sul campo di battaglia.

L’immagine della guerra propagandata al pubblico americano e britannico era di tenaci soldati alleati determinati a strappare la decisiva vittoria finale: ‘Dimentica l’immagine gloriosa di combattenti che hai visto nei film’, dichiarava all’epoca un giornalista corrispondente di guerra del New York Times, “L’immagine che volete avere nella vostra mente è quella di giovani uomini sporchi, affamati, completamente affaticati che si aggirano metà storditi e trasandati, e in qualche modo riescono lo stesso a rialzarsi e colpire i tedeschi.” Un pilota americano ha riferito a Bob Hope: “Sarebbe bello … tornare a casa … e allungare le gambe sotto un tavolo imbandito della cucina della mamma … ma tutto quello che desidero è battere questi figli di puttana nazisti , così possiamo poi dedicarci solo a quei bastardi di Japs. (Giapponesi)”

La maggior parte degli uomini degli eserciti alleati erano apertamente insofferenti delle fantasie propagandate su di loro dai corrispondenti delle testate giornalistiche, con eccezioni degne di nota come Bill Mauldin ed Ernie Pyle. Questa reazione rende più degno di nota il fatto che per una generazione, dopo il la vittoria nel 1945, molti miti furono perpetrati non solo dagli storici popolari, ma anche dalle istituzioni militari occidentali.

Nel 1950, il grande scrittore militare britannico, Capt. Basil Liddell Hart, scrisse un articolo in cui rifletteva sulla vasta superiorità delle forze alleate nell’Europa nord-occidentale nel 1944 e sulla riluttanza dei critici militari del dopoguerra in Gran Bretagna e in America di trarre conclusioni appropriate sulla prestazioni militari degli alleati: c’è stato troppo autocompiacimento e troppo poca indagine oggettiva, ha detto.

Liddell Hart non è stato il solo a sfidare la nozione convenzionale sulla seconda guerra mondiale guerra. Alcuni critici hanno cercato di sfidare alcune delle controversi teorie degli analisti militari americani; Col. Trevor Dupuy e Martin Van Creveld, che hanno sottoposto i rispettivi rendimenti degli eserciti americani e tedeschi sul campo di battaglia a uno studio statistico dettagliato. Nessuno e ancora riuscito, dati alla mano, a ribattere la conclusione analitica di Dupuy, cioè che in quasi tutti i campi di battaglia del fronte occidentale il meglio è stato mostrato dalla Germania:”Su base uomo a uomo, i soldati di terra tedeschi hanno costantemente inflitto vittime a un tasso superiore del 50% rispetto a quello delle truppe britanniche e americane in tutte le circostanze (enfasi in originale).Questo era vero sia in fase di attacco che in quello di difesa, quando avevano una superiorità numerica e quando, come di solito, erano in inferiorità numerica, quando avevano la superiorità aerea e quando mancava, quando hanno vinto e quando hanno perso.”

La verità ineluttabile è che la Wehrmacht di Hitler è stata la straordinaria forza combattente della seconda guerra mondiale, una delle più grandi della storia. Per molti anni dopo il 1945, sembrava doloroso ammetterlo pubblicamente, in parte per ragioni nazionalistiche, in parte anche perché le legioni naziste stavano combattendo per uno dei regimi più odiosi di tutti i tempi.

Uno spirito di narcisismo militare, nutrito da film come ‘Il giorno più lungo’, ‘Un ponte troppo lontano’ e ‘La battaglia dei Giganti’, ha perpetuato le immagini mitiche degli eserciti alleati e tedeschi. Inoltre, la stragrande maggioranza delle memorie sul campo di battaglia pubblicate in Gran Bretagna e in America riguardano, non a caso, l’esperienza del campo di battaglia alleato. Si soffermano sulle paure, le difficoltà e i trionfi dei soldati alleati visti dalle buche degli alleati.

Abbiamo imparato molto meno – anzi, assolutamente niente – su come il soldato tedesco abbia sostenuto un efficace difesa in Europa per 11 mesi sotto un costante e incontrastato attacco aereo degli alleati, bombardato quotidianamente da devastanti concentrazioni di artiglieria, affrontando enormi difficoltà, sostenuto da un frazione delle forniture e della potenza di fuoco a disposizione del soldato alleato.

Ora, la nostra visione della seconda guerra mondiale sta cambiando. La prospettiva storica e globale che mancava da così tanti anni è finalmente raggiunta. Il magnifico e monumentale studio di Russell Weigley sull’esercito americano nel nord-ovest dell’Europa confronta francamente il fallimento delle forze di Eisenhower nel generare capacità di combattimento per distruggere forze tedesche numericamente molto inferiori, finché queste non furono esaurite da 11 mesi di logoramento sul fronte occidentale, aggiunto all’enorme prosciugamento di forze e mezzi dei tedeschi dovuti ai  quattro anni di guerra sul fronte orientale combattuta contro i sovietici.

La lotta titanica della Germania con l’Unione Sovietica dal 1941 al 1944, che uccise più di 2 milioni di soldati tedeschi – probabilmente i migliori 2 milioni – fornì agli alleati occidentali un vantaggio straordinario per le nazioni in guerra: tempo per allenarsi, preparare, pianificare il confronto con il nemico sul campo di battaglia secondo le loro condizioni, in un momento attentamente selezionato dai signori della guerra di America e Gran Bretagna.

Dalla battaglia di Normandia fino alla fine in Germania, le prestazioni dell’esercito britannico sono state profondamente influenzate dall’incapacità di resistere a pesanti perdite. Montgomery fu ripetutamente avvertito dai suoi superiori a Londra sulla scarsità di manodopera. A pochi giorni dagli sbarchi in Francia, i battaglioni britannici venivano cannibalizzati per fornire rimpiazzi. Nel 1945, intere divisioni furono demolite per lo stesso motivo.

Sin dall’inizio della guerra, troppa attenzione critica è stata concentrata sugli ufficiali e l’alto comando degli alleati nell’Europa nordoccidentale, e troppo poco sulle prestazioni delle unità di combattimento. La alta dirigenza alleata era, nel complesso, non inferiore a quella dei tedeschi, ostacolata dalla mano morta di Hitler. Montgomery era cauto, non ultimo per la ragione sopra menzionata, ma certamente non era un incompetente. La prestazioni fiacche delle sue truppe in Normandia  fu principalmente attribuibile alla stanchezza della guerra e alla riluttanza ad accettare ulteriori pesanti perdite quando la vittoria finale era ormai a portata di mano.

Invece per gli americani  i numeri delle vittime non era un problema. Dall’inizio alla fine della campagna militare, la loro disponibilità ad accettare un numero alto di perdite per ottenere un obiettivo è stata riconosciuta, rispettata e invidiata dai loro alleati britannici. “Nel complesso, gli americani erano disposti ad affrontarlo più duramente di quanto lo fossimo noi”, dichiarò il feldmaresciallo Lord Carver, nel 1944-45 un comandante di brigata corazzata sotto Montgomery. Com’era, quindi, che l’esercito americano trovava estremamente difficile, anzi spesso impossibile, sconfiggere i tedeschi incontrati in qualsiasi occasione a termini pari?

In primo luogo, c’è stato lo straordinario fallimento degli alleati occidentali nel 1944-45 di fornire alle loro forze di terra armi adeguate. In quella fase della guerra, la tecnologia americana e britannica aveva creato una miriade di miracoli: superbi aerei da combattimento, equipaggiamento bellico antisommergibile, radar, il DUKW anfibio, la miccia di prossimità e la jeep. Attraverso Ultra, la più grande operazione di cifratura di tutti i tempi, gli Alleati possedevano una straordinaria conoscenza degli ordini di battaglia tedeschi, schieramenti e spesso – sebbene non nella Battaglia delle Ardenne – le intenzioni tedesche. Tuttavia, in mezzo a tutto questo, nell’Europa nord-occidentale i leader alleati hanno spinto le loro truppe di terra a combattere la Wehrmacht con equipaggiamenti inferiori in ogni categoria, tranne l’artiglieria e il trasporto. Mitragliatrici tedesche, mortai, armi anticarro e mezzi corazzati erano tutti superiori a quelli della Gran Bretagna e dell’America. Soprattutto, la Germania possedeva carri armati migliori. Lo Sherman, che dominava la campagna alleata, era un macchinario superbamente affidabile. Ma era fatalmente imperfetto dalla mancanza di una calibratura adeguata per penetrare nel Tigre e nella Pantera; e dalla scarsa capacità di sopravvivenza del campo di battaglia di fronte ai cannoni tedeschi.

Prima che iniziasse la campagna del 1944, queste carenze furono ben comprese a Washington e a Londra. Ma i capi di stato maggiore hanno espresso la loro fiducia nella superiorità numerica alleata talmente grande che una certa inferiorità qualitativa era accettabile. Questa fiducia era un’illusione mortale. Ancora e ancora nell’Europa nord-occidentale, molte forze tedesche di livello inferiore equipaggiate con una manciata di Tigri, Pantere o cannoni da 88 mm riuscirono a fermare attacchi importanti degli Alleati.

Per l’esercito americano nel nord-ovest dell’Europa, dall’inizio alla fine, le difficoltà critiche erano incentrate nella fanteria, l’ariete di sfondamento. Fu su queste truppe che cadde il peso schiacciante della battaglia e delle vittime. Un rapporto sulle lezioni tattiche della campagna di Normandia da parte della Prima Armata degli Stati Uniti dichiarò: “È essenziale che la fanteria in azione sia imbevuta di un atteggiamento audace e aggressivo: molte unità non acquisiscono questo atteggiamento fino a molto tempo dopo il loro ingresso in combattimento, e alcune non lo acquisiscono mai, mentre le unità che contengono personale appositamente selezionato come Airborne e Rangers hanno mostrato uno spirito aggressivo fin dall’inizio: il soldato di fanteria medio si affida troppo all’artiglieria di supporto per spingere il nemico da posizioni opposte alla sua avanzata … ”

Il gen. Mark Clark scrisse dall’Italia nell’estate del 1944: “Senza dubbio il nostro addestramento non ha ancora prodotto ufficiali disciplinati e uomini disciplinati”.

Nell’inverno del 1944 e nella Battaglia delle Ardenne, le forze del generale Omar Bradley si stavano comportando molto più efficacemente rispetto a giugno e luglio in Normandia.

Una delle più grandi conquiste americane della guerra fu l’espansione di una piccola forza prebellica in prima linea di 190.000 unità in un esercito di oltre 8 milioni di uomini. Tuttavia, una conseguenza inevitabile di questa trasformazione è stata la cronica carenza di comandanti addestrati e di alta qualità. In tutte le guerre americane, i suoi alleati hanno sempre concordato che gli ufficiali di West Point erano di conoscenza e strategia militare superiori. Il problema, durante la seconda guerra mondiale, fu che non vi erano abbastanza comandanti di qualità per guidare un esercito di 8 milioni di uomini.

Allo stesso momento, i risultati delle divisioni paracadutiste della 82d e 101st hanno mostrato ciò che il soldato americano era capace di fare. Gran parte dell’attenzione sulla battaglia di Market Garden (l’invasione alleata dei Paesi Bassi nel settembre del 1944) si è concentrata su l’eroico sacrificio della 6a Divisione aviotrasportata britannica. Tuttavia, storici oggettivi e alcuni testimoni oculari britannici credono che le divisioni americane abbiano offerto una prestazione di combattimento più professionale rispetto agli inglesi; e che se al generale Matthew B. Ridgway fosse stato concesso il comando sul campo piuttosto che il generale britannico Frederick A.M. Browning, l’esito della battaglia avrebbe potuto essere molto più felice per gli alleati. Quindi sarebbe assurdo suggerire che l’America non è in grado di produrre soldati d’elite.

La Marina e le forze aeree americane hanno raramente – e certamente non nella seconda guerra mondiale – trovato difficoltà nell’attrarre ufficiali di alta qualità. Tuttavia, essere un soldato in America non è mai stato uno status onorevole, al di fuori di poche migliaia di famiglie militari. È stato tradizionalmente il percorso attraverso il quale giovani uomini di modesta origine – Eisenhower e Bradley, non ultimo tra loro – possono aspirare a costruire una carriera.

Il gen. George S. Patton ha scritto: “È uno sfortunato, e per me, tragico fatto che nei nostri tentativi di impedire la guerra, abbiamo insegnato al nostro popolo a sminuire le qualità eroiche del soldato”. Dove in Europa, i giovani uomini dell’élite di ogni nazione hanno, in guerra, tradizionalmente gravitato verso le “teeth arms” ( fucili e reggimenti corazzati )  l’élite americana nel 20 ° secolo ha mostrato altri entusiasmi.

Il meglio della gioventù americana, come forza militare, gravitava istintivamente verso i corpi specializzati, i corpi di comando, ho gestione personale. Ciò non significa negare che alcuni Ivy Leaguers abbiano combattuto con distinzione nella fase più acuta del fronte dell’Europa nordoccidentale. Ma è ragionevole suggerire che nella seconda guerra mondiale, le unità di fanteria americane soffrirono di una grave carenza di dirigenti istruiti.

Intervistando i veterani di guerra, in netto contrasto con gli europei che generalmente riconoscono il rispetto per i loro ufficiali, i soldati semplici ​​americani si preoccupano dei buoni sottufficiali, ma raramente si incontravano con i loro comandanti di unità. Molti soldati semplici ​​americani nell’Europa nordoccidentale non possono oggi ricordare il nome del loro comandante di battaglione. Raramente ho incontrato qualche veterano europeo per il quale questo sarebbe vero.

Il famigerato sistema di sostituzione della fanteria americana, con cui gli uomini venivano arbitrariamente assegnati a un’unità numerica non territoriale, e non aveva la possibilità di costruire quella stessa lealtà possibile in un reggimento britannico, creò un’infelicità profonda tra molti uomini e contribuì a  creare nell’esercito USA un totale di quasi un milione di casi di affaticamento da battaglia nella seconda guerra mondiale.

Nella  primavera del 1944, il Dipartimento della Guerra si rese conto che era stato commesso un grave errore in base a una così bassa priorità di impiego per la fanteria. Ai rami specializzati e alle linee di comunicazione era stato permesso di sbaragliare una proporzione assurdamente alta degli uomini più adatti e più istruiti. Dei volontari arruolati nel 1942, solo il 5% aveva scelto la fanteria o i carristi. Si scoprì che i fanti del 1944 erano più bassi di un pollice della media dell’esercito, una modo per misurare e confrontare equamente la stazza fisica dei soldati.

Sebbene la fanteria costituisse solo il 6% dell’intero servizio – una proporzione allarmante – soffri oltre l’80% dei caduti americani in Europa. Sebbene il 54,3% dell’esercito tedesco fosse composto da soldati combattenti, questa cifra è scesa al 38% nell’esercito statunitense. Circa il 45 percento della Wehrmacht era impegnato a combattere con le divisioni, contro il 21 percento per l’esercito degli Stati Uniti. Gli americani possedevano una percentuale molto più alta di ufficiali in rapporto agli uomini: eppure molti di quegli ufficiali erano impiegati nelle retrovie piuttosto che con le formazioni combattenti.

Nell’ultimo anno di guerra, all’interno dell’esercito statunitense sono stati fatti grandi sforzi per migliorare il rapporto tra i denti e la coda (Rapporto dente-coda è un termine militare che si riferisce alla quantità di personale militare che serve per fornire e supportare ‘coda’ ogni soldato combattente ‘dente’); deviare la manodopera di alta qualità verso la fanteria; migliorare il livello di addestramento e leadership della fanteria. In tutte queste cose, c’era una certa misura di successo. Eppure gli americani, come gli inglesi, non hanno mai eguagliato la straordinaria professionalità del soldato tedesco, un’eredità storica che ha preceduto il nazismo.

Probabilmente fu una fortuna per il futuro della civiltà occidentale, ma aumentò notevolmente le difficoltà di Eisenhower, i soldati alleati si consideravano soprattutto civili temporaneamente vestiti in uniforme, mentre le loro controparti tedesche possedevano una straordinaria capacità di trasformarsi da macellai e impiegati di banca in tattici militari naturali.

Uno dei più assurdi cliché propagandistici della guerra era l’immagine del soldato nazista come una testa quadrata inflessibile. In realtà, il soldato tedesco mostrava invariabilmente una maggiore flessibilità sul campo di battaglia rispetto alla sua controparte alleata.

I tedeschi erano disposti ad agire – sempre”, ha detto il maggiore generale britannico Brian Wyldbore-Smith. Raramente riuscirono a non cogliere un’opportunità offerta dall’errore degli Alleati. Erano padroni del rapido contrattacco dopo aver perso terreno, mantenendo le posizioni fino all’ultimo, per poi disimpegnarsi magistralmente.

Non ogni soldato tedesco era un superuomo, non ogni formazione di uguale alta qualità. Dopo la l’offensiva delle ardenne, a tutti gli effetti l’ultimo rantolo della Wehrmacht ad ovest, gli Alleati occidentali non affrontarono mai più unità tedesche di altissimo livello. Ma per tutto il 1944, in mezzo agli errori monumentali dell’alto comando della Germania, a livello di reggimento il soldato tedesco realizzò miracoli.

C’era un contrasto tra l’atteggiamento e il comportamento della maggior parte dei giovani britannici e americani sul campo di battaglia contro quelli delle loro controparti tedesche, e questo non era esclusivamente il prodotto del fanatismo politico del nemico. John Hersey ha scritto vividamente da un’unità di Marine su Guadalcanal: “Quando guardavi negli occhi quei ragazzi, non ti dispiaceva per i Japs: ti dispiaceva per i ragazzi, le uniformi, la spacconata … erano solo mimetizzati. Erano solo ragazzi americani, non volevano quella valle o parte della sua giungla: erano ex-droghieri, ex lavoratori delle autostrade, ex impiegati di banca, ex scolaretti, ragazzi con un record pulito, non assassini “.

Eppure, in guerra, l’esercito che si dimostra di maggior successo nel trasformare le sue reclute in assassini possiede un vantaggio incommensurabile. Montgomery scrisse mestamente dal deserto a Sir Alan Brooke a Londra, identico a Hersey: “Il problema con i nostri ragazzi inglesi è che non sono assassini per natura”.

Nel maggio del 1945, gli Alleati raggiunsero la prima vittoria attraverso gli enormi sforzi dei russi che avevano inflitto tre quarti delle perdite all’esercito tedesco; e in secondo luogo attraverso lo spiegamento di risorse travolgenti. Si potrebbe sostenere che, dopo il 1945, nel tentativo di apprendere le lezioni della seconda guerra mondiale, l’esercito americano commise l’errore di invertire l’ordine di questi fattori. I comandanti americani tornarono dall’Europa credendo di aver dimostrato che la travolgente forza aerea e potenza di fuoco non potevano essere semplicemente un supplemento critico, ma un efficace sostituto dei combattimenti di fanteria dedicati.

Se è così, questo è stato un errore di giudizio che continua a costare caro all’America di oggi. Le carenze della fanteria americana nella seconda guerra mondiale furono ripetute in Corea e in Vietnam. È una grande illusione supporre che la guerra in Indocina abbia rivelato problemi unici e senza precedenti nell’Esercito degli Stati Uniti. L’esercito americano creato nella seconda guerra mondiale aveva sofferto di debolezze e difficoltà analoghe. Queste debolezze, evidenziate dall’attenzione dei media e dalla sconfitta, erano esistite sin dalla seconda guerra mondiale ma non erano mai state discusse prima.

Molti soldati professionisti occidentali credevano nel 1944-45, e credono ancora oggi, che fino a quando gli Stati Uniti non saranno in grado di affrontare il problema di produrre forze di massa di fanteria da combattimento efficaci, il continuo impegno della tecnologia e del denaro non sarà sufficiente per rendere la propria difesa efficace.

Chi controlla lo spazio controlla il mondo: la nuova corsa alle stelle, di Giuseppe Gagliano

Dopo il 33° podcast di Gianfranco Campa http://italiaeilmondo.com/2019/05/28/33-podcast_appuntamento-sulla-luna_1a-parte-di-gianfranco-campa/ il tema della competizione nello spazio si arricchisce del contributo del professor Giuseppe Gagliano. Buona lettura, Giuseppe Germinario

https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/controlla-spazio-controlla-mondo-nuova-corsa-stelle-119930/?fbclid=IwAR0IGFrHkUD_YVZdCKcsRp3lplBwQw2dmhgKYXjoy4IqR5EOKrYzdFpM9pY

Chi controlla il punto più alto dello spazio controlla il mondo. L’impero romano controllava il mondo perché poteva costruire strade. Più tardi, l’impero britannico dominò grazie alla sua marina. Ebbene, sotto il profilo storico, tutto ciò ci consente di affermare che lo spazio sia stato associato, fin dall’inizio della sua esplorazione, ad una prospettiva di difesa e sicurezza nazionale. Infatti durante i primi decenni dell’avventura spaziale, che coincideva con quelli della Guerra Fredda, la questione spaziale era essenzialmente strategica (dimostrazione di potere, intelligence) e ciò determinava la necessità di mobilitare enormi stanziamenti.

Spazio strategico

Lo spazio militare assume una nuova dimensione nei primi anni ’80 con la Strategic Defense Initiative (SDI) di Ronald Reagan. L’obiettivo della SDI era duplice: in primo luogo, integrare la deterrenza nucleare con un sistema di prevenzione dell’aggressione sovietica, ma era anche quello di usare il potere tecnologico americano per dominare l’Unione Sovietica. Infine, il crollo del Patto di Varsavia limitò severamente questa iniziativa.

Tuttavia, l’idea di una difesa missilistica, in gran parte basata sullo spazio, non è mai stata abbandonata ed è stata ripresa con la visione tecnologica della rivoluzione negli affari militari degli anni ’90 e con la necessità di risposte rapide a causa della proliferazione delle capacità balistiche degli stati canaglia. A poco a poco, il campo spaziale è diventato un mezzo a pieno titolo di azione militare e nessuna altra operazione può fare a meno di questo strumento dal quale dipendono le forze armate.

Dominio Usa e irrilevanza europea

Nel febbraio 2018, il Pentagono ha ammesso che gli Stati Uniti sono dipendenti dallo spazio e che i loro avversari ne sono consapevoli. Infatti Russia e Cina mirano a disporre di armi controspaziali non distruttive e distruttive disponibili per un potenziale conflitto futuro, un futuro conflitto globale potrebbe iniziare nello spazio. Ciò ha spinto  Heather Wilson, segretario dell’Aeronautica degli Stati Uniti, a sottolineare che il paese ha  bisogno di organizzare e addestrare forze in grado di trionfare in qualsiasi tipo di conflitto futuro che si estendesse agli Usa spazio incluso e proprio per questo il presidente Donald Trump ha lanciato una vera e propria Space Force, annunciata come una forza autonoma  degli Stati Uniti.

Non deve sorprendere allora il fatto che il dominio degli Stati Uniti nello spazio militare sia schiacciante. Infatti, tra tutti i satelliti militari attivi nel 2017, circa 150 sarebbero americani, 40 sarebbero russi e meno di 50 cinesi. L’Europa chiude con 35 satelliti militari, di cui otto francesi, sette per ciascuno degli eserciti tedeschi, britannici e italiani, due spagnoli e quattro fatti in ambito europeo .

Gli importi di bilancio riflettono anche questa disparità. Se il budget dello spazio militare russo è di 1,5 miliardi di dollari e quella della Cina è di circa 2 miliardi quello degli Stati Uniti arriva a circa quaranta miliardi.

Al di là dello spazio strategico inteso come strumento militare, non vi è dubbio che le società moderne dipendano interamente dallo spazio (economico, industriale, bancario, ma anche sociale o sanitario, ecc.) e la loro capacità di recupero è in gran parte dovuta alla robustezza delle loro capacità spaziali (geolocalizzazione, comunicazioni, trasferimento dati, meteorologia, ecc.). La proliferazione di dispositivi orbitali è lì per testimoniare questa grande dipendenza. Più di 1.200 satelliti sono in servizio su 4.300 che sono stati lanciati dall’inizio dell’era spaziale e sono ancora in orbita. La metà di questi satelliti operativi sono civili, un terzo ha un uso strettamente militare e il resto ha  ìuna destinazione prevalentemente civile ma potenzialmente militare. Lo spazio, specialmente nelle sue orbite basse (prime centinaia di chilometri), è quindi molto impegnato se non affollato di satelliti perfettamente identificati nella loro missione civile o militare, ma alcuni di essi hanno un duplice uso. La cartografia dello spazio “militare” comporta quindi un grado di incertezza che rende necessario considerare qualsiasi satellite come vettore di potenza militare.

Con il collasso del blocco sovietico e l’emergere di nuove forme di conflittualità, le funzioni dello spazio militare supereranno quelle dello spazio strategico. In occasione dell’impegno delle sue forze nel Golfo, la dottrina militare statunitense ha trasformato l’uso dello spazio e dato un posto centrale all’azione operativa. Lo spazio è quindi concepito come un moltiplicatore di forza con satelliti con prestazioni sempre più impressionanti.

Giuseppe Gagliano

La Scienza, articolo di Fede, di Elio Paoloni

La Scienza, articolo di Fede

 

Gli alfieri dell’ateismo “scientifico” sbeffeggiano i fedeli, che accettano supinamente sciocchezze come la Trinità, l’Incarnazione, la Resurrezione, la Transustanziazione e una serie di altre assurdità che vengono definite Misteriperché la nostra povera mente non è in grado di comprenderle. Ma come si fa a credere – ghignano gli adepti della Scienza – a cose che cozzano contro ogni evidenza? Come si può abdicare alla ragione e accettare cose che la Fisica ci insegna essere impossibili? Succede però che i fieri razionalisti si vadano scontrando con scientifiche insensatezze, con un’irrazionalissima Fisica.

Gli viene spiegato che due particelle quantisticamente gemellate (entangled) lanciate nell’universo restano intimamente connesse anche a grandi distanze; e l’atto di osservare una delle due particelle influenza istantaneamente l’altra, non importa quanto lontano questa sia andata, quasi ci fosse tra le particelle correlate una trasmissione di informazione istantanea che se ne infischia della decretata impossibilità di superare la velocità della luce: due fotoni gemelli che “sentono” lo stesso problema contemporaneamente.

Dettaglio curioso: l’entanglement è “monogamo”, e il fotone Y può essere gemellato quantisticamente solo con X o con B, ma non con entrambi. I fotoni sono insensibili alle istanze poligamiche correnti.

Già questa simultaneità appare come una bufala difficile da digerire. Ma c’è di peggio: il mondo quantistico è influenzato da connessioni retrocausali, che operano a ritroso nel tempo: l’equazione d’onda completa (equazione di Klein-Gordon) comporta due soluzioni, una corrisponde alla “semplice” e più familiare equazione di Schrödinger, l’altra descrive la propagazione a ritroso delle onde anticipate: dal futuro verso il passato, in aperto contrasto con la logica comune.

Andiamo avanti: uno degli esperimenti più famosi della fisica quantistica è quello della doppia fenditura, nel quale, secondo le parole di Richard Feynman è racchiuso il “mistero centrale” della meccanica quantistica: un fascio di elettroni lanciati contro uno schermo con due fessure produce una figura d’interferenza (non è importante sapere cosa significa esattamente); gli elettroni devono quindi muoversi sotto forma di onda. Tuttavia, all’arrivo, generano un solo punto di luce, comportandosi quindi come particelle; gli elettroni insomma viaggiano come onde ma giungono all’arrivo come particelle. Fin qui siamo ancora nel campo del quasi ragionevole. Il punto è che il singolo elettrone attraversa i due fori contemporaneamente. Non solo, ha anche una sorta di consapevolezza del passato e del futuro, cosicché ognuno di essi può scegliere di dare il suo contributo alla figura d’interferenza nel punto corretto.

Il comportamento delle particelle, inoltre, viene influenzato dall’apparato sperimentale anche se tale apparato subisce mutazioni mentre esse sono già in viaggio; ciò implica che esse abbiano una sorta di precognizione della futura struttura dell’apparato, prima ancora di attraversarlo nel loro breve percorso.

Siete già sull’orlo della follia? Tenetevi forte: ciò che la particella ha deciso di fare (passare da un solo foro o da entrambi) dipende da una scelta successiva al transito stesso! Infatti nell’esperimento il rilevatore viene inserito dopo che il fronte d’onda è transitato da entrambi i fori. Come dice Wheeler, la “scelta” di un fotone di passare da un solo foro o da entrambi è “ritardata”, cioè avviene dopo che il fotone è passato! Se non è follia questa: una particella cambia il suo “stato” di adesso se le capita qualcosa dopo! Il concetto stesso di tempo sembra perdere senso.

Una breve carrellata di articoli di fede:

–         HVT (Hidden Variable Theories): è una “famiglia” di interpretazioni basate sul presupposto che tutte le versioni abituali della Meccanica Quantistica siano incomplete, e che ci sia un livello di realtà sottostante (una sorta di mondo sub-quantistico) contenente informazioni addizionali, presenti nella forma di variabili nascoste, sulla natura della realtà. Realtà sottostante? Variabili nascoste? Ma non c’era già qualche concetto molto antico che poteva venir definito in questi termini?

 –         De Broglie-Bohm GWI (Guide Wave Interpretation): ad ogni tipo di particella può essere associata un’onda che guida il moto della particella stessa, come un radar guida una nave. Da qui il termine teoria delle onde pilota. A differenza dell’Interpretazione di Copenhagen (non chiedetemi quale sia), tale onda pilota è reale e permea tutto l’universo, guidando qualsiasi particella. Ma va!?

 –         MWI (Many Worlds Interpretation): proposta da Everett agli inizi degli anni ‘50 e sostenuta da Wheeler, tale teoria consiste nell’idea che ogni qualvolta il mondo deve affrontare una scelta a livello quantistico (ad esempio, se un elettrone può scegliere in quale fenditura passare nel noto esperimento della doppia fenditura), l’universo si divide in tante parti quante sono le scelte possibili. Secondo uno studio del 2014, il comportamento duale della luce, onda-particella, può scaturire dall’interazione tra 41 mondi.

Oh perbacco! Ma tutto ciò è illogico. Cozza contro l’evidenza, infrange le leggi della fisica classica, è privo di senso. Il nostro vocabolario e la nostra sintassi sono insufficienti a rendere il concetto. Dobbiamo fidarci delle interminabili formule che i matematici hanno apprestato, dar credito a strane “osservazioni” avvenute in inaccessibili laboratori.

Questi comportamenti sconcertavano persino Einstein, che non riusciva ad accettare una «misteriosa azione a distanza» e sperava che i fisici potessero trovare un modo per liberarsene.

Lo stesso ideatore del principio d’indeterminazione, Heisenberg, diceva: “Ricordo le lunghe discussioni con Bohr, che ci facevano stare svegli fino a tarda notte e ci lasciavano in uno stato di profonda depressione, per non dire effettiva disperazione. Continuavo a girare da solo nel parco e continuavo a pensare che era impossibile che la Natura fosse così assurda come ci appariva dagli esperimenti”.

E quando Erwin Schrödinger si rese conto del modo in cui la sua funzione d’onda era stata reinterpretata, fino a diventare un’onda di probabilità dai connotati quasi mistici, commentò: “Non mi piace, e non avrei mai voluto avere a che fare con qualcosa del genere!”.

Bryce DeWitt, che aveva perfezionato negli anni ’60 la MWI, descrisse poi su Physics Today lo shock subito contemplando per la prima volta la possibilità che esistessero circa «10100 copie di se stesso, leggermente diverse, che continuano a duplicarsi all’infinito».

Il grande Feynman, riferimento essenziale per la divulgazione della MQ, diceva: “Nessuno capisce la meccanica quantistica”. Ed è la sacrosanta verità. Nessuno può capirla proprio perché nessuno conosce qualcosa che le assomigli. Gli stessi scienziati che la descrivono, illustrano, in fondo, una visione personale di una realtà irraggiungibile per definizione dai nostri sensi. In altre parole, ogni grande fisico cerca di esprimere concetti, ormai consolidati, secondo la propria immaginazione. E tutti gli altri fanno finta di comprenderli o dichiarano onestamente la propria incapacità.

Cosa fa a questo punto il nostro scettico a corrente alternata? Sillaba, serio e compunto come Maurizio Ferrini a Quelli della notte: “Non lo capisco ma mi adeguo”. Oops, che fine ha fatto il nostro senso critico? Esistono dunque cose insensate nelle quali “dobbiamo” credere? Eh sì, questa dannata fisica quantistica ci propone ogni giorno Misteri ai quali non possiamo sottrarci, cose che superano la nostra ragione, scardinano ogni caposaldo della nostra esistenza, tutta la scienza e tutta la tecnica che reggono il tetto di casa, sopra la nostra testa. E i sacerdoti della Dea Ragione, consapevoli della inadeguatezza della loro misera mente, si inchinano ossequienti a codesti Misteri. Mumble mumble, cosa mi ricorda tutto questo?

Lasciatemi raccontare un gustosissimo aneddoto. Quel cascame medioevale di Padre Pio veniva continuamente consultato sulla condizione delle anime dei defunti; e Lui rispondeva: “Non ti preoccupare, è con Dio” oppure “Prega per lui”. Una volta però, dopo aver detto “Tranquilla, il tuo congiunto è in pace” aveva soggiunto “Falla dire, però, qualche Messa in suffragio”. Di fronte a tanta cialtroneria la fedele sbottò: “Ma se mi ha detto che è già in Paradiso!”. E Lui: “Perché, credi che Lassù le cose avvengano secondo i nostri tempi, le nostre meccaniche?”. Il residuato oscurantista, insomma, ignorante come una capra, sepolto in una celletta senza un solo testo che non fosse devozionale, pensava – o meglio vedeva – secondo modernissimi principi di inversione temporale, di connessioni retrocausali, di universi paralleli.

https://eliopaoloni.jimdo.com/2019/06/04/la-scienza-articolo-di-fede/?fbclid=IwAR05sZPGK8OIsA4vbwZUMX2KVVVc6E7DU8WexHU_QZhEL5sxSuN1A2ITRA4

 

“Europa: accademismo contro storia” (4/6), di Annie Lacroix-Riz

“Europa: accademismo contro storia” (4/6)

Annie Lacroix-Riz è professore emerito di storia contemporanea presso l’Università Paris 7.

Mappa:

– Introduzione

– “Eminenti storici europei” contro il monarchico documentato Philippe de Villiers

– Un fascicolo storico “di parte” di “eminenti storici europei”

  • Le origini fallaci dell’Unione europea
  • Adenauer e la sua gente, dalla vecchia alla “nuova Germania”
  • Dalla Francia “europea” e “resistente” contro Petain al trionfo dei Vichysto-americani?
  • Dimenticando le “prime comunità europee”
  • Jean Monnet “l’americano”: una calunnia?
  • Il tandem Monnet-Schuman e la cosiddetta “bomba” del 9 maggio 1950
  • Robert Schuman diffamato?
  • Walter Hallstein, semplice ” non resistente”?

– Conclusione

Il tandem Monnet-Schuman e la cosiddetta “bomba” del 9 maggio 1950

Senza transizione, gli “eminenti storici europei” passano, sul loro eroe Monnet, dal 1943 al maggio 1950, accreditandolo per aver ” soffiato [l’ idea ] [della CECA] al ministro Robert Schuman “. Quest’altra leggenda inossidabile ricorda implicitamente che, nel cuore delle Memorie di Monnet, del “segreto assoluto” di un progetto, nascosto anche al Quai d’Orsay – che Schuman dirige dal luglio 1948 al dicembre 1952.

I censori, che sembrano non aver consultato le fonti del Quai d’Orsay stesso, intonano il ritornello della “famosa dichiarazione” di Schuman del 9 maggio 1950, ” precedentemente approvata da Konrad Adenauer, Cancelliere della nuova Repubblica federale di Germania“:” a questo progetto, fondatore dell’Europa dei sei, si sarebbero “miracolosamente aggregati” altri quattro stati “. Due dei quali, non ci viene detto, erano già tra i membri fondatori, nel 1926, del cartello internazionale dell’acciaio, con una forte base franco-tedesca iniziale.

Dai piani wilsoniani al piano Marshall

Il piano americano per una “Europa” centrata sul Reich – solo temporaneamente la Germania occidentale, date le circostanze militari del 1945 – come leader nella “ricostruzione” del continente, aveva occupato la scena internazionale dall’era Wilson; aveva preceduto la prima guerra mondiale, come lo scienziato politico olandese Kees van der Pijl, dopo molti storici, ha ricordato nel 1984 1 . Ma gli “eminenti storici europei” odiano il problema, così ampiamente accettato prima del 1914, di “imperialismo” quando si tratta degli Stati Uniti: si sarebbero limitati al ruolo di benevolo protettore dell’Occidente del continente contro la terribile “minaccia sovietica”, così brillante nel 1950.

Villiers, uomo di destra, ha, come Eric Branca nel 2018, e l’uomo di destra de Gaulle molto prima di loro, ha scoperto gli Stati Uniti ossessionati dalla loro continua sovrapproduzione di beni fin dal 1890. Così anti-sovietico che è come afferma (nulla può contraddire questo punto), il convinto  eurofobo […] ritirato dalla vita politica” (secondo il cappello del mondo ), ha osato trascurare l’impatto della “minaccia sovietica” sul nobile impresa europea. Ha fatto bene. Altre fondamenta avevano in effetti i vecchi piani economici americani, che miravano a integrare l’Europa nella Porta Aperta, e ai quali il lancio del Piano Marshall fornisce un impulso decisivo. Lo sappiamo da molto tempo anche in Francia, dove questa tesi ha ricevuto, a marzo1991 , le garanzie accademiche di un simposio internazionale sul piano Marshall e la ripresa economica dell’Europa . Da allora le sue scoperte scientifiche convergenti sono state accantonate: non è saggio sfidare il mito sacrosanto nei nostri climi “occidentali” di un “aiuto” americano salvifico verso l’Europa occidentale.

Ma la sessione aveva confermato le vecchie dimostrazioni degli storici “revisionisti” 2 nel senso americano, vale a dire aventi “rivisto” la storia ufficiale della guerra fredda: si tratta di storici della sinistra radicale, chiamata Nuova Sinistra, estranea a quello che viene chiamato “revisionismo” in francese, in altre parole quello della negazione delle camere a gas. Americano poi britannico (non radicale) Alan Milward 3 dopo di loro, stabilendo, tra gli altri:

– 1 ° che il Piano Marshall era il frutto di una strategia stabilita da Washington tra il 1942 e il 1945. Gli Stati Uniti avevano quindi costantemente cercato modi per evitare o rinviare la crisi della riconversione, inevitabile e violenta, che aveva seguito la precedente guerra mondiale e per vietare “l’incubo della depressione” degli anni ’30 4 . La ricostruzione generale dell’Europa comporterebbe inevitabilmente un calo delle sue enormi importazioni di origine americana. L’unico modo per contrastarla erano norme commerciali internazionali stabiliti a Bretton Woods a sostegno del continuo il flusso di credito in dollari ininterrotto dal prestito e leasing in Gran Bretagna dal 1941 5 ;

– 2 ° che il Piano Marshall non aveva mai contribuito alla ricostruzione delle forze produttive; i paesi europei non l’avevano aspettato: alcuni ex paesi occupati, tra cui la Francia, avevano ripristinato già nel 1947 il loro livello industriale del 1938 6 ;

– 3 ° che il Piano Marshall rappresentava un passo importante nella lotta alla concorrenza provocata negli scambi bilaterali degli Stati Uniti (esclusi i titoli in valuta forte) tra Europa, Est-Ovest in particolare: apprezzato dal XIX secolo del continente, sempre tacciati da Washington di “autarchia”, è stato condannato a morte dalla ghigliottina del dollaro di Bretton Woods 7 ;

(4) che il Piano Marshall aveva soprattutto permesso alla Germania occidentale di liberarsi ufficialmente dei costi delle “riparazioni” 8 . Le “riparazioni”, pagate su carta sia ai sovietici sia agli altri paesi beneficiari, avrebbero ostacolato l’urgente e prioritaria “ricostruzione” delle aree occidentali della Germania [che interessava così direttamente al capitale americano]. Questa priorità tedesca fu imposta ad altri “paesi Marshall”, come il Dipartimento di Stato li designò dal 1948) 9 come condizione sine qua non di “la ricostruzione dell’Europa”. Infatti, le “riparazioni” avrebbero beneficiato i vincitori militari e / o le vittime europee e di conseguenza ridotto i guadagni attesi di installazione (o trasferimento) degli Stati Uniti in Germania; questa prospettiva, talmente insopportabile alla fine della guerra il generale precedente fu, questa volta, liquidata ancora più rapidamente, e non solo per l’URSS.

L’assenso in realtà dato “alla priorità della ricostruzione” della Germania Ovest – riarmo compreso inteso in senso stretto – condizionò formalmente la concessione del finanziamento a qualsiasi “beneficiario”. Chiaramente notificato a tutti i paesi mutuatari a guerra appena finita, la regola della “cooperazione europea” fu annunciata il 5 giugno 1947 dal Segretario di Stato Marshall in un discorso che chiedeva la creazione di un’Unione Europea. Fu brutalmente enunciata in “sei punti”, il 10 e 11 settembre 1947 dal ricchissimo finanziere e segretario al Commercio William Clayton a sedici paesi dell’Europa occidentale 10 riunitisi a Parigi a partire da luglio. Comportava condizioni, in particolare tedesche, che ne rendeva la realizzazione delicata, sia per il Regno Unito che per i paesi precedentemente occupati, e anche per i paesi neutrali 11 .

“L’orco sovietico”?

I firmatari europei della tribuna del 27 marzo hanno quindi cancellato gli anni 1918-1950 per far iniziare le cose “europee” a partire da “l’idea” attribuita al tandem Monnet-Schuman. L’iniziativa francese, sostenuta da un Adenauer talmente indipendente o autonomo, avrebbe semplicemente ricevuto “l’approvazione degli Stati Uniti, troppo felici di vedere l’Europa occidentale rafforzarsi contro la minaccia sovietica. “Alcuni dei firmatari della” piattaforma “sembrano aver dimenticato che le loro ricerche precedenti 12 sono, anche se i sovietici e comunisti vernacolari vi siano regolarmente accusati del peggio, opposte a questa tesi.

Gli Stati Uniti sono semplicemente interessati alla impresa per “la minaccia sovietica” e benevoli nei confronti di questo lavoro essenzialmente francese? Nessuno dei funzionari occidentali, compresi quelli americani, aveva mai creduto nella minaccia di un paese che, da un lato, non aveva mai mostrato zelo offensivo contro i suoi vicini e, dall’altro, era stato così rovinato dalla guerra tedesca che fu trattata inesorabilmente da Washington in minor, sebbene la vittoria degli Stati Uniti dipendesse dal suo ruolo militare primario 13. Il miliardario Averell Harriman, erede di un enorme impero finanziario, ambasciatore a Mosca dal 1943 al 1946 e istruttore del dopoguerra nella sfera europea di influenza di Washington di molte altre missioni diplomatiche, tra cui quella di straordinario ambasciatore del “Piano Marshall” “, aveva anche creduto di poter annunciare ai suoi, nel febbraio-marzo 1944, che l’Unione Sovietica non avrebbe neppure tratto la minima garanzia territoriale della sua vittoria:” impoverita dalla guerra e in cerca della nostra assistenza economica […] una delle nostre principali leve per guidare un’azione politica compatibile con i nostri principi “, non avrebbe la forza di invadere l’Est dell’Europa. Dovrebbe accontentarsi della promessa post-bellica degli aiuti finanziari degli Stati Uniti, cosa che ci “eviterebbe lo sviluppo di una sfera di influenza dell’Unione Sovietica nell’Europa orientale e nei Balcani ” 14 (si sbagliava solo su questo punto).

La “minaccia” apparve più penosa nel mezzo della “guerra fredda” dichiarata ufficialmente. La vittoria “occidentale” è stata ottenuta per KO dal 1947, con l’indebolimento e isolamento spettacolare dei comunisti dell’Europa occidentale, tra l’Ufficio Informazioni (settembre 1947) e il cosiddetto “colpo di Praga” (febbraio 1948). Nel mese di novembre 1948, H. Freeman Matthews, responsabile dell’ufficio UE del Dipartimento di Stato, allora ambasciatore a Stoccolma, sorridendo come i suoi coetanei sull’ “orco sovietico” brandito quotidianamente15 . Tutti i paesi “occidentali” erano riusciti, attraverso la loro stampa o tutti i mezzi disponibili, a terrorizzare quanto necessario i loro rispettivi cittadini, e cessavano di congratularsi del loro trionfo politico sul licantropo 16 .

Europa americana e permanenza del cartello “europeo”

Era giunto il momento di applicare al Vecchio Continente la “Porta Aperta” lanciata nel 1899 dal Segretario di Stato Hay sulla contesa della Cina da parte dei rivali europei degli americani, i quali la volevano per sè. La formula era stata avanzata sull’Europa da Wilson e dai suoi successori, ma gli americani avevano nella loro area di influenza mezzi di esecuzione più radicali rispetto al 1918. Dopo i segretari di Stato Hull, Byrnes e Marshall, è stata la volta di Dean Acheson a toccare il chiodo, il che non significa, contrariamente a quanto de Villiers scrive: ” tutto è [era] iniziato […] nel 1949“. L’intervento americano permanente fu un segreto di Pulcinella dall’immediato dopoguerra. L’unico annuncio, e non l’attuazione – dalla fine del 1948 solo del fugace “Piano Marshall”, rapidamente arrestato e ufficialmente “militarizzato” con il pretesto della Guerra di Corea, 17 aveva dato una svolta decisiva al metodo della schlague.

Un passo decisivo nella fondazione dell’Unione europea, il 3 aprile 1948, quello dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OEEC), presto affidato alla presidenza del fantoccio degli americani Spaak, annunciò il prosieguo. L’OECE era stato sottomesso sin dall’inizio, poiché il Quai d’Orsay, direttore degli affari economici e finanziari (DAEF), scriveva alla fine del maggio 1948, il ministro degli Esteri Georges Bidault, ” da una vera tutela americana ” e privato di tutti ” poteri di controllo e iniziativa “. Qualche decennio fa, Gérard Bossuat stesso riconobbe questa realtà che, a leggere i redattori del Quai d’Orsay, era persino peggiore di quanto descritto nel quotidiano L’Humanité 18. Certamente, ha eufemizzato sulla ” trasparenza ” richiesta dai nostri ” mentori [americani] aspri e talvolta odiosi, sempre ingombranti, ma a volte salutari ” [non sempre, quindi?] ” spesso mal supportati da parte di alti funzionari sscavalcati; ma allo stesso tempo descriveva con il ” controllo permanente del buon uso dei prodotti ERP ” ( European Recovery Program , nome americano del piano Marshall, gestito dall’amministrazione della cooperazione economica : ” requisito contrattuale irritante “, ha scritto 19 , per un contratto strettamente unilaterale . Si trattava di stabilire in buon francese, il monitoraggio continuo e quotidiano, sia nella metropoli, e sempre più visibile nel corso degli anni, nell’Impero, in parte controllata dagli approdi del Nord Africa nel novembre del 1942 20 Nulla lo distingueva dalle pratiche prevalenti tra i soggetti sconfitti e l’AMGOT, e lo storico li legittimò solo per scelta ideologico-politica, e come nella tribuna, per una volta, per l’anti-sovietismo.

Il lancio della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio ha conferito alla “tutela americana” un carattere spettacolare, e non solo sul piano economico. La CECA ha dedicato il trionfo ufficiale del Gleichberechtigung economico. Per mentire sul “segreto” a tre, si aggiunge un’altra grande bugia per omissione. La CECA doveva abolire gli ultimi resti delle limitazioni alla produzione industriale tedesca fissati nel 1945 e già sollevati unilateralmente nell’estate del 1947 da parte degli americani, sostenuti dagli inglesi 21 . Adenauer e il suo ministro degli esteri Walter Hallstein avrebbero immediatamente proclamato Urbi e Orbi che il principio di una rigida “eguaglianza di diritti” era antagonista con le restrizioni imposte dalla sconfitta di maggio 1945. E Gleichberechtigung sarebbe non solo economico, ma anche, come nel periodo tra le due guerre, militare 22 .

I nostri “eminenti storici”, che sostengono la tesi del segreto autonomo del trio Monnet-Schuman-Adenauer sulla “bomba” architettata fuori dal Quai d’Orsay, hanno dimenticato (?) di specificare che Washington aveva nella primavera del 1950 – due mesi e mezzo prima di avere il pretesto coreano_ deciso di portare finalmente alla luce il suo vecchio progetto di riarmo tedesco stricto sensu. Il Quai d’Orsay lo sapeva ancora di più perché lui stesso aveva fissato la data del discorso: la cosiddetta “bomba” avrebbe permesso a Schuman di schivare nell’immediato futuro un palcoscenico politicamente delicato, data la vivacità, nella sua paese, del ricordo dell’Occupazione. Doveva recarsi a Londra il 10 maggio alla conferenza atlantica in cui gli americani, gentilmente seguiti dai loro “alleati” britannici (che non erano entusiasti di entrare in questa Unione Europea), avrebbero richiesto un accordo ufficiale francese alla ricostituzione in senso stretto della Wehrmacht 23 , o, per usare le parole di marzo 1949 di Bonnet, l’uso di ” potenziale militare Rappresentato [sono] in Germania dalle molte generazioni ben addestrate contro gli ” eserciti russi ” 24 . Un’altra sfaccettatura della cosiddetta “iniziativa rivoluzionaria” di Schuman, “pacifica” in aggiunta, è una favola tratta dalle 25 menzogne ​​di Monnet o Acheson .

Questa potente impronta americana non ha impedito al progetto di conservare molte delle caratteristiche originali del cartello “europeo” 26 . Il quale presenterebbe agli Stati Uniti seri svantaggi competitivi e ricorderebbe loro troppo quel cartello dell’acciaio prebellico di cui non erano i guardiani, una posizione occupata dall’industria siderurgica tedesca. L’entusiasmo del professore e giornalista olandese Jitta, espresso nel febbraio 1951, in un banchetto di personalità economiche e politiche di alto rango, spazza via il doppio mito della “prima pietra miliare della riconciliazione franco-tedesca” e dei legami tra “la minaccia” della Unione Sovietica “e la CECA. L’operazione in corso, dichiarò Jitta, richiama felicemente i “cartelli [di] prima della guerra … contro i quali si possono certamente avere obiezioni, ma che hanno la loro utilità “(le” obiezioni ” non avevano che una sola motivazione: la parola era dispiaciuta così sovranamente a Washington, con il suo profumo di rivalità commerciale, che Monnet e Schuman ripetevano da tutte le parti, dal 9 maggio 1950, che la CECA era tutt’altro che un cartello “autarchico”. Lo stesso Piano Schuman ha il carattere di un un cartello internazionale basato sulla protezione; l’Alta Autorità che esso stesso prevede si occuperà della difesa di determinati interessi industriali piuttosto che degli interessi della collettività europea. ” 27 Questo aspetto, molto tedesco, della CECA, è stato trascurato sia da de Villiers che dai suoi censori.

Proponiamo questo articolo per ampliare il tuo campo di riflessione. Ciò non significa necessariamente che siamo d’accordo con la visione sviluppata qui. In ogni caso, la nostra responsabilità si ferma con le osservazioni che riportiamo qui. [Leggi di più]

Note

1. Piani “europei” e progetto “classe dirigente atlantica”, sviluppati tra l’inizio dell’era imperialista e l’era wilsoniana, descritti dallo scienziato politico olandese Kees Van der Pijl, The Making of a Atlantic Ruling Class , Londra, verso, 2012 (1 ° ed., 1984), cap. 2 e 3.
2. Nel senso americano della parola, vale a dire avere “rivisto” la storia ufficiale della Guerra Fredda: sono storici della sinistra radicale, chiamata Nuova Sinistra, estranei a ciò che chiama “revisionismo” in francese, in altre parole la negazione delle camere a gas.
3. Alan S. Milward, The Reconstruction of Western Europe 1945-1951, Londra, 1984: il suo cap. Annulla brillantemente le spiegazioni tradizionali della cosiddetta “crisi del 1947”, che non era una crisi di produzione, ma esclusivamente una crisi dei pagamenti esterni, in dollari, una regola imposta a tutti nel campo del commercio internazionale, contro il vecchio bilateralismo, p. 1-55.
4. Sui dibattiti del Congresso su questo argomento, Williams, The Tragedy .
5. Williams, Tragedia , cap. 6, “L’incubo della depressione e la visione dell’onnipotenza”, p. 202-276, e G. e G. e J. Kolko, op. cit.
6. René Girault e Maurice Levy-Leboyer, dir., Il piano Marshall e la ripresa economica dell’Europa , Parigi, Comitato per la storia economica e finanziaria della Francia e la commissione per la storia industriale, 1991, passim .
7. Ibid. , tra cui Lacroix-Riz, “Piano Marshall e Commercio Est-Ovest: Continuità e Rotture (caso francese e prospettiva comparata) 1945-1952”, p. 651-683 (e la sua bibliografia); “Riflessione su un lavoro recente” (“Danni o benefici del bilateralismo senza dollari”, discussione dell’argomento di Bossuat sul bilateralismo obsoleto o “sclerosante”, in opposizione al moderno sovrano del dollaro); G. e J. Kolko, I limiti del potere
8. Ibid. , Werner Abelshauser, “Il piano Marshall e la prima fase della ricostruzione della Germania occidentale”, p. 415-447. Pioniere del vero motivo del veto americano contro le riparazioni, la politica americana di Bruce Kuklick e la divisione della Germania. Lo scontro con la Russia sulle riparazioni , Itaca, 1972.
9. Relazioni estere degli Stati Uniti , passim ; L’ambasciatore Henri Bonnet ha usato il termine “paga ERP”.
10. La Germania ufficialmente esclusa, ma rappresentata dai suoi leader americani, e oggetto centrale della suddetta conferenza, vedi n. ss.
11. Caso francese, Lacroix-Rice, Marianne e Carcan , cap. 5: citazione di Clayton; tel. Bidault a Bonnet e Massigli, Parigi, 12 settembre 1947, MAE, A.22.9. 2 C II, VCCD, p. 101-102, e bibliografia sulla prima ricostruzione della Wehrmacht, citata sotto ; Caso inglese, Carcan, con la bibliografia “revisionista” sul definitivo indebolimento britannico, di cui, in francese, Farnetti Richard, L’economia britannica dal 1873 ad oggi, Parigi, Armand Colin, 1993; Caso svedese e scandinavo, Gunnar Adler-Karlsson, Western Economic Warfare 1947-1949. Case Study in Foreign Economic Policy , Stoccolma, 1968; Lacroix-Riz,L’economia svedese tra Oriente e Occidente 1944-1949: neutralità ed embargo, dalla guerra al Patto atlantico , Parigi, L’Harmattan, 1991; “Scandinavia e Europa del dopoguerra: progetti e posizioni della guerra nel 1947”, Attidel colloquio Piani di guerra per l’Europa del dopoguerra 1940-1947 , Bruylant, Bruxelles, 1995, p. 527-562.
12. Gérard Bossuat, l’Europa occidentale all’epoca americana. Piano Marshall e unità europea 1945-1952 , Complexe, Bruxelles, 1992, e “Riflessione su un lavoro recente (1992)”, 2 articoli, Cahiers d’histoire del Marxist Research Institute , 1994, http: / /www.historiographie.info/bossuat.pdf
13. Molti esempi, Geoffrey Roberts, The Wars of Stalin , Paris, Delga, 2014; Lacroix-Riz, “Stati Uniti e Vaticano nelle relazioni di pace della seconda guerra mondiale”, in Marie-Claude L’Huillier, Anne Jollet, reg., Guerra e pace , Parigi, L’Harmattan, 2015, p . 185-206 ed élite .
14. Tel. 861.01 / 2320 di Harriman, Mosca, 13 marzo 1944, FRUS 1944 , IV, Europa , p. 951.
15. Lettera n. 1068, dall’ambasciatore francese Dampierre a MAE Schuman, Stoccolma, 23 novembre 1948, European Generalities, 43, MAE.
16. Torta alla panna della “minaccia sovietica”, Lacroix-Riz, scelta di Marianne: relazioni franco-americane dal 1944 al 1948 , Parigi, edizioni sociali, 1986, ristampa, Delga, 2020; “1947-1948. Dalla Cominform al “colpo di stato di Praga”, l’Occidente aveva paura dei sovietici e del comunismo? “, Storici e geografi , n ° 324, agosto-settembre 1989, p. 219-243. Carcan , cap. 5 (e la sua bibliografia).
17. Sulla trasformazione formale della ECA o ERP in MSA ( Mutual Security Agency ) ancora più restrittiva, “Piano Marshall e commercio est-ovest”, “2. Il miracolo coreano: forza e limiti di Potere americano (luglio 1950-1952) “.
18. Citazione DAEF per Bidault, 28 maggio 1948, MAE, A.22.9. 2 C IV, consultato negli anni ’70, prima della classificazione finale, degli archivi del Ministero degli Affari Esteri (MAE) e di tutte le fonti citate nel mio lavoro.
19. Bossuat, l’Europa occidentale all’epoca americana , “La sovranità degli stati europei era in discussione? (Punto interrogativo puramente diplomatico), p. 112 sq . “Il caso della Francia”, comma di “Intervento modulato negli affari europei”, p. 180 sq ., E passim
20. Economia e navali basi, Lacroix-Riz, protettorati del Nord Africa tra la Francia e l’atterraggio Washington nel 1942-1956 l’indipendenza , Paris, L’Harmattan, 1988, passim.
21. La scelta di Marianne , cap. 4, “La ricostruzione prioritaria della Germania: la Francia è di fronte al fatto compiuto (luglio 1947)”, p. 133-136 dell’edizione 1985.
22. Lacroix-Riz, “Parigi e Washington all’inizio del Piano Schuman,” comunicazione al simposio Aachen maggio 1986, per gli inizi del Piano Schuman 1950-1951 , Die Anfänge Schuman-Planes 1950-1951 , ed. Klaus SCHWABE, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, 1988, p. 241-268.
23. Dettaglio, Lacroix-Riz, “Verso il Piano Schuman: le tappe decisive nella accettazione francesi del riarmo tedesco (1947-1950),” guerre mondiali e conflitti contemporanei“la priorità di ricostruzione I. riarmo”, n ° 155 Luglio 1989, p. 25-41; “II. Parigi e il progetto di riarmo tedesco dello Stato tedesco “, n. 156, ottobre 1989, p. 3-87, e “La Francia di fronte alla minaccia militare tedesca all’inizio dell’era atlantica: una temuta alleanza militare basata sul riarmo tedesco (1947-1950)”, Francia , vol. 16, numero 3, maggio 1990, p. 49-71); “Il contributo di” Guerre di Stalin “Geoffrey Roberts nella storia dell’URSS: risultati e dibattiti”, prefazione a Roberts, guerre di Stalin ., Paris, Delga, 2014, 34 p, P. XII-XXXIV.
24. Tel. Bonnet No. 1212, Washington, 19 marzo 1949, Europa Generale 1944-1960 (Europa), 26 anni, MAE.
25. Gillingham, carbone , p. 149, per confrontare le fonti del n. 86.
26. Carcan , cap. 6, p. 113-122, sull’aspetto americano del progetto, e 122 sq. sul cartello “europeo-tedesco” “.
27. Tel. 361 di Garnier, 23 febbraio 1951, Z Europa Generale 1944-1960, 112, Schuman Plan, MAE. Argumentario “anti-autarchico”, Carcan e tutta l’ arte. cit. sul piano Schuman.
https://www.les-crises.fr/europe-lacademisme-contre-lhistoire-4-6/

TRIS DI “ DEBUTTANTI” ?, di Antonio de Martini

Per uno dei casi di cui è piena la vita, ho conosciuto tutti e tre i generali che diserteranno la sfilata militare di domani.

Due di questi sono stati a capo delle Forze Armate ( Arpino e Camporini) e uno (Tricarico) a capo dell’aeronautica.

Non appartengono a uno stesso schieramento politico.

Lamentano più fatti, anche di dettaglio, ma in buona sostanza lamentano la lamentevole qualità del ministro della Difesa.
Un ministero storicamente sfortunato sotto l’aspetto della scelta dei vertici politici.

Dei tre generali, quello che ho conosciuto meglio é Arpino.
Ho cenato più volte con lui ed é la persona che mi ha più positivamente impressionato.

Mi ha anche fatto capire il « mistero » della caduta degli F104 , detti « le bare volanti » usando accenti di contenuta commozione per il ricordo di tanti compagni di corso caduti.
Colto, intelligente, umano.

La signora ministro gode dei miei sospetti per via di un invio gratuito di beni di consumo che organizzai ( come comitato FAO) verso l’Irak – all’indomani di Nassirya- e che l’inviato di « La Repubblica » scrisse di aver notato commercializzati nei suk.

L’inclusività non è un male in se.
É vero che la festa della Repubblica è la festa di tutti, ma è come il menù di un ristorante: il fatto che la crème caramel e la coda di rospo facciano parte della lista, non autorizza nessuna persona di buon senso a metterli nello stesso piatto.

Se si eviterà di accentuare l’aspetto corporativo di questa « civile protesta dei militari » e gli si saprà dare un respiro più strategico, assisteremo al debutto dei militari nella società italiana, non più nelle vesti dei buttafuori, cui sono stati crocifissi da sempre, ma da portatori sistematici dei valori di sobrietà, serietà, competenza e carattere, che sono i drammatici vuoti nelle carni della nostra Italia.

Questa sarebbe la vera inclusività !

Cosmopolitismo, universalismo e l’Unione Europea, di Andrea Zhok

A proposito di cosmopolitismo, universalismo e identità (il tempo e il luogo di interazione) e l’utilizzo concreto di questi concetti nell’inquadrare la natura dell’Unione Europea. Un interessante dibattito_Giuseppe Germinario

Cosmopolitismo, universalismo e l’Unione Europea (una risposta a Roberta De Monticelli)

https://ilmanifesto.it/stati-uniti-deuropa-un-edificio-politico-architettato-dalla-filosofia/

Oggi è apparso sul Manifesto un articolo della professoressa Roberta De Monticelli dall’impegnativo titolo: Stati uniti d’Europa, un edificio politico architettato dalla filosofia. Nell’articolo De Monticelli, dopo aver lamentato la superficialità dell’attuale dibattito intorno all’Europa, rivendica una matrice filosofica alta come ispirazione e viatico del ‘progetto europeo’.

Al netto del condivisibile sconforto per l’attuale campagna elettorale, si potrebbe notare come la contestazione all’odierno ‘europeismo’ non si muova di norma con riferimento a nobili istanze come l’idealità cosmopolita, ma con più prosaico riferimento ad un sistema che ha prodotto una crescita europea stagnante, la deindustrializzazione di molti paesi (tra cui l’Italia) e una costante riduzione del potere contrattuale dei lavoratori.

Ma fingiamo che tutto ciò non sia essenziale. Ipotizziamo che il tema siano Kant e Rawls e non la macelleria sociale greca. E continuiamo pure nell’equivoco per cui l’antieuropeismo sarebbe una proterva e irragionevole ostilità all’Europa – e non all’Unione Europea -, accettiamo protempore tutto questo e proviamo ad esaminare gli argomenti specificamente filosofici che vengono sollevati da De Monticelli.

Due argomenti giocano un ruolo centrale.

Il primo vede nell’Unione Europea

“il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica.”

Il secondo specifica il carattere di questo ‘universalismo’ in opposizione all’accidentalità della nascita:

“Cosmopolitica è (…) la forma di una civiltà fondata nella ragione (…). La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia. (…) Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”

1) Il primo argomento pone un’equivalenza tra cosmopolitismo e universalismo della ragione, concependo dunque il cosmopolitismo europeista come erede della tradizione filosofica nel suo nucleo portante, quello che riconosce l’universalità della ragione.

2) Il secondo argomento qualifica tale universalismo opponendolo alla contingenza, e specificamente a quella particolare contingenza che è l’essere nato in un certo tempo e luogo, posto come base dell’idea di nazionalità.

Sotto queste premesse, l’Unione Europea si presenterebbe come incarnazione dell’universalismo della ragione, volta a superare gli accidenti della nascita (e nello specifico gli accidenti che determinano l’identità nazionale).

Nel prosieguo proverò a spiegare, in breve, perché ritengo che entrambe queste tesi contengano degli errori. Sono errori interessanti, come sempre sono gli errori filosofici, ma non perciò meno radicalmente fuorvianti e dannosi di errori più volgari.

Commento a (1)

L’idea che universalismo e cosmopolitismo siano in qualche modo considerabili in equivalenza è un’idea assai curiosa. Si ritiene, apparentemente, che le esperienze, o forse le ‘inclinazioni’, cosmopolite siano latrici di un ampliamento delle prospettive, un ampliamento che conferirebbe un particolare privilegio, ovvero la capacità di uscire dal proprio ‘particulare’ e di accedere ad una visione esente da pregiudizi e parzialità. L’opposizione chiaramente evocata è quella tra l’equanimità della ragione e il torvo egoismo dei ‘particolarismi’.

Ora, l’equivalenza tra universalismo e cosmopolitismo, una volta che la si guardi da vicino, risulta subito destituita di ogni fondamento.

Che una semplice ‘inclinazione’ cosmopolita non sia di per sé capace di superare pregiudizi e parzialità è piuttosto ovvio. Per capirlo basterebbe rammentare le idee sulle razze umane, di parvenza oggi alquanto imbarazzante, di quel genio, cosmopolita e razionalista, di Immanuel Kant.

Ma l’idea che esperienze di tipo cosmopolita possano veicolare una visione emancipata da pregiudizi e parzialità può sembrare prima facie più convincente. Dopo tutto, chi può negare che fare più esperienze ‘ampli gli orizzonti’? Bene, ma per uscire dalla vaghezza è importante capire di cosa parliamo quando nominiamo il ‘cosmopolitismo europeo’. I ‘cosmopoliti’ non sono semplicemente ‘quelli che vanno all’estero’. Naturalmente non lo sono i semplici turisti. E non lo sono certo neppure i migranti per necessità (passare dallo stringere bulloni a Termini Imerese allo stringere bulloni a Uppsala difficilmente può contare come progresso spirituale verso l’universalismo della ragione). No, il ‘cosmopolita’, il ‘cittadino del mondo’ di cui qui si parla, è semplicemente un membro di quei ceti economicamente, socialmente, e talvolta anche culturalmente privilegiati, che scelgono di passare periodi della propria vita, per lavoro o per diletto, in più o meno prestigiose sedi estere. Ora, – come ricorda Vincenzo Costa nel suo recente Élites e populismo – è importante comprendere come il ‘mondo della vita’ di questi ceti sia e resti una sezione trasversale, altamente astratta e sterilizzata, del mondo reale. I ceti cosmopoliti che vedono il mondo dalle loro magioni nel centro di Londra, Parigi o Milano sono vittime di settorialità esperienziale non meno dei panettieri di Tor Bella Monaca o dei barbieri di Petroupoli. Invero le élite cosmopolite, a ben vedere, sono vittima, oltre che dei propri limiti esperienziali, anche di un rimarchevole grado di presunzione, che li lascia immaginare di avere uno sguardo più comprensivo e lungimirante, e di potersi perciò concepire come ‘avanguardie’ del progresso a venire.

Le certezze dei cosmopoliti sono semplicemente pregiudizi in cofanetto de luxe.

Commento a (2)

Il secondo argomento sollevato è di particolare interesse, perché si tratta di un errore teorico diffuso. L’universalismo viene opposto (in maniera tecnicamente impropria) alla contingenza o accidentalità. All’universalismo viene poi attribuito un compito schiettamente morale, ovvero quello di ‘superare la contingenza’.

Tradotto in una proposizione, quanto viene qui sostenuto ha la seguente forma:

“Io, che sono un soggetto razionale come te, sono però consegnato alla contingenza di una nascita localmente determinata, che limita la mia aspirazione all’universalità. – Tale contingenza contrasta con la mia natura di soggetto razionale ed è razionalmente ingiustificabile; essa perciò, a causa della sua natura ingiustificata, arbitraria, va corretta.”

  • Digressione per filosofi.

Nella proposizione di cui sopra troviamo presentato come ovvio un contrasto tra universalità e contingenza. Lungi dall’essere un’ovvietà condivisa, l’idea di ‘ragione’ o di ‘universalità’ presupposta da questo ragionamento è assai discutibile. Si tratta infatti di una visione dove la ragione e la sua universalità per essere tali devono appartenere ad una sfera astorica e smaterializzata. Si tratta in sostanza di un’idea di ragione e universalità di tipo platonico. Autori (cari a chi scrive, come a De Monticelli) quali Wittgenstein e Husserl hanno attraversato nel corso della loro vita l’intero percorso da una iniziale concezione di razionalità astorica e svincolata dalla materialità, dalle prassi, dalla corporeità, ad una matura concezione in cui la razionalità trovava una sua necessaria collocazione proprio nella sfera della storia, della materia, delle prassi e del corpo vivente. Pensare che qualcosa per avere valore universale e razionale, debba (o anche solo possa) essere estraneo ad una realtà materiale e storica è, in termini schiettamente filosofici, una tesi assai discutibile, una tesi rispetto a cui tanto il Wittgenstein delle Ricerche che lo Husserl della Crisi sarebbero in diretta opposizione.

Fine della digressione per filosofi.

Ora, però, in termini di analisi concreta: cosa ci si immagina di poter o dover ‘correggere’ della ‘contingenza’ in nome dell’universalismo? Nel testo in questione ci si focalizza sulla territorialità della nascita, ponendola come contingenza ingiustificabile da superare. Ma perché concentrarsi proprio su questa ‘contingenza ingiustificabile’? Dopo tutto non è parimenti una ‘contingenza ingiustificabile’ anche il mio corpo, con la sua struttura e le sue facoltà? E che dire della mia intelligenza o forza di volontà? E a ben vedere anche la mia stessa appartenenza alla specie umana e al novero dei ‘soggetti razionali’, mica l’ho decisa io? Tutte queste sono cose che nessuno di noi ha deciso, che ci sono, se ci sono, senza nessuna giustificazione. Sono cose che ci siamo ritrovati, e a partire dalle quali, traendone il meglio di cui eravamo capaci, e facendocene carico, abbiamo cercato di tracciare una nostra strada su questo contingentissimo pianeta.

Ecco, ora la domanda è: in che senso la mia nascita in un tempo e luogo, la mia educazione, la mia lingua madre, la cultura materiale in cui sono cresciuto e in cui sono diventato ciò che sono, in che senso tutto questo sarebbe un arbitrio da superare nel nome dell’universalismo in quanto ‘non-contingenza’? E chi sarei io, il soggetto chiamato a svolgere tale superamento, una volta tolte tutte quelle contingenze? In che senso, la contingenza della mia territorialità o cultura sarebbero da superare,  mentre non sarebbe parimenti da superare, per dire, la mia appartenenza alla specie degli ‘animali razionali’? Dov’è qui il discrimine in cui io posso dire che la mia nascita, crescita ed educazione non sarebbero davvero ‘io’, mentre il mio genoma, quello sì ‘sono davvero io’?

In verità, l’universalismo astratto e matematizzante che viene qui implicitamente ammesso è insostenibile. Io sono ciò che sono in quanto nato e cresciuto, in quanto sono divenuto ciò che sono, e non certo in quanto ho deciso o deliberato ciò che potevo essere. (E, a fil di logica, come avrei potuto farlo, se non essendo già qualcosa che a sua volta non posso aver deciso io?).

Detto questo, quell’universalismo astratto non è affatto l’unico universalismo concepibile. Al contrario, a ben vedere esso è propriamente inconcepibile. Dalla posizione che io sono e incarno io posso riconoscere posizioni e incarnazioni altrui: posso riconoscere, in modo perfettamente razionale ed universalizzabile, che la mia appartenenza territoriale, comunitaria, nazionale concorre a definirmi, così come l’appartenenza territoriale, comunitaria, nazionale di un abitante di Sapporo, Budapest, York, Adelaide o Cuzco, concorre a definire loro. E ciascuno di noi, a partire dalla propria cultura (che non ha deciso), dalle proprie facoltà cognitive (che non ha deciso) e dalla propria capacità empatica (che non ha deciso) può decidere di aiutare qualcun altro ad uscire dalle sue difficoltà, che sono proprio sue, e non di un soggetto ideale disincarnato, astorico e non situato. Lo può fare perché può comprendere, in qualche misura, la specificità della situazione altrui e le sue difficoltà contestuali. Per farlo con convinzione e motivazione, comprendere la specificità della situazione altrui, lungi dall’essere di impaccio, sarà essenziale. Al contrario, lo sguardo da lontano, che si presume disincarnato e superiore alle incarnazioni storiche, corporee e pratiche non è affatto uno sguardo che muove né alla compassione né all’aiuto. L’operazione di ‘comprendere il punto di vista dell’altro’ è un’operazione che ha senso solo quando si ammette che l’altro ha appunto un punto di vista, una posizione reale, e si simpatizza con esso, con il suo essere situato.

Questo, tradotto dal piano soggettivo a quello politico significa che è la nostra dimensione di appartenenza a definirci innanzitutto per ciò che siamo, e che tale dimensione è condivisa universalmente, da ciascuno con la sua appartenenza. E tutto ciò può permettere perfettamente riconoscimento, rispetto, e simpatia vicendevoli. Come italiano, che assume su di sé la sua nascita, cultura, educazione, posso simpatizzare con un fratello greco o austriaco o scozzese, stimandone la determinatezza delle forme di vita; e l’altro può fare lo stesso nei miei confronti. La mia appartenenza mi consente di capire la tua, e di esservi solidale. Per lo sguardo nutrito dalla mancanza di appartenenza, invece, gli individui e i gruppi reali sono solo astrazioni, concetti, forse numeri, enti interscambiabili.

L’universalismo che sembra ovvio nella prospettiva di De Monticelli è l’universalismo disincarnato dello ‘sguardo da nessun luogo’, del ‘punto di vista di Dio sul mondo’. Ma, per fortuna o per disdetta, il punto di vista di Dio sul mondo non lo possiamo incarnare affatto, e neppure immaginare propriamente.

E credere di poterlo incarnare e immaginare è solo una forma di Hybris, eticamente poco raccomandabile.

Riassumendo quanto detto.

Universalismo e cosmopolitismo non solo non sono sovrapponibili, ma non sono neanche vicini di casa.

Quanto all’appello all’universalismo, esso non può essere quello sguardo disincarnato e destoricizzato che pretende di essere, e non può, né di fatto né di diritto, abolire gli ‘accidenti della nascita’.

Per tutte queste ragioni, è opportuno lasciare serenamente in pace la filosofia, evitando di chiamarla improvvidamente in soccorso di quello spregiudicato pasticcio neoliberale che prende il nome di Unione Europea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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3 commenti su “Cosmopolitismo, universalismo e l’Unione Europea (una risposta a Roberta De Monticelli)”

  1. Ecco le mie risposte a Andrea Zhok, che ringrazio di avere letto e commentato il mio pezzo apparso sul “Manifesto” (24/05/2019). Comincio dalla filosofia.
    1. Filosofia. Mi colpisce molto quando un filosofo in sostanza dice: lasciamo in pace la filosofia, qui si tratta di politica. O di storia. O di economia. Uno di quelli che più spesso mi rispondono così, a volte in modo più aggressivo e meno argomentato di quanto faccia Andrea Zhok, è Massimo Cacciari. Sui socials poi queste risposte si sprecano, ma almeno non vengono in generale da filosofi di studi, o di mestiere (molti però almeno di studi sono tali). Cosa c’è dietro questo atteggiamento? Evidentemente, che la filosofia non può essere pensiero pratico, non può cioè istruire le questioni riconducibili a quella centrale per il nostro agire, in tutti i campi dive dobbiamo prendere posizioni e decisioni: che cosa dovrei fare? E anche: che cosa dovremmo fare?

    Questo atteggiamento ha alcune conseguenze imbarazzanti. Ad esempio, l’opposizione fra “filosofia” e “concretezza”. Tipo: “Ipotizziamo che il tema siano Kant e Rawls e non la macelleria sociale greca”.

    Suppongo che la macelleria sociale greca sia resa possibile da scelte politiche sbagliate che consentono a gruppi più forti di avvalersi della possibilità di perseguire i loro interessi a danno di una (maggior) giustizia che sarebbe invece POSSIBILE evitare con scelte politiche giuste, che pongano vincoli al perseguimento arbitrario di quegli interessi. O altrimenti non so di cosa parliamo. Ma Kant e Rawls si sono posti precisamente il problema dei fondamenti di ragione del pensiero politico, più in generale pratico. Che non significa certo disconoscere che persone e gruppi perseguono normalmente i loro interessi (spesso nobili e ed eticamente compatibili, altre volte no) e che senza vincoli di alcun genere la libertà di perseguirli porta molto male per tutti. Le loro teorie normative sono indubbiamente insufficienti: dunque bisognerà far di meglio. La politica e il diritto esistono precisamente perché le società umane non sono società angeliche. Oppure si preferisce affermare che nessuna fondazione ragionevole del pensiero pratico è possibile, e che non ci si può impegnare, anche in democrazia, che sulla base di fedi, oppure volontà di potenza, oppure determinismi di classe, o ahimé, come scrive Andrea con una parola che mi dà qualche brivido, “appartenenza”? Che umano sia precisamente il contrario, che ciò che può distinguerci sia la vita esaminata e non l’adesione cieca alla propria comunità d’origine lo sappiamo da Socrate, mica da Kant. Ora quando si parla di ideali, anche di ideali politici, si parla da persone che questa scelta hanno fatto a persone che questa scelta hanno fatto o possono fare: ovvero si parla in termini assiologici e razionali (Come dovrebbe essere una democrazia in cui anche tu che sei nato a Rozzano, e anche tu che vieni dal Ghana, e anche io che ci terrei a lavorare qui, otteniamo per le nostre vite tutto ciò che serve a farle fiorire, se poi la sfortuna o l’incapacità non ce lo impediscono?). In sintesi, si parla dal punto di vista di prima persona, singolare e plurale, e in termini pratici. Non si sta contemplando da non so qual punto di vista superiore il divenire del mondo, come facevano i marxisti. Né si assume una prospettiva sociologica che dice cosa di fatto fa e pensa la gente. La prospettiva di molti fra quelli che mi criticano, anche filosofi, presuppone in definitiva questo sguardo “di terza persona”: la tesi è che la gente è irrimediabilmente massa opaca e cieca, e “politico” è solo chi la sa organizzare, sulla base del suo proprio decidere. Coerentissimo, l’unica domanda è in che senso siano filosofi.

    2. Universalismo e accidente della nascita.
    Qui c’è un grande equivoco, mi dispiace che la concisione rischi di non rendermi chiara, rinvio alle Sette tesi sulla democrazia e l’Europa che ho pubblicato su “Il Mulino”. E’ evidente che l’accidente della nascita è inteso qui come fonte di un destino che in buona parte è la nostra stessa individualità. Ma che è anche, innegabilmente, fonte di radicale diseguaglianza. E’ solo nella misura in cui questa radicale disuguaglianza limita la POSSIBILE giustizia politica, ovvero l’eguale libertà e le pari chances di fiorire per la persona che si può divenire, con le proprie doti e la propria lingua e cultura etc etc., è solo in questa misura dunque che la ragione pratica, il nostro pensiero politico in particolare, può e dovrebbe aspirare a costruire una società (facciamola breve: un tipo di democrazia) che “rimuova gli ostacoli”, come dice la Cost. ital. art. 3, e in primo luogo gli ostacoli al riconoscimento di quello status che è in definitiva l’implementazione istituzionale e giuridica della dignità, il diritto di avere dei diritti. Per questo ritengo che “La democrazia, con tutte le sue insufficienze, non è soltanto un sistema di governo: è l’aspetto politico di una civiltà umanistica, è il mezzo per consentire l’accesso del più largo insieme possibile di persone all’esercizio effettivo della sovranità esistenziale e politica”, e non vedo argomenti he confutino questa tesi. A meno che si fraintenda tanto brutalmente quello che scrivo da leggere questa tesi come se descrivesse la realtà di fatto e di oggi. Quando il senso dell’articolo è di mostrare quanto tragico sia appunto che le democrazie nazionali abbiano imboccato il circolo vizioso invece di quello virtuoso, e quindi si stiano suicidando, insieme con l’ideale umanistico che ne ha ispirato le lunghe e dolorose storie, almeno nella mente dei migliori fra quelli che per loro hanno combattuto, non esclusi alcuni fra i nostri genitori e nonni. Precisamente l’intuizione di Spinelli e altri è che questo circolo vizioso è irreversibile senza l’evoluzione sovranazionale, in linea di tendenza cosmopolitica, delle democrazie.
    3. Universalismo e democrazia

    Onestamente non vedo gli errori tecnici e logici che Andrea mi attribuisce. Certo, bisogna rifiutare una visione storicistica e relativistica del giudizio e dell’argomentazione di valore per accettare quello che io dico, intorno ad esempio al senso della giustizia, che vediamo emergere nelle forme infantili fin dalla prima infanzia, quale che sia la lingua, trapanese o suahili o tedesco. Se veritas filia temporis, e figlia di appartenenze etc., allora la giustizia di Salvini (prima gli italiani) vale quanto quella del primo principio della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, che ho definito il principio più normativo e meno descrittivo che ci sia. E’ interessantissimo riflettere sulla gigantesca svolta che fu, nel dibattito pubblico mondiale, la scelta che prevalse per poco, per pochissimo, nella commissione di redazione del testo della Dichiarazione — MA PER FORTUNA PREVALSE – di scegliere per il sostantivo “Dichiarazione” l’aggettivo UNIVERSALE e non INTERNAZIONALE.
    Il mio universalismo è tutto qui, ed è assolutamente innegabile che la chiara concezione d’’accessibilità universale (cioè: tutti quelli che vogliono capire e vedere, sono in grado di vedere e capire) dei principi che articolano l’idea di giustizia (e corrispondono alle generazioni dei diritti: civili, politici, sociali e culturali) SIA un’idea che permea la filosofia pratica fin da Socrate, ha in Kant un grande momento e nel Novecento, pur assediato da mainstream contrari, un altro grande momento di formulazione limpida (alla quale ho dedicato tutti i miei ultimi libri). Le democrazie postbelliche europee sono democrazie che includono essenzialmente i diritti UMANI, che sarebbero cioè dovuti indipendentemente dalla propria cittadinanza e nazionalità, e per questo solo fatto sono in linea di principio sbilanciate in senso cosmopolitico. Curioso che non si veda questa possibilità enorme, che solo la tarda scuola di Habermas (Nida Ruemelin e altri) comincia ora ad articolare

    4. Universalismo e ragione
    Io non ho altra idea di ragione che la disponibilità a chiedere e rendere ragione dell’altrui fare e dire, e del proprio. Non è soltanto una capacità, ma anche una disponibilità, appunto: ci si può rifiutare. Per questo non capisco affatto l’assurdo ragionamento che Andrea mi attribuisce:
    “Io, che sono un soggetto razionale come te, sono però consegnato alla contingenza di una nascita localmente determinata, che limita la mia aspirazione all’universalità. – Tale contingenza contrasta con la mia natura di soggetto razionale ed è razionalmente ingiustificabile; essa perciò, a causa della sua natura ingiustificata, arbitraria, va corretta.”
    Ma qui immagino che abbia voluto scherzare. E’ una vita che vado dicendo che le nostre ragioni personali, quelle per cui e di cui viviamo con la nostra vita di persone incarnate, radicate, passionali e irriducibilmente plurali, non sono appunto “la ragione umana” ma la nostra personale scala di priorità di valore, cui sono posti vincoli precisi dalla compatibilità che ogni scala di priorità deve esibire con il rispetto di ogni altra persona o della sua pari dignità. DEVE: non che lo faccia ovviamente. Se non lo fa, SBAGLIA. Punto. Naturalmente proprio qui si apre la discussione: ed è proprio questo l’universalismo della ragione, che la discussione POSSA instaurarsi. I diritti nelle democrazie sono discussi, attaccati, difesi a ogni svolta. Qui certo si può esercitare la libertà e dire: non vedo che Salvini sbagli. Non vedo perché non si dovrebbe dire, nel senso in cui lo intende Salvini, “prima gli italiani”. Qui si può cercare di articolare questo senso, e mostrare la componente di esso che effettivamente contrasta con il primo articolo della Dichiarazione Universale. E uno può rispondere: e che m’importa di quell’articolo. E qui la discussione si ferma, nel senso preciso che il CONFLITTO non può divenire DISSENSO, e io scappo via spaventata. Perché spero che Andrea capisca e sappia che dove il conflitto non può diventare dissenso, vengono fuori le guerre, o anche solo il sangue per le strade.
    Roberta De Monticelli

    • antropologiafilosofica il said:

      Cara Roberta, ti ringrazio per la gentile e attenta risposta.
      Vorrei potermi dire soddisfatto, ma temo di non essere riuscito a comprendere, certamente per miei limiti, diversi punti essenziali, fino al punto da chiedermi se la tua replica sia davvero una difesa dell’articolo originario, o se non sposti il discorso su altri temi, interessanti ma collaterali.
      Provo a ripercorrere le tue risposte.

      Ad 1). Nella tua prima risposta mi rimproveri di sostenere la separazione tra filosofia e politica (o economia, ecc.). Ora, capisco che forse la chiusa del mio commento possa essere fraintesa, tuttavia mi pare piuttosto evidente dal nostro intero scambio che nessuno dei due pensa che filosofia e politica stiano su binari separati. In effetti la chiusa cui tu sembri fare riferimento diceva qualcosa di un po’ diverso, e precisamente che “è opportuno lasciare serenamente in pace la filosofia, evitando di chiamarla improvvidamente in soccorso” dell’Unione Europea.
      Il problema non è affatto quello di dire ‘niente politica, siamo filosofi’, figuriamoci.
      Il punto, se proprio vogliamo, è che le conclusioni filosofiche non sono mai meccanicamente traducibili in conclusioni politiche e richiedono dei passaggi intermedi che calino l’ideale nel reale.
      Nella fattispecie è del tutto trasparente che un articolo che compaia all’antivigilia delle Elezioni Europee e che sostenga – come tu fai – una filiazione diretta tra gli ‘ideali della ragione’ e il ‘progetto europeo’ sta, perdona l’espressione triviale, calando un carico da novanta a supporto dell’attuale struttura istituzionale chiamata Unione Europea. Ed è questa operazione di passaggio dal filosofico al politico che ritengo inaccettabile, non certo una generale applicazione del filosofico al politico.
      Il problema, cioè, è che è proprio illegittimo chiamare in aiuto niente poco di meno che la tradizione razionalistica occidentale per operazioni indegne come quelle che hanno ridotto un ‘paese europeo fratello’ ad un protettorato con tassi di mortalità infantile da terzo mondo.
      Invocare l’idealità di un eventuale modello razionalistico (kantiano o rawlsiano o altro) a supporto dell’UE è legittimo quanto invocare il modello tomistico della monarchia come migliore tra i modelli di governo per giustificare il governo di Kim Jong-Un o del sultano del Brunei.
      Non basta una vaga analogia, bisogna sporcarsi le mani con una descrizione della realtà storica e istituzionale per vedere se oltre a quella vaga analogia ci siano elementi sostanziali in comune. E qui non posso che esprimere la mia curiosità nel vedere cosa ci sia di kantiano o rawlsiano in un modello di trattati europei esplicitamente ispirati al neoliberismo di Milton Friedman.

      Ad 2). Se la tua prima risposta mi ha lasciato perplesso, la seconda mi lascia basito. Francamente faccio fatica a capire cosa abbiano a che fare la ‘correzione degli accidenti della nascita’ (con specifico riferimento alla nascita in un paese) da un lato con l’articolo 3 della nostra Costituzione e dall’altro con l’Unione Europea.
      A scanso di equivoci, ricordiamo cosa dice il passo della Costituzione cui fai riferimento:
      “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
      In che senso questo articolo avrebbe qualcosa a che fare con una correzione ‘tendenzialmente cosmopolita’ dell’accidente della nascita? A ben vedere nell’articolo 3 si dice una cosa radicalmente diversa: si parla di rimozione di “ostacoli di ordine economico e sociale”, e specificamente di quelli che limitano “la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Cioè si parla principalmente di correggere diseguaglianze di censo che concernono i cittadini della Repubblica italiana (non i ‘cittadini del mondo’), Repubblica che infatti è il soggetto chiamato in causa per correggerli.
      Cosa abbia ciò a che fare con il superamento delle datità nazionali in chiave cosmopolita francamente non riesco proprio a capirlo. Come se, per dirla fuori dai denti, un governo sovranazionale guidato da lobby finanziarie e da un’alleanza franco-tedesca, e dedito all’implementazione di politiche neoliberali, avesse qualche cosa in comune con le istanze egalitarie e socialiste menzionate dall’Art. 3 della Costituzione Italiana.

      Ad 3.) Nella terza risposta, mi spiace dirlo, ma semplicemente non stai rispondendo alle mie obiezioni, obiezioni che hanno di mira, sul piano ‘tecnico’ l’opposizione tra universalismo e “accidente della nascita” (cui tu attribuisci, voglio ricordarlo, niente meno che “ogni ingiustizia”). Tale opposizione è insostenibile per le ragioni che ho detto: perché la nostra stessa capacità razionale dipende dall’accidente della nascita, e perché la nostra stessa idea di ‘diritti umani’ è con tutta evidenza una formazione legale storica sorta all’interno della tradizione occidentale.

      Non c’è bisogno che io ti ricordi come la ‘Dichiarazione Universale dei diritti Umani’ del 1948 venne votata da 48 paesi, che la sua universalizzabilità venne contestata da subito e già in fase di elaborazione, che gli articoli 22-27 sui diritti economici e sociali vennero introdotti solo su pressione dell’allora Unione Sovietica, e che successivamente vennero totalmente dimenticati (tanto è vero che oggi chi parla di ‘diritti umani’ immagina sempre solo diritti civili, libertà personali).
      E faccio notare per inciso che poche cose sono meno ‘evidenti’ al sano intelletto umano dell’idea di un diritto che, invece di essere conferito da altri soggetti storici, sia ‘inscritto nella nascita’ di un membro della specie Homo Sapiens. Questa è in effetti una concezione di ispirazione teologica, dove si presumeva inizialmente che il diritto dell’uomo (dell’anima umana) gli venisse conferito da Dio. L’idea che un espediente legale altamente artificiale come un ‘diritto’ sia scritto da qualche parte in natura è un’idea che può risultare ‘evidente’ solo all’interno di una assai specifica tradizione storica; alla faccia dell’universalità.

      E non c’è bisogno che ti ricordi che opporre razionalità a ‘storicismo e relativismo’, come tu fai qui sopra è improprio, visto che eminenti autori come Hegel o lo Husserl dagli anni ’20 in poi presentano posizioni razionalistiche e non relativistiche in una cornice storicista (posizione che, per quel niente che conta, ho difeso e argomentato più volte per esteso).

      Ad 4.) Sull’ultimo punto non ho niente da dire, perché chiama in causa la democrazia e Salvini, cose su cui non ho detto una parola, e su cui magari la pensiamo anche in modo simile, ma che qui non rileva.

      Concludo con una osservazione generale.
      Dopo aver letto la tua gentile risposta sono andato a rileggermi il tuo articolo, perché vedendo le risposte ho avuto il dubbio di aver letto un articolo del tutto diverso. Infatti l’articolo che mi pareva di aver letto era un pregevole scritto il cui passaggio decisivo e fondamentale era quello che passava dalla difesa del cosmopolitismo, come superamento degli accidenti della nascita, e come visione propria di una civiltà fondata sulla ragione, ad una difesa dell’Unione Europea, concepita niente meno che come edificio politico architettato dalla filosofia.

      È questo nucleo argomentativo che mi pareva radicalmente insostenibile e che ho provato a criticare.

      Dopo le tue risposte, in cui il tema centrale del cosmopolitismo praticamente non compare, ho avuto il timore di non aver letto giusto, di aver preso fischi per fiaschi.

      Ed è per questa ragione che voglio lasciare l’ultima parola a te, citandoti direttamente:
      “[O]ggi l’Unione europea, in quanto è il lungo, lento processo di costituzione di una Federazione degli Stati Uniti d’Europa, è almeno virtualmente il più grande e innovativo laboratorio politico del mondo. È il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica. – Cosmopolitica è in effetti la forma di una civiltà fondata in ragione, vale a dire, semplicemente, sulla nostra capacità di chieder ragione agli altri e a noi stessi di ogni azione e di ogni affermazione – e di chiederla in particolare a chi prende decisioni che influiranno sulla vita e il destino di tutti. La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia: è, potremmo dire, costitutiva della mente umana, della stessa lingua umana, la sola fra i linguaggi animali che possiede il tono e il simbolo dell’interrogativo: “Perché?” Perché mi fai questo? Perché devo soffrire questo? Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”

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