Cosa succederà dopo l’attacco dei droni al Cremlino di martedì sera?_ Andrew Korybko

Cosa succederà dopo l’attacco dei droni al Cremlino di martedì sera?
Andrew Korybko

L’immagine tratta da un video mostra un oggetto volante che esplode in un’intensa esplosione di luce vicino alla cupola del palazzo del Senato del Cremlino a Mosca, Russia, 3 aprile 2023. /CFP

Nota dell’editore: Andrew Korybko è un analista politico americano con sede a Mosca. L’articolo riflette le opinioni dell’autore e non necessariamente quelle della CGTN.

Il 3 maggio la Russia ha accusato l’Ucraina di aver tentato di assassinare il Presidente Vladimir Putin con un attacco di droni, cosa che Kyiv ha negato. I due droni sono stati neutralizzati dai servizi di sicurezza e non hanno danneggiato Putin né causato vittime o danni. Mosca considera questo incidente con i droni come un attacco terroristico e ha dichiarato che si riserva il diritto di reagire in un momento e in un luogo a sua scelta.

Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Mao Ning ha dichiarato, durante la regolare conferenza stampa del 4 maggio, che “la posizione della Cina sulla crisi ucraina è coerente e chiara. Tutte le parti devono evitare di intraprendere azioni che potrebbero far degenerare ulteriormente la situazione”. Anche il consigliere di Stato e ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha ribadito la posizione centrale della Cina sulla promozione dei colloqui di pace per contribuire a raggiungere una soluzione politica della crisi ucraina il 5 maggio durante l’incontro con l’omologo russo Sergei Lavrov a margine della riunione dei ministri degli Esteri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai nello Stato indiano di Goa. Lavrov ha sottolineato che la Russia attribuisce importanza al documento di posizione della Cina sulla soluzione politica della crisi ucraina.

Il contesto in cui si è svolto l’incontro è quello delle tensioni che precedono la prevista controffensiva dell’Ucraina contro le forze russe in quei territori che Kyiv rivendica come propri ma che Mosca considera come votati per unirsi a lei in referendum contestati lo scorso settembre.

Le ultime notizie trapelate dal Pentagono suggeriscono che l’Ucraina sta lottando per prepararsi a questa operazione e Politico, nel suo rapporto della scorsa settimana, ha citato funzionari dell’amministrazione Biden senza nome che hanno espresso serie preoccupazioni su ciò che accadrebbe se fallisse.

Nei giorni scorsi sono deragliati diversi treni russi nel territorio universalmente riconosciuto di quel Paese, che Mosca ha sostenuto essere il risultato di un sabotaggio. Inoltre, Mosca ha precedentemente accusato l’Ucraina di aver effettuato diversi attacchi transfrontalieri con i droni nell’ultimo semestre, il che rafforza la sua affermazione che Kyiv sia responsabile dell’incidente di martedì sera al Cremlino.

Tornando all’incidente in sé e a ciò che potrebbe accadere in seguito, tutti dovrebbero essere sollevati dal fatto che il Presidente Putin non sia stato ferito, cosa che avrebbe potuto portare a un’escalation della crisi senza precedenti e forse persino impensabile.


Un cartello “No Drone Zone” si trova vicino alla Piazza Rossa di Mosca, in Russia, e vieta ai veicoli aerei senza pilota di sorvolare l’area, il 3 maggio 2023. /CFP

Con la garanzia della sua sicurezza, la Russia potrebbe quindi essere meno propensa a reagire emotivamente a questo incidente e prendersi invece il tempo per riflettere attentamente sulle sue prossime mosse. I politici potrebbero quindi ricordare che saranno soprattutto i civili a sopportare il peso di un’eventuale escalation.

Sebbene gli attacchi di Mosca contro obiettivi militari mirino a raggiungere obiettivi rilevanti, finora non sono stati in grado di raggiungere l’obiettivo desiderato dal Cremlino, ovvero la capitolazione di Kiev e il suo accordo a rispettare gli interessi di sicurezza della Russia così come la sua leadership li considera. I precedenti suggeriscono quindi che un maggior numero di attacchi su larga scala potrebbe non fare una grande differenza in questo senso, anche se potrebbero temporaneamente disturbare i preparativi dell’Ucraina per la sua prevista controffensiva.

A questo proposito, va notato che anche Kiev e i suoi partner occidentali non sono riusciti finora a raggiungere l’obiettivo che volevano, ovvero la capitolazione di Mosca e il suo accordo a lasciare tutto il territorio che l’Ucraina considera suo. I precedenti suggeriscono quindi che anche la loro controffensiva pianificata probabilmente non farà una grande differenza in questo senso e quindi non farà altro che perpetuare il conflitto, le cui conseguenze saranno in gran parte a carico dei civili.

Le osservazioni condivise nei due paragrafi precedenti suggeriscono naturalmente che lo scenario più ottimale è che entrambe le parti prendano seriamente in considerazione l’immediata ripresa dei colloqui di pace con l’obiettivo di raggiungere un cessate il fuoco il prima possibile. Ciascuna delle due parti sostiene di avere in mente gli interessi dei civili, che ovviamente trarrebbero il massimo beneficio se le armi fossero messe a tacere. Perché ciò avvenga, tuttavia, ciascuna parte dovrebbe scendere a compromessi e qui sta il dilemma.

La Russia e l’Ucraina sono ancora convinte di poter raggiungere i loro obiettivi massimalisti in questo conflitto, anche se il loro continuo perseguimento non fa che estendere inavvertitamente le difficoltà che i civili stanno vivendo.

Dopo l’incidente di martedì sera, è più che mai urgente che entrambe le parti prendano seriamente in considerazione la de-escalation, che può essere facilitata dai servizi diplomatici di terze parti neutrali, se ogni combattente ha la possibilità di fare un passo indietro.

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NOTA BREVISSIMA SULLA SITUAZIONE UCRAINA, di Roberto Buffagni

NOTA BREVISSIMA SULLA SITUAZIONE UCRAINA

 

Una brevissima notazione sulla situazione ucraina. Quando ci avrò riflettuto a sufficienza, ne scriverò più distesamente. Per ora, enuncio in forma quasi apodittica le mie persuasioni.

A mio avviso, in estrema sintesi la situazione è la seguente:

  1. C’è un’aspra lotta di fazioni, collegate tra di loro, all’interno delle Amministrazioni USA e Ucraina. La fazione moderata (militari, obiettivo strategico: riduzione del danno) e la fazione estremista (politici neoconservatori, obiettivo strategico: fuga in avanti) sono in equilibrio, nessuna riesce a prevalere. Manca purtroppo l’intervento di un paese europeo maggiore che faccia pendere l’ago della bilancia a favore della fazione moderata. Il compromesso che ne risulta è un obiettivo comune: guadagnare tempo in attesa delle elezioni presidenziali USA 2024, e nella speranza di trovare una via d’uscita dalla trappola strategica in cui gli Stati Uniti e l’Ucraina si sono ficcati. Ciascuna fazione fa, nel frattempo, i suoi progetti, e coltiva le sue speranze e ambizioni, incompatibili con quelli degli avversari.
  2. Perseguire l’obiettivo “guadagnare tempo” esige che la situazione ucraina non registri una incontrovertibile smentita della narrazione ufficiale, secondo la quale l’Ucraina ha speranza di vincere o almeno di prolungare indefinitamente la guerra, così indebolendo la Russia e “punendo l’aggressore”. La realtà dei fatti militari – l’Ucraina non solo non può vincere la Russia ma di fatto ha già perduto la guerra – non deve risultare chiara anche ai ciechi, in specie ai ciechi che voteranno alle elezioni presidenziali USA del 2024.
  3. L’obiettivo “guadagnare tempo” si può perseguire in due modi:
  4. a) controffensiva ucraina che raggiunga un obiettivo utile dal pdv propagandistico (es., occupazione anche parziale di città importante) senza essere immediatamente seguita da contrattacco devastante russo e sconfitta folgorante. Purché lenta, una sconfitta andrebbe egualmente bene.
  5. b) rinvio perenne della controffensiva ucraina, mascherato con attività episodica delle truppe regolari e con attacchi asimmetrici (es. plurimi attentati in Russia), nella speranza che i russi a loro volta non sferrino un’offensiva in forze con l’obiettivo di concludere le ostilità una volta per tutte.
  6. Il modo a), “controffensiva”, è molto rischioso. Le FFAA ucraine e la società ucraina nel suo complesso non sono in grado di sostenere una controffensiva su larga scala: anche nel caso di un primo successo tattico, o anche operativo, mancano le riserve, il materiale e la logistica per sostenerlo, riprendere l’iniziativa e trasformarlo in un successo strategico; e c’è sempre la possibilità, tutt’altro che improbabile, che la controffensiva ucraina si infranga catastroficamente sulle difese russe, che hanno dalla loro tutti i vantaggi: fortificazioni, truppe fresche addestrate in numero sufficiente, logistica adeguata, retrovie ben protette, ampia capacità industriale mobilitata, vasto sostegno politico della popolazione.

Il modo b), “rinvio sine die” è meno rischioso, perché continuando con la guerra d’attrito, i russi risparmiano la loro risorsa più preziosa, gli uomini, ottengono egualmente l’obiettivo finale di incapacitare le FFAA ucraine, e prevengono la possibilità che la fazione estremista americano-ucraina sfrutti l’emozione di un’Ucraina sull’orlo della catastrofe per provocare il coinvolgimento diretto di truppe occidentali. In sintesi, il tempo lavora per la Russia, salvo grossi imprevisti (v. punto 5).

Il rischio principale del modo b), “rinvio sine die” è che lo stillicidio di attentati e provocazioni, e l’attesa spasmodica di una soluzione definitiva del conflitto, esasperi la popolazione russa, provocando una pressione politica per l’accelerazione del conflitto a cui il governo russo senta di dover rispondere: nel 2024 ci sono anche le elezioni presidenziali russe.

  1. Se quanto ho ipotizzato ai punti precedenti si avvicina alla realtà, gli obiettivi di fase del governo russo e della posizione risultante dal conflitto tra fazioni USA + Ucraina potrebbero convergere nella comune scelta di guadagnare tempo.

Si tratta però di una convergenza molto precaria perché

  1. a) l’equilibrio tra le fazioni USA e Ucraina è estremamente instabile. In esse, la caotica frammentazione del potere può dar luogo a iniziative autonome di gruppi anche molto piccoli di dirigenti che lo compromettono irreversibilmente. Esempio: una esplosione nucleare sotto falsa bandiera, provocata dagli ucraini e addebitata ai russi (l’Ucraina ne ha le capacità tecniche)
  2. b) le rivalità interne alla classe dirigente russa potrebbero far pendere la bilancia a favore di una escalation del conflitto, con l’obiettivo di concluderlo rapidamente.

Per imprimere una svolta verso l’opzione “riduzione del danno” e la ricerca di una soluzione diplomatica, il fattore decisivo sarebbe l’intervento ufficiale di un paese europeo maggiore che rivendicasse la necessità di aprire una trattativa con la Russia senza precondizioni. Temo non sia probabile.

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Stati Uniti! Faccendieri al governo_con Gianfranco Campa

Con questa puntata Gianfranco Campa socchiude la porta ad un aspetto importante, quanto sottovalutato dagli spettatori della politica. Nella routine quotidiana dei decisori, come nelle grandi scelte, segnano una impronta significativa e spesso determinante le miserie umane. Non è certo una prerogativa esclusiva del teatro politico statunitense. Certamente, la facilità con la quale ormai traspaiono queste debolezze umane e l’ostentazione sempre più supponente con la quale i protagonisti la offrono al pubblico sono un segno della decadenza di una classe dirigente, della sua crescente autoreferenzialità e della sua accentuata difficoltà a gestire i conflitti e le contraddizioni con la dovuta ed opportuna discrezione. Così assistiamo al paradosso della permanenza di personaggi pateticamente inossidabili alla fisiologia del tempo circondati da meteore che consumano in pochi attimi, avventatamente, il loro momento di gloria. Uno scenario farsesco che sempre più sembra scivolare cinicamente verso la tragedia. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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L’incoerenza ontologica dell’eccezionalismo imperiale americano, di William Schryver

L’incoerenza ontologica dell’eccezionalismo imperiale americano
Lo sciovinismo con qualsiasi altro nome ha sempre lo stesso odore

William Schryver
14 ore fa
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Victoria Nuland – Alta sacerdotessa del culto dell’Impero a tutti i costi

Lo sciovinismo ebbe origine durante la guerra russo-turca del 1877-1878, quando molti cittadini britannici erano ostili alla Russia e ritenevano che la Gran Bretagna dovesse intervenire nel conflitto. I sostenitori della causa espressero i loro sentimenti in una canzoncina da music-hall con questo ritornello:

Non vogliamo combattere, ma perbacco se lo facciamo,

Abbiamo le navi, abbiamo gli uomini,

Abbiamo anche i soldi!

Chi ha l’atteggiamento implicito nella canzone è diventato noto come jingo o jingoista, e l’atteggiamento stesso è stato soprannominato sciovinismo.

Sciovinismo

Causa persa
Questa è apparentemente una recensione critica del recente saggio di Arta Moeini pubblicato su UnHerd: L’Occidente sta intensificando la guerra in Ucraina? Tuttavia, il suo ambito si estende ben oltre l’espressione isolata di Moeini delle fallacie pervasive che la mia critica affronta.

L’articolo di Moeini emerge dal contesto delle ultime settimane, durante le quali abbiamo osservato una pronunciata rivoluzione retorica nelle narrazioni popolari occidentali riguardanti la guerra NATO/Russia in Ucraina.

La “causa persa” è nell’aria. Molti di coloro che in privato sapevano che le cose stavano così da un po’ di tempo, sono stati finalmente sufficientemente incoraggiati ad abbracciare pubblicamente l’ovvio – anche se con riluttanza, e spesso con una buona dose di razionalizzazione e di persistente disinformazione al seguito.

Per essere chiari, ho trovato il saggio di Moeini una lettura utile, che fa riflettere a più livelli, anche se non sempre nel modo in cui sospetto intendesse farlo. E sono più o meno d’accordo con la maggior parte delle sue osservazioni sulla situazione attuale.

Ma, come ha ben notato il poeta, “non c’è bisogno di un meteorologo per sapere da che parte soffia il vento”.

E non serve nemmeno un aspirante “esperto” di geopolitica di un think tank per sapere, in questo momento, che il piano di usare l’Ucraina come bombardiere kamikaze per ferire mortalmente la Russia ha fallito abissalmente in ogni aspetto geostrategico fondamentale.

Anzi, si è ritorto contro in molteplici modi, largamente imprevisti e ora irreversibili.

Per saperne di più, si veda più avanti.

Nel frattempo, affronterò le argomentazioni dell’autore che falliscono principalmente a causa della sua apparentemente obbligata costrizione a riecheggiare l’ortodossia eccezionalista americana.

Naturalmente, Moeini vive e respira nell’atmosfera stordente del miasma ideologico della Washington Beltway. Le sue aspirazioni di carriera sono senza dubbio influenzate dall’ambiente in cui vive, e quindi non sorprende che sia così cedevole ai suoi imperativi dominanti.

Egli immagina di elaborare una critica alle carenze di quella che viene talvolta definita la Scuola di Chicago del realismo geopolitico, caratterizzata dalle opere di John Mearsheimer. In realtà, si limita a criticare una serie di fallacie logiche e ad abbracciare le sue cugine apparentemente più attraenti:

Per comprendere il processo decisionale occidentale e le peculiari dinamiche interalleate della Nato, abbiamo bisogno di un realismo più radicale che prenda sul serio le dimensioni non fisiche, psicologiche e “ontologiche” della sicurezza – comprendendo il bisogno di uno Stato o di un’organizzazione di superare l’incertezza stabilendo narrazioni e identità ordinate sul proprio senso di “sé”.

L’incoerenza di una richiesta di “realismo radicale” per affrontare le “dimensioni ontologiche della sicurezza” e “superare l’incertezza stabilendo narrazioni e identità ordinate” sfugge chiaramente al nostro giovane autore, concentrato come sembra sulla rilevanza geopolitica del “senso di sé”.

Detto questo, c’è da aspettarsi che una mente coltivata dall’attuale generazione di accademici imperiali sia restia a mettere in discussione i loro catechismi, primo fra tutti la convinzione che la “nazione indispensabile” sia l’unica sovrana degna di definire i parametri di un “ordine internazionale basato su regole” e, in virtù della sua irreprensibile percezione di sé, di condurre il pianeta verso un destino glorioso.

Moeini prosegue:

In un recente studio per l’Institute for Peace & Diplomacy, di cui sono coautore, abbiamo analizzato le ragioni strutturali che guidano il calcolo strategico dell’Ucraina. Abbiamo suggerito che, in qualità di “equilibratore regionale”, l’Ucraina ha corso un rischio enorme sfidando le linee guida russe sul rifiuto esplicito da parte di Kiev delle offerte della Nato e sull’interruzione di qualsiasi integrazione militare con l’Occidente. Si è trattato di una mossa massimalista che presupponeva il sostegno militare dell’Occidente e rischiava di provocare attivamente Mosca a proprio svantaggio strategico.

Questa è una distorsione di ciò che è realmente accaduto in Ucraina nel corso dell’ultimo quarto di secolo.

L’Ucraina
Lo Stato-nazione, intrinsecamente disarmonico, a cui attualmente viene assegnato il toponimo “Ucraina” sulle carte geografiche dell’Europa, è incontrovertibilmente una costruzione artificiale di origine relativamente recente. I fatti socio-politici e culturali alla base di questa realtà sono stati abilmente sfruttati dai tedeschi nella Seconda guerra mondiale, quando i nazisti hanno reclutato con successo un gran numero di abitanti occidentali (principalmente dalla Galizia) per unirsi a loro in una guerra di annientamento contro i polacchi, gli ebrei e i “moscoviti”, più numerosi e prosperi, che abitavano le regioni agricole fertili e sostanzialmente industrializzate della Novorossija storica.

Questa era la polarità all’interno della regione geografica nota come Ucraina che, a partire dall’immediato dopoguerra, fu sistematicamente coltivata dall’egemone occidentale anglo-americano come forza dirompente per minare il potere e l’influenza sovietica nell’Europa orientale.

E all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, che ha determinato l’ascesa dell’impero globale americano, questa è stata la polarità che è stata metodicamente preparata per diventare alla fine un proxy usa e getta per i disegni imperiali che aspiravano esplicitamente a smembrare la Russia e a depredare i suoi tesori quasi illimitati di risorse naturali.

Qualsiasi argomentazione volta a contestare questa interpretazione degli eventi è palesemente errata, logicamente fallace e storicamente revisionista – ma accantonerò questo dibattito per un altro giorno.

Per il momento, il punto è che la caratterizzazione di Moeini di ciò che è accaduto dal 2014 come l’esercizio da parte dell’Ucraina di un proprio potere per attuare una strategia geopolitica contro la Russia è un tortuoso travisamento dei fatti.

La realtà è che la giunta al potere in Ucraina – innalzata a principato da intrighi imperiali – è stata astutamente sedotta per farle credere di essere l’unica in grado di diventare la punta della lancia dell’impero per uccidere, una volta per tutte, i subumani “moscoviti” che hanno a lungo dominato la riva sinistra del fiume Dnieper, la Crimea e le regioni che si affacciano sul Mar Nero.

Moeini si avvicina a riconoscere questa realtà – apparentemente senza coglierne le necessarie implicazioni:

“Praticamente tutte le alleanze di sicurezza americane oggi sono accordi asimmetrici tra gli Stati Uniti e gli equilibratori regionali – una classe di Stati regionali più piccoli e periferici che cercano di bilanciare le medie potenze dominanti nelle rispettive regioni. In quanto grande potenza, l’America possiede una capacità intrinseca di invadere altri complessi di sicurezza regionale (RSC). In questo contesto, è ragionevole che gli equilibratori regionali cerchino di attirare e sfruttare il potere americano al servizio dei loro particolari interessi di sicurezza regionale”.

Correre con il diavolo
Quello che descrive è un rapporto egemone/vassallo in cui l’impero definisce, misura e impone il quid e il quo di ogni transazione tra le parti.

Nel caso dell’Ucraina, questo patto con il diavolo prevedeva che l’impero si impegnasse a equipaggiare e addestrare una forza militare che sarebbe diventata l’avanguardia di un’audace manovra volta non solo a reclamare la Novorossija e la Crimea per l’Ucraina, ma anche a ridurre sostanzialmente la capacità militare russa; a umiliare e deporre il disprezzato Vladimir Putin e poi, come giusta ricompensa, ad assumere il posto che si supponeva spettasse loro tra le grandi nazioni d’Europa e del mondo.

Per così dire, gli emissari dell’impero hanno portato i loro prescelti aspiranti ucraini in cima a una montagna altissima, hanno mostrato loro tutti i regni del mondo e la loro gloria e hanno giurato solennemente: “Tutte queste cose ve le daremo, se cadrete e ci adorerete”.

E, senza esitare, i creduloni ucraini risposero: “Diavolo, sì! Accetteremo questo accordo!”.

Attirati dalle lusinghe insincere e dall’immaginaria bontà del premio promesso, si inginocchiarono adoranti per baciare l’anello e si accecarono volontariamente di fronte all’ineluttabile realtà che la loro portata avrebbe superato la loro presa.

Infatti, come afferma Moeini:

Fissare un obiettivo così elevato, tuttavia, significava effettivamente che Kiev non avrebbe mai potuto riuscirci senza un intervento attivo della NATO che spostasse l’equilibrio di potere a suo favore. In virtù della sua decisione, l’Ucraina, insieme ai suoi partner più stretti in Polonia e nei Paesi baltici, è diventata il classico “alleato di Troia” – Paesi più piccoli il cui desiderio di avere un peso regionale contro la media potenza esistente (la Russia) si basa sulla capacità di convincere una grande potenza esterna e la sua rete militare globale (in questo caso, gli Stati Uniti e, per estensione, la Nato) a intervenire militarmente a loro favore.

In questo paragrafo siamo accolti alla porta da un’evidente tautologia, per poi assistere al primo inequivocabile esempio dell’errore di calcolo fondamentale di Moeini – e tuttavia non suo, perché è stato l’errore di calcolo fondamentale del vangelo eccezionalista fin dalla sua genesi: il nostro doveroso autore caratterizza la Russia come una “media potenza”.

Qui sta la chiave dell’intera fallacia eccezionalista.

Approfondirò questa riflessione più avanti.

L’oggetto inamovibile
Nel frattempo, Moeini continua (corsivo mio):

Il futuro dell’Ucraina come Stato sovrano dipenderebbe ora dalla sua capacità di organizzare con successo un’escalation.

Perché è nell’interesse di Kiev indirizzare la Nato verso un maggiore coinvolgimento nella guerra.

La premessa essenziale di entrambe le frasi è falsa – assurdamente falsa. Se l’autore non sta dissimulando nel dichiararle, allora è tragicamente disinformato sulla realtà degli eventi così come si sono svolti.

L’Ucraina non è un attore principale in questo film. Sta recitando la parte del “cast di milioni”.

Questa è ed è sempre stata una lotta di potere tra l’attuale iterazione dell’impero occidentale e la sua nemesi preferita: la Russia. Questo è il contesto in cui si svolge e definisce i termini in cui si deciderà.

L'”escalation” è sempre stata un parametro essenziale del calcolo dell’impero. La dissoluzione e la vassallizzazione della Russia continentale non ha mai cessato di essere la direttiva principale. I sovrani imperiali non hanno semplicemente percepito con precisione che i russi possedevano la supremazia nell’escalation. Hanno erroneamente immaginato di essere la forza irresistibile e hanno ignorato l’evidenza storica che la Russia è l’oggetto inamovibile.

Questa realtà sempre più evidente ha ora bruscamente fatto passare la sbornia ai maestri di guerra occidentali e li ha costretti a rivalutare l’intera equazione del conflitto.

Moeini continua:

… L’Ucraina non può sconfiggere la Russia senza che la Nato combatta al suo fianco. La questione ora è se l’Occidente debba lasciarsi intrappolare in quella guerra e mettere a rischio il destino del mondo intero.

Quello che apparentemente non riesce a capire è che l’impero è già intrappolato – precariamente sospeso tra Scilla e Cariddi di una reazione bruciante o di una umiliante ritirata che manderà in frantumi per sempre il mito della supremazia militare americana e accelererà notevolmente la transizione verso la norma storica di un mondo multipolare.

Eppure egli persiste:

Nel quadro materialista della sicurezza offerto dalla maggior parte dei realisti, c’è poco di positivo per l’America e l’Europa occidentale, e certamente nessun interesse nazionale o strategico genuino, nel farsi trascinare in quella che è essenzialmente una guerra regionale in Europa orientale che coinvolge due diversi Stati nazionalisti.

<sigh>

Sono costretto a ripetere che questa NON è “essenzialmente una guerra regionale in Europa orientale che coinvolge due diversi stati nazionalisti”.

L’Ucraina non è un attore principale in questo film. Sta recitando la parte del “cast di milioni”.
Questa è ed è sempre stata una lotta di potere tra l’attuale iterazione dell’impero occidentale e la sua nemesi preferita: la Russia. Questo è il contesto in cui si svolge e definisce i termini in cui si deciderà.
Tuttavia, nel paragrafo successivo Moeini riesce ad affermare indirettamente questa prospettiva – anche se inquadra la questione ancora una volta nella mistificante ingenuità del suo costrutto “ontologico”:

Da un punto di vista ontologico, tuttavia, un establishment di politica estera anglo-americano che si “identifica” fortemente con l’unipolarismo statunitense ha investito pesantemente nel mantenimento dello status quo, impedendo la formazione di una nuova architettura di sicurezza collettiva in Europa, che sarebbe incentrata su Russia e Germania piuttosto che sugli Stati Uniti.

In altre parole, egli riconosce francamente che questa guerra ha alla base la conservazione dello status quo unipolare – o, per dirla con i termini che uso da molti mesi, questa guerra è una lotta esistenziale tra la sovranità russa e la continuità imperiale americana.

Prima di approfondire questo punto, vorrei fare una breve digressione sul vocabolario.

Moeini impiega ripetutamente il termine “ontologico” nel suo articolo. Ontologico si riferisce a una valutazione metafisica della natura e del significato dell’essere. Si riferisce al senso di identità di una persona. È astratto all’estremo, intrinsecamente soggettivo e quindi suscettibile di una marcata volatilità.

Esistenziale, invece, è un termine che si riferisce alla permanenza fisica nel tempo e nello spazio. È la vita ridotta alla sua essenza. Sebbene possa essere utilizzato in senso astratto, è fondamentalmente concreto e viene istintivamente percepito come una qualità oggettiva, soprattutto quando è minacciato dall’annientamento.

Tornando ancora una volta all’inquadramento di Moeini della politica estera anglo-americana all’interno di un costrutto ontologico, riconosco pienamente le presunte prerogative associate alle varie e vanagloriose narrazioni imperiali:

“la città splendente su una collina”

“la nazione indispensabile”

“diffusione della libertà e della democrazia”

“campione degli oppressi”

eccetera

La facciata calcolata dell’eccezionalismo americano
Naturalmente, tutte queste espressioni sono variazioni del più antico tema occidentale del “fardello dell’uomo bianco”. E tutte sono fondamentalmente scioviniste. Più significativamente, sono tutte qualità illusorie dell’impero, la cui sfrenata avarizia imperiale e ipocrisia morale sono sempre state ostacoli insuperabili alle sue pretese di santità.

In ogni caso, per quanto riguarda la politica estera imperiale, sostengo fermamente che queste pretese ontologiche non sono mai state altro che una facciata calcolata. I padroni imperiali non nutrono aspirazioni genuine di diffondere rettitudine e prosperità nel mondo. Come in tutti gli imperi in declino che hanno preceduto questo, l’élite imperiale aspira al dominio come fine in sé. È l’autocompiacimento di una supremazia indiscussa la fonte ultima di tutte le loro azioni – almeno finché l’apparato di tributi e saccheggi rimane adeguatamente intatto.

Pertanto, nel contesto di una “architettura di sicurezza collettiva” in Europa, non è stata la presunta minaccia di un dispotico espansionismo russo a motivare le azioni imperiali, ma piuttosto il pensiero che gli stessi europei avrebbero accettato un accordo di sicurezza multilaterale reciprocamente soddisfacente, per poi chiedere con fermezza che gli americani prendessero finalmente tutti i loro giocattoli militari e se ne andassero a casa.

È sempre più evidente che l’impero preferisce governare sulle ceneri e sulle macerie dell’Europa piuttosto che permettere alle nazioni che lo compongono di reclamare la propria sovranità alle proprie condizioni e per propria volontà.

Regnare vale l’ambizione, anche se all’inferno:

Meglio regnare all’inferno, che servire in paradiso.

Moeini osserva giustamente che la preoccupazione più forte dell’impero negli ultimi anni è stata la discreta avanzata della riconciliazione e della collaborazione economica russo-tedesca. Da oltre un secolo, questa prospettiva è sempre stata intesa come la più grande minaccia al dominio anglo-americano sul mondo occidentale, e quindi come uno sviluppo che deve essere arrestato prima che possa prendere slancio.

L’autore descrive poi con precisione lo stratagemma dell’impero per stroncare sul nascere la partnership russo-tedesca:

… l’establishment statunitense ha lavorato per distruggere qualsiasi possibilità di formazione di un asse Berlino-Mosca allineandosi con il blocco Intermarium di Paesi dal Baltico al Mar Nero, opponendosi ripetutamente (e minacciando apertamente) i gasdotti Nord Stream e respingendo deliberatamente l’insistenza russa su un’Ucraina neutrale.

L’ingenuità storica e la scarsa lungimiranza di questa macchinazione imperiale sono argomento di un’altra discussione. Per ora è sufficiente dire che tradisce un’abissale ignoranza delle frizioni secolari e degli allineamenti volatili delle disparate nazioni slave che compongono la regione in questione.

Come scrisse il spesso profetico Fëdor Dostoevskij durante la guerra russo-turca del 1877-1878, che contendeva la porzione meridionale dell’Intermarium:

Tra di loro, queste terre litigheranno per sempre, si invidieranno per sempre e intrideranno l’una contro l’altra”.

In ogni caso, l’impero riuscì a convincere la maggior parte dell’Intermarium a cercare la propria identità con il resto dei vassalli dell’Europa occidentale: la Polonia, l’Ucraina e i chihuahua del Baltico furono i più attratti dall’immaginaria bonanza.

Pur essendo apparentemente cieco di fronte all’inevitabile calamità per il regime di Kiev, Moeini tocca obliquamente la cinica realtà di come l’impero abbia progettato di sfruttare l’Ucraina per promuovere i propri obiettivi egemonici:

In relazione all’Ucraina, l’obiettivo iniziale di un’alleanza ideologica occidentale orientata verso “valori condivisi”, come è diventata la NATO con la dissoluzione dell’URSS, era quello di trasformare il Paese in un albatros occidentale per la Russia, di impantanare Mosca in un pantano esteso per indebolire il suo potere e la sua influenza regionale e persino di incoraggiare un cambio di regime al Cremlino.

Ancora una volta, Moeini rivela inavvertitamente la sua inclinazione verso le illusioni dei politici occidentali in relazione al loro mal concepito gioco della Madre di tutti gli eserciti per procura in Ucraina. Ma piuttosto che creare una nuova risposta a questo riferimento ai “piani meglio congegnati” dei non proprio geni del Pentagono, di Whitehall, di Langley e di Foggy Bottom, citerò alcuni paragrafi del mio primo commento su questa guerra:

Inizialmente credevo che i leader militari della NATO avessero avuto una visione sobria, con largo anticipo, del fatto che il loro esercito ucraino per procura, forte di mezzo milione di uomini, ben armato e addestrato secondo gli standard NATO, non avesse quasi nessuna possibilità di prevalere sul campo di battaglia contro la Russia.

Ma guardando i video dei droni sulle fortificazioni ucraine mi sono convinto che i cervelli militari statunitensi hanno effettivamente disprezzato l’esercito russo e i suoi comandanti nel corso degli otto anni di preparazione del campo di battaglia dell’Ucraina orientale.

La loro vanità li ha convinti che i russi si sarebbero spaccati senza motivo contro una forza trincerata e ben armata.

In effetti, erano così sicuri della genialità del loro piano che hanno incoraggiato in modo persuasivo molte centinaia di veterani della NATO, ora uccisi o catturati, a “condividere la gloria” di umiliare i russi e far cadere il regime di Putin una volta per tutte.

Si sono illusi che i russi non avessero acume strategico e logistico, una forza sufficientemente addestrata e – probabilmente il più grande errore di calcolo di tutti – scorte sufficienti di munizioni per condurre un conflitto prolungato ad alta intensità.

In breve, sono giunto a credere che i comandanti degli Stati Uniti e della NATO si siano effettivamente convinti che questa “madre di tutti gli eserciti per procura” avesse un’eccellente possibilità di battere sonoramente i russi in una battaglia situata nel loro cortile di casa.

In altre parole, hanno ignorato secoli di storia europea che, in qualche modo, si sono convinti non avessero alcuna rilevanza per le loro aspirazioni del XXI secolo di sconfiggere militarmente la Russia e di appropriarsi di un grande bottino di risorse.

Da Napoleone a Hitler fino all’amorfa entità contemporanea che ho soprannominato culto dell’Impero a tutti i costi, gli aspiranti signori imperiali hanno immaginato una Russia intellettualmente, organizzativamente, culturalmente e, soprattutto, militarmente inferiore ai suoi illuminati cugini occidentali. E in ogni caso si è dimostrato un errore di calcolo catastrofico.

Eppure eccoci di nuovo qui.

<sigh>.

Il ritorno inspiegabilmente imprevisto della guerra industriale
Moeini procede poi a rimuginare con tenerezza sulle possibilità che l’impero trovi in qualche modo un modo per strappare la vittoria dalle fauci inesorabili della sconfitta.

Per prima cosa immagina che le continue forniture di armi occidentali all’Ucraina possano congelare il conflitto in uno stato di stallo attoriale da cui si possa trarre una qualche forma di vittoria geopolitica. A quanto pare è tra coloro che sono stati stregati dai miti pervasivi di duecentomila morti russi e di migliaia di unità di armature, veicoli e artiglierie distrutte – per non parlare di una presunta impotenza e invisibilità dell’aviazione russa, la cui flotta radicalmente ridotta di antiquati velivoli di epoca sovietica è a malapena in grado di combattere; molto al di sotto dei presunti elevati standard delle leggendarie armate aeree occidentali.

Egli, come molti altri nella sovraffollata schiera di “esperti” occidentali apparentemente “prudenti e misurati”, sembra immaginare ranghi su ranghi di coscritti russi demoralizzati, sotto addestrati, sotto equipaggiati, sotto vestiti e sotto nutriti, che tremano nel gelido terrore che l’ennesimo di una serie fittiziamente inesauribile di temibili attacchi HIMARS stia per ridurre in frantumi loro e i loro emaciati compagni.

In un ultimo balzo di ridicolaggine, l’autore si sofferma sulle conseguenze di un’ulteriore escalation occidentale sotto forma di missili a più lungo raggio e di F-16 che potrebbero permettere agli ucraini di cacciare le esauste forze russe dal Donbass e persino di liberare la Crimea dai suoi occupanti russi.

Coerentemente con gli imperativi ontologici di una prospettiva radicata nell’indiscutibile giustezza e potenza imperiale, egli non riesce a concepire che un intervento diretto della NATO possa portare a una catastrofica sconfitta per mano delle “ovviamente inferiori” forze armate convenzionali russe, ma si trova solo in grado di agitarsi sulla possibilità che, per la Russia, la prospettiva di un’umiliazione militare convenzionale:

… aumenterebbe drammaticamente la probabilità di un evento nucleare, dato che Mosca considera la protezione della sua roccaforte strategica nel Mar Nero come un imperativo esistenziale.

Come ho notato sopra e altrove, in questo conflitto sono in gioco veri e propri imperativi esistenziali, sia per la Russia che per l’impero. Ma la differenza essenziale è che la Russia è entrata in questo conflitto consapevole di questa realtà e – contrariamente alle illusioni disinformate di quasi tutti in Occidente – i russi erano molto più preparati a portare avanti un conflitto convenzionale prolungato di tutti gli atrofizzati eserciti della NATO messi insieme.

E ora, dopo un anno intero della guerra europea a più alta intensità dal 1945, l’economia russa è effettivamente in assetto di guerra. Le fabbriche di armamenti dell’era sovietica sono in funzione da mesi con turni 24 ore su 24, producendo ogni tipo di armamento che l’anno precedente ha dimostrato essere il più efficace, e in quantità che i pianificatori militari occidentali possono solo sognare.

I livelli di produzione bellica russi, uniti alla mobilitazione ormai quasi matura di mezzo milione di riservisti – praticamente tutti non ancora impegnati sul campo di battaglia – proiettano lo scenario di un esercito russo sostanzialmente più potente di quello di un anno fa, e sempre più forte ogni mese che passa. Chiunque continui a credere il contrario è stato semplicemente propagandato dalla pervasiva psyop dell’intelligence occidentale che ha operato sul cinico principio che:

“Se non puoi vincere una guerra reale, vincine una immaginaria”.

Questo funziona in modo soddisfacente finché la narrazione può essere perpetuata in modo persuasivo. Ma truppe, equipaggiamenti e munizioni immaginarie non vincono le guerre reali.

Nel frattempo, tutto ciò che poteva essere caratterizzato come “eccedenza” delle scorte della NATO è praticamente esaurito. Certo, di recente sono state annunciate nuove montagne di armamenti NATO da inviare in Ucraina – centinaia di incomparabili carri armati occidentali, veicoli da combattimento per la fanteria, piattaforme mobili di artiglieria e una lunga lista di altre supposte attrezzature belliche.

L’arsenale della democrazia ha appena iniziato a mostrare i muscoli!

O almeno così si dice.

Tuttavia, a un esame più attento, la “montagna” di materiale occidentale si rivela poco più di una modesta collinetta di attrezzature per lo più antiquate, insieme a quantità tristemente insufficienti di munizioni aggiuntive.

A peggiorare le cose, nelle settimane successive, ciò che inizialmente era stato pubblicizzato come centinaia di carri armati principali è diventato solo qualche decina, la maggior parte dei quali è da tempo fuori servizio e necessita di riparazioni approfondite per essere in grado di combattere.

L'”arsenale della democrazia” non è un muscolo massiccio che aspetta di essere flesso agli occhi di un pubblico globale facilmente scioccato e stupito. È un miraggio.

Come ho descritto la situazione in un succinto commento pubblicato tre settimane fa:

L’esercito statunitense non è costruito né equipaggiato per un conflitto prolungato ad alta intensità. Né può fornire a un esercito per procura esaurito i mezzi per portare avanti un conflitto prolungato ad alta intensità.

La realtà incontrovertibile è che gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO non sono attualmente in grado di fornire le massicce richieste materiali della moderna guerra industriale, come il tenente colonnello (in pensione) Alex Vershinin ha articolato così bene in questa fondamentale analisi del giugno 2022: Il ritorno della guerra industriale.

Eppure, nelle discussioni pubbliche su una potenziale guerra si sentono sempre voci convinte che, proprio come nella Seconda guerra mondiale, l’industria statunitense potrebbe rapidamente aumentare la produzione di armamenti di qualità superiore e in quantità spropositate.

Questo alletta i pregiudizi degli eccezionalisti americani in generale, ed è una fantasia particolarmente seducente dei droni del culto #EmpireAtAllCosts che fanno propaganda per i loro sporchi guadagni presso gli innumerevoli “think tank” finanziati dall’industria degli armamenti a Washington e Londra.

Ma l’idea che l’impero in rapido declino possa resuscitare la banda dell’Arsenale della Democrazia per un ultimo tour d’addio è una vanità singolarmente delirante.

Infatti, nonostante il suo massiccio saccheggio delle finanze pubbliche, l’industria degli armamenti statunitense è di fatto una boutique di fascia alta di dimensioni modeste.

Costruire la bestia perfetta
Ancora più significativo è il fatto che, in uno sviluppo che io e molti altri abbiamo previsto da diversi anni – di fronte al ridicolo quasi universale, aggiungerei – la serie apparentemente infinita di errori dell’impero guidati dall’arroganza ha rapidamente accelerato la formazione di quella che è senza dubbio la più potente alleanza militare/economica/geostrategica dei tempi moderni: l’asse tripartito di Russia, Cina e Iran.

Nella sua maldestra e miope mossa di ostacolare il tanto temuto riavvicinamento russo-tedesco – incomprensibilmente costellato dal sabotaggio dei gasdotti Nordstream alla fine di settembre del 2022 – l’impero è riuscito sorprendentemente a passare dalla padella di una guerra per procura regionale contro la Russia alla brace di un conflitto globale che tutti e tre i suoi avversari, in costante rafforzamento, considerano ormai esistenziale.

A mio parere, questa è quasi certamente la serie di errori geopolitici più inspiegabile e portentosa della storia registrata.
Per il momento, i combattimenti rimarranno confinati in Ucraina. Ma l’intero aspetto di questa guerra è stato irreversibilmente modificato.

L’insicurezza ontologica va in guerra
Moeini procede poi con una prolissità tendenziosa sulle costrizioni dell'”insicurezza ontologica” sotto la quale l’impero e i suoi vassalli, fino ad allora accuratamente indottrinati, si trovano ora a lavorare, poiché la Russia ha agito in diretta violazione dei dettami dell'”ordine internazionale basato sulle regole”.

Adotta un’affettazione da “vero credente” quasi hofferiano quando caratterizza l’America come una “grande potenza ideologica”. In un’estasi manichea, afferma implicitamente che la grandezza dell’attuale ordine egemonico è un prodotto diretto dell'”umanitarismo e del democratismo” che egli immagina essere al suo centro.

Si lamenta della sua convinzione che la “spinta all’escalation” derivi direttamente da una Russia imperdonabilmente aggressiva che ha interrotto il “senso unificato di ordine e continuità nel mondo”.

Conclude poi con questo notevole slancio retorico:

Mentre iniziamo il secondo anno di guerra, molti a Washington si sono finalmente resi conto che l’esito probabile di questa tragedia è lo stallo: “Continueremo a cercare di convincere [la leadership ucraina] che non possiamo fare tutto e niente per sempre”, ha detto questa settimana un alto funzionario dell’amministrazione Biden. Per quanto si parli di agenzia ucraina, questa dipende interamente dall’impegno della NATO a continuare a sostenere lo sforzo bellico di Kiev a tempo indeterminato. Un desiderio così massimalista di “vittoria completa” non solo è altamente distruttivo e fa pensare a un’altra guerra infinita, ma è anche imprudente; il suo stesso successo potrebbe scatenare un olocausto nucleare.

Mosca ha già pagato a caro prezzo le sue trasgressioni in Ucraina. Prolungare la guerra a questo punto, in una ricerca ideologica di vittoria totale, è discutibile sia dal punto di vista strategico che morale. Per molti internazionalisti liberali in Occidente, la richiesta di una “pace giusta” che sia sufficientemente punitiva per la Russia suggerisce poco più di un desiderio poco velato di imporre a Mosca una pace cartaginese. L’Occidente ha effettivamente ferito la Russia; ora deve decidere se lasciare che questa ferita si incancrenisca e faccia esplodere il mondo intero. Infatti, a meno che a Mosca non venga fornita una ragionevole via d’uscita che riconosca lo status della Russia come potenza regionale con i propri imperativi esistenziali di sicurezza strategica e ontologica, questo è il precipizio verso cui ci stiamo dirigendo.

È un’incapsulazione mozzafiato delle trasgressioni analitiche di questa espressione archetipica dell’eccezionalismo imperiale americano.

Mi soffermerò sulle più degne di nota:

Il “probabile risultato” di questa guerra non è lo “stallo”. Piuttosto, lo scenario quasi certo è che la Russia annienti effettivamente la forza militare ibrida NATO/Ucraina che si aggrappa all’esistenza lungo l’attuale linea di contatto, per poi dettare nuovi confini coerenti con la concezione russa di una soddisfacente “profondità strategica”.

L’idea che gli Stati Uniti e la NATO possano “continuare a sostenere lo sforzo bellico di Kiev all’infinito” è una presunzione delirante. Come ho scritto sopra e altrove:

L’esercito statunitense non è costruito né equipaggiato per un conflitto prolungato ad alta intensità. Né può fornire a un esercito per procura esaurito i mezzi per portare avanti un conflitto prolungato ad alta intensità.

L’aumento del grado di intervento degli Stati Uniti in questa guerra non è sconsiderato perché rischia di mettere i russi in un angolo da cui si sentiranno costretti a usare le armi nucleari, ma piuttosto perché, di fronte alle catastrofiche perdite della NATO sul terreno e nell’aria in un conflitto convenzionale, il governo degli Stati Uniti potrebbe trovarsi così disperatamente umiliato da cedere alle lusinghe del culto dell’Impero a tutti i costi per lanciarsi coraggiosamente nell’abisso nucleare.

Il persistente mito della debolezza russa
Moeini immagina che “Mosca abbia già pagato un prezzo elevato per le sue trasgressioni in Ucraina”.

Certo, la Russia ha subito delle perdite in questa guerra. Sommando tutte le principali componenti dello sforzo militare russo finora (regolari russi, milizia del Donbass, PMC di Wagner e reggimenti di volontari ceceni), è molto probabile che i russi abbiano subito fino a venticinquemila morti e il doppio di feriti.

Dall’altro lato della bilancia, è ormai quasi certo che le Forze Armate ucraine abbiano subito oltre duecentomila morti e almeno il doppio di feriti irrecuperabili.

È l’Ucraina che ha pagato a caro prezzo le trasgressioni dell’impero nel suo inutile tentativo di ferire mortalmente la Russia!

Utilizzando per un anno intero una risoluta strategia di “economia della forza” – sia in fase offensiva che difensiva – i russi hanno ottenuto il rapporto di vittime più sproporzionato di qualsiasi altra grande guerra dei tempi moderni.

Contrariamente alle allucinazioni propagandistiche della stragrande maggioranza degli analisti militari occidentali – e di un numero sorprendentemente elevato di critici russi di Putin, del Cremlino e del Ministero della Difesa russo – rimango fermamente convinto che i futuri storici e professori di guerra acclameranno l’ultimo anno di operazioni militari russe come la più impressionante campagna di combattimento urbano su larga scala mai vista. Sarà studiata con ammirazione per i secoli a venire.

Nel frattempo, circa mezzo milione di effettivi russi rimangono non impegnati nel teatro – un misto di veterani della battaglia e riserve mobilitate. Sono stati abbondantemente equipaggiati con i migliori blindati, veicoli e potenza di fuoco mai messi in campo da parte russa in questa guerra.

Oltre 700 aerei ad ala fissa e rotante sono dislocati a breve distanza dal fronte.

La produzione di armamenti russi ha dimostrato che tutti i think tank imperiali si sbagliavano. Hanno mobilitato la loro latente ma massiccia capacità produttiva in misura così impressionante che l’Occidente impiegherebbe almeno cinque anni, e più probabilmente un decennio, per “recuperare”.

La verità senza mezzi termini è che gli Stati Uniti e la NATO semplicemente non possono vincere questa guerra e sicuramente non la vinceranno.

Il momento di maggior pericolo
Moeini conclude il suo trattato affermando che “a meno che a Mosca non venga fornita una ragionevole via d’uscita che riconosca lo status della Russia come potenza regionale con i propri imperativi esistenziali di sicurezza strategica e ontologica”, il mondo si trova sull’orlo di un olocausto nucleare.

Egli teme giustamente una calamità nucleare, ma attribuisce erroneamente la fonte del rischio.

È l’impero che a questo punto ha un disperato bisogno di un’uscita di sicurezza. I potentati imperiali si sono immaginati un mondo in cui comandano l’unica “grande potenza” del pianeta. Nel liquidare con disinvoltura la forza relativa delle potenze civilizzate che hanno trasformato in nemici mortali – Russia, Cina e Persia – hanno ora consegnato la civiltà occidentale a una crisi ontologica ed esistenziale di loro stessa creazione.

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La guerra in Ucraina e la sicurezza europea, di Zachary Paikin

La guerra in Ucraina e la sicurezza europea: quanto è duratura la strategia americana?
QUINCY BRIEF NO. 39
25 APRILE 2023 23 min lettura

SCRITTO DA
Zachary Paikin
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Sintesi
Introduzione
I rischi della previsione
Sanzioni – a quale scopo?
Definire la vittoria
Il posto della Russia in Europa
Conclusioni e raccomandazioni
Sintesi
A più di un anno dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il morale degli Stati Uniti e dei suoi alleati occidentali appare alto.1 Spronati all’azione dall’atto di aggressione di Mosca, la NATO appare più unita, l’UE sembra essere diventata un attore geopolitico più importante e l’Ucraina ha resistito e respinto l’assalto russo in una misura che pochi inizialmente pensavano possibile. L’amministrazione Biden è finora riuscita lodevolmente a incrementare l’assistenza a Kiev senza confrontarsi direttamente con Mosca.

Se l’attuale politica degli Stati Uniti nei confronti della Russia e dell’Ucraina può essere sostenibile per qualche tempo, ciò non significa che non finirà mai la strada.

Tuttavia, anche se l’attuale politica degli Stati Uniti nei confronti della Russia e dell’Ucraina può essere sostenibile per qualche tempo, ciò non significa che non finirà mai la strada. Le sanzioni contro la Russia – una delle principali economie globali – sono state aumentate a un livello mai visto prima, ma non sono state efficaci nel costringere Mosca a cambiare rotta. Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno ancora trovato un accordo su quello che ritengono un finale di guerra accettabile. Grande potenza o meno, la Russia rimarrà un attore popoloso, potente e potenzialmente dirompente in Europa. Senza proporre in modo chiaro e credibile politiche in grado di abbassare la temperatura, e senza iniziare a prevedere come potrebbe essere un futuro ordine di sicurezza europeo, gli Stati Uniti rischiano di prolungare il conflitto, con conseguenze potenzialmente imprevedibili se la stanchezza popolare per la guerra continuerà a crescere.

Oltre al continuo sostegno all’Ucraina, proposte diplomatiche accuratamente elaborate possono rendere più prevedibile l’esito della guerra, ridurre il rischio di escalation e stabilizzare la rivalità tra Stati Uniti e Russia. Anche se la finestra per perseguirle potrebbe non aprirsi prima della fine dell’anno, il momento per iniziare i preparativi è adesso. In particolare, l’amministrazione Biden dovrebbe

– Segnalare la propria disponibilità a rivitalizzare il principio della sicurezza indivisibile nell’area euro-atlantica, per garantire che le preoccupazioni in materia di sicurezza di tutti gli attori regionali siano ascoltate in modo equo.

– Coordinarsi con gli alleati per comunicare proposte di alleggerimento delle sanzioni in cambio di un disimpegno graduale delle forze russe a seguito di un cessate il fuoco, che porterebbe a un processo politico a più lungo termine per risolvere l’integrità territoriale dell’Ucraina, creando al contempo lo spazio necessario per concentrarsi sulla discussione delle garanzie di sicurezza per tutte le parti.

– Costruire la fiducia sviluppando proposte ad hoc per il controllo degli armamenti nel continente, per controbilanciare l’attuale dinamica di aumento della produzione militare-industriale per un’era di nuova guerra interstatale in Europa.

Introduzione
Un anno fa, gli Stati Uniti e i loro alleati europei si sono uniti per attuare sanzioni coordinate e di ampia portata in risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Da allora, la storia che gli Stati Uniti hanno potuto raccontare a se stessi è stata in gran parte positiva. La NATO ha riscoperto il suo scopo dopo decenni di incertezza post-Guerra Fredda sul suo ruolo in un ambiente internazionale cambiato. A marzo, gli alleati di Washington e i partner dell’UE hanno adottato la loro Bussola strategica, che rappresenta la prima valutazione collettiva della minaccia intrapresa dagli Stati membri dell’organizzazione. A giugno si è verificata una pietra miliare con l’offerta dello status di Paese candidato all’UE all’Ucraina e alla Moldavia, cosa che non sarebbe avvenuta se non ci fosse stata la guerra. Lo scorso autunno, grazie alla crescente assistenza militare occidentale, le forze ucraine hanno lanciato una controffensiva di successo contro l’esercito russo e hanno riconquistato Kherson.

Ma un anno dopo, la domanda persistente è quanto a lungo gli Stati Uniti potranno sostenere questa strategia. L’attuale percorso sembra abbastanza robusto da resistere alle pressioni per un certo periodo di tempo in almeno tre aspetti – l’imposizione di sanzioni economiche, la definizione di una partita finale accettabile e la risoluzione delle questioni in sospeso relative alla sicurezza paneuropea – ma a un certo punto potrebbe esaurirsi. L’insieme di questi ostacoli suggerisce che un’opportunità per introdurre dinamiche più de-escalatorie nel conflitto potrebbe e dovrebbe essere trovata prima della fine del 2023 – se gli Stati Uniti decideranno di agire in tal senso.

I rischi della previsione
Alcuni dei fattori che determinano la sostenibilità dell’approccio statunitense all’Ucraina si basano su eventi che sono pericolosamente difficili da prevedere. L’esito di una guerra si basa non solo sull’equilibrio delle forze, sugli armamenti e sulla strategia, ma anche su fattori più intangibili come lo slancio e la determinazione. Può darsi che l’Ucraina abbia già acquisito uno “slancio irreversibile”, come afferma il generale americano in pensione Ben Hodges.2 In alternativa, la parziale mobilitazione militare della Russia può contribuire a impedire ulteriori sostanziali guadagni ucraini e a gettare le basi per un’inversione di tendenza.

Anche la situazione interna di tutte le parti coinvolte è difficile da prevedere. Nessuno può dire se o quando si raggiungerà un punto di svolta nel sostegno popolare all’attuale politica statunitense. Tale punto di svolta potrebbe essere il risultato della “stanchezza da Ucraina”, oppure potrebbe arrivare a causa di sfide geopolitiche più pressanti che emergono in altri teatri. Le tendenze recenti indicano che gli americani sono sempre più divisi sulla guerra, con il sostegno bipartisan degli elettori che si è chiaramente eroso dall’inizio della guerra3.

Nel caso della Russia, si potrebbe far riferimento ai costi crescenti della guerra in termini di perdite militari e danni economici e quindi immaginare che il sostegno a Putin possa crollare, se non nella popolazione in generale, almeno all’interno dell’élite. Ma anche in questo caso, individuare o calcolare quando ciò possa accadere è estremamente difficile. Nell’estate del 1991 il crollo completo dell’Unione Sovietica nelle sue 15 repubbliche costitutive nel giro di pochi mesi non era considerato l’esito più probabile. Anche oggi la situazione potrebbe cambiare rapidamente: Putin potrebbe sparire entro l’anno prossimo, oppure potrebbe rimanere al potere per molti anni a venire.

La difficoltà di fare previsioni favorisce la continuazione di una dinamica nelle relazioni tra Russia e Occidente che è in gioco da molti anni: Ovvero, ciascuna parte crede che il tempo sia dalla sua parte e sottovaluta la potenziale resistenza dell’altra. Anche se non ha creato questa dinamica, la guerra è servita solo a rafforzarla. Molti in Occidente si sono profondamente convinti che non ci potrà essere un ordine di sicurezza cooperativo in Europa finché Putin resterà al Cremlino, così come Putin ha chiaramente affermato di considerare l’Occidente sovranazionale e decadente come destinato a fallire a causa delle sue presunte anomalie politiche e culturali4.

Ciascuna delle due parti ritiene che il tempo sia dalla sua parte e sottovaluta la potenziale capacità di recupero dell’altra.

Riporre le proprie speranze in un cambiamento di regime in Russia come panacea è una scommessa altamente incerta. Mentre alcuni in Occidente fantasticano sulla caduta di Putin o addirittura sul collasso della Russia stessa, lo scenario più probabile è che la Russia continuerà a esistere governata da Putin o da un successore all’interno del regime, il cui spazio di manovra sarà limitato da fattori politici interni o, peggio, che potrebbe essere più naturalmente predisposto ad abbracciare il nazionalismo e il revanscismo di Putin.

Ma il Cremlino non può pensare automaticamente di poter semplicemente aspettare gli Stati Uniti. Un nuovo inquilino della Casa Bianca potrebbe cercare di cambiare rotta, allontanandosi dai problemi dell’Europa e concentrandosi invece sulla sfida di una Cina in ascesa. Ciò avverrebbe soprattutto se una guerra prolungata che si protrae fino al 2024 diventasse una questione politica nelle prossime elezioni presidenziali. Tuttavia, un cambio del presidente in carica non produrrà necessariamente un cambiamento radicale nella politica statunitense, dati i vari disaccordi tra Washington e Mosca che esistevano durante l’amministrazione Trump su questioni come il trattato INF e la Siria.

Gli Stati Uniti hanno combattuto diverse lunghe guerre nella storia recente, tra cui Vietnam, Afghanistan e Iraq. Sebbene la stanchezza accumulata da queste guerre possa favorire una politica estera statunitense più contenuta, le forze americane non stanno combattendo direttamente in Ucraina e l’economia statunitense non è stata colpita in modo particolare da questa guerra. E dato che la politica estera degli Stati Uniti nel periodo successivo alla Guerra Fredda è stata orientata verso una forma di supremazia globale (vale a dire, il mantenimento dello status di Washington come potenza preminente in tutti i principali teatri geostrategici del pianeta), è più probabile che un presidente “America first” cerchi di sfruttare la crescente dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti piuttosto che abbandonarla per perseguire un più completo pivot verso l’Asia. L’insieme di questi fatti suggerisce che la strategia statunitense è notevolmente resistente – e probabilmente lo rimarrà se rimarrà concentrata sugli sviluppi sul campo di battaglia e sulla formazione delle scelte di politica estera della Russia, piuttosto che sulla determinazione degli eventi all’interno della Russia stessa.

Detto questo, nell’approccio statunitense alla Russia permangono tre debolezze specifiche, ognuna delle quali minaccia di manifestarsi più chiaramente – e più pericolosamente – con il protrarsi della guerra. Si tratta della capacità del regime di sanzioni occidentali di influenzare le azioni della Russia, della sfida di produrre un endgame adeguato sul campo di battaglia e della difficoltà di trovare un posto per Mosca nel tessuto di sicurezza continentale dopo la guerra.

Sebbene queste tre tendenze non incidano immediatamente sulla capacità di Washington di mantenere l’attuale rotta, esse rischiano comunque di provocare una pericolosa escalation del conflitto nel peggiore dei casi. Nel migliore dei casi, renderanno più difficile costruire qualcosa che si avvicini a un ordine di sicurezza europeo stabile una volta che la polvere di questa guerra si sarà posata. Un’Europa perennemente instabile minaccia la libertà di manovra degli Stati Uniti nel lungo periodo, quando si tratta di elaborare una grande strategia agile, rendendo meno probabile che le azioni occidentali in Ucraina servano a scoraggiare non solo la Russia oggi, ma anche la Cina domani.

Sanzioni – a che scopo?
La prima questione riguarda la logica alla base della campagna di sanzioni occidentali contro la Russia.

I primi cicli di sanzioni imposti dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si sono spinti più in là di quanto molti si aspettassero, prendendo di mira persino la banca centrale russa. Putin probabilmente si aspettava che una rapida vittoria in Ucraina, abbinata a una gestione economica esperta in patria e all’avversione al rischio di un’economia tedesca dipendente, avrebbe risparmiato alla Russia la maggior parte delle sofferenze economiche.

La guerra di Putin non è andata secondo i piani e i Paesi occidentali hanno dimostrato maggiore unità e determinazione di quanto alcuni osservatori si aspettassero. Di conseguenza, l’impatto delle sanzioni occidentali sull’economia e sulla macchina da guerra russa è stato significativo. Mentre la Russia consuma le sue scorte di armi, i divieti di esportazione sui semiconduttori e sui beni a doppio uso hanno almeno in parte indebolito lo sforzo industriale russo per sostenere le sue truppe, con un impatto diretto sulla situazione sul campo di battaglia.6 A prescindere dalla capacità della Russia di aumentare la produzione e di mettere la sua economia in condizioni di guerra, si può presumere che l’acquisizione di droni iraniani o di munizioni nordcoreane non fosse in cima alla lista dei desideri di una presunta grande potenza all’inizio di questa guerra.

Detto questo, nonostante la loro crescente forza per tutta la durata della guerra, le misure restrittive dell’Occidente non sono riuscite a cambiare il comportamento della Russia in politica estera o a scoraggiare Mosca dal continuare a perseguire i suoi obiettivi militari in Ucraina, come in effetti è avvenuto dall’intervento iniziale della Russia nel 2014. Sebbene le sanzioni rappresentino indubbiamente un onere per il bilancio statale russo – e quindi possano costringere il regime a ridurre le politiche sociali popolari – non hanno rappresentato lo scenario economico apocalittico che molti avevano previsto, con l’economia russa che si è contratta solo del 3 o 4 percento circa nel 20227.

Nonostante la loro crescente forza per tutta la durata della guerra, le misure restrittive dell’Occidente non sono riuscite a cambiare il comportamento della Russia in politica estera o a scoraggiare Mosca dal continuare a perseguire i suoi obiettivi militari in Ucraina.

Un approccio basato sul bastone e non sulla carota ha in definitiva ridotto l’influenza di Washington, a prescindere dall’impressionante livello di coordinamento e unità degli alleati. Una volta imposte, le sanzioni possono essere estremamente difficili da revocare: basti pensare all’emendamento Jackson-Vanik del Congresso, approvato nel 1974 e rimasto in vigore fino al 2012 nonostante la transizione politica post-sovietica della Russia.

La chiara definizione delle condizioni di revoca delle sanzioni (ad esempio, se la Russia soddisfa determinate condizioni nel contesto di un accordo negoziale) è fondamentale per la loro efficacia. Di conseguenza, anziché limitare le opzioni di Putin, il modo in cui è stata portata avanti la campagna di sanzioni ha incoraggiato la Russia a intensificare il conflitto. Nell’attuale clima politico, è difficile immaginare che i sostenitori di una riduzione della campagna di massima pressione avranno molto successo. Questo è vero non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa: Sebbene basti un solo Stato membro dell’UE per porre il veto al rinnovo delle sanzioni, i governi euroscettici come quello ungherese sembrano più interessati a usare la mera minaccia di un veto per assicurarsi il mantenimento dell’accesso ai fondi strutturali dell’UE.8 L’attuale assenza di un’uscita realistica dalla campagna di sanzioni complicherà senza dubbio gli sforzi, per quanto graduali, per costruire un nuovo ordine di sicurezza europeo dopo la guerra.

Inoltre, a prescindere dal fatto che le sanzioni riusciranno a indebolire l’economia e le capacità militari della Russia nel medio-lungo termine, esse fanno ben poco per affrontare la pericolosa e imprevedibile scala di escalation che si sta verificando in questo momento. Per esempio, in reazione alle perdite sul campo di battaglia, la Russia potrebbe ricorrere a capacità che finora sono rimaste in disparte, rendendo la vita più difficile all’Ucraina e forse anche prendendo di mira o interdicendo beni statunitensi e alleati. Dato che le sanzioni richiedono diversi mesi o addirittura anni per essere pienamente applicate, una strategia che ha privilegiato l’imposizione dei costi rispetto a un sostegno più attivo per una via d’uscita diplomatica nei primi mesi della guerra ha contribuito a una logica che favorisce uno stallo prolungato.

Se le sanzioni non sono riuscite a dissuadere l’aggressione russa e i loro effetti più importanti non si faranno sentire per qualche tempo, è difficile evitare la deduzione che uno dei loro obiettivi più immediati sia stato quello di destabilizzare il sistema di élite della Russia – se non il regime russo stesso. Quest’ultima opzione presenta evidentemente un rischio di escalation significativo (anche se non conoscibile), data la posta in gioco esistenziale per Putin. Sanzionare l’élite russa, da parte sua, non è una panacea. Il comune ritornello occidentale secondo cui la Russia è una cleptocrazia – una “stazione di servizio mascherata da Paese”, per citare il defunto senatore statunitense John McCain – si presta a far credere che sanzionare l’élite economica possa indurre Putin a subire immense pressioni e a cambiare il suo comportamento in politica estera.9 La logica di questa affermazione è palesemente assurda: non si può credere che la Russia ritiri le sue forze dall’Ucraina e modifichi radicalmente i suoi obiettivi geostrategici solo a causa delle restrizioni imposte a una manciata di uomini ricchi.10

Contrariamente a quanto si crede, il potere politico in Russia non è principalmente appannaggio degli uomini d’affari. L’influenza di quest’ultimo gruppo è stata deliberatamente ridotta – anche se il loro potere economico è rimasto intatto – come mezzo per stabilizzare la scena politica russa dopo i caotici anni Novanta.11 Tagliare loro l’accesso all’Occidente li rende più dipendenti dal Cremlino, soprattutto perché si contendono i beni lasciati dal ritiro occidentale dal mercato russo.

Le speranze iniziali che lo sforzo bellico russo si rivelasse massicciamente impopolare in patria sono state in gran parte deluse, nonostante la persistenza di varie sacche di malcontento. Il lungo impegno militare in Ucraina, unito alla percezione che il popolo russo sia stato ingiustamente preso di mira per azioni militari di cui non era responsabile, ha creato le condizioni in cui il regime può favorire l’effetto “raduno intorno alla bandiera”.

La chiara articolazione delle condizioni di revoca delle sanzioni (ad esempio, se la Russia soddisfa determinate condizioni nel contesto di un accordo negoziale) è fondamentale per la loro efficacia.

Anche se occasionalmente hanno prodotto successi politici come il JCPOA, le sanzioni massicce e le campagne di isolamento non hanno indotto cambiamenti politici in Iran, Corea del Nord, Venezuela e Cuba; questo rende difficile vedere come le sanzioni potrebbero influenzare un cambiamento profondo in Russia. Proprio come la Russia, gli Stati presi di mira dalle sanzioni negli ultimi anni hanno dimostrato la volontà di assorbire i costi per perseguire quelli che considerano i loro interessi fondamentali. Sebbene si possano ancora compiere sforzi per massimizzare l’impatto delle sanzioni esistenti, almeno un aspetto fondamentale dell’approccio statunitense (e occidentale) nei confronti della Russia potrebbe aver raggiunto il limite della sua efficacia, soprattutto per quanto riguarda la capacità di plasmare le percezioni e le azioni della Russia. Si può sanzionare l’avversario solo fino a un certo punto e, una volta colti i frutti più bassi, ulteriori misure possono avere un rendimento decrescente.

Le varie misure che oggi esistono per navigare in canali a prova di sanzioni, se combinate con l’interesse personale che Putin ha investito in questa guerra, suggeriscono che le sanzioni hanno dei limiti quando si tratta di costringere gli avversari.12 Ciò solleva la questione di quale sia il finale della guerra che queste sanzioni mirano a facilitare.

Definire la vittoria
Ufficialmente, la posizione degli Stati Uniti è quella di sostenere l’Ucraina “fino a quando sarà necessario” – esternando di fatto a Kiev la decisione su quando i combattimenti dovranno cessare.13 L’espressione “fino a quando sarà necessario” è evidentemente vaga, e nasconde la misura in cui gli interessi statunitensi e ucraini possono divergere. Tuttavia, mentre Washington potrebbe essere disposta a calibrare il livello di assistenza che fornirà a Kiev in futuro, non ha ancora mostrato il desiderio di prevedere una data di fine delle ostilità14.

L’Ucraina è comprensibilmente preoccupata che la Russia possa essere rafforzata da qualsiasi concessione territoriale. Un cessate il fuoco non implicherebbe certo la risoluzione delle relazioni politiche tra Russia e Ucraina, ma c’è il rischio, per quanto basso, che se la Russia subisse una significativa battuta d’arresto militare, Putin inasprirebbe ulteriormente il conflitto, magari utilizzando anche armi non convenzionali. Un atto del genere costringerebbe probabilmente gli Stati Uniti e i loro alleati a rispondere in qualche modo, sia con un massiccio attacco informatico sia con un attacco convenzionale diretto alle forze russe, dato che un nuovo ciclo di sanzioni si rivelerebbe evidentemente insufficiente. Ne deriverebbe probabilmente un confronto diretto tra la NATO e la Russia, cosa che gli Stati Uniti cercano attualmente di evitare.

Se da un lato l’Ucraina vuole evidentemente il massimo sostegno occidentale possibile per ripristinare la propria integrità territoriale e rafforzare la propria posizione in vista di futuri negoziati, dall’altro gli Stati Uniti e i loro alleati devono preoccuparsi della propria sicurezza. Una vittoria russa in questa guerra, comunque definita, metterebbe certamente a rischio le norme consolidate dell’ordine di sicurezza europeo. Ma anche una vittoria ucraina inequivocabile comporta rischi per la sicurezza. Un conflitto prolungato, da parte sua, rischia di coinvolgere Washington in un conflitto militare su due fronti se le relazioni tra Stati Uniti e Cina continueranno a deteriorarsi.

Ad oggi, gli Stati Uniti non hanno articolato una precisa strategia finale, consentendo loro di mantenere un certo grado di flessibilità al mutare delle condizioni sul campo di battaglia. Questo ha permesso a Washington di aumentare la pressione contro Mosca nella misura in cui lo ritiene sicuro e necessario. Tuttavia, questa mancanza di chiarezza può anche essere problematica. Sostenuta dai successi iniziali dell’Ucraina nel resistere all’assalto russo, l’amministrazione Biden ha inquadrato questo conflitto in termini massimalisti, sostenendo che è in gioco non solo la sovranità ucraina, ma anche l'”ordine internazionale basato sulle regole” in generale.15 La logica deduzione è che qualsiasi cosa al di sotto della liberazione di tutto il territorio ucraino sovrano – o, per lo meno, di tutto il territorio detenuto prima del 24 febbraio 2022 – rappresenterebbe una sconfitta inaccettabile.

Lasciando da parte termini come “ordine internazionale basato su regole”, che possono essere deliberatamente opachi, la realtà è che attualmente sono in discussione diverse norme distinte.16 Queste includono la sovranità dell’Ucraina, la sua integrità territoriale e il suo diritto all’autodeterminazione nazionale (alcuni potrebbero interpretare quest’ultimo come l’aspirazione ad aderire a organismi occidentali come la NATO e l’UE).

Forse questa guerra non avrebbe potuto essere evitata, data l’ossessione di Putin per l’Ucraina.17 Ma qualsiasi accordo teorico che Mosca e le capitali occidentali avrebbero potuto concordare per evitare la guerra avrebbe preservato la sovranità dell’Ucraina, limitando al contempo la sua capacità di entrare a far parte delle istituzioni occidentali (la sua integrità territoriale sarebbe rimasta intatta, ad eccezione della Crimea e del Donbas orientale). L’Ucraina ha vinto la lotta per la propria sovranità nelle prime settimane dell’invasione su larga scala da parte della Russia. Detto questo, l’integrità territoriale dell’Ucraina è stata ulteriormente compromessa e la sua adesione alla NATO appare improbabile nel prossimo futuro. E sebbene all’Ucraina sia stato riconosciuto lo status di Paese candidato all’adesione all’UE, la piena adesione rimane lontana anni, se non decenni.

Se l’Ucraina non è in grado di riprendere tutto il suo territorio con la forza, forse la vittoria dell’Ucraina non dovrebbe essere vista in termini territoriali, ma piuttosto in relazione alla possibilità di sopravvivere come Stato sovrano e vitale, in grado di tracciare un percorso verso un futuro “europeo”. Anche se non si tratta di un parallelo perfetto, data la diversa situazione geopolitica dell’Europa all’epoca, la Finlandia ha mantenuto la propria sovranità dopo la Seconda guerra mondiale ed è diventata una democrazia prospera e ben posizionata per entrare nell’UE, nonostante sia stata costretta a cedere il territorio all’URSS. Lo sviluppo di un elevato tenore di vita e di una governance democratica sono stati i fattori critici che hanno permesso a Helsinki di entrare a far parte della comunità occidentale, il che suggerisce che per Kiev la lotta più importante è quella per garantire lo stato di diritto, promuovere istituzioni statali funzionali e perseguire riforme chiave piuttosto che riconquistare tutto il territorio. Questi compiti essenziali diventeranno tanto più difficili quanto più a lungo persisterà la guerra.

Se l’Ucraina non può riconquistare tutto il suo territorio con la forza, forse la vittoria per l’Ucraina non dovrebbe essere vista in termini territoriali, ma piuttosto rispetto alla possibilità di sopravvivere come Stato sovrano e vitale, in grado di tracciare un percorso verso un futuro “europeo”.

Oggi ci sono poche basi per una soluzione negoziata. La Russia continua a insistere sulla capitolazione dell’Ucraina alle sue richieste (certamente amorfe e mutevoli), mentre l’Ucraina crede di poter riprendere militarmente tutto il suo territorio. Ognuno ritiene che la posizione dell’altro sarà alla fine minacciata per puro esaurimento di uomini, risorse o volontà politica – e che il tempo è quindi dalla sua parte. Tuttavia, se diventa chiaro che nessuna delle due parti sarà in grado di realizzare pienamente i propri obiettivi politici e militari, l’integrità territoriale dell’Ucraina potrebbe dover essere risolta attraverso un processo politico differito.18 Se l’attuale ritmo degli eventi non porta ai risultati desiderati per nessuna delle due parti, e nessuna delle due è disposta ad accettare una situazione di stallo a causa della retorica esistenziale presente da tutte le parti, allora potrebbe prospettarsi una scala di escalation pericolosa e forse incontrollabile. Questo non solo metterebbe a rischio la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei, ma complicherebbe anche gli sforzi per stabilizzare la situazione fino a un punto in cui un nuovo ordine di sicurezza europeo possa essere gradualmente – anche se imperfettamente – costruito.

Anche per quanto riguarda la dimensione globale del conflitto, la vittoria non è assicurata per l’Occidente. In effetti, la risposta dell’Occidente alla guerra potrebbe perversamente ridurre il sostegno globale per l'”ordine basato sulle regole” che sostiene di difendere. Questo va al di là del fatto che gli Stati non occidentali si risentono del fatto che le preoccupazioni dell’Occidente siano considerate universali, quando la stessa cortesia non viene estesa a loro.19 Potenze come la Cina, che temono di diventare le prossime vittime delle sanzioni occidentali, potrebbero non essere dissuase dal perseguire i loro obiettivi strategici fondamentali (ad es, La confisca dei beni privati dei cittadini russi, sebbene forse moralmente giustificata, potrebbe anche indurre alcuni a mettere in dubbio l’imparzialità del sistema giuridico occidentale.

Inquadrare la guerra come una lotta senza quartiere tra democrazia e autoritarismo (piuttosto che come uno sforzo contingente per difendere la sovranità di un Paese) ha incoraggiato molti Paesi del Sud globale a rimanere in disparte, favorendo al contempo un atteggiamento occidentale non sufficientemente attento all’impatto deleterio della guerra sui Paesi non occidentali. Di conseguenza, non solo l’Occidente non è riuscito a riunire una coalizione globale per vincere la lotta contro la Russia, ma l’apparente non allineamento di gran parte dell’Asia in questo conflitto suggerisce che anche l’esito della lotta a lungo termine contro la Cina rimane incerto.

Un’alleanza transatlantica militarmente rafforzata, se associata a una relativa perdita di influenza in gran parte del mondo in via di sviluppo, non rappresenta nel complesso una chiara vittoria a lungo termine per l’Occidente quando si tratta di plasmare il futuro dell’ordine globale. Se questo si aggiunge solo alle spinte esistenti che ci portano verso un mondo multipolare, in cui il potere degli Stati Uniti è in qualche modo controllato da altri Stati, solleva la questione a lungo termine del ruolo che gli Stati Uniti e i loro alleati sono disposti a riconoscere alla Russia nell’ordine di sicurezza europeo.

Il posto della Russia in Europa
Il posto della Russia nell’ordine di sicurezza europeo è rimasto irrisolto dalla fine della Guerra Fredda. I tentativi di creare “spazi comuni” da Lisbona a Vladivostok o di produrre una revisione del Trattato di sicurezza europeo sono tutti falliti.21 Il consolidamento dell’ordine continentale europeo post-Guerra Fredda attorno alla NATO e all’UE ha lasciato la Russia senza un ruolo in un sistema di sicurezza condiviso che possa ritenere commisurato al suo status rivendicato e in sintonia con i suoi interessi vitali dichiarati.

Un’alleanza transatlantica militarmente rafforzata, se associata a una relativa perdita di influenza in gran parte del mondo in via di sviluppo, non rappresenta nel complesso una chiara vittoria a lungo termine per l’Occidente quando si tratta di plasmare il futuro dell’ordine globale.

La questione del posto della Russia in Europa è al centro dell’attuale guerra – e non solo perché è iniziata con la richiesta di Mosca di garanzie di sicurezza all’interno dell’architettura di sicurezza europea.22 La narrazione convenzionale è che questa guerra riguardi l’Ucraina e il suo diritto di rimanere un Paese sovrano in un percorso verso la democrazia liberale e le istituzioni occidentali. In realtà, però, questa guerra riguarda più la Russia, in particolare il suo impegno a rimanere una potenza imperiale convinta del proprio eccezionalismo. Questo, a sua volta, tocca forse la questione fondamentale che ha afflitto le relazioni tra la Russia e l’Occidente nell’era post-Guerra Fredda, ovvero il fatto che ciascuna parte ha cercato di trasformare l’altra.

La Russia è uscita dalla Guerra Fredda con il sincero desiderio di unirsi all’Occidente, anche se solo a condizioni ritenute accettabili. Per Mosca, il prezzo delle relazioni amichevoli era che l’Occidente avrebbe dovuto qualificare la sua struttura radicata di leadership statunitense per creare un tipo completamente diverso – e più inclusivo – di comunità politica e di sicurezza europea, anche se l’aspetto di tale comunità era incerto.23 L’approccio occidentale, al contrario, presumeva che la convergenza nel regno dei valori (e l’effettiva sottomissione alle agende strategiche ed economiche occidentali) fosse il segno più sicuro di una Russia amichevole.24 L’incapacità di ciascuna parte di aderire alle aspettative dell’altra ha esposto sia la Russia che i Paesi occidentali alla delusione.

Questa tendenza a sperare che l’altra parte si trasformi è presente anche nell’attuale guerra: Il cambio di regime in Russia e la scomparsa di una politica estera liberale internazionalista in Occidente restano il probabile risultato preferito da ciascuna parte. Ma questa dinamica è precedente alla guerra. Se rimane intatta, suggerisce non solo che i tentativi di raggiungere un equilibrio stabile nel dopoguerra saranno estremamente fragorosi, ma anche che gli sforzi per uscire dal prolungato e pericoloso stallo odierno saranno estremamente difficili. Più la guerra in Ucraina si protrae, più il dividendo della pace europea degli ultimi decenni appare irrecuperabile.

Alcuni potrebbero sostenere che se la Russia fosse sconfitta in Ucraina questi problemi sarebbero risolti, con Mosca costretta ad accettare l’allineamento dell’Ucraina con l’Occidente. Ma una sconfitta militare potrebbe avere l’effetto opposto: Invece di porre fine allo sciovinismo e all’imperialismo russo, potrebbe inaugurare un nuovo periodo di revanscismo. Il successore di Putin, chiunque esso sia, erediterà questa guerra o la sua eredità e, dato il clima attuale, avrà difficoltà a prenderne le distanze in una misura che gli Stati Uniti e i loro alleati possano ritenere politicamente sufficiente. Una parte della classe politica russa può ritenere che l’invasione dell’Ucraina sia stata un errore, ma le preoccupazioni per la sicurezza dell’élite riguardo all’espansione della NATO rimangono pervasive e l’inquadramento discorsivo delle relazioni Russia-Occidente come ostili si è radicato. A questo punto potrebbero vedere una vittoria militare come una questione di prestigio nazionale.25

Non si può nemmeno augurare alla Russia di allontanarsi nella speranza che il suo futuro sia a est. A prescindere dal discorso eurasiatista promosso negli ultimi anni nei circoli politici russi, uno dei principali vantaggi del partenariato sino-russo per Mosca è quello di de-securizzare un teatro di secondaria importanza (l’Asia centrale) per poter dedicare maggiori risorse alla rivalità con l’Occidente.26 La Russia rimarrà sia occidentale che orientale. Persino Pietro il Grande, a cui Putin si è paragonato l’anno scorso, è ricordato come un occidentalizzatore, sebbene abbia condotto guerre di espansione territoriale in Europa27.

Grande potenza o meno, la Russia conserva un significativo potere dirompente e una notevole partecipazione al sistema di sicurezza europeo.

Grande potenza o no, la Russia conserva un significativo potere dirompente e una notevole partecipazione al sistema di sicurezza europeo. Ci si può accontentare dell’idea che la Russia finirà per avvicinarsi alla prospettiva dell’Occidente una volta diventata una democrazia liberale, per quanto improbabile sia questa prospettiva – e per quanto problematica, dato che presuppone che a una grande potenza si possa dire quali sono i suoi interessi. Ma un giorno del genere è ancora molto lontano. L’esito più probabile è che la Russia si ricostituisca dopo la guerra come una potenza di qualche tipo, così come è più probabile che gli Stati occidentali mantengano le loro attuali posizioni strategiche piuttosto che acconsentire alle preferenze normative di Mosca su come organizzare la sicurezza europea.

Pertanto, la sfida strutturale di trovare un posto adeguato per una Russia eccezionale e distinta in un’Europa di Stati nazionali ordinari rimane all’ordine del giorno della storia. Dato che le rimostranze sul posto della Russia nell’ordine di sicurezza europeo hanno avuto un ruolo di primo piano nel periodo che ha preceduto l’invasione su larga scala dell’Ucraina, le dinamiche del conflitto ucraino e dell’ordine continentale sono profondamente interconnesse. Così come un conflitto prolungato in Ucraina rende più difficile il raggiungimento di un nuovo ordine di sicurezza continentale, se gli Stati Uniti non si dimostrano aperti alla costruzione di un nuovo patto continentale, la guerra continuerà, minando ulteriormente le prospettive di sicurezza dell’Ucraina.

Il rapporto della Russia con l’Ucraina è complesso, sia per le tendenze post-coloniali che per le percezioni legate alla sicurezza. Discutere i futuri contorni di un ordine di sicurezza europeo in modo da rispondere alle legittime preoccupazioni sia di Mosca che di Kiev potrebbe non alleviare del tutto la sindrome post-imperiale (o addirittura imperiale) della Russia, così come una completa vittoria ucraina non la garantisce. Ma rappresenta comunque un’alternativa migliore rispetto a una continua e potenzialmente incontrollabile spirale di violenza con un punto finale che nessuno può prevedere.

Conclusioni e raccomandazioni
La strategia statunitense in Ucraina ha finora registrato successi significativi. Kiev è stata in grado di invertire la tendenza della guerra in una misura che pochi inizialmente ritenevano possibile, mentre l’amministrazione Biden ha giustamente trovato un cauto equilibrio tra l’assistenza all’Ucraina e il mantenimento delle forze statunitensi fuori dai combattimenti.

Tuttavia, più la guerra si protrae, maggiore è il rischio che Washington diventi un co-belligerante di qualche tipo, in termini pratici se non legali.28 L’affermazione di Mosca secondo cui non sta combattendo contro l’Ucraina, ma piuttosto contro la NATO sul territorio ucraino, può avere uno scopo politico, ma più la Russia subisce battute d’arresto, più è probabile che questa narrazione sia davvero creduta. Né si può prevedere con certezza il grado di sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina oltre il 2023. Pertanto, un conflitto prolungato può offrire alcune opportunità, come l’indebolimento delle forze armate russe a basso costo, ma presenta anche rischi significativi. E, come sottolineato in precedenza, ci sono limiti alla capacità di Washington di modellare il comportamento della Russia e di indirizzare il conflitto verso un esito accettabile senza affrontare le questioni che affliggono l’ordine di sicurezza dell’Europa.

Nonostante la parziale mobilitazione militare della Russia volta a stabilizzare le sue linee, non si possono escludere ulteriori guadagni ucraini. Se Mosca continuerà a insistere su termini effettivamente massimalisti, i colloqui volti a produrre un cessate il fuoco saranno probabilmente infruttuosi. Ma dopo le nuove offensive ucraine in primavera e in estate, potrebbe essere possibile determinare con maggiore sicurezza la misura in cui Kyiv può fare progressi sostenuti e significativi verso il recupero del territorio occupato. A quel punto, potrebbe essere diventato evidente sia per Mosca che per Kiev che realizzare la totalità dei loro obiettivi militari è impraticabile, almeno entro i confini dell’attuale guerra.

Dopo le nuove offensive ucraine della primavera e dell’estate, potrebbe essere possibile determinare con maggiore sicurezza la misura in cui Kyiv può compiere progressi sostenuti e significativi verso il recupero del territorio occupato.

Pertanto, l’autunno del 2023 potrebbe segnare un momento in cui gli alleati transatlantici possono sviluppare e proporre una visione condivisa della fine dell’attuale fase delle ostilità e delle condizioni per un cessate il fuoco o per una soluzione negoziata parziale che sia Kiev che Mosca potrebbero accettare. Questo, a sua volta, potrebbe spostare gradualmente il discorso popolare negli Stati Uniti e in Europa dalle attrezzature e dalle misure di cui l’Ucraina ha bisogno per vincere al compito più cruciale di ricostruire il Paese.

Pur mantenendo il sostegno all’Ucraina, l’amministrazione Biden dovrebbe iniziare a sviluppare proposte politiche da mettere in atto nel corso dell’anno. Queste proposte potrebbero essere di tre tipi e dovrebbero essere finalizzate a persuadere Mosca che può garantire alcuni dei suoi interessi fondamentali attraverso mezzi diplomatici piuttosto che militari.

In primo luogo, l’amministrazione Biden dovrebbe dichiarare esplicitamente la propria volontà di rinnovare e reinterpretare il principio della sicurezza indivisibile nella regione euro-atlantica, sia in ambito bilaterale che in sede OSCE. Questa mossa dimostrerebbe la capacità dell’amministrazione di mostrare empatia strategica, dal momento che le principali rimostranze della Russia nell’era post-Guerra Fredda hanno riguardato principalmente il suo status percepito come di secondo livello nell’ordine di sicurezza europeo. Più che la stabilità strategica e il controllo degli armamenti, si tratta della questione di quali principi fondamentali debbano informare tale ordine. Come misura di buona fede e di rafforzamento della fiducia reciproca, gli alti funzionari russi dovrebbero comunicare chiaramente che l’interesse principale del loro Paese è quello di ottenere garanzie di sicurezza piuttosto che estinguere la nazionalità ucraina.

Mentre lo spazio per raggiungere un consenso tra Russia e Occidente sullo status dell’Ucraina si è decisamente ridotto dall’inizio della guerra, il principio della sicurezza indivisibile offre maggiori promesse. Nell’interpretazione di Mosca, la sicurezza indivisibile implica che nessuno Stato dell’area euro-atlantica dovrebbe aumentare la propria sicurezza a spese di un altro Stato.29 Segnalare il desiderio di sviluppare intese condivise sulla natura di questo principio potrebbe quindi aprire la strada a discussioni più dettagliate sulle garanzie di sicurezza sia per la Russia che per l’Ucraina. Ciò contribuirebbe anche ad alleviare la percezione russa della natura esistenziale di questa guerra, dato che l’interpretazione occidentale prevalente del principio è incentrata sull’inseparabilità delle preoccupazioni di sicurezza umane e statali, che è servita da pretesto per le critiche occidentali a quelli che la Russia considera i suoi affari interni.

In secondo luogo, gli Stati Uniti dovrebbero avviare consultazioni con i loro alleati europei su proposte di revoca di alcune delle misure economiche adottate contro la Russia, se Mosca accetta di soddisfare alcune condizioni in cambio. Ad esempio, le sanzioni sui beni statali russi potrebbero essere parzialmente rimosse in cambio di un ritiro graduale della Russia dal territorio occupato e dell’inserimento di una forza di interposizione riconosciuta a livello internazionale. Ulteriori misure di buona fede potrebbero essere accompagnate dal ripristino di altri legami economici, con il riconoscimento che l’interdipendenza con le armi è ancora preferibile all’assenza di interdipendenza – poiché quest’ultima opzione lascia essenzialmente a Mosca la minaccia della forza come unico mezzo rimasto per esercitare influenza in Europa, dove ha ancora interessi significativi.

Sebbene la revoca delle sanzioni avverrebbe solo dopo che la Russia avrà adempiuto a determinate misure, per motivi di credibilità l’amministrazione Biden deve indicare che è aperta a questa possibilità. Finché Mosca riterrà che le prospettive di alleggerimento delle sanzioni siano scarse, non avrà alcun incentivo a scendere a compromessi sui suoi obiettivi militari, il che non fa che alimentare la logica dell’escalation. Le voci nel Congresso degli Stati Uniti, tra i membri più falchi dell’UE e nell’establishment della sicurezza russa potrebbero cogliere l’opportunità di disaccoppiare economicamente e consolidare una dinamica permanente di confronto. Quanto più a lungo si protrarrà l’attuale stato di guerra, tanto minore sarà l’incentivo a ristabilire i legami economici – una delle poche aree in cui è persistito una sorta di spazio comune europeo nonostante la crescente divergenza dei sistemi politici del continente. È giunto il momento che i funzionari dalla mentalità sobria diano prova di leadership, riconoscendo il fatto che tutte le parti dovranno imparare a condividere lo spazio euro-atlantico che chiamano casa.

Anche se la revoca delle sanzioni avverrebbe solo dopo che la Russia avrà adempiuto a determinate misure, per motivi di credibilità l’amministrazione Biden deve indicare che è aperta a questa possibilità.

Infine, con la Russia che sta mettendo la sua economia sul piede di guerra e i Paesi occidentali che cercano di ripristinare la loro capacità di aumentare la produzione militare-industriale, l’amministrazione Biden dovrebbe lanciare una task force transatlantica per sviluppare proposte per accoppiare i miglioramenti delle capacità militari occidentali con le salvaguardie multilaterali est-ovest. Sebbene il raggiungimento di accordi tradizionali per il controllo degli armamenti si sia rivelato eccezionalmente difficile dopo la firma del New START e l’approfondimento della struttura di potere multipolare del mondo, gli sforzi persistenti per individuare accordi ad hoc aiuterebbero a evitare una corsa al ribasso. E dato che un cessate il fuoco o un accordo in Ucraina potrebbe eventualmente comportare una componente di controllo degli armamenti per quanto riguarda le limitazioni al posizionamento di forze e missili, questa task force potrebbe avere un effetto positivo sugli sforzi per prevenire nuove ostilità tra Mosca e Kiev.

Nessuna di queste proposte costringerebbe gli Stati Uniti ad abbandonare quelli che attualmente percepiscono come i loro principali obiettivi e interessi di politica estera. Esse offrono semplicemente l’opportunità di sviluppare un approccio più sostenibile e lungimirante alla gestione delle relazioni con gli avversari americani. Questa strategia riconoscerebbe i limiti della compellenza senza un’equivalente dose di rassicurazione, riconoscendo al contempo la necessità di gestire i quadri di sicurezza regionale con una mentalità inclusiva in assenza di prospettive per un ordine di sicurezza pienamente cooperativo.

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Zachary Paikin
Zachary Paikin è ricercatore presso il Centre for European Policy Studies (CEPS) di Bruxelles e ricercatore non residente presso l’Institute for Peace & Diplomacy, un think tank nordamericano attivo sia a Ottawa che a Washington.

https://quincyinst.org/report/the-ukraine-war-european-security-how-durable-is-americas-strategy/?mc_cid=1e91486550&fbclid=IwAR1Z1tgNHvq3Xnrn8ngc6yGzkZJI4yALk7lo66UiBAL4xI8Mo-EecwUAm_0

Non sorprende che le fughe di notizie del Pentagono abbiano affermato che il Sud globale si stia multiallineando, di ANDREW KORYBKO

Non sorprende che le fughe di notizie del Pentagono abbiano affermato che il Sud globale si stia multiallineando

ANDREW KORYBKO
30 APR 2023
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L’ultimo rapporto del Washington Post sulle fughe di notizie del Pentagono dimostra che al giorno d’oggi esistono limiti reali all’influenza degli Stati Uniti sul Sud globale, il che scredita l’aspettativa di poter costringere ogni Paese a schierarsi contro Russia e Cina. Comunque sia, la situazione strategica non è così disastrosa come si temeva, dato che gli Stati Uniti hanno ancora una notevole influenza in Pakistan e in Brasile, per bilanciare quella relativamente minore nelle Repubbliche dell’Asia centrale e la totale assenza di influenza sull’India.

Geopolitica contemporanea

Il Washington Post (WaPo) ha pubblicato sabato l’ultimo rapporto sulle fughe di notizie del Pentagono, intitolato “Le nazioni più importanti si tirano fuori dallo stallo degli Stati Uniti con la Russia e la Cina, come dimostrano le fughe di notizie”. Nessun osservatore serio dovrebbe essere sorpreso, tuttavia, dal fatto che Stati del Sud globale come il Pakistan, l’India, le Repubbliche dell’Asia centrale (RCA) e il Brasile si stiano allineando alla nuova guerra fredda invece di schierarsi decisamente dalla parte degli Stati Uniti. In questo pezzo si critica il resoconto del WaPo sulle politiche di questi Paesi e si condividono anche alcune sintetiche informazioni su di essi.

Il Pakistan

Iniziando dal Pakistan, per gli Stati Uniti è sempre stato un sogno irrealizzabile aspettarsi che questo Paese prendesse le distanze dalla Cina, dal momento che le sue prospettive economiche future dipendono dal commercio e dagli investimenti con la Repubblica Popolare. La sua decisione di astenersi dalle risoluzioni antirusse dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite può essere compresa in questo senso, poiché prendere le parti degli Stati Uniti su questa questione globale avrebbe suscitato i sospetti della Cina sulle grandi intenzioni strategiche del regime golpista postmoderno nella nuova guerra fredda.

Nonostante la politica estera ufficiale del Pakistan non sia cambiata dopo il cambio di regime sostenuto dagli Stati Uniti, ma superficialmente “democratico”, contro Imran Khan un anno fa, Washington è riuscita comunque a far deragliare la traiettoria geostrategica di questo Stato dell’Asia meridionale. Le crisi a cascata che hanno seguito la sua estromissione hanno paralizzato il Pakistan proprio nel momento in cui doveva concentrarsi sulla ricerca del proprio posto nell’ordine mondiale emergente, nel contesto di un’accelerazione senza precedenti della transizione sistemica globale verso il multipolarismo.

Alla luce di ciò, si può concludere che gli Stati Uniti hanno ottenuto un grande ritorno dal loro investimento in quell’evento, poiché la cosiddetta “Dottrina Wolfowitz” è stata attuata senza problemi. Tale concetto predica la necessità per gli Stati Uniti di ostacolare in modo proattivo l’ascesa di qualsiasi Paese che possa potenzialmente rappresentare una minaccia per i propri interessi regionali, cosa che è stata indiscutibilmente realizzata nel caso del Pakistan, che potrebbe non essere più in grado di riconquistare lo slancio multipolare perduto dopo la sconfitta dell’ultimo anno storico.

L’India

La situazione geostrategica del Pakistan è in netto contrasto con la rapida ascesa dell’India come Grande Potenza di rilevanza globale nello stesso periodo. La sua politica pragmatica di neutralità di principio nella dimensione russo-statunitense della Nuova Guerra Fredda ha raccolto grandi dividendi strategici, consentendo a Delhi di posizionarsi perfettamente tra questi due protagonisti della transizione sistemica globale. L’esempio dell’India ha ispirato altri Stati del Sud globale a seguirne l’esempio, conferendole così un’influenza unica all’interno di questo gruppo di Paesi.

L’affermazione del Pentagono secondo cui il consigliere per la sicurezza nazionale Doval avrebbe detto al suo omologo russo che Delhi non si opporrà a Mosca nelle sedi multilaterali corrisponde a questa politica. Prendere le parti degli Stati Uniti contro la Russia in questi eventi, specialmente quelli del G20 che ospiterà quest’anno, avrebbe catalizzato una reazione a catena che sarebbe culminata con la subordinazione dell’India agli Stati Uniti come il suo più grande Stato proxy di sempre, abbandonando così la sua politica di multi-allineamento che ha ispirato l’intero Sud globale.

Sebbene il WaPo abbia presentato questa politica in modo scettico rispetto agli interessi degli Stati Uniti, è anche vero che l’India rimane molto vicina agli Stati Uniti, nonostante il suo rifiuto di assecondare le sue richieste a somma zero contro la Russia. Questi due Paesi hanno interessi comuni quando si tratta di gestire l’ascesa della Cina, ma tuttavia anche questa importante comunanza tra loro non significa che l’India sia alleata degli Stati Uniti contro la Repubblica Popolare né che abbia interesse a integrare le sue forze con quelle della NATO come stanno facendo i suoi partner Quad.

Le repubbliche dell’Asia centrale

Dando credito a ciò che è dovuto, le fughe di notizie del Pentagono hanno colto nel segno per quanto riguarda i calcoli strategici delle RCA nella Nuova Guerra Fredda e il loro palese opportunismo. È vero che sono “desiderosi di lavorare con chiunque offra i risultati più immediati, che per ora è la Cina”, al fine di ridurre quella che le loro leadership percepiscono come la cosiddetta dipendenza dalla Russia. Queste motivazioni creano aperture per gli Stati Uniti che mettono a disagio Mosca, che teme l’invasione militare regionale americana.

È con queste preoccupazioni che il ministro della Difesa russo Shoigu ha detto ai suoi omologhi della SCO a Delhi, la scorsa settimana, che il suo Paese sta “aumentando la prontezza di combattimento delle sue basi in Kirghizistan e Tagikistan in mezzo ai tentativi degli Stati Uniti e dei loro alleati di ripristinare la loro presenza militare in Asia centrale”. È evidente che il Cremlino è a conoscenza delle trame regionali del Pentagono e vuole sventarle in modo proattivo, comprese quelle non convenzionali che riguardano il sostegno degli Stati Uniti a vari gruppi terroristici in loco.

Nessuna RCA accetterebbe mai di ospitare l’ETIM o l’ISIS, per esempio, ma alcuni, come il Tagikistan, membro della CSTO, e l’Uzbekistan, recentemente allineato alla Russia, potrebbero essere tentati dalle proposte di cooperazione creativa degli Stati Uniti per espandere le loro relazioni con le sue forze armate. Detto questo, i loro crescenti legami economici con la Cina potrebbero potenzialmente dissuaderli dal farlo, se Pechino si sentisse a disagio con questo scenario, come lo è attualmente Mosca a causa del deterioramento dei suoi legami con Washington, che le fa temere l’accerchiamento degli Stati Uniti.

Brasile

L’ultima parte del rapporto del WaPo sulle fughe di notizie del Pentagono che vale la pena di criticare riguarda la politica estera del Presidente brasiliano Lula e in particolare la sua proposta del cosiddetto “club della pace” per mediare la guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina. Come già analizzato a suo tempo, “L’approvazione della retorica di pace di Lula da parte della Russia non sorprende”, poiché l’ottica di una sua parziale attribuzione di responsabilità all’Occidente per questo conflitto – per quanto insincera – va contro gli interessi di soft power di quest’ultimo.

Ciononostante, il leader del più grande Paese dell’America Latina, recentemente rieletto e ormai tre volte, è ancora politicamente allineato con gli Stati Uniti contro la Russia nel conflitto geostrategicamente più importante dalla Seconda Guerra Mondiale, come dimostra la posizione ufficiale del suo governo nei confronti di questa guerra per procura, documentata qui. Anche il principale consigliere di Lula per la politica estera ha confermato la suddetta valutazione in una lunga intervista, seguita dalla dichiarazione del suo capo che non visiterà la Russia se questa non riprenderà i colloqui di pace con Kiev.

Le tre analisi qui, qui e qui illustrano nel dettaglio la grande strategia di Lula, che può essere semplificata come il suo desiderio di de-dollarizzarsi con la Cina e contemporaneamente di fare proseliti con il “wokeismo” in tutto il mondo attraverso la rete di influenza globale che, secondo quanto riferito, ha proposto di creare con i Democratici statunitensi durante il suo viaggio a Washington. Le relazioni con la Russia sono considerate sacrificabili se sono necessari sacrifici unilaterali per mantenere la fiducia dei suoi alleati ideologici, per questo gli Stati Uniti non dovrebbero leggere troppo a fondo nella superficiale retorica pacifista di Lula.

Pensieri conclusivi

Come dimostrato dall’ultimo rapporto del WaPo sulle fughe di notizie del Pentagono, oggi esistono limiti reali all’influenza degli Stati Uniti sul Sud globale, il che scredita l’aspettativa che essi possano costringere ogni Paese a schierarsi contro Russia e Cina. Comunque sia, la situazione strategica non è così disastrosa come quella paventata, poiché gli Stati Uniti hanno ancora un’influenza considerevole in Pakistan e in Brasile per bilanciare la loro influenza relativamente minore nelle RCA e la loro totale mancanza sull’India.

https://korybko.substack.com/p/its-not-surprising-that-the-pentagon

https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3219290/china-says-its-stand-ukraine-war-has-not-changed-after-un-vote?module=perpetual_scroll_0&pgtype=article&campaign=3219290

La Cina afferma che la sua posizione sulla guerra in Ucraina “non è cambiata” dopo il voto delle Nazioni Unite

  • La scorsa settimana Pechino ha appoggiato una risoluzione che descriveva il conflitto come “aggressione da parte della Federazione Russa”
  • Ma la missione della Cina alle Nazioni Unite afferma che il suo voto era sull’intero testo e non era un’approvazione di quel paragrafo

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"Abbiamo bisogno di canali migliori tra i due governi e canali più profondi e siamo pronti a parlare", ha detto martedì l'ambasciatore degli Stati Uniti in Cina Nicholas Burns.  Foto: Reuters
Immagini di Sofia e Alina, due bambine uccise da un attacco missilistico russo, sono state viste sabato nella città di Uman, nella regione di Cherkasy in Ucraina.  Foto: Reuters
Immagini di Sofia e Alina, due bambine uccise da un attacco missilistico russo, sono state viste sabato nella città di Uman, nella regione di Cherkasy in Ucraina. Foto: Reuters

La Cina ha affermato di non approvare la descrizione del conflitto ucraino come “aggressione da parte della Federazione Russa” votando a favore di una risoluzione delle Nazioni Unite la scorsa settimana.

“La posizione della Cina sulla questione ucraina non è cambiata e la posizione di voto non ha nulla a che fare con la telefonata tra i due capi di stato”, ha dichiarato martedì la Missione permanente della Cina presso le Nazioni Unite in una risposta via e-mail alle domande.

La missione si riferiva al voto della Cina su una risoluzione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 26 aprile e a una conversazione tra il presidente cinese Xi Jinping e il leader ucraino Volodymyr Zelenksy lo stesso giorno.

Il voto della Cina ha attirato l’attenzione poiché la risoluzione descriveva la Russia come l’aggressore nel conflitto – linguaggio che Pechino non ha usato. La Cina non ha mai condannato l’attacco della Russia all’Ucraina ed è stata criticata dall’Occidente per la sua posizione sulla guerra.

Anche la tempistica del voto – poche ore dopo che Xi e Zelensky si sono parlati per la prima volta dall’invasione russa – ha sollevato interrogativi su quella posizione.

Il capo della politica estera dell’Unione europea Josep Borrell ha twittato mercoledì che il blocco ha accolto con favore la risoluzione e che è stata sostenuta dal suo Gruppo dei 20 partner tra cui Cina, Brasile, India e Indonesia.

Ma la missione di Pechino alle Nazioni Unite ha negato che ci sia stato alcun cambiamento nella posizione della Cina.

“Il voto ‘sì’ è stato un voto sull’intero testo della risoluzione e non può essere considerato un’approvazione di quel paragrafo”, ha affermato la missione.

La Cina si era astenuta da una precedente votazione sull’opportunità di mantenere il paragrafo nel preambolo secondo cui l’Europa doveva affrontare sfide senza precedenti a seguito dell’aggressione russa contro Ucraina e Georgia.

Il paragrafo chiedeva anche il tempestivo ripristino della pace e della sicurezza “basato sul rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di qualsiasi stato” e che tutti i responsabili di violazioni del diritto internazionale fossero ritenuti responsabili.

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La bozza di risoluzione è incentrata sul sostegno alla cooperazione tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa, un organismo internazionale da cui la Russia è stata espulsa settimane dopo l’invasione.

L’Assemblea Generale ha adottato la risoluzione non vincolante – contenente il paragrafo a cui la Russia si è opposta – con 122 voti a favore, 18 astensioni e 48 Stati membri non votanti. I cinque paesi che si sono opposti alla risoluzione sono stati Russia, Bielorussia, Corea del Nord, Nicaragua e Siria.

La missione ha affermato che non è la prima volta che la Cina sostiene una risoluzione delle Nazioni Unite che si riferisce all’aggressione russa contro l’Ucraina, indicando un voto del 21 novembre. Quella risoluzione riguardava la promozione della cooperazione tra le Nazioni Unite e l’Iniziativa centroeuropea.

Pechino ha votato a favore di quella risoluzione ma si è astenuta da un voto separato sull’opportunità di mantenere i riferimenti all’”aggressione russa”.

Courtney Fung, professore associato presso la Macquarie University di Sydney, ha affermato che l’astensione della Cina dal voto sul paragrafo la scorsa settimana riflette la sua posizione di sicurezza e priorità sull’amicizia “senza limiti” con la Russia.

Questa partnership è stata annunciata quando Xi e il leader russo Vladimir Putin si sono incontrati a Pechino nel febbraio dello scorso anno, settimane prima che la Russia invadesse l’Ucraina.

Un anno dopo, la Cina ha pubblicato un documento di posizione sulla guerra in cui affermava che i colloqui di pace erano l’unico modo per fermare i combattimenti. È stato criticato dall’Occidente per non aver chiesto alla Russia di ritirare le sue truppe, mentre gli sforzi di Pechino per essere un pacificatore sono stati accolti con scetticismo visti i suoi stretti legami con Mosca.

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“La Cina spende risorse diplomatiche per modificare la lingua e raccogliere voti che siano almeno più vicini alle proprie posizioni”, ha detto Fung, che è anche un membro associato del Lowy Institute, un think tank di Sydney. Ha detto che la Cina era in buona compagnia astenendosi con dozzine di altre nazioni nel Sud del mondo, il che “diffonde qualsiasi costo reputazionale per la Cina”.

La Cina si è per lo più astenuta dalle risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano l’invasione della Russia invece di seguire la Russia ei suoi sostenitori – Corea del Nord, Siria e Bielorussia – con un voto negativo.

Fung ha affermato che votare contro una risoluzione che chiede la cooperazione sulla pace e la sicurezza internazionale “mina [la Global Security Initiative] con il messaggio che la Cina sta concettualizzando la sicurezza solo per gli stati forti”.

Xi ha promosso l’iniziativa – un vago quadro – come alternativa all’ordine di sicurezza internazionale guidato dall’Occidente dall’aprile 2022.

Li Lifan, uno specialista della Russia presso l’Accademia delle scienze sociali di Shanghai, ha affermato che è troppo semplicistico considerare la posizione della Cina sul conflitto sulla base di un voto delle Nazioni Unite.

“La chiave è guardare come la Russia ha reagito al voto”, ha detto Li. “La Russia agisce per i suoi interessi nazionali e non usa mezzi termini per difenderli, ma non ha criticato la Cina per come ha votato”.

Ha detto che la Cina si è astenuta dal votare sulla maggior parte delle risoluzioni che condannano l’invasione poiché la maggior parte dei paesi non si opporrebbe. L’astensione è stata anche un modo per gestire le sue relazioni con i principali partner commerciali come l’UE.

Jack Lau

Jack Lau

Jack è entrato a far parte del Post nel 2020 dopo aver studiato giornalismo all’Università di Hong Kong. Prima di allora, ha studiato giurisprudenza a Londra e Hong Kong, dove ha collaborato con la ricerca nelle istituzioni legali cinesi e la risoluzione delle controversie civili.

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  • La conversazione ha segnalato che Pechino è disposta ad assumere un ruolo più attivo come mediatore tra Ucraina e Russia, affermano gli analisti
  • Ma molti in Europa e negli Stati Uniti, aggiungono, credono che mentre la Cina è neutrale in superficie, rimane predisposta nei confronti di Mosca

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La posizione della Cina come potenziale mediatore è aumentata dopo che il presidente cinese Xi Jinping (a destra) ha parlato con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, hanno detto gli analisti.  Foto: AFP
La posizione della Cina come potenziale mediatore è aumentata dopo che il presidente cinese Xi Jinping (a destra) ha parlato con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, hanno detto gli analisti. Foto: AFP

La telefonata di mercoledì tra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky è stata un colpo di stato diplomatico per Pechino, ma la Cina deve ancora affrontare sfide formidabili nel mediare qualsiasi pace tra Ucraina e Russia, hanno detto gli analisti.

La conversazione di un’ora, accolta con cautela dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei, ha segnalato che la Cina è disposta ad assumere un ruolo più attivo come pacificatore nei conflitti regionali, hanno affermato gli analisti.

Dimostra anche che i leader cinesi ora credono che il paese sia in grado di assumersi maggiori responsabilità come potenza globale e che tali sforzi potrebbero aiutare a ricucire i suoi legami con l’Europa e rafforzare la sua influenza diplomatica, specialmente con i suoi vicini e in Asia centrale, hanno aggiunto.

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Un’analisi contraria della crisi ucraina da parte dell’esperto di intelligence, di Eric Denécé

Una intervista che dice molto, soprattutto sul grande assente in questa conversazione, Emmanuel Macron, protagonista alquanto riottoso, nel ritagliarsi un ruolo fattuale, non solo enunciato, in un processo di emancipazione degli stati europei dalla subordinazione statunitense. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Un’analisi contraria della crisi ucraina da parte dell’esperto di intelligence Eric Denécé [ 1 – 2 ]
Alexandre Del Valle
Mercoledì 19 aprile 2023 – 12:06
Eric Denécé, direttore di CF2R. Foto Thinkerview
Questa settimana, per fare il punto sui principali rischi geostrategici dopo un anno di guerra russo-ucraina e russo-americana, Alexandre del Valle ha parlato con Éric Denécé, fondatore e direttore del Centro francese di ricerca sull’intelligence, che affronta la questione ucraina dal punto di vista della decifrazione delle carte nascoste e questo in un contesto molto più ampio di confronto tra, da un lato, l’Occidente americanocentrico e, dall’altro, la Russia, che è diventata l’avanguardia di una sfida globale multipolarista all’ordine internazionale voluto dagli Stati Uniti…

Eric Denécé, dottore in Scienze politiche e ricercatore qualificato, è il fondatore del Centro francese di ricerca sull’intelligence (CF2R), ex funzionario analista del Segretariato generale della Difesa nazionale (SGDN), ex dirigente dell’industria degli armamenti e creatore del dipartimento di intelligence economica del gruppo GEOS. Denécé ha un’esperienza sia sul campo che accademica: ha lavorato per un periodo in Cambogia, a fianco della resistenza anticomunista, e poi in Birmania, proteggendo gli interessi della Total contro la guerriglia locale. È stato anche consulente del Ministero della Difesa sul futuro delle forze speciali e ha viaggiato in tutti i Paesi interessati dalle “rivoluzioni” arabe, dal Marocco alla Siria, per seguire sul campo questi grandi eventi. La sua analisi totalmente controcorrente del conflitto ucraino gli è valsa polemiche e copertura mediatica per la sua critica radicale alla politica americana, occidentale e atlantista e per la sua descrizione controcorrente di Zelenski e del campo ucraino… È anche autore di numerosi libri** e il suo lavoro sull’intelligence gli è valso il premio della Fondation pour les Études de Défense (FED) nel 1996 e il premio Akropolis (Institut des Hautes Etudes de Sécurité Intérieure) nel 2009.

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden (L) cammina accanto al Presidente ucraino Volodymyr Zelensky (R) davanti a un affresco religioso della Cattedrale a cupola d’oro di San Michele, al suo arrivo per una visita a Kiev il 20 febbraio 2023. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è recato a sorpresa a Kiev il 20 febbraio 2023, prima del primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, come hanno scoperto i giornalisti dell’AFP. Biden ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nella capitale ucraina durante la sua prima visita nel Paese dall’inizio del conflitto. (Foto di Dimitar DILKOFF / AFP)

Eric Dénecé, secondo i suoi interventi scritti e/o radiotelevisivi, sembra che la guerra in Ucraina sia stata provocata dagli Stati Uniti, come si può affermare questo?

Se la Russia è l’aggressore in questo conflitto, coloro che l’hanno spinta a questo attacco sono senza dubbio gli Stati Uniti, la NATO e il governo Zelensky. È fondamentale non dimenticarlo mai. Se la leadership statunitense non avesse rinnegato le promesse fatte a Mosca, se la NATO non si fosse espansa continuamente, se Francia e Germania fossero state in grado di costringere Kiev a rispettare gli accordi di Minsk e se Zelensky e la sua cricca non avessero ascoltato i minacciosi consigli dei loro mentori americani, non saremmo in questa situazione. Sebbene non si possa giustificare la Russia, incolparla da sola di questo conflitto è un travisamento della realtà, se non una deliberata disinformazione.

L’analisi dei fatti dimostra che dall’autunno del 2021 ci troviamo di fronte a uno scenario mediatico architettato da zero a Washington – che ricorda quello che ha legittimato l’invasione dell’Iraq nel 2003 – con il triplice obiettivo di spingere Mosca sull’orlo del baratro, di mobilitare gli europei dietro gli Stati Uniti e la NATO e di distrarli dai problemi politici interni che il presidente Biden stava vivendo…

La strategia americana era chiara: provocare un incidente nel Donbass per scatenare una reazione russa. Purtroppo, non è la prima volta che gli americani ricorrono a questo tipo di sotterfugi per giocare il ruolo dell’aggressore e giustificare una risposta “legittima”: la prima guerra del Golfo (Iraq, 1991), in cui Washington inviò falsi segnali a Saddam Hussein, facendogli credere di poter invadere il Kuwait senza conseguenze; e la seconda guerra in Iraq (2003), con l’uso di due argomenti inventati: i legami tra Saddam e Al-Qaeda e la presenza di armi di distruzione di massa.

Dall’autunno del 2021, vedendo che la Russia rifiutava di conformarsi alle loro inaccettabili ingiunzioni, gli americani hanno aumentato le loro provocazioni contro Mosca, invece di cercare di allentare la tensione. Così, invece di spingere gli ucraini a negoziare con le repubbliche del Donbass (che non erano separatiste e rivendicavano solo l’autonomia linguistica), come previsto dagli accordi di Minsk, gli americani hanno inviato loro dei consiglieri militari… Per finire, Jens Stoltenberg, il segretario generale dell’Alleanza atlantica, ha dichiarato senza vergogna il 10 dicembre 2021, dopo aver incontrato Olaf Scholz, il cancelliere tedesco: “Non possiamo accettare che Mosca cerchi di ristabilire un sistema in cui grandi potenze come la Russia abbiano le loro sfere di influenza all’interno delle quali possono controllare ciò che i Paesi fanno o non fanno (…). Non scenderemo a compromessi sul diritto di ogni nazione europea di scegliere il proprio destino”. Ai suoi occhi, se è possibile concedere a Washington una zona di influenza, questo non può essere concesso alla Russia… Vale forse la pena di ricordare come gli americani hanno reagito ai tentativi dell’URSS durante la Guerra Fredda di stabilire alleanze con i Paesi vicini (Cuba, Nicaragua, ecc.). Va anche ricordata la Dottrina Monroe, che dichiarava una sfera d’influenza che copriva un intero continente e che, di fatto, vietava qualsiasi intervento nelle Americhe da parte di uno Stato non americano, pena ritorsioni da parte di Washington.

Parallelamente a questa guerra dell’informazione, dalla fine del 2021, gli occidentali (americani, britannici, svedesi, italiani e francesi) hanno aumentato il numero di voli di raccolta di informazioni elettroniche nei pressi dei confini russi e bielorussi, che sono quotidiani e in crescita. Poi, all’inizio del 2022, i britannici hanno iniziato a consegnare armi a Kiev. Tuttavia, nonostante la natura altamente offensiva di queste missioni, non si sono verificati incidenti e i russi hanno mostrato un’evidente moderazione. Se Mosca si fosse impegnata in azioni simili al largo delle coste statunitensi, è più che certo che gli Stati Uniti non l’avrebbero tollerato. Ciò è stato dimostrato nel 1962 durante la crisi dei missili di Cuba, anche se si trattava di uno Stato sovrano…

Quali sono dunque le ragioni di questo guerrafondaio da parte di Washington che lei critica?

La politica americana nei confronti della Russia è in parte dovuta alla necessità del presidente Joe Biden di distogliere l’attenzione dalle crescenti difficoltà che stava incontrando in politica interna. Infatti, a un anno dal suo ingresso alla Casa Bianca, l’azione di Biden era già ostacolata: inflazione al 7%, gestione irregolare della Covid, bocciatura della sua legge sul lavoro da parte della Corte Suprema, progetti di riforma bloccati al Senato (bocciatura del piano di spesa sociale da 1.75 trilioni da parte del suo stesso schieramento, riforma elettorale non convalidata), bassa popolarità (solo il 33% di pareri favorevoli nonostante fosse stato eletto da meno di un anno), divisione del campo democratico, ritorno in forze di Trump e dei suoi sostenitori, ecc. Le difficoltà si accumulavano per il presidente americano, che si trovava in un vicolo cieco. Gli spin doctor della Casa Bianca hanno allora escogitato una strategia per salvare la situazione, facendo credere che egli stesse impedendo l’invasione dell’Ucraina tenendo testa a Vladimir Putin. Così, più Biden era in difficoltà sulla scena interna, più i suoi spin doctor aumentavano le tensioni con Mosca. Tuttavia, le difficoltà interne di Joe Biden sono continuate. Il 17 febbraio, il Senato ha approvato una legge transitoria per estendere i finanziamenti federali fino all’11 marzo, evitando per un soffio lo shutdown del governo e dando ai legislatori tre settimane per elaborare un bilancio annuale (risoluzione di bilancio). Il Paese si trovava in una situazione di stallo: se non si fosse raggiunto un accordo tra il Congresso e la Casa Bianca entro l’11 marzo 2022, i finanziamenti federali sarebbero stati interrotti; gli stipendi dei dipendenti pubblici non sarebbero più stati pagati e la spesa pubblica, soprattutto quella militare, non sarebbe stata più possibile. Si trattava di una battuta d’arresto molto grave per il padrone di casa della Casa Bianca, che aveva quindi tutto l’interesse a una grave crisi in Ucraina, che gli avrebbe permesso di scavalcare il blocco del Congresso. I neoconservatori americani hanno così teso una trappola machiavellica ai russi: rendere insopportabile per la Russia la pressione sul Donbass per spingerla a intervenire militarmente in Ucraina, screditarla a livello internazionale e tagliarla fuori dall’Europa occidentale.

Tutto questo è esaustivo? Non ci sono altri parametri o motivazioni per questo guerrafondaio?

Naturalmente, c’era un’altra ragione, più strategica, per questa politica americana aggressiva nei confronti di Mosca, concepita negli ambienti neoconservatori: per loro era essenziale sottomettere o indebolire la Russia nella prospettiva di un futuro confronto con la Cina. E l’Ucraina è stato il teatro scelto per intrappolare Mosca.

Lei parla spesso di eccessiva guerra dell’informazione, ma se la stampa occidentale parla giustamente di disinformazione di Stato russa, spesso grossolana, che dire della manipolazione e della disinformazione dei Paesi occidentali?

Bisogna riconoscere agli Spin Doctors d’oltreoceano il loro innegabile talento nel mettere in scena la minaccia russa. Le analogie tra l’attuale crisi ucraina e la preparazione dell’invasione dell’Iraq nel 2003 sono numerose. Gli americani hanno costruito una minaccia che non esisteva e hanno quindi scatenato una massiccia operazione psicologica nella speranza che le loro profezie si avverassero e che la Russia commettesse un errore che avrebbe permesso loro di sanzionarla. Nel 2003, dopo un’intensa campagna mediatica basata su false accuse, Washington ha invaso illegalmente l’Iraq, scavalcando la decisione delle Nazioni Unite e rubando così palesemente al diritto internazionale.

Ma Washington non stava forse mentendo quando Joe Biden e la CIA hanno avvertito di un imminente attacco russo all’Ucraina alla fine del 2021?

Dobbiamo smetterla di credere che gli Stati Uniti dicano sempre la verità, o che siano una “potenza benevola per l’umanità”, disinteressata, pacifica, che mira solo al bene comune…. Dalla fine della Guerra Fredda, Washington ha dato prova di una crescente egemonia, imponendo senza freni le sue leggi al resto del mondo, sanzionando e razziando i suoi alleati, saturando l’opinione pubblica con informazioni che servono ai suoi interessi, rifiutando di vedere i suoi cittadini portati davanti alla Corte penale internazionale (CPI) e avendo preso chiaramente le distanze dal rispetto dei diritti umani (legalizzazione di alcune forme di tortura, sequestri extragiudiziali, prigioni segrete, ecc. Gli americani stanno perseguendo una politica nel mondo che serve solo i loro interessi. Nonostante ciò, gli Stati Uniti sono riusciti a convincere i loro alleati europei, creduloni o sottomessi, che il loro punto di vista è la verità oggettiva e che tutti coloro che designano come avversari sono “cattivi”. Ovviamente, la realtà è ben diversa.

Avete prove più tangibili a sostegno di queste gravi accuse di provocazione egemonica degli Stati Uniti nei confronti di una Russia assediata?

È importante ricordare alcuni fatti che parlano da soli e che si riflettono nel rapporto dell’Istituto internazionale per gli studi strategici (IISS) di Londra pubblicato nel febbraio 2022:

– Il bilancio della difesa della Russia (62,2 miliardi di dollari) si colloca al 5° posto nel mondo ed è 12 volte inferiore a quello degli Stati Uniti (754 miliardi di dollari), a sua volta superiore al totale dei bilanci della difesa dei dodici Paesi che la seguono in questa classifica;

– con un totale di 71,6 miliardi di dollari, il Regno Unito ha il terzo budget per la difesa al mondo, davanti a India, Russia, Francia (6°) e Germania (7°);

– Il budget per la difesa della Russia è quindi inferiore del 15% a quello del Regno Unito e superiore solo del 5% a quello della Francia (59,3 miliardi).

Va inoltre ricordato che le forze americane sono presenti in oltre 170 Paesi del mondo. Eseguono ovunque operazioni antiterrorismo, spesso senza l’autorizzazione degli Stati sovrani sul cui suolo operano. I russi sono presenti solo in Armenia, Siria, Bielorussia, Georgia e Kazakistan. Quindi la vera domanda che si sarebbe dovuta porre è: chi minaccia chi?

Se la si segue, si potrebbe dire che si dovrebbero ribaltare le accuse? Se la Russia è stata effettivamente minacciata dagli Stati Uniti egemoni fin dagli anni 2000, vuoi dire che la reazione russa è stata misurata a lungo se è arrivata solo 222 anni dopo? ….

Non sto ribaltando nulla, sto descrivendo i fatti! Fin dall’inizio della crisi, i russi hanno costantemente ribadito che non avevano alcuna intenzione di invadere l’Ucraina e che il loro dispiegamento militare aveva un solo obiettivo: dissuadere il regime di Kiev dall’intraprendere un’offensiva contro le repubbliche del Donbass. Putin ha negato qualsiasi intento bellicoso e ha ripetutamente invitato Washington, Londra e la NATO a “smettere di diffondere sciocchezze” e ha chiesto loro di interrompere le azioni ostili contro la Russia. Naturalmente, i russi hanno reagito a ogni nuova dichiarazione aggressiva dell’Occidente, che a sua volta ha contribuito ad aumentare le tensioni. Mosca ha persino cercato di sfruttare il periodo di crisi degli Stati Uniti (assalto al Campidoglio, forti tensioni interne, ritiro dall’Afghanistan, crisi di Covid) e la debolezza militare europea per avanzare le proprie richieste.

Secondo Fiodor Loukianov, presidente del Consiglio per la politica estera e di difesa russa (SVOP), Vladimir Putin aveva capito “che per costringere gli interlocutori occidentali ad ascoltarci era necessario aumentare la tensione”. Purtroppo, la sua affermazione si basa su un’esperienza che in parte condivido: ogni idea russa messa sul tavolo per cambiare gli accordi di sicurezza europei è sempre stata non solo respinta, ma ignorata. Putin ha concluso che se ci ignorate quando parliamo in modo civile, dovete fare qualcosa di diverso. E ha aggiunto: “Tutti sono convinti che Putin sia pronto ad attaccare l’Ucraina, ma non è vero, il gioco è completamente diverso! È un grande bluff per attirare l’attenzione sulla grande insoddisfazione della Russia nei confronti dell’ordine di sicurezza europeo.

Ecco perché i russi sono stati attenti a non provocare alcun incidente, nonostante l’aumento dei voli aerei e dei pattugliamenti marittimi nelle immediate vicinanze del loro territorio. Dall’ottobre 2021 al febbraio 2022, si sono accontentati di rimanere fermi sulle loro posizioni e di denunciare la falsa campagna mediatica dell’Occidente per spingerli alla guerra.

Va ricordato che l’11 novembre 2021, l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite ha spiegato che Mosca “non ha mai pianificato” di invadere l’Ucraina e che “non accadrà mai, a meno che non siamo provocati dall’Ucraina o da qualcun altro e la sovranità nazionale della Russia sia minacciata”. Il capo della diplomazia russa, Sergei Lavrov, ha dichiarato di non poter escludere la possibilità che Kiev intraprenda “un’avventura militare” nel Donbass.

Poi, il 15 dicembre, la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha dichiarato che “l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) continua a fornire aiuti militari all’Ucraina, il che non fa che aggravare il conflitto interno del Paese. (…) I Paesi della NATO stanno aumentando la fornitura di armi all’Ucraina, addestrando il suo personale militare, e non lo fanno per il mitico scopo di mantenere la stabilità e la sicurezza, ma semplicemente per aggiungere benzina al fuoco”. Secondo l’ex ambasciatore statunitense Jack F. Matlock, “gli obiettivi del Presidente Putin sono quelli che dice – e che ripete dal suo discorso di Monaco del 2007. Per semplificare e parafrasare, li riassumerei come segue: Trattateci con un minimo di rispetto. Non minacciamo voi o i vostri alleati, quindi perché ci negate la sicurezza che chiedete per voi stessi?

Un’analisi contraria della crisi ucraina da parte dell’esperto di intelligence Eric Denécé [ 2 – 2 ]
Alexandre Del Valle
Venerdì 28 aprile 2023 – 01:16
Il dialogo
Questa settimana, per fare il punto sui principali rischi geostrategici dopo un anno di guerra russo-ucraina e russo-americana, Alexandre del Valle ha parlato con l’esperto di intelligence francese Éric Denécé, fondatore e presidente del Centro francese di ricerca sull’intelligence (CF2R), che discute la spinosa questione ucraina dal punto di vista della decifrazione delle carte dietro le quinte e in un contesto di confronto tra, da un lato, l’Occidente americano-centrico e, dall’altro, la Russia, che è diventata l’avanguardia di una sfida globale multipolarista all’ordine internazionale stabilito dagli Stati Uniti…

La presenza militare dei Paesi della NATO in Georgia e Ucraina, e ora in Finlandia, sono quindi minacce esistenziali per il Cremlino? Potrebbe essere un pretesto opportuno per un predatore per invadere il suo vicino, no?

Vladimir Putin ha sempre sostenuto che “la presenza militare della NATO in Ucraina è una minaccia per la Russia” e ha denunciato il possibile dispiegamento di sistemi balistici della NATO in Ucraina che metterebbero Mosca a “cinque o sei minuti di volo” da un missile. La NATO, ovviamente, ha negato di avere una simile intenzione, ma ci sono state così tante bugie dalla fine della Guerra Fredda che il Cremlino non poteva accontentarsi di una vaga promessa. Ricordiamo alcuni fatti. Nel 1997, George Bush e James Baker promisero a Gorbaciov che la NATO non avrebbe mai approfittato dell’eclissi della Russia per avanzare “anche solo di un centimetro” verso est. Come dimostra la storia, non hanno mantenuto la parola. I documenti declassificati nel 2017 descrivono in dettaglio l’accordo non rispettato. Ma questa non è l’unica lamentela russa nei confronti degli americani. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno iniziato a ritirarsi dai trattati sul controllo degli armamenti. Il più importante è stata la decisione di ritirarsi dal Trattato sui missili anti-balistici (ABM), che era stato la pietra miliare della serie di accordi che avevano posto fine, per un certo periodo, alla corsa agli armamenti nucleari. Alla fine del 2021, Putin, in una conferenza stampa, ha ribadito la posizione russa, che non è illegittima: fine della politica di allargamento dell’Alleanza, impegno a non schierare armi offensive in prossimità del territorio russo e ritiro delle postazioni NATO dai confini del 1997. Il Presidente russo si è poi rammaricato per il rifiuto delle sue principali richieste e ha lamentato di non aver ricevuto alcuna risposta. Ammassando il suo esercito alla periferia dell’Ucraina e “dimostrando che può decidere di inviarlo a Kiev, sta dimostrando che la Russia non è più lo Stato indebolito che ha segnato la fine del XX secolo e l’inizio degli anni 2000”.

Alcuni vi hanno accusato di “sparare sull’ambulanza” quando, a Sudradio o a Cnews, siete andati controcorrente sottolineando le responsabilità di Kiev nel conflitto.

Dal 2014, Kiev ha perseguito una politica assolutamente condannabile nei confronti delle popolazioni russofone del Donbass, alle quali ha vietato l’uso della loro lingua e ha rifiutato qualsiasi autonomia all’interno dell’Ucraina, moltiplicando le prepotenze, gli embarghi e i bombardamenti contro di loro senza che nessuno in Europa denunciasse questa situazione scandalosa, con il pretesto che sarebbe stato in linea con gli argomenti della Russia. Allo stesso modo, l’Occidente ha permesso a Zelensky e agli oligarchi che lo sponsorizzano – in particolare Kolomoïski – di finanziare gruppi neonazisti e di rafforzare il suo esercito per riprendere le regioni autonome con la forza, rifiutando qualsiasi approccio conciliante. Peggio ancora, il 17 febbraio Kiev ha deliberatamente lanciato un’azione militare per riconquistare le repubbliche di Donetsk e Lugansk con il sostegno della NATO, ben sapendo che Mosca non poteva rimanere senza reagire, innescando così l’attuale crisi. Soprattutto, la leadership ucraina ha lavorato per aumentare la paura degli europei nei confronti della Russia. Il 13 marzo 2022, la Rada, il parlamento ucraino, ha pubblicato sul suo account Twitter un video-montaggio di circa quaranta secondi in cui Parigi era vittima di un bombardamento in cui veniva presa di mira la Torre Eiffel e gli aerei russi sorvolavano la capitale francese, seminando il terrore tra la popolazione. La clip si concludeva con Zelensky che diceva: “Se noi cadiamo, cadete anche voi”. Il 14 marzo, il presidente ucraino ha affermato che è solo questione di tempo prima che la Russia attacchi la NATO. In un discorso video, ha avvertito i membri dell’Alleanza Atlantica che Mosca potrebbe invadere il loro territorio in qualsiasi momento: “Se non chiudete i nostri cieli, è solo questione di tempo prima che i missili russi cadano sul vostro territorio”, ha detto arrossendo.

Fin dall’inizio del conflitto, la strategia di Kiev, con il sostegno e la consulenza degli Stati Uniti, è stata quella di spaventare gli Stati membri dell’UE e cercare di coinvolgerli maggiormente nella guerra, ponendoli in una situazione di cobelligeranza. L’argomento principale di Zelensky è che l’aggressione russa “non è una guerra in Ucraina, ma una guerra in Europa” e che l’Ucraina è “lo scudo dell’Europa” contro la Russia. Gli europei, privi di una visione obiettiva, sostengono così, consapevolmente o meno, una strategia americana i cui effetti sono particolarmente negativi per loro, politicamente ed economicamente.

Tuttavia, non si può negare il coraggio di Zelensky e del suo popolo che sta combattendo e il fatto che questo presidente sia diventato un simbolo politico per il popolo ucraino, vero?

Naturalmente non si può negare il coraggio di Zelensky e del suo popolo e il suo status di simbolo politico per una parte del popolo ucraino, è comprensibile. Tuttavia, non perdiamo mai di vista il fatto che egli è solo un attore e un portavoce di alcuni oligarchi e degli americani ….. Ricordiamo anche che le prove della sua corruzione sono evidenti e che è stato eletto nel 2019 per riconciliare il Donbass con Kiev, cosa che non ha mai fatto. Criticare Zelensky e i suoi sponsor non significa ignorare le sofferenze della popolazione civile ucraina, perché sono loro a pagare ogni giorno il prezzo dell’ostinazione dei loro leader.

La continuazione del conflitto che lei deplora – come richiesta di pace urgente – è incoraggiata dagli americani, se seguiamo il suo ragionamento?

Le ricordo che i negoziati sono stati aperti nel marzo 2022, pochi giorni dopo l’inizio dell’offensiva russa in Ucraina, su iniziativa di Israele. In una lunga intervista rilasciata a Channel 12 il 4 febbraio 2023, l’ex primo ministro dello Stato ebraico, Naftali Bennett, ha rivelato molti dettagli sui retroscena di questa mediazione. Ha spiegato che Mosca e Kiev erano disposte a fare importanti concessioni e che una tregua sembrava possibile, aggiungendo che Putin ha accettato di rinunciare alle richieste di “denazificazione” e disarmo dell’Ucraina, mentre Zelensky ha accettato di non chiedere più l’adesione del suo Paese alla NATO. Inoltre, in occasione del suo incontro con Vladimir Putin, Bennett gli ha chiesto: “Intende assassinare Zelensky? Il capo di Stato russo gli promise allora che non avrebbe eliminato il suo omologo ucraino. “Tutto ciò che ho fatto è stato coordinato con Stati Uniti, Germania e Francia”, ha spiegato l’ex capo del governo israeliano. Prima di compiere questo passo, aveva infatti contattato Joe Biden, il suo segretario di Stato Antony Blinken, il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, nonché il cancelliere tedesco Olaf Scholz per offrirsi come “canale di comunicazione” tra Putin e Zelensky. Bennett aggiunge che la mediazione israeliana è stata coordinata nei minimi dettagli con Stati Uniti, Francia e Germania, che alla fine hanno preso le decisioni finali. Sostiene che i negoziati sono stati interrotti dai Paesi occidentali che hanno bloccato il processo, anche se Bennett aveva l’impressione che sia Zelensky che Putin volessero un cessate il fuoco.

Queste rivelazioni sono particolarmente importanti per capire che Zelensky non ha deciso nulla, che è stato quest’ultimo a rifiutare di firmare un cessate il fuoco. Così, non è stato possibile trovare una via d’uscita a causa della decisione dell’Occidente di continuare a colpire Putin.

Israele non è stato l’unico Stato a cercare di mediare tra le due parti: anche la Turchia si è adoperata per garantire il mantenimento del dialogo tra Mosca e Kiev. E dopo un inizio difficile dei negoziati, sembra che le trattative non siano state lontane dal successo. Il 20 marzo, il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha dichiarato che Russia e Ucraina sono “vicine a un accordo”. Il 29 marzo, le delegazioni russa e ucraina si sono incontrate a Istanbul per un nuovo round di negoziati. Il Cremlino ha definito i colloqui “significativi” tra i due Paesi. Lo stesso giorno, il vice ministro della Difesa russo Alexander Fomin ha annunciato ufficialmente il ritiro delle forze russe dalla regione di Kiev e dall’Ucraina settentrionale a partire dal 1° aprile. Mosca ha presentato questo ritiro come un gesto di buona volontà nel quadro dei colloqui con Kiev. Sempre il 29 marzo, Zelensky ha riconosciuto di aver visto segnali “positivi” nei negoziati russo-ucraini in Turchia, ma ha affermato che il suo Paese non ha intenzione di allentare i propri sforzi militari.

Il 30 marzo, nonostante le riserve da parte occidentale, il capo negoziatore ucraino ha affermato che le condizioni erano ormai “sufficienti” per un incontro al vertice tra Putin e Zelensky. L’Ucraina si è detta pronta ad adottare uno status di neutralità in cambio di garanzie di sicurezza, proposta apparentemente accolta con favore da Mosca, che ha confermato la riduzione dell’attività militare intorno a Kiev. Ma in serata tutto è cambiato: il portavoce della presidenza russa, Dmitri Peskov, ha stimato che i negoziati non hanno portato ad alcun progresso, senza che si sappia quale dei due schieramenti sia all’origine di questa impasse.

Può dirci qualcosa di più su come ciò sia avvenuto dietro le quinte e all’interno della struttura di potere democratica statunitense?

L’economista americano Jeffrey Sachs ha recentemente rivelato il ruolo chiave di Joe Biden e della piccola cellula di neoconservatori che lo circonda – Victoria Nulland (sottosegretario di Stato per gli Affari politici), Jake Sullivan (consigliere per la Sicurezza nazionale) e Anthony Blinken (segretario di Stato), soprattutto – in questa decisione che ha conseguenze di vasta portata per il popolo ucraino. Egli sostiene che i russi e gli ucraini erano alla settima o ottava versione di un documento finale che doveva essere firmato da entrambe le parti quando i negoziati sono stati improvvisamente interrotti da un’inversione di rotta di Zelensky. Secondo Sachs, è stata la visita di Biden in Polonia alla fine di marzo a suonare la campana a morto per i negoziati e a spiegare il cambio di rotta di Zelensky. Dopo Varsavia, il Presidente degli Stati Uniti si è dimostrato particolarmente intransigente nei confronti di Mosca e ha sferrato violenti attacchi verbali a Putin, definendolo “macellaio”, dichiarando che “non può rimanere al potere” e ribadendo il suo incrollabile sostegno all’Ucraina. Questo dimostra indiscutibilmente che gli Stati Uniti sono i veri responsabili del proseguimento della guerra con la complicità del governo Zelensky, che è solo una pedina della loro strategia. L'”eroe” di Kiev, sostenuto dalla frangia ultranazionalista del regime, non ha esitato a sacrificare il suo stesso popolo e il futuro del suo Paese per compiacere i suoi mentori occidentali.

Chi degli Stati europei? Il loro ruolo è stato quello di seguaci o di insignificanti?

Così, dall’aprile 2022, stiamo assistendo a una guerra americano-russa attraverso gli ucraini, rilanciata da Washington per cercare di indebolire la Russia – senza successo – e in cui gli Stati europei si sono lasciati trascinare dalla russofobia, dalla sottomissione o dalla stupidità. Questa è una nuova dimostrazione dell’insignificanza degli europei e della loro totale sottomissione a Washington a scapito dei propri interessi. Se la Francia è relegata al ruolo di comparsa in questa crisi, nonostante i patetici gesti del suo presidente, è soprattutto la Germania a pagare il prezzo più alto in questo conflitto. Infatti, è stata vittima di un vero e proprio atto di guerra da parte del suo alleato e protettore americano con il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2. Ma nonostante questa operazione abbia avuto conseguenze disastrose per l’economia tedesca, né il governo di Berlino, né i parlamentari, né i media, né la popolazione si sono tirati indietro, letteralmente inchinandosi a Washington, che ha così raggiunto uno dei suoi obiettivi: tagliare definitivamente la Germania dalla Russia, provocando una rottura inconciliabile tra i due Stati, e ridurre la crescente influenza di Berlino in Europa e il suo peso economico nel campo occidentale. Peggio ancora, il BND, il servizio segreto tedesco, ha convalidato la ridicola storia pubblicata dagli americani per smentire la versione dei fatti presentata dallo stimato giornalista americano Seymour Hersh. Notiamo di sfuggita un altro paradosso particolarmente eclatante: l’appoggio della Germania – in particolare del suo militantissimo Ministro degli Esteri Annalena Baerbock del Partito Verde – al regime di Zelensky, anche se quest’ultimo comprende, fino ai più alti livelli del suo esercito, sostenitori di un’ideologia nazista nata al di là del Reno e che si credeva debellata dal 1945… Ma non siamo lontani da una contraddizione… Così gli europei, su pressione americana, hanno sposato la causa di un regime ucraino corrotto e non democratico, che accoglie gli estremisti tra le sue fila e ha represso con la forza le richieste delle popolazioni del Donbass di far rispettare la loro lingua.

Come vede l’esito di questo terribile conflitto nel cuore dell’Europa, che secondo alcuni potrebbe degenerare in una guerra mondiale convenzionale o addirittura nucleare?

Rifiutando un’uscita negoziata dal conflitto a favore di Mosca nel marzo 2022, gli americani hanno prolungato e aggravato il conflitto. Tuttavia, il conflitto si è evoluto in una direzione che non avevano previsto, perché avevano scommesso su un collasso economico della Russia. Ma questo non è avvenuto, così come la sconfitta dell’esercito russo sul campo o il bando unanime di Mosca da parte della comunità internazionale. Peggio ancora, si sta affermando un nuovo sistema economico e finanziario che minaccia l’egemonia politica e monetaria di Washington. Ancora una volta, gli americani si dimostrano pessimi strateghi e veri e propri apprendisti stregoni. La loro strategia di indebolimento della Russia si è trasformata in una guerra esistenziale per il mantenimento del loro dominio sul mondo. La trappola che hanno teso potrebbe chiudersi su di loro.

https://www.ledialogue.fr/438/Une-analyse-%C3%A0-contre-courant-de-la-crise-en-Ukraine-par-l-expert-du-renseignement-Eric-Den%C3%A9c%C3%A9-2-2

https://www.ledialogue.fr/400/Une-analyse-%C3%A0-contre-courant-de-la-crise-en-Ukraine-par-l-expert-du-renseignement-Eric-Den%C3%A9c%C3%A9

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Il più alto ufficiale militare polacco ha condiviso alcune verità impopolari sulla guerra per procura tra NATO e Russia, di ANDREW KORYBKO

Il più alto ufficiale militare polacco ha condiviso alcune verità impopolari sulla guerra per procura tra NATO e Russia

ANDREW KORYBKO
29 APR 2023

Nessuno dovrebbe dubitare delle intenzioni del Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate polacche, il generale Rajmund Andrzejczak, o sospettare che sia un cosiddetto “agente russo”, dal momento che desidera sinceramente che l’Occidente vinca la sua guerra per procura con la Russia in Ucraina, ma è anche molto preoccupato che possa perdere, a meno che la sua parte non riconosca le verità impopolari che ha appena condiviso, dal momento che la mancanza di ciò potrebbe condannare Kiev alla sconfitta.

L’ultima volta che il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate polacche, il generale Rajmund Andrzejczak, ha attirato l’attenzione dei media è stato a fine gennaio, quando ha spiegato quanto formidabile fosse la Russia in quel momento. Il quotidiano polacco Do Rzecy ha riferito della sua recente partecipazione a una sessione strategica con l’Ufficio per la sicurezza nazionale, durante la quale ha condiviso alcune verità impopolari sulla guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina.

Andrzejczak ha affermato che la situazione non è affatto buona per Kiev se si considerano le dinamiche economiche di questo conflitto, richiamando in particolare l’attenzione sulle finanze, le questioni infrastrutturali, le questioni sociali, la tecnologia, la produzione alimentare, ecc. Da questo punto di vista, egli prevede che la Russia possa continuare a condurre le sue operazioni speciali per altri 1-2 anni prima di iniziare a sentire una pressione strutturale per ridurre le sue attività.

Al contrario, Kiev sta bruciando decine di miliardi di dollari di aiuti, ma è ancora molto lontana dal raggiungere i suoi obiettivi massimi. Andrzejczak ha detto candidamente che i partner occidentali della Polonia non stanno valutando adeguatamente le sfide che ostacolano la vittoria dell’Ucraina, comprese quelle legate alla “corsa alla logistica”/guerra di logoramento” che il capo della NATO ha dichiarato a metà febbraio. Un altro grave problema riguarda la riluttanza dei rifugiati a tornare presto in patria.

Questi fattori economici, logistici e demografici si sono combinati per convincerlo che deve urgentemente sensibilizzare il più possibile su questi problemi per “dare all’Ucraina una possibilità di costruire il suo futuro sicuro”, che nel contesto in cui ha condiviso questa motivazione, è un eufemismo per un aumento degli aiuti occidentali. Ha poi aggiunto che “come soldato, sono anche obbligato a presentare la variante più sfavorevole e difficile da attuare, dando campo a tutti coloro che possono e devono aiutare l’Ucraina”.

Nessuno dovrebbe quindi dubitare delle intenzioni di Andrzejczak o sospettare che sia un cosiddetto “agente russo”, dal momento che vuole sinceramente che l’Occidente vinca la sua guerra per procura con la Russia in Ucraina, ma è anche molto preoccupato che possa perdere se la sua parte non riconosce le verità impopolari che ha appena condiviso. A suo avviso, il mancato riconoscimento potrebbe condannare Kiev alla sconfitta, anche se si può argomentare in modo convincente che perpetuare indefinitamente questo conflitto, come cerca di fare la Polonia, potrebbe essere ancora più disastroso.

Dopo tutto, nessuna delle tre sfide su cui ha richiamato l’attenzione può essere superata a breve. L’unica eccezione potrebbe essere quella demografica, ma ciò comporterebbe la modifica della legislazione dell’UE per consentire l’espulsione dei rifugiati, cosa improbabile. I fattori economici e logistici sono sistemici e riguardano non solo l’Ucraina, ma l’intero Occidente in generale. È semplicemente impossibile sostenere il ritmo, l’entità e la portata degli aiuti multidimensionali dell’Occidente all’Ucraina se il conflitto si trascina.

Come ha ammesso lo stesso Andrzejczak, “non abbiamo munizioni. L’industria non è pronta non solo a inviare attrezzature all’Ucraina, ma anche a rifornire le nostre scorte, che si stanno sciogliendo”. Considerando che la Polonia è il terzo più importante patrocinatore dell’Ucraina dopo l’Asse anglo-americano, ciò suggerisce fortemente che tutti gli altri membri della NATO stanno lottando tanto quanto l’Ucraina per mantenere il ritmo, l’entità e la portata del sostegno, se non di più, dal momento che molti sono molto più piccoli e quindi meno in grado di contribuire in questo senso.

Di conseguenza, questa osservazione significa che l’imminente controffensiva di Kiev sarà probabilmente il suo “ultimo urrà” prima della ripresa dei colloqui di pace con la Russia, poiché l’Occidente non sarà in grado di mantenere l’assistenza per molto tempo ancora. Andrzejczak sembra ben consapevole di questo fatto “politicamente scomodo”, per cui vuole che il suo schieramento conceda ai suoi proxy quanto più possibile fino alla fine dell’operazione, nella speranza di potersi trovare in una posizione relativamente più vantaggiosa al momento della ripresa dei colloqui.

Lui e coloro che la pensano come lui stanno facendo due azzardi molto pericolosi: 1) si aspettano che l’imminente controffensiva abbia almeno un lieve successo nel guadagnare terreno; e 2) prevedono che la Russia accetterà di riprendere i colloqui di pace una volta che l’operazione sarà finalmente terminata. I rischi corrispondenti sono evidenti in quanto: 1) la controffensiva potrebbe fallire a tal punto che la Russia sfrutterebbe questo disastro per guadagnare invece una quantità incerta di terreno; e/o 2) Mosca potrebbe non riprendere i colloqui su richiesta di Kiev.

Nessun politico responsabile darebbe per scontata una di queste variabili, motivo per cui è probabilmente meglio che Kiev abbandoni la controffensiva e accetti la proposta di cessate il fuoco della Cina, invece di correre il rischio crescente che fallisca e/o che la Russia continui a combattere sapendo che il sostegno occidentale potrebbe presto finire. Questi scenari peggiori, tra loro interconnessi, stanno diventando sempre più probabili a causa delle sfide economiche e logistiche individuate da Andrzejczak, con la sola possibilità di incidenti russi a bilanciare le probabilità.

Tuttavia, tutti gli indizi suggeriscono che la controffensiva inizierà presto, nonostante le gravi sfide ad essa connesse, con questa decisione guidata da fattori politici legati alla necessità di mostrare all’opinione pubblica occidentale che i loro oltre 150 miliardi di dollari di aiuti sono stati spesi per qualcosa di tangibile. Anche se dovesse rivelarsi uno spettacolo disastroso, i decisori sono disposti a correre questo rischio, e alcuni come Andrzejczak vogliono andare fino in fondo per la disperazione di segnare una vittoria finale prima di riprendere i colloqui di pace.

02https://korybko.substack.com/p/polands-top-military-official-shared?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=118112205&isFreemail=true&utm_medium=email

https://dorzeczy.pl/opinie/433303/gen-andrzejczak-sytuacje-oceniam-jako-bardzo-zla.html

Il generale Andrzejczak sulla guerra in Ucraina: Purtroppo la situazione non è buona
Aggiunto: 27 aprile 2023, 17:1311284 26

Il Gen. Rajmund Andrzejczak, capo dello Stato Maggiore dell’Esercito polacco Fonte: KPRP / Przemysław Keler
Valuto la situazione della sicurezza come molto negativa, molto pericolosa per la Polonia”, ha dichiarato il generale Rajmund Andrzejczak, capo dello Stato Maggiore dell’esercito polacco, a proposito della guerra in Ucraina.
Durante un dibattito strategico presso l’Ufficio di sicurezza nazionale, Andrzejczak ha affermato che “la guerra non è una questione militare. – La guerra è stata, è, e non c’è alcuna indicazione che sarà in altro modo, una politica, e ha un numero fondamentale di fattori economici tra i suoi fattori determinanti: finanza, questioni infrastrutturali, questioni sociali, tecnologia, produzione di cibo e tutta una serie di questioni che devono essere messe in questa scatola per capire questa guerra”, ha sottolineato.

– Quando guardo alla guerra in Ucraina, prima di tutto la vedo attraverso queste lenti politiche, e sfortunatamente non ha un bell’aspetto”, ha valutato. Ha spiegato che nel breve orizzonte di pianificazione, 1-2 anni, “non c’è alcuna indicazione che la Russia non abbia i soldi per la guerra”. – Gli strumenti finanziari di cui disponeva prima della guerra, le dinamiche di spesa e l’efficacia delle sanzioni o l’intera complessa situazione economica indicano che la Russia avrà i soldi per la guerra, ha aggiunto.

– L’Ucraina ha enormi problemi finanziari. Sappiamo di quanto ha bisogno al mese. Sappiamo qual è l’aiuto americano, di tutto l’Occidente civilizzato. Sappiamo anche qual è l’aiuto polacco in questo settore, perché siamo il secondo donatore e probabilmente dovremmo essere un importante ispiratore per gli altri. La velocità di logoramento nell’area finanziaria oggi va a svantaggio (dell’Ucraina – ndr) a mio avviso. Purtroppo”, ha detto.

Gen. Andrzejczak: la situazione è molto pericolosa per la Polonia
Ha inoltre sottolineato che nel prossimo futuro non c’è alcuna indicazione che gli ucraini fuggiti dalla guerra torneranno a casa e inizieranno il processo di ricostruzione del Paese. Ha sottolineato che il vertice della Nato che si terrà a luglio a Vilnius sarà “più che altro un vertice della nostra credibilità, non solo della Nato, ma di tutto l’Occidente”. – Se siamo in ritardo, se non cogliamo questa opportunità e non mostriamo determinazione, non daremo all’Ucraina la possibilità di costruire un futuro sicuro”, ha sottolineato.

– Come soldato, è anche mio dovere presentare l’opzione più sfavorevole e difficile, dando spazio a tutti coloro che possono e devono aiutare l’Ucraina, valuto questa situazione di sicurezza come molto negativa, molto pericolosa per la Polonia”, ha detto Andrzejczak.

Alla domanda se i leader occidentali si rendano conto che l’Ucraina è molto lontana dal vincere la guerra con la Russia, il generale ha risposto che “una prospettiva disincantata sulla valutazione delle minacce è ancora una sorpresa per molti, ancora scioccante”.

– Non abbiamo le munizioni. L’industria non è pronta non solo a inviare attrezzature all’Ucraina, ma anche a ricostituire le nostre scorte, che si stanno sciogliendo. Questa consapevolezza non è la stessa che c’è qui sulla Vistola, e questo deve essere comunicato assolutamente, senza anestesia, a tutti e in tutti i forum dove è possibile, cosa che sto facendo”, ha sottolineato il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito polacco.

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Ucraina, 33a puntata! Ultime ore per Bakhmut, il resto in sospeso_Con Max Bonelli e Stefano Orsi

Questione di giorni, se non di ore, Bakhmut non ci sarà più. Tornerà ad essere Artemosk. Non sarà la fossa nel quale sprofonderà l’esercito ucraino e con esso, probabilmente, il regime. E’ certamente un duro colpo alla loro solidità e allaloro possibilità di sopravvivenza. Sia Zelensky che la NATO hanno profuso enormi energie in una narrazione epica molto lontana dalla tragica realtà. Gli stessi tempi di una controffensiva, mai così preannunciata e sbandierata, sono tarati a prescindere dalle possibilità di successo soprattutto in funzione del contraccolpo negativo determinato dalla perdita dell’importante centro urbano. Nel frattempo persiste un gioco di posizionamento di truppe e materiali, indispensabile quantomeno ad avviare la reazione, cui corrisponde una puntuale opera di distruzione dei centri logistici e di comunicazione ad opera delle forze militari russe. I volti dei militari ucraini direttamente impegnati sul campo e le distese di caduti sui campi di battaglia documentati in numerosi filmati, specie di militari che non riescono nemmeno a vedere in faccia il loro avversario, valgono più dei bollettini di guerra trionfalistici cui ci sta abituando il regime ucraino. Cresce a livello internazionale la pressione per fermare la guerra; ma cresce ancora di più l’ostinazione di una amministrazione statunitense ormai intrappolata su una strada obbligata senza vie di uscite alternative. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni, di Davide Gionco

L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni
di Davide Gionco

Da quando esiste l’Unione Europea non fa che ricordarci, un giorno sì e l’altro pure, di attuare le famose “riforme strutturali”. Come “riforme strutturali” sarebbero intesi degli investimenti oculati che consentano di mettere insieme l’equilibrio di bilancio pubblico e la realizzazione di interventi che portino a dei vantaggi economici permanenti per il paese.

Dopo di che la stessa Unione Europea, da sempre, propone e impone (si noti il numero di raccomandazioni ai vari paesi dal 2011 al 2018)

delle “riforme” che hanno dimostrato di non sortire questi risultati, come privatizzazioni e tagli dei servizi pubblici, della sanità, del sistema pensionistico. Queste riforme in realtà ingrassano gli incassi degli investitori finanziari che operano in questi settori, sistematicamente a spese dei cittadini, che si ritrovano con servizi di peggiore qualità e più costosi.
E’ purtroppo noto che a Bruxelles operano 12’500 lobbisti registrati ufficialmente, più molti altri che operano in modo non ufficiale. Oltre a questi ci sono quelli che operano a Francoforte, sede della BCER. Tutti questi lobbisti operano con lo scopo di portare vantaggi all’organizzazione che rappresentano, mentre evidentemente i cittadini non dispongono di lobbisti che rappresentino i loro interessi.
Lo scandalo che ha coinvolto la ex-vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili è molto probabilmente solo la punta dell’iceberg. Basti ricordare che l’ex-presidente della Commissione Europea Manuel Barroso , non appena concluso il suo mandato nel 2014, diventò immediatamente un alto dirigente della Goldman Sachs. Senza parlare degli ordinativi di vaccini anti-covid per miliardi di euro fatti per da parte dell’attuale presidente Von der Leyen tramite degli SMS privati.

Ma non è di questo che vogliamo parlare. Lasciamo ai lettori, con un accorato invito ai giudici, di occuparsi degli scandali all’interno delle varie autorità europee.
Parliamo invece delle vere riforme strutturali.

 

La fine affrettata del Superbonus 110%

Il Superbonus 110% portava in sé degli aspetti fondamentali che avrebbero permesso a chi ci governa di realizzare la più grande riforma strutturale degli ultimi 30 anni. Anzi, se ci limitiamo alle riforme di tipo economico-finanziario, c’erano tutti i presupposti per la più grande riforma strutturale dai tempi dell’unità d’Italia.
L’aspetto fondamentale di questa riforma mancata non riguardava la finalità ecologica del provvedimento (isolamento degli edifici, risparmio energetico, riduzione delle emissioni di CO2), ma riguardava gli effetti del provvedimento sul bilancio dello Stato.
Per la prima volta nella storia era stato adottato un provvedimento che, strutturalmente, consentiva di non pesare negativamente sul bilancio dello stato, pur portando molti benefici ai cittadini privati. Anzi, con opportuni accorgimenti il provvedimento avrebbe consentito di realizzare degli attivi di bilancio strutturali negli anni a venire, tali da portare ad una progressiva riduzione del debito pubblico.
Oltre a questo gli effetti sull’economia reale del Paese portati dal Superbonus, anche se limitati nel tempo, hanno dimostrato tutto il potenziale di aumento strutturale dell’occupazione in Italia. Se il provvedimento fosse stato esteso anche ad altri settori dell’economia, oltre a quello rapidamente saturato dell’edilizia, si sarebbe potuti arrivare in pochi anni a creare i 5-6-7 milioni di posti di lavoro necessari per eliminare la disoccupazione in Italia, così come si sarebbe potuto conseguire il necessario graduale aumento degli stipendi, in un paese (l’Italia) in cui gli stipendi reali sono inferiori a quelli di 20 anni fa e in cui il tasso di inflazione sta erodendo drammaticamente il potere di acquisto dei lavoratori.

Come noto prima il governo Draghi e poi l’attuale governo Meloni hanno posto fine in modo affrettato al provvedimento. Come spesso accade in Italia, i mezzi di informazione non hanno aiutato a fare chiarezza su quanto accaduto. Non sono stati evidenziati i punti di forza del provvedimento che avrebbero consigliato di mantenerlo e non sono stati evidenziati i punti deboli che bastava semplicemente correggere. Il settore dell’edilizia tornerà nella crisi in cui si trovava da oltre 10 anni.
In questo articolo cerchiamo di fare chiarezza e di spiegare perché l’Italia, senza che i nostri governanti se ne rendessero conto, ha perso una occasione di storica riforma strutturale della propria economia.

 

I componenti della misura Superbonus 110%

Il Superbonus 110% è stata una misura di stimolo fiscale dell’economia italiana costituita dai componenti seguenti :

  • Un meccanismo innovativo di finanziamento. Lo Stato concede ora degli “sconti fiscali” che stimolano la crescita economica. Lo fa senza spendere nulla ora. Gli “sconti fiscali” sono cedibili a terzi. Quindi anche dei soggetti fiscalmente non capienti sono in grado di usufruire dei benefici economici del provvedimento. La possibilità teorica di cedere in modo illimitato, e trasparente, i crediti fiscali consente a chi commissiona i lavori di usare i crediti fiscali per pagare i lavori alla ditta. In seguito consente alla dita di usare quei crediti fiscali per pagare i propri fornitori. E così via, fino a che, negli anni a seguire, poco alla volta quei crediti fiscali verranno “spesi” per pagare le tasse. In quel momento futuro lo Stato registrerà effettivamente una riduzione degli introiti fiscali pari allo sconto fiscale emesso anni prima, ma nel frattempo la cessione plurima dei quei crediti fiscali avrà portato ad una maggiore emersione di fatturato imponibile per le varie imprese, al punto che l’aumento di introiti fiscali innescato compensa e supera i futuri ammanchi per gli sconti fiscali.
    E’ quello che, tecnicamente, viene chiamato moltiplicatore fiscale.
    Un centro studi economico serio e conosciuto come Nomisma ha quantificato i crediti fiscali emessi a 71,8 miliardi di euro (non di spese attuali per lo Stato, ma di future minori entrate) ed ha quantificato l’impatto economico benefico sull’economia a 195,2 miliardi di euro, tale da assicurare maggiori entrate fiscali per lo Stato tale da compensare largamente le minori entrate previste.
    Il concetto importante da comprendere che il meccanismi che consente la sostenibilità fiscale per provvedimento è proprio il meccanismo della cessione dei crediti fiscali. Quanto più vengono ceduti prima di essere scontati, tanto più il provvedimento è vantaggioso per le casse dello Stato.
    Questo meccanismo di sostenibilità non esiste per gli altri bonus fiscali “tradizionali” che gli italiani conoscono da molto tempo. I bonus ordinari sono personali ovvero vengono concessi solo ai “ricchi” che hanno sufficiente capienza fiscale per detrarli dalle proprie imposte. Non possono essere ceduti a terzi per il pagamento di altre prestazioni lavorative. Di conseguenza il loro moltiplicatore fiscale è molto più basso e, dal punto di vista del bilancio dello stato, sono decisamente meno sostenibili.
    Il principale motivo per cui gli ultimi 2 governi hanno deciso di porre fine al provvedimento è stata la sua supposta insostenibilità economica di bilancio anche se, dati alla mano, non è per nulla dimostrata. Ci ritorniamo nella parte finale dell’articolo.

 

  • L’identificazione di uno specifico settore dell’economia beneficiario del provvedimento. Si è deciso che solamente l’edilizia privata, per gli interventi di ristrutturazione energetica, doveva essere beneficiaria della misura.
    Ma, chiediamoci, se il meccanismo della cedibilità dei crediti rendeva la misura sostenibile, perché non utilizzare il Superbonus anche per finanziare i lavori di edilizia pubblica?
    Lo Stato, anziché faticare a trovare a bilancio le decine di miliardi necessarie a costruire e ristrutturare scuole ed ospedali (per fare un esempio), si sarebbe potuto auto-finanziare pagando le imprese mediante dei crediti fiscali cedibili a terzi.
    E poi perché fermarsi all’edilizia?
    Non si sarebbero potuti dare dei crediti fiscali alle famiglie più povere da “spendere” per andare in vacanza, portando anche beneficio agli operatori turistici?
    E non si sarebbero potuti pagare dei lavori di estensione della fibra ottica per le telecomunicazioni?
    La decisione di limitare il provvedimento di stimolo fiscale ad un solo settore dell’economia non trova spiegazioni logiche, se non quella di non avere compreso il meccanismo di finanziamento che ne avrebbe garantito la copertura.

Questa decisione, peraltro, ha portato troppi incentivi in un solo settore dell’economia, che non era in grado di soddisfare la troppo rapida crescita della domanda, il che è uno dei fattori che ha contribuito all’aumento dei prezzi. Nello stesso tempo ha lasciato privi di incentivi altri settori dell’economia nei quali si sarebbe potuto investire.

 

  • Una quota di detrazione fiscale pari al 110% dell’importo delle spese.
    Lo stimolo alle ristrutturazioni energetiche degli edifici avrebbe funzionato anche limitando gli sgravi fiscali ad esempio all’80%.
    Mediamente il tempo di ritorno degli investimenti di isolamento termico degli edifici, senza incentivi, è dell’ordine di 20-30 anni. Con detrazioni all’80% il tempo di ritorno si riduce a 4-6 anni. Le banche avrebbero potuto fare credito decennale per finanziare la quota restante del 20% dei lavori, facendosi ripagare dalle economia di energia. All’estinzione del mutuo sarebbero rimasti tutti i vantaggi economici di economia sulle bollette a beneficio degli utenti.
    Il fatto di poter detrarre il 100% delle spese, più un ulteriore 10% di commissioni da corrispondere alle banche (a chi, se no?) ha annullato le necessarie trattative commerciali fra venditore ed acquirente. Questo fattore, unito alla concentrazione degli investimenti in un unico settore dell’economia, ha ulteriormente contribuito all’aumento dei prezzi dei lavori e, quindi, a ridurre la redditività degli investimenti.
    Non era difficile comprendere che sarebbe stato molto meglio limitare all’80% le detrazioni fiscali, pur mantenendo la possibilità di cedere lo sconto fiscale.
    Molte persone sono convinte che sia stata l’esagerazione della quota di detrazioni al 110% a rendere insostenibile il provvedimento.
    Questo non è vero. Come i dati di Nomisma dimostrano, la sostenibilità fiscale del provvedimento era comunque garantita dal meccanismo della cessione.
    L’errata scelta della quota al 110% ha ridotto l’efficacia economica del provvedimento, probabilmente perché qualcuno ha pensato di accrescere gli utili per le banche al 10% e più della torta, ma non ne ha compromesso la sostenibilità.
    Per migliorare il Superbonus sarebbe bastato ridurre all’80% la percentuale delle spese da portare in detrazione e fare un accordo con il sistema bancario per coprire il restante 20% con crediti ad hoc, ripagati dai risparmi sulle bollette energetiche.

 

  • Un provvedimento incerto e non strutturale. Fin dalla sua origine la misura del Superbonus 110% è stata concepita come misura non-strutturale. Ovvero ogni anno, nella legge finanziaria, si doveva decidere se confermare o meno il provvedimento, in quali termini e secondo quali regole.
    Ora: se l’obiettivo del provvedimento deve essere quello di creare dei posti di lavoro stabili, allora è necessario garantire alle imprese una continuità degli investimenti. Solo avendo la certezza di commesse per i 5-10 anni a venire le imprese investiranno nell’assunzione di giovani da formare e nell’acquisto di macchinari. Un provvedimento strutturale è qualcosa che risulta da una pianificazione a medio-lungo termine, non qualcosa che di anno in anno si decide di rinnovare o di porvi fine.
    La combinazione di queste incertezze con la rapida crescita di commesse nel settore ha contribuito ulteriormente all’aumento dei prezzi. Non essendoci la possibilità di fare i lavori negli anni a seguire, le imprese si sono trovate di fronte ad una domanda eccessiva e non rimandabile. Quindi hanno aumentato i prezzi.
    Se il provvedimento fosse stato confermato per almeno 10 anni, questo avrebbe portato ad una maggiore efficienza degli investimenti ed a ricadute molto positive per l’occupazione negli anni a venire.

Anche questo è un aspetto che era sufficiente correggere, senza porre fine al provvedimento.

  • Una eccessiva burocrazia. Sappiamo che i burocrati dei ministeri vivono sulle complicazioni amministrative imposte ai cittadini. Nel caso del Superbonus 110% è stato probabilmente stabilito il record mondiale della burocrazia, che è stata resa ancora più complessa nel caso di interventi di ristrutturazione effettuati da condomini, quindi da molti proprietari “associati” fra loro. Gli effetti di questo eccesso di burocrazia sono stati un aumento delle prestazioni professionali per la realizzazione dei lavori (altra perdita di efficienza degli investimenti), dei ritardi nell’avvio dei lavori e dei vantaggi dei committenti singoli (in genere persone benestanti e accorte che hanno saputo approfittare dell’occasione) rispetto ai condomini (composti da appartamenti di persone povere e meno capaci di organizzarsi).
    Molti che avrebbero voluto realizzare (Nomisma li stima a 10 milioni di persone, 1/6 della popolazione) degli interventi di ristrutturazione energetica, cosa che sarebbe stata utile sia per il bilancio delle famiglie povere, sia per la pesante bolletta energetica del nostro paese, sia per i benefici ambientali, non sono riusciti a farlo a causa dell’eccesso di burocrazia.
    Davvero non si capisce la necessità di certificare a priori la conformità degli interventi.
    Dal punto di vista della sostenibilità fiscale, come abbiamo dimostrato al punto 1), questi controlli non erano necessari. La misura si sostiene tramite il meccanismo della cedibilità dei crediti fiscali, indipendentemente dalla conformità dei lavori. Nessun costo aggiuntivo a carico dello Stato.
    Dal punto di vista degli obiettivi di risparmio energetico era sufficiente affidare la progettazione a dei tecnici competenti e fare delle verifiche “sostanziali” sui lavori effettivamente realizzati. Non era difficile trovare dei tecnici privi di conflitti di interesse per fare delle ispezioni tecniche nei cantieri.
    Resta il sospetto che la burocrazia sia stata introdotta proprio con l’obiettivo di rendere meno fruibile il provvedimento.
    Se l’obiettivo voleva essere quello di aiutare le famiglie povere a realizzare interventi di risparmio energetico e velocizzare l’esecuzione dei lavori, lo si poteva fare in modo semplice, riducendo al minimo la burocrazia.

 

Il Superbonus e i vincoli di bilancio

Probabilmente non tutti sanno che cosa rientra nel calcolo del “debito dello stato”.
Molti pensano che si tratti di un debito simile a quello di una famiglia. In realtà questo non è vero.
Nel debito pubblico vengono contabilizzati i titoli di stato in circolazione, che il Tesoro si è impegnato a rimborsare entro una certa scadenza e ad un certo tasso di interesse. Si tratta di denaro in qualche modo “preso in prestito” dallo Stato.
Ma nel debito pubblico non sono contabilizzati le fatture non pagate ai fornitori che hanno già fornito le loro prestazioni. Stiamo parlando di diverse decine di miliardi di euro di debiti commerciali non saldati dei vari enti pubblici nei confronti di imprese private.
Secondo le normative di Eurostat questi importi non vengono conteggiati nel debito, in quanto incidono sul bilancio dello Stato solo nel momento in cui il denaro esce effettivamente dalle casse del Tesoro.
Con la stessa logica anche le detrazioni fiscali sono considerate rientranti nel conteggio del debito solo nel momento in cui vengono effettivamente scontate. Questo perché, per diversi motivi, può accadere con uno sgravio fiscale, come ad esempio i vecchi bonus per le ristrutturazioni edilizie, non venga completamente utilizzato, magari per decesso della persona avente diritto o per incapienza fiscale.

Il superbonus 110% avrebbe dovuto essere stato considerato allo stesso modo. Non un debito o deficit dello Stato al momento della sua emissione, ma solo al momento in cui, dopo la catena di cessioni, qualcuno effettivamente lo utilizza per pagare meno tasse.
Sulla questione vi è stato a inizio anno il pronunciamento del rappresentante di Eurostat Luca Ascoli, così come del direttore generale del MEF Giovanni Spalletta sul modo di calcolare nel bilancio dello stato questo nuovo tipo di sgravio fiscale. La differenza sostanziale rispetto ai bonus “vecchio stile” è che in questo caso è quasi certo che il credito fiscale venga utilizzato, in quanto la catena di cessioni del credito terminerà nelle mani di qualcuno certamente in grado di utilizzarlo.
Alla fine l’interpretazione dei quei geni della Ragioneria dello Stato è stata che debba essere inserito, contraddicendo la logica utilizzata per i debiti commerciali e per gli ordinari bonus fiscali, non al momento futuro dello sconto, ma già al momento della emissione.
E questo è significato, dal punto di vista contabile, che per gli anni già trascorsi 2020-2022, nel corso dei quali lo Stato ha emesso le decine di miliardi di crediti fiscali del Superbonus, è stato ricalcolato il bilancio dello Stato, scoprendo (ORRORE!) uno sforamento importante nel deficit preventivato per quegli anni e complessivamente stimato dai ragionieri e dal ministro Giorgetti in complessivi 120 miliardi di “buco di bilancio”.
Questa è la ragione per la quale, ufficialmente, il governo Meloni ha deciso di affossare definitivamente il provvedimento, ponendo soprattutto fine al meccanismo della cessione dei crediti fiscali.
Proviamo a paragonare al situazione a quella di una normale impresa o famiglia. Ho la possibilità di fare un investimento di 71 o di 120 mila euro (come dice Giorgetti) che, nel giro di 2 anni, mi porta benefici per 159 mila euro, con la certezza di rientrare rapidamente del mio indebitamento. Dovrei decidere di rinunciare a quell’investimento solo perché mi costa troppo caro nel primo anno?
Solo un folle (o un ministro dell’economia italiano) potrebbe ragionare in questo modo.
E a nulla serve la solita scusa “ce lo chiede l’Europa”, sia perché l’Europa per 2 anni consecutivi aveva approvato senza problemi le manovre finanziarie contenenti la misura del Superbonus. E se anche l’UE avesse qualcosa da ridire, il fatto di attuare una misura strutturale che consente nello stesso tempo di fare investimenti nella direzione delle politiche “green” europee, di creare 600’000 posti di lavoro e di far quadrare i conti del bilancio per gli anni a venire metterebbe a tacere queste critiche.

 

Conclusioni

Gli ultimi 2 governi del nostro paese hanno messo tutto il loro impegno non per rimuovere le criticità citate dalla misura del Superbonus 110%, ma per renderla via via sempre meno sostenibile dal punto di vista contabile, impedendo la cessione illimitata dei crediti fiscali.
Prima del governo Draghi, che ha fatto di tutto per limitare la cessione dei crediti alle sole banche, le quali ad un certo punto hanno rifiutato la cessione, avendo già raggiunto la loro capienza fiscale. L’impossibilità di cedere ad altri i crediti unita all’indisponibilità delle banche ha portato alla creazione dei “crediti incagliati”. Si tratta di farina cattiva del sacco di Draghi al 100%. Il meccanismo di base della cessione illimitata dei crediti doveva essere favorito, non ostacolato.
Il nuovo governo Meloni non ha fatto nulla per rimediare ai danni causati da Draghi al Superbonus, se non di trovare una soluzione “all’italiana” per i crediti incagliati, solo dopo aver posto fine al provvedimento.
La motivazione che è stata venduta all’opinione pubblica di un “buco contabile” insostenibile non è mai stata supportata da dati reali. Giorgetti si è limitato ad evidenziare il presunto scostamento di bilancio del primo anno (che in realtà non c’è stato nella sostanza), senza contabilizzare le maggiori entrate fiscali innescate dall’effetto moltiplicatore, già misurato nel corso dei primi 2 anni di attuazione del provvedimento. Quindi entrate certe, non ipotetiche.
Oltre al citato studio di Nomisma, altri istituti hanno validato al sostenibilità fiscale del provvedimento. Possiamo citare anche la Open Economics, la Luiss Business School, la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, il Cresme, il Censis, l’Associazione Nazionale Costruttori, il Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Non è ammissibile che un governo giustifichi di fronte all’opinione pubblica la cessazione di una misura che creerà 600’000 nuovi disoccupati (fine del mini-boom dell’edilizia), un calo del PIL, la sostanziale cessazione degli interventi di ristrutturazione energetica, solo sulla base di una cifra annunciata senza un confronto con gli istituti specialisti del settore che danno cifre completamente diverse.

A questo punto il governo ha rinunciato all’unico strumento di riforma strutturale dell’economia che aveva fra le mani. La prosecuzione dei bonus fiscali non cedibili porterà a benefici economici molto limitati per il Paese e probabilmente ad una insostenibilità fiscale, causa il basso fattore moltiplicatore. Siamo ritornati alla politichetta di misure-spot a breve termine, priva di visione e totalmente inadeguata per un rilancio economico dell’Italia.
E’ stata persa una enorme occasione di riformare il bilancio dello stato, strutturandolo su di un bilancio in euro per le spese correnti, pubbliche e private, e in moneta fiscale (tali sono i crediti fiscali cedibili) per gli investimenti per lo sviluppo.
E’ stata persa l’occasione di lanciare un piano trentennale di ristrutturazione energetica degli edifici in Italia, così come la possibilità di un piano strutturale di rilancio degli investimenti pubblici per ammodernare le strutture sanitarie, scolastiche, le telecomunicazioni, ecc.

E’ solo il caso di far notare come se l’Italia adottasse questo strumento in modo stabile per finanziare gli investimenti pubblici e per stimolare gli investimenti privati, avremmo la possibilità da un lato di ridurre strutturalmente la spesa pubblica “in euro” e dall’altro lato di stimolare la crescita del Prodotto Interno Lordo (come è fattivamente avvenuto grazie al Superbonus 110%).
Il risultato sarebbe un rallentamento della crescita del debito ed un aumento del PIL, ovvero la tanto invocata riduzione del rapporto debito/PIL richiesta dai trattati europei.
Ma a quanto pare gli esperti del MEF preferiscono continuare con le politiche economiche del passato, che da 30 anni hanno dimostrato né di potere ridurre il rapporto debito/PIL, né di portare crescita economica al Paese.
La buona occasione per la più grande riforma economica strutturale degli ultimi 40 era arrivata, ma i nostri governanti hanno pensato bene di rinunciarvi.

Di positivo ci resta solo il fatto di avere dimostrato, per chi sa guardare obiettivamente i risultati economici, che si trattava della strada giusta da seguire per la ripresa economica del Paese.
Quando avremo un governo finalmente con l’obiettivo di fare qualcosa di strutturalmente utile per i cittadini, potrà ripristinare il meccanismo degli sgravi fiscali a cessione illimitata ed utilizzarlo per rilanciare molti settori dell’economia, in modo da finanziare delle politiche per la piena occupazione (art. 1 della Costituzione), per il contrasto alla povertà, per la crescita dei redditi, in favore dell’ambiente e senza creare dissesti al bilancio dello Stato.
Aspettiamo e speriamo.
Se qualcuno ne ha la possibilità, faccia avere questo articolo ai parlamentari e a chi ci governa. Non sia mai che si ravvedano dal grave errore commesso.

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