Il Fiero Pasto, di Giuseppe Masala

Qui sotto alcune pregnanti riflessioni di Giuseppe Masala. In questi giorni si sono susseguiti gli appelli e le stigmatizzazioni per indurre tutto il paese e le forze politiche ad adottare uno spirito unitario e di concordia nazionale indispensabile a fronteggiare l’emergenza sanitaria. Emergenza che allo stato riguarda la contagiosità piuttosto che la letalità del virus. Appelli che poggiano in gran parte su un equivoco più che mai deleterio e subordinato a dinamiche politiche potenti. La diffusione del corona virus e la gestione dell’emergenza sanitaria sono l’occasione e lo strumento per rideterminare i rapporti di forza e le relazioni geopolitiche. Da una parte il colpevole ritardo della Cina nel comunicare ed affrontare l’epidemia. Nella fattispecie vediamo che per ragioni di gestione interna e di implicita attribuzione a soggetti esterni, gli untori di turno, delle responsabilità della diffusione, tra questi numerosi paesi europei, in particolare Francia e Germania si adoperano a nascondere, minimizzare e manipolare i dati di contaminazione del virus nei propri territori nazionali; dall’altro i suddetti, spalleggiati tempestivamente dai funzionari della Unione Europea, stanno spingendo per l’approvazione definitiva entro metà marzo del MES2 ed una accelerazione della Unione Bancaria. Due trattati particolarmente deleteri per il nostro paese, in particolare nell’attuale contingenza. Una operazione di vero e proprio sciacallaggio del resto consueta nel sistema di relazioni internazionali. Per quanto riguarda le dinamiche politiche interne al paese, i provvedimenti del Governo sono comunque il frutto di pressioni, punti di vista ed interessi contrastanti; ne parleremo a tempo debito. Stanno evidenziando le crepe e le disarticolazioni delle quali soffre particolarmente il nostro apparato statale ed amministrativo. Ancora una volta anzichè a un Giuseppe, continuiamo ad assistere a più “Giuseppi”, di Mattei ne abbiamo già almeno due; bastano ed avanzano. A questo punto un Governo che si vorrebbe di “afflato nazionale”, che invoca la concordia nazionale, che cerchi piena legittimità ed autorevolezza, dovrebbe contraccambiare la richiesta di responsabilità con l’accantonamento quanto meno delle scelte più divisive del paese e delle forze politiche. Il MES2 e l’Unione Bancaria sono appunto tra le scelte più divisive e su questo le forze di governo sembrano troppo ben disposte a cedere e accondiscendere. La gestione interna dell’emergenza sta assumendo toni contraddittori e ormai grotteschi. Il virus segue certamente una logica ed una dinamica più potente delle intenzioni politiche, anche le migliori; la contraddittorietà, la comunicazione e l’uso spesso maldestri dei provvedimenti sono il frutto di un progressivo disordine istituzionale ormai ultratrentennale e di un senso civico ed uno spirito di unità nazionale quantomeno carente tanto da rendere improbo il sacrificio degli operatori impegnati nell’emergenza. Non pare proprio che questa classe dirigente, questo Governo e la stessa PdR siano in grado di contrastare queste dinamiche; ne sembrano piuttosto una espressione. Non riesce ad ottenere dai fratelli europei nemmeno forniture di mascherine, medicinali e disinfettanti, nè pare porsi il problema di cominciare a produrne in casa propria.  Pare piuttosto propensa a manipolare ad uso proprio le progressive limitazioni. Il potere è protezione, e la protezione implica sempre il dominio. Non esiste la decretazione d’emergenza che si basa sul “per favore”. Le talpe che hanno diffuso in anticipo il decreto governativo di ieri vanno individuate, sanzionate, esposte al pubblico ludibrio. Lo stesso vale per i fuggitivi. Se la situazione si fa seria, e pare sia così, il governo si avochi i poteri necessari, metta fine al disordine istituzionale, consultata l’opposizione nomini un responsabile esecutivo (meglio un militare). L’opposizione, in particolare la Lega, all’inizio dell’emergenza virus ha gravemente sbagliato, attaccando il governo e facendo leva sul disordine istituzionale nel tentativo di accedere al governo. Poi i sondaggi l’hanno informata che el pueblo non gradiva, e si è corretta. Ora fa benissimo a contestare con la massima forza il tentativo di far passare i provvedimenti dei cravattari della UE come il MES. Può dunque con piena ragione condizionare il suo indispensabile appoggio alla necessaria avocazione governativa dei poteri emergenziali. Niente MES, e responsabile esecutivo dell’emergenza scelto di comune accordo. Parafrasando Giuseppe Masala ” Se la prossima settimana a Palazzo Chigi ci fosse un Generale dei Carabinieri non mi stupirei”. L’importante è che non si chiami Pietro Badoglio._Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

Il Fiero Pasto.

Fonti dell’Eurogruppo hanno fatto sapere che è attesa l’approvazione definitiva della riforma del Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) per il 16 di Marzo. Ecco, allora, non è che ci vuole Nostradamus per capire che per l’Italia la firma del Mes significherebbe suicidarsi. Le nostre banche stanno crollando in borsa e conseguentemente lo spread Btp/Bund sta salendo. E’ evidente che avremo bisogno di finanziamenti e quelli della Bce sono vincolati all’attivazione del Meccanismo Europeo di Stabilità. Herr Weidman ha parlato chiaro: non sono all’orizzonte misure straordinarie di erogazione di liquidità da parte della Banca Centrale Europea. Letto in controluce significa: <<Chi ha bisogno di liquidità usi le procedure ordinarie attivando il Mes e firmando un Memorandum of Understanding in stile greco>>.

Ancora meno si può parlare di approvazione di norme capestro quali quella della dell’Unione Bancaria che prevedono la ponderazione del peso dei titoli di stato nazionali nel portafoglio titoli delle banche. Il cosiddetto doom loop tra banche e governi” è un concetto tortuoso e illogico che solo gli economisti – categoria maestra di pensiero gregario – può accettare. In una situazione di crollo generalizzato la logica dello spalmare il rischio sia nello spazio che nella diversificazione degli asset class non funziona: crolla tutto. Il concetto di Risk-Weighted Assets (RWA) è stato semplicemente demolito come concetto dal crollo del 2008. I tedeschi fanno finta di crederci e vorrebbero imporlo perchè è funzionale ai loro disegni. L’Italia ha un un’allocazione dei risparmi/capitali fortemente concentrata sui titoli di stato italiani e questa situazione va smontata (dal loro punto di vista) con la scusa dell’effetto contagio banche-governo. Ma le banche spagnole che hanno una distribuzione più incentrata sull’estero sono messe meglio? Non mi pare proprio, hanno centinaia di miliardi impelagati in quell’Argentina che non riesce manco a pagare le rate dell’FMI e in quella Turchia impegnata in due guerre a bassa intensità (Siria e Libia) e come se non bastasse che rischia uno scontro con la Grecia. E’ forse questa un allocazione delle risorse più razionale e meno rischiosa? Non mi pare proprio.

Perchè i tedeschi vorrebbero una allocazione meno incentrata sul nazionale da parte dell’Italia? Siamo alle solite: comportarsi alla prussiana mantenendo una parvenza di correttezza con la quale fare pistolotti morali agli altri. Ovviamente loro con questa manovra intendono attivare un meccanismo virtuoso per loro e mortale per l’Italia: convogliare verso gli assets tedeschi parte del risparmio italiano abbassando i tassi sui bund che sono già negativi e sottoponendo i capitali esteri che vi sono convogliati a una patrimoniale di fatto. Ovvero sia, le spese per l’emergenza sanitaria glielo pagano i risparmiatori italiani (che però non possono pagarle per se stessi). I tassi dei titoli italiani saliranno vista la mancanza dell’afflusso di risparmio italiano? Non c’è problema secondo loro, lo stato italiano può tranquillamente attivare il Mes firmando un Memorandum of Understendig che ci vincolerà per decine di anni a ciò che decide una società privata di diritto lussemburghese (questo è il Mes). Questo è il meccanismo. Non entro neanche nel discorso su come definire il vincolo del parlamento italiano e del governo alle decisioni di una società privata di diritto lussemburghese, dico solo che io nella costituzione italiana non vedo questa opzione che vincola il parlamento italiano nell’approvazione della legge finanziaria al placet di una società privata. Un colpo di stato bello e buono.

Semplicemente con l’attivazione di questo meccanismo mortale si vedrebbe la riedizione di quanto è accaduto con la crisi finanziaria partita nel 2008: il primo che cade viene usato come fiero pasto dagli altri che si rafforzano ed evitano così a loro volta di cadere semplicemente spolpando come degli avvoltoio il malcapitato. Chiedere ad Atene in cosa si sostanzia questo concetto. Solo che questa volta a rischiare di essere i primi a cadere siamo noi.

Scusate il sermone di primo mattino.

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NOTE A MARGINE
  • per amore di verità, spiega però che gran parte degli scenari che descrivi a partire dal secondo paragrafo fanno parte dell’Unione bancaria e non propriamente del MES2.
  • In realtà, il MES2 è preparatorio all’UB, va solo precisato che su quella l’Eurogruppo è ancora indietro. Ma non di molto. E con questo governo…
  • e si, le due cose vanno di pari passo….del resto è stato Conte a parlare di “logica di pacchetto” non avendo capito che è proprio il pacchetto che ci uccide…

tratto da https://www.facebook.com/bud.fox.58/posts/3078210225570615

CONTINUARE A RIFLETTERE MENTRE ACCADONO I FATTI, di Pierluigi Fagan

CONTINUARE A RIFLETTERE MENTRE ACCADONO I FATTI. Una settimana fa, scrivemmo un post sul fatto dei tempi, lasciando lì una domanda di accompagno allo svolgersi dei fatti: in che misura quanto sta succedendo cambierà la mentalità e poi le forme sociali, se le cambierà? Mi pare la domanda sia e sarà, a lungo, attuale. Vediamo allora, se qualcosa sta cambiando, cosa sta cambiando.

Al momento sta cambiando una cosa sola che però non è di poco conto. Stiamo mano a mano sapendo di non sapere. Il virus sta avendo una funzione socratica, almeno potenzialmente. Non sappiamo un sacco di cose, vediamo di farne un primo elenco:

1) Del virus non sappiamo l’origine. Le tesi possibili, al momento, sono due, l’origine animale e quella umana. Quella umana ipotizza il caso o l’intenzione deliberata. La prima possibilità, l’inavvertita fuga da un laboratorio mi pare molto improbabile, la seconda mi pare ancor meno probabile per varie ragioni, ma il post non è su quello che io penso a riguardo quindi lasciamo lì la pista. L’origine animale a sua volta, chiama due considerazioni. La prima, come alcuni stanno cominciando a fare, è sul quanto il cambiamento climatico ovvero il cambiamento degli equilibri dinamici delle ecologie, stia portando a contatto le specie in modo nuovo, contatto che forma le prime catene si trasmissione che poi arrivano all’uomo.

La seconda considerazione invece è più una constatazione, una deduzione cioè cosa certa eppure fintanto che viene espressa, non conosciuta esplicitamente. L’ha espressa ieri una biologa italiana “gli uomini sono animali”. Questo potente ritorno del biologico che riprende il dominio dell’immagine di mondo dopo esser stato a lungo chiuso in cantina mentre all’attico dell’edificio cognitivo il metafisico, l’economico e l’informatico si dilettavano a dar dell’umano astratte descrizioni ad hoc necessarie poi a sciorinare il loro discorso egemone, è il grande ritorno del principio di realtà. Si noti ad esempio come alcuni concetti di recente o meno recente, grande diffusione stiano cambiando significato: il virale ad esempio, la realtà aumentata, la sempiterna relazione problematica mente-corpo, l’altra sempiterna problematica relazione emozione-ragione, il presunto concetto di “singolarità”, il nostro tendere a costruire cose morte che poi ci fanno pensare di essere divinità creatrici, il trans umanesimo e l’immortalità, il grande significato dei Big data, la distruzione creatrice, confini e frontiere, libertà, e molto altro. Il virus, sull’immagine di mondo, potrà avere un certo effetto, credo.

2) La seconda cosa che non sappiamo è anch’essa duplice: che effetto ha sugli individui e che effetto ha nei grandi numeri? Il virus si sta scavando una sua nicchia definitoria tra l’influenza nomale e quella spagnola. Ma fanno fatiche molte menti ad aggiornare la classificazione e quindi s’è speso inutilmente molto tempo per cercar di capire se fosse dell’una o dell’altra categoria, quando il suo posto è semplicemente in un’altra categoria, una categoria propria. Fanno fatica le menti individuali ma fa molta più fatica la mente collettiva anche perché gli esperti riflettono lo stato di incertezza. Scopriamo così lo statuto limitato della stessa nozione di “esperto”. Esperto di cosa? Innanzitutto se il virus è di tipo nuovo e categoria propria, le analogie non funzionano. La novità poi di per sé significa che non ha storia pregressa e quindi è difficile fare induzioni. Poi tra i biomolecolari, i biologi, gli epidemiologi, i medici, gli statistici, i nutrizionisti, gli immunologi, i farmaceutici ci sono decine di gradazioni di esperti. Ci vorrebbe une esperto di esperti, ma temo che direbbe: ancora non sappiamo dire precisamente. Forse è proprio che quell’aspettativa di “precisione” è sbagliata, le cose morte sono precise, quelle vive no. Ma a noi piacciono i numeri, i confini definiti, le cose chiare e distinte e poiché non vogliamo rinunciare a questa aspettativa a priori, costringiamo i fatti nel nostro letto di Procuste, tagliandoli, allungandoli, legandoli, obbligandoli a stare lì dove non possono stare ed a dirci quello non ci possono dire. Ci metteremo un po’ a cambiare i nostri presupposti, è questo il destino del nostro obbligo ad adattarci alla realtà. Questo poi se gli esperti vivessero nel migliore dei mondo possibili. Nei fatti però vivono nel nostro imperfetto mondo e quindi ecco che prima si allarmano, poi rimangono allarmati ma gli vien detto di esser rassicuranti, poi sono in competizione tra loro, oscuri funzionari della scienza vengono sbattuti davanti al microfono ed il video provando il warholiano quarto d’ora di celebrità e fanno pasticci. Ne potrebbero conseguire effetti positivi, tipo domandarsi cos’è la scienza o se sono legittime le nostre aspettative per un certo tipo di scienza che però non corrisponde alla scienza in quanto tale, quanto finanziamo e quale scienza finanziamo nella ricerca e molto altro. Ma è presto per dire, vedremo. Nel frattempo scopriamo di non sapere molte cose come accadde a suo tempo per il termine “spread” ovvero la differenza tra epidemia e pandemia, tra causa unica (il virus ammazza) e causa complessa (il virus può portare sistemi già compromessi all’esito finale, è causa quindi? O concausa? Che cos’è una concausa?). Non sapendo che WHO ha lanciato un voluminoso paper su i rischi epidemico-pandemici come fenomeno probabile per una serie di ragioni già nel 2007 (ma altri ne parlavano già negli anni ’70), ci meravigliamo che Bill Gates se ne occupi per cui se si occupa sapendo cose che noi non sappiamo, invece di domandarci cosa non sappiamo, deduciamo che Bil Gates fabbrica apposta virus per sterminarci. Anche se il virus ha mortalità relativa. Tra l’altro, WHO ossia OMS è l’unica entità pubblica ad aver mantenuto costante forma e contenuto del suo dire in queste settimane, un dire settato sul problematico-plumbeo direi.

Il secondo effetto è nei grandi numeri. Qui appaiono chiare alcune cose, ovvero che le cose non sono chiare. Come fa il Sud Est asiatico ad avere così pochi casi? O il Pakistan? O le monarchie del Golfo? E l’Africa? La Germania? Gli Stati uniti d’America? Abbiamo citato tutte aree che statisticamente hanno dalle decine alle centinaia di linee di interrelazione coi cinesi, più che non quelli di Codogno lodigiano. Scopriamo così che in alcune parti del mondo globale gli standard sanitari non sono globali (accipicchia, una deduzione davvero illuminante!), ma non lo sono neanche quelli politici. Spicca il caso americano dove il presidente ha nominato addirittura uno “Zar”, un terminale unico che è l’unico che ha diritto a parlare di cosa sta succedendo. Però è scientificamente affidabile visto che si è più volte dichiarato per il “disegno intelligente”. E cosa succede quindi nel Paese che non ha una sanità pubblica, in cui i test tamponi sono a volte a pagamento, dove la lobby delle assicurazioni private trema al timor di doversi dissanguare per pagare gli effetti del cigno nero, dove il partito di opposizione rischia di veder nominato candidato uno che propugna la sanità pubblica sul modello europeo e dove tra nove mesi si va ad elezioni col rischio di esser in recessione economica e l’evidenza che solo i ricchi possono sperare di sopravvivere indenni alla cieca furia infetticida del virus cinese? Ma che domande, non succede (quasi) niente, è ovvio! Quindi, sì non sappiamo perché non abbiamo esperienza ma neanche sapremo perché chi detiene le chiavi del diritto pubblico all’informazione, deciderà che è meglio non sapere. Infatti, una prima cosa che abbiamo capito presto, è che non il virus in sé ma le aspettative su i suoi effetti sono molto più dannose del virus stesso, per cui la società dell’informazione diventa improvvisamente la società della non informazione. I dati saranno Big per le banche dati che servono la marketing ed al controllo panoptico ma rimarranno Small per quanto riguarda ampiezza e velocità dell’epidemia.

Questa enorme bolla di incertezza oscura poi tutto il resto. L’Antartide nell’ultimo mese si sta sciogliendo e se si scioglie tutta, dio non voglia, i mari saliranno di cinquanta metri. Di cavallette abbiamo già parlato in altro post. In India si massacrano tra hindu e musulmani con un bilancio morti e feriti che fa di Delhi un posto più rischioso di Vo’ euganeo. Trump fa finta di fare pace coi talebani ma con effetti a quattordici mesi per cui c’è tutto il tempo per presentarsi alle elezioni come “ho mantenuto le mie promesse” e poi ripensarci. La Nato che ha perso l’andata della guerra in Siria, vuole giocare il ritorno scendendo in campo con i turchi che nel frattempo ci vogliono inondare di siriani, a noi che poi in teoria siamo Nato. A dirigere la CDU si candida un certo Merz che oggi lavora per Blackrock che fa paura solo a guardarlo con la sua aria da feldmaresciallo sadico che ci farà ricordare la Merkel come Nonna Papera. Prestigiose università americane hanno verificato e confermato che i risultati delle elezioni che si tennero in Bolivia erano assolutamente corretti e quindi abbiamo cacciato un presidente legittimo perché trionfasse la vera democrazia. Roubini è l’unico che dice quello che tutti sanno ovvero che ci sarà una recessione globale. Nel mentre torme di sciacalli si aggirano furtivi intorno al caos per trarne qualche piccolo vantaggio, economico, finanziario, politico, geopolitico, di momentanea notorietà.

Non sappiamo poi tante altre cose, dal quanto durerà, al che effetto finale avrà, del che faremo dopo, se ci saremo nel dopo e così via. Ma dovremo abituarci, è passata una sola forse un paio di settimane dall’inizio della storia, almeno la sua italica fase conclamata. C’è tempo per sapere quante altre cose non sappiamo e sapremo e domandarci meglio che ruolo hanno informazione e conoscenza nei funzionamenti delle nostre società complesse. Intanto, laviamoci le mani …

NB tratto da facebook

‘Guerre di movimento’ e ‘guerre di posizione’, di Alessandro Visalli

‘Guerre di movimento’ e ‘guerre di posizione’.

Scrive in un passo giustamente famoso Antonio Gramsci: “in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale[1].

Quando, scrive ancora, gli Stati più avanzati, nei quali “la società civile è diventata una struttura molto complessa e resistente alle ‘irruzioni’ catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni, ecc.)”, allora si può porre questa precisa analogia: “le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco di artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire.” E prosegue, “si tratta dunque di studiare con ‘profondità’ quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione”[2].

Ma, dunque, se così formidabili sono le difese, che vanno studiate “in profondità”, quando va combattuta contro di esse una “guerra di movimento” (il cui prototipo è la rivoluzione d’ottobre del 1917) e quando una “guerra di posizione”? E questa non è l’unica possibile in occidente, come scrive Ilici, citato da Gramsci[3]?

Ma, ancora, si può scegliere? Risponde che “la verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità schiacciante del nemico”, questa (di posizione) può essere imposta dai rapporti generali delle forze in campo. Rapporti generali significa “tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell’esercito schierato”.

Presumere dunque, come attribuisce alla Rosa Luxemburg, che l’esistenza di una crisi economica, di per sé, provochi le condizioni della “guerra di manovra” (o “di movimento”) è, per Gramsci, effetto di una rigidità ideologica, di ferreo determinismo ideologico. Significa immaginare, cioè, che la semplice volontà, o il corso indefettibile della struttura, possa di per se stesso: “1) aprire un varco nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere”[4].

Le strutture, dunque, o le crisi (l’artiglieria nella metafora di Gramsci) non contano? O, in altre parole, come avviene che da esse nasce effettivamente il movimento storico? Nasce dalla forza materiale e dalla credenza popolare, o dalla ideologia? In effetti forze materiali e ideologia, sono sempre e necessariamente contenuto e forma del “blocco storico” che può rendersi protagonista del cambiamento, perché “le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero sghiribizzi individuali senza le forze materiali”.

In “Contenitori dell’ira e contenitori di potere[5], tentavo di fissare queste distinzioni all’opera nella coppia del “Momento Polanyi” (determinato da una crisi che è molto più che meramente economica e che è la faccia visibile di una fase di caos sistemico e perdita di egemonia) e del “Momento populista”, che ne è la forma politica (o ideologica, se si preferisce).

Riassumiamo: i sistemi di ordine egemonici, ed imperiali, della modernità contemporanea (grosso modo la fase che sussegue al terzo quarto del secolo scorso) sono definitivamente entrati in una fase di ‘caos sistemico’. La fase terminare della finanziarizzazione e della globalizzazione, sulla quale ci affacciamo, ne è immagine e manifestazione. L’Europa è uno dei baricentri di questo caos.

Nel quadro di un “Momento Polanyi”, che si distende su tutti i decenni del nuovo millennio, la rivolta del sociale alle costrizioni disgreganti dell’economico trionfante, abbiamo assistito nel decennio trascorso ad un ciclo breve “populista”. Una forma politica che si è nutrita, mimeticamente e senza riuscire a determinare né egemonia, né nuovo blocco storico, del veleno che ha condotto entro il “Momento Polanyi”.

Questo ciclo è terminato perché, nella sua debolezza, non è riuscito a compiere i tre passi indicati da Rosa Luxemburg ed è stato riassorbito. E’ stato riassorbito in tutte le sue varianti.

Ha avuto dei meriti, parzialmente ha compiuto la fase 1) dello schema (ha aperto un varco), rompendo per un poco lo schema destra/sinistra polarizzato al centro. Ma ha fallito in 2) organizzare le proprie truppe e formare quadri e soprattutto 3) “creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere”. E lo ha fatto proprio perché si è limitato a trovare quel che c’era, sia in termini di quadri, sia di concentrazione ideologica[6].

Ha creato alla fine solo “contenitori dell’ira”, che si limitavano a raccogliere l’attivismo individualista neoliberale degli anni novanta[7] e la sua attitudine alla “sorveglianza”[8]. Inoltre, facevano leva sul risentimento indirizzandolo verso figure individuali (le “caste”, le “generazioni” dei baby boomers, la burocrazia, …) anziché verso strutture di nessi e produzione di potere. Antistatalismo, disintermediazione, moralismo e profondo individualismo ne sono stati la cifra.

Il riassorbimento ha sfruttato queste debolezze, l’incapacità di farsi potere, e ha ampliato la tendenza a valere come distrazione sistemica, connaturata alla cosa.

Insomma, gli assaliti non si sono demoralizzati e non hanno perso fiducia nelle proprie forze, e la robusta catena di fortezze e casamatte ha retto.

Ciò vuol dire che bisogna arrendersi? Direi tutt’altro.

Occorre ancora più azione politica e “filosofia della praxis”, che deve essere interamente orientata a “trasformare il senso comune”. Si noti, “trasformare”, non assorbire. Se c’è stato un punto specifico nel quale il “primopopulismo” è divenuto solo “contenitore dell’ira”, fallendo la trasformazione in “contenitore di (nuovo) potere”, è l’aver preso da terra esattamente quel che ha trovato. Il cascame della rabbia, del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono stati ostacolati nella loro ascesa individuale, che reputavano loro diritto individuale su tutti. Non ha davvero esercitato quella “fantasia concreta” che è capace di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne la volontà collettiva”.

Nelle “Notarelle sul Machiavelli[9], è contenuta una netta opposizione che parla ancora al presente:

  • tra l’azione collettiva messa in campo da un “partito”, capace di creare ex-novo una volontà collettiva per indirizzare verso mete concrete e razionali, ma nuove (“di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta”);
  • e l’azione storico politica che si manifesta in modo rapido e fulmineo, resa necessaria da un grande pericolo imminente, e che si manifesta in un individuo focale (qui ovviamente sta parlando con la necessaria prudenza di Mussolini). Questa azione, nella condizione di pericolo, “crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica (che, altrimenti, potrebbero, se fatte agire, “distruggere il carattere ‘carismatico’ del condottiero)”. Il fatto è che, al contrario della prima strada, “un’azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali, […] di tipo difensivo e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla”.

La prima strada, in altre parole, è rivolta alla creazione di una “volontà collettiva” nuova, e di un nuovo “senso comune”, intorno al quale, facendo leva sia sulla praxis sia sulla educazione e la critica, si possa creare[10] una direzione politica originale ed organica.

La seconda strada, invece, si nutre dell’energia reattiva, fondata sul senso comune che è già in campo e su passioni e fanatismo. È radicalmente acritica e manca sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se può sembrare altro, è un movimento restaurativo.

Ne abbiamo avuto una notevolissima dimostrazione con i movimenti apparentemente rivoluzionari, ma in realtà di riaffermazione della logica neoliberale, del secondo decennio del secolo in corso. Movimenti “di tipo boulangista” nel suo linguaggio[11].

Un movimento “di tipo boulangista” viene facilmente neutralizzato, quando fallisce lo sfondamento e si incastra nelle casamatte della seconda linea. Allora queste imparano in fretta ad incorporarlo. Non ha mai rappresentato un’autentica sfida sistemica, un assalto al ‘senso comune’ e alla ideologia che tiene insieme lo Stato.

Non ci sono dunque due strade possibili, ce ne è una. Bisogna comprendere cosa è accaduto ed evitare, accuratamente, di ripeterlo. Non bisogna muoversi sempre nello stesso circolo in forma di volta in volta minore. Non limitarsi a produrre sempre più piccoli “contenitori dell’ira” senza prospettiva strategica.

Ma, soprattutto, se non si può scegliere che tipo di guerra combattere, bisogna continuare a stare sul campo, politici, materiali e populisti ad un tempo, dicevo. Non fare think thank, ma “guerra di posizione”[12].

 

[1] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60 bis.
[2] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18.
[3] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60.
[4] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18.
[5] – “Dai ‘contenitori dell’ira’ ai ‘contenitori di potere’”.
[6] – Nel febbraio 2014, al momento dell’esplosione del fenomeno del Movimento 5 Stelle, con simpatia del resto immutata nel tempo, scrissi che il Movimento aveva trovato, quasi per caso, assorbendo l’umore del paese, una sua posizione. E continuavo: “Ma questo non è preciso, ciò che viene assorbito e condensato è l’umore, il linguaggio, i lemmi, gli enunciati, i blocchi emotivi di un nuovo popolo che si sta separando nel paese. Che si incrocia nei bar, nelle strade, nei negozi dietro i banconi, negli uffici spesso cambiati, a spasso nei giardini, di fronte ad una partita di calcio o nelle sue curve. Un popolo certamente arrabbiato, vittimizzato, stanco di sentirsi inutile, sprecato, rigettato, isolato e capace di riconoscersi. Questo “popolo” ha costruito se stesso intorno a un’identificazione negativa; “non”, per differenza dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro.” E, ancora: “Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile, pericolosa. Intendiamoci, anche io sotto alcuni profili la considero tale. Alcuni dei “materiali” di montaggio mi appaiono “nemici”. E li combatterò. Ma non si capisce nulla se non si vede che in questo c’è del nuovo. Si rischia di fare la fine di De Maistre con la Rivoluzione Francese. Di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia. Dato che un’aristocrazia schiavista ed imperialista resta tale, anche quando ha come nemico Napoleone, io vorrei restare in equilibrio. Allora tornerei qui, Grillo non costruisce il suo movimento, lo trova a tentoni e per tentativi. Si tratta della storia di una co-evoluzione”.“una sorta di “spugna”. L’elemento più costante, in essa è morale. Anzi moralistico. E’ uno schema noi-loro che proietta nel nemico di turno ogni bruttura ed ogni colpa, lo fa responsabile del dolore e dell’insuccesso, del fallimento. Lo rende balsamo delle ferite.” Concludendo: “Ciò che gonfia le vele è la capacità di non avere forma e di prendere tutte le forme, contemporaneamente. E’ la tecnica dello spettacolo. E’ la società che in esso si rispecchia e il nuovo popolo che si muove dentro questi <frame>.” Si veda, “Grillo e Casaleggio. Trovare la forma”.
[7] – Si legga Colin Crouch, “Postdemocrazia”, 2003
[8] – Si legga Pierre Rosanvallon, “La politica nell’era della sfiducia”,
[9] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, 10
[10] – Il Partito, questo è essenziale, non assorbe il senso comune, senza sottoporlo a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo, sulla base di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia parte di una riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti esistenti, ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori, scale di priorità, metri di giudizio).
[11] – Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter ottenere tutto. Quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare: 1. il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2. che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi; 3. quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono; 4. quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto; 5. e solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.
[12] – Che definivo così: “non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa ed una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Ciò non significa produrre infinite versioni ‘socialiste’ dei think thank neoliberali che hanno fatto da base alla svolta neoliberale (quando per loro si è trattato di passare, tra gli anni sessanta e settanta, dalla “guerra di posizione” a quella “di movimento”), perché è diversissima la base di potere e l’attivazione di risorse. Ma deve significare svolgere, con il passo determinato e paziente di chi sa che le case si costruiscono un giorno dopo l’altro, due lavori insieme, sia diversi sia complementari, entrambi indispensabili: l’autochiarificazione teorica e la discussione, seria, decisa, onesta, sulle diverse ipotesi analitiche e meccaniche causali e funzionali, da una parte, e l’immersione nelle lotte, nelle contraddizioni materiali, nei luoghi come via privilegiata della stessa formulazione teorica, dall’altra. Riflessione in azione, dunque, e costruzione di sintesi e narrazioni rivolte alla manifestazione della proposta teorica e pratica (indissolubilmente teorica e pratica). Ciò deve significare lavorare sulle manifestazioni del conflitto, dove si identifica la contraddizione figlia del caos sistemico, e renderle occasione di formazione ed autoformazione anche teorica.
Inchiesta, mobilitazione, lotta sui temi e nei conflitti nella sfera pubblica, tesseramento, militanza, creazione di collettivo e di comunità, divisione del lavoro ed organizzazione, e poi, discussioni sulla fase, sulle opzioni, sulle idee, messa alla prova reciproca, creazione di lealtà. Tutto questo è “lotta di posizione”, mentre si cerca di produrre collettivamente influenza, caposaldo per caposaldo, giorno per giorno. Ovunque”.

https://tempofertile.blogspot.com/2020/03/guerre-di-movimento-e-guerre-di.html?fbclid=IwAR0kOL5m0IACeW-7M69pKb0h-UDTA2mRDeuRR1NBwHIE1BT4dZsKHdKqgnE

Alain De Benoist Critica del liberalismo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Alain De Benoist Critica del liberalismo. Arianna editrice, Bologna 2019, pp. 285 € 23,50

Quando un pensatore così acuto e influente come Alain De Benoist giudica il liberalismo che considera (a ragione) come “l’ideologia dominante del nostro tempo”, occorre prenderne atto, senza incorrere nelle usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa) anche se (parte) delle tesi sostenute non convincono.

Scrive De Benoist “Una società liberale non è esattamente la stessa cosa di un’economia liberale. È invece una società in cui dominano la preminenza dell’individuo, l’ideologia del progresso, l’ideologia dei diritti dell’uomo, l’ossessione della crescita, lo spazio sproporzionato del valore mercantile, l’assoggettamento dell’immaginario simbolico all’assiomatica dell’interesse … è all’origine della mondializzazione, la quale non è altro che la trasformazione del Pianeta in un immenso mercato, e ispira quello che oggi si chiama «pensiero unico». Beninteso, come ogni ideologia dominante, è anche l’ideologia della classe dominante”; ma aggiunge subito dopo “Se “liberale” è sinonimo di persona dalla mente aperta, tollerante, sostenitrice del libero esame e della libertà di opinione, o ancora ostile alla burocrazia e all’assistenzialismo come allo statalismo centralizzatore e invasore, l’autore di queste righe non avrà evidentemente alcuna difficoltà a fare proprio questo termine. Lo storico delle idee, però, sa bene che tali accezioni sono triviali. Il liberalismo è una dottrina filosofica, economica e politica, ed è evidente in quanto tale che deve essere studiato e giudicato”. Studiandolo come dottrina, De Benoist, ne indica i fondamenti, “ossia un’antropologia fondata essenzialmente nell’individualismo e sull’economicismo …  pensiamo infatti che il liberalismo sia anzitutto un “errore antropologico”; perciò parliamo di liberalismo … per designare questa ideologia e per parlare del suo naturale correlato: il capitalismo”; la conseguenza (logica)  ne è che “ l’individuo è divenuto il centro di tutto ed è stato eretto a criterio di valutazione universale. Comprendere la logica liberale vuol dire comprendere ciò che unisce tutti questi elementi fra loro e li fa derivare da una matrice comune”. L’uomo liberale è così connotato da due fondamentali caratteri: l’indipendenza dagli altri e la ricerca del proprio interesse. Ogni struttura politica e sociale che limiti l’individualismo economicista è quindi negata o rigettata. In particolare la dedizione rispetto alla comunità. Se Renan diceva che la nazione è “un’anima, un principio spirituale”, per i liberali contemporanei, Stato, nazione, patria sono qualcosa di non-esistente.

Per cui il bene comune ossia il fine per cui si costruisce l’istituzione politica, viene negato, più spesso, minimizzato o comunque viene dopo la tutela dei diritti individuali.

Né sono sostenibili e coerenti le posizioni dei conservatori-liberali. In effetti è contraddittorio pretendere di regolare “l’immigrazione aderendo al contempo all’ordine economico liberale, che si basa su un ideale di mobilità, di flessibilità, di apertura delle frontiere e di nomadismo generalizzato”; in genere difendere le frontiere, limitative sia del diritto a trasferirsi sia di quello a consumare, è in contrasto all’ “ideal-tipo” liberal-liberista. I liberali conservatori “non vogliono comprendere che il movimento perpetuo della hybris capitalistica non può non provocare sconvolgimenti, che lo rendono incompatibile con ogni vera forma di conservatorismo”. La crisi attuale dipende dall’aver portato alle conseguenze più estreme l’individualismo economicista con la relativa chiusura di senso e la marginalizzazione della politica, del politico e dello Stato, e generato la dialettica nascita del sovranismo, contrario a talE prospettiva.

Questo per sintetizzare l’essenza del libro che, in quasi trecento pagine di critiche serrate e coerenti, spazia su tanti temi, come l’Unione Europea, le insorgenze populiste, i regimi “illiberali” della Polonia e dell’Ungheria, il conflitto tra Stato democratico e cosmopolitismo liberista per cui rinviamo alla lettura del saggio, concettoso e ricco quanto chiaro.

Al recensore trarre un paio di osservazioni generali.

De Benoist stigmatizza il liberalismo come ideologia, come tipo ideale (à la Weber); e la critica è particolarmente efficace e coerente. Ma, è appunto quella al “tipo ideale” liberale che tra lo scorcio del XX secolo e l’inizio del XXI secolo, si è preso (da solo) troppo sul serio, pretendendo di fare di una parte del liberalismo pensato e storicamente realizzato in alcuni secoli il tutto. A tal proposito, a ripristinare il carattere concreto del liberalismo ci soccorre un grande giurista come Carl Schmitt, apprezzato dall’autore (e da chi scrive). Sostiene Schmitt nella Verfassungslehre (e in altri scritti) che lo Stato liberale è frutto della ibridazione tra principi di forma politica (identità e rappresentanza) e principi dello Stato borghese (separazione dei poteri e distinzione tra Stato e società civile – id est tutela dei diritti fondamentali).

I primi necessari a costituire la forma politica e legittimare il potere pubblico: i secondi a limitarlo. Senza forma di potere le limitazioni a questo non hanno senso. A tale proposito Schmitt cita quanto sosteneva Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”; e il patriota italiano aveva ragione: riecheggia in ciò l’affermazione di Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta” (prgrf. 260 dei Grundlinien). In altre parole: i teorici dello Stato borghese moderno da Sieyès a Tocqueville, da Hegel a Jellinek da Hamilton a Orlando (tra i tanti) ben capivano che potere pubblico e limiti a quello vanno di pari passo.

Per tenerci all’antropologia, ritenevano necessaria perché naturale sia la sociabilità umana (che genera lo scambio e il droit commun) che la politicità (la zoon politikon di Aristotele e S. Tommaso) che genera il droit disciplinaire, cioè il diritto dell’istituzione politica, come scriveva Hauriou. Se l’uomo dei liberali odierni è solo individualista ed economicista, quello dei “vecchi” era anche comunitario e politicista. Inoltre nel Federalista si afferma che lo Stato borghese si regge su un’antropologia negativa: “Ma cos’è il governo se non la più poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo interno ed esterno sul governo diverrebbe superfluo.  Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare … e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi … L’autorità del popolo rappresenta il primo sistema di controllo … ma l’esperienza ha insegnato all’umanità che altre garanzie ausiliarie sono necessarie” (Il Federalista n. 51). Qui di esaltazione della mano invisibile e della governance tecnocratica ce n’è poco o punto, tantomeno di un’antropologia meramente individualista, soprattutto in grado di far a meno dell’autorità politica. Per cui il liberalismo reale e concreto si fonda sulla natura problematica dell’essere umano, sulla conseguente necessità di un potere politico e su quella di controlli perché i governanti realizzino in concreto l’interesse generale (il “bene comune”) e non il proprio.

Ossia proprio l’inverso delle conclusioni cui porta il liberalismo astratto e ideal-tipico propinatoci da un trentennio (almeno) e che De Benoist acutamente critica.

Liberalismo (quello global-mercatista) estraneo a chi recensisce, che, come liberale italiano, appartiene ad una variante tutta nazionale del liberalismo, la quale -.diversamente da altri Stati europei, costruiti dalla plurisecolare e paziente opera dei monarchi (prima feudali poi assoluti) – ha costituito in unione alla monarchia sabauda lo Stato nazionale. Quello Stato liberale che i vecchi maestri del diritto pubblico e della scienza politica italiani come Orlando e Mosca  non chiamavano (pur considerandolo tale) neppure liberale ma “Stato rappresentativo”.

Peraltro, e veniamo al secondo punto essenziale, i (sedicenti) liberali global-mercatisti sono, in grado di realizzare quanto fanno intendere, o non lo sono proprio, perché dovrebbero cambiare le leggi naturali, almeno quelle sociologiche?

In realtà è che su tale punto, decisivo, i liberal, o non parlano (per lo più) o lo presuppongono scontato, in contrasto con l’esperienza storica. Ad esempio l’idea espressa già da B. Constant, che l’esprit de commerce riduce l’ esprit de conquête, è (in parte) condivisibile a condizione di relativizzarla. Perchè è un fatto che proprio nel XIX secolo i due esprits si congiunsero generando guerre imperialiste: il che induce a prendere il giudizio del pensatore di Losanna come tendenziale, utile ma non decisivo. Piuttosto occorre ricordare quanto sosteneva V. E. Orlando “le leggi sociali come le leggi fisiche, hanno una forza tutta propria, sono un portato affatto naturale cui la volontà umana non può che conformarsi. Elles ne se font pas, elles poussent”; per cui sono le regolarità (Miglio), i presupposti del politico (Freund) a condizionare la capacità umana di conformare le istituzioni. Cosa che i liberal contemporanei dimenticano o sottovalutano. C’è da chiedersi se poi  questi “liberali” siano veramente tali. Sempre a seguire Schmitt, i nemici del liberalismo e dello Stato borghese di diritto sono coloro che non ritengono desiderabile uno Stato connotato (anche) dalla divisione dei poteri e dalla tutela della libertà e della proprietà. Osama Bin Laden (tra i tanti) avrebbe sottoscritto con entusiasmo. Ma se il liberalismo si basa sul mercatismo globalista, sulla confusione dei generi, sulla distruzione dei legami comunitari, e così via, il nemico dei liberali non è più il tiranno liberticida, ma il governante che cerca di difendere l’anima di un popolo e il suo modo d’esistenza.

E in effetti se nella prima metà del XX secolo i nemici sono stati Hitler e Stalin, in questo inizio di secolo è diventato Orban (tra i tanti). Quell’Orban il quale ha voluto una costituzione che, ad onta delle decisioni del Parlamento UE, ha più istituti di garanzia di quella italiana, ma il torto imperdonabile di volerli fondare sulla storia e sull’anima della comunità nazionale ungherese.

Resta da vedere se i veri liberali sono quelli che nel Parlamento UE hanno votato l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria o – piuttosto – gli emergenti governi sovranisti che non hanno dimenticato che la libertà dell’individuo si fonda su quella della comunità cui appartiene; che la libertà dei moderni non è opposta, ma complementare a quella degli antichi.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’isteria al comando, di Piero Laporta

Qui sotto alcune significative considerazioni del Generale Piero Laporta. Da leggere con attenzione e con una nostra precisazione. A questo punto della emergenza un cambio della guardia al governo pare inopportuno se non esiziale; più opportuna una ampia delega ad un organismo o ad una figura preposta ad hoc_Giuseppe Germinario

Giuseppe Conte, scaricando invano sui medici le proprie responsabilità per l’epidemia, cerca di evitare di rispondere alla domanda: come si gestisce un’emergenza nazionale?

Che cos’è un’emergenza nazionale? Chi deve assumerne la gestione? Quali le modalità attraverso le quali la gestione è razionale? Innanzi tutto occorre evitare l’isteresi, cioè la reazione paradossale e fuori tempo alla sollecitazione emotiva, tanto più intensa quanto più grave è l’emergenza.

Emergenza è una serie concatenata di eventi, sul primo momento imprevedibili nei loro effetti catastrofici, ai quali è indispensabile contrapporre provvedimenti rapidi e straordinari, per circoscriverla, arrestarla, rimediare infine ai suoi effetti di breve, medio e lungo termine.
Le potenziali emergenze concernenti un’intera nazione appartengono alle seguenti famiglie: 1) bellica, 2) geosi­smica, 3)geometeorologica, 4) socioeconomica,5) agroalimentare, 6) finanziaria, 7) medica. ll carattere nazionale di queste crisi è improntato dalla valutazione del rischio potenziale, centrato su quattro punti. Primo: vastità in atto e potenziale del territorio coinvolto e delle risorse su quel territorio. Secondo: quantità in atto e potenziale di vittime. Terzo: durata potenziale. Quatto: capacità potenziale dell’emergenza incorso di innescare e concatenarsi con le rimanenti sei famiglie di emergenze di cui abbiamo detto.
.È ovvio che un capo di governo non possa anelare oltre la capacità di riconoscere l’esistenza d’una un’epidemia, potenzialmente in grado quindi di insinuarsi nel territorio nazionale italiano. Lo stesso capo di governo, dopo questa iniziale, banale consapevolezza, deve concentrare la sua attenzione sulle operazioni da compiere – immediatamente e le altre a seguire – per fermare il contagio aldilà delle nostre frontiere e, quando esse ne siano perforate, attuare le operazioni necessarie per rallentarlo, fermarlo, spegnerlo.
Un moderno Paese del G-20, l’Italia, avrebbe dovuto reagire sin dalla fine di dicembre, quandola reticenza della Cina e i nostri sensori a Pechino (ambasciata, servizi, turisti, osservatori e corrispondenti della stampa e della TV) dovevano allarmare. È comprensibile tuttavia che la novità del fenomeno abbia disorientato le decisioni. Questo non è tuttavia più ammissibile dai primi di gennaio, quando l’OMS accende i riflettori.
Che cosa fa un capo di governo in questi casi? Se la Protezione Civile non ha di suo attuato procedure di emergenza, come invece avrebbe dovuto, il capo del Governo costituisce una commissione tecnica, avvalendosi delle proprie enormi possibilità di consultazione ad altissimo Livello, offertegli dalla comunità scientifica, nazionale e internazionale – Istituto superiore di Sanità, CNR; autorità ospedaliere (Spallanzani, Sacco, San Raffaele, Biocampus, Gemelli, ecc.) nonché in conferenza con le autorità OMS e con le principali università mondiali. Ottenuta una prima valutazione del rischio, nomina un’autorità collegiale e multidisciplinare col compito di definire quattro obiettivi di primo tempo: 1) che cosa fare; 2) chi lo deve fare;3) quali risorse (umane, finanziarie e materiali) sono necessarie; 4) la politica delle comunicazioni, per impedire il panico in Italia e verso l’Italia.
Conseguito tale quadro, non oltre due o tre giorni dopo, tutti i competenti organismi tecnici ministeriali devono aver approntato proprie pianificazioni a breve, medio e lungo periodo, rendendole immediatamente esecutive.

ACCENTRARE L’AUTORITÀ

A questo punto il capo del governo dovrebbe aver già emanato dalla prima settimana di gennaio un decreto conseguente, per stabilire chi fa che cosa e in quali tempi. Un capo del governo, accentrandosi ogni autorità – com’è previsto dalla Costituzione, art. 117, comma d – avrebbe mantenuto pienamente operativo l’organismo consultivo multidisciplinare, per reagire tempestivamente al mutare delle situazioni. Che cos’è invece accaduto? A metà gennaio s’offriva una risposta paradossale, l’accusa di fascio­leghismo, a chi chiedeva, seppure scompostamente, risposte operative a un’emergenza nazionale e internazionale.
L’assenza di decisioni pianificate, coordinate, tempestive ha fatto dilagare l’epidemia. Giuseppe Conte a quel punto s’è dichiarato 《sorpreso, come fosse una casalinga davanti alla tivvù. Ha poi reagito in ritardo e con provvedimenti sgangherati, improvvisati, taluni esagerati, altri inadeguati, mentre le amministrazioni regionali si sono scollate dal governo centrale, chi con effetti positivi, chi con provvedimenti tanto improvvisati quanto grotteschi. Tale isteria ha causato la sopravvenienza di ulteriori emergenze, com’è d’altronde naturale in tali catastrofi. All’emergenza medica, si è quindi sommata quella economica, sociale e diplomatica-internazionale, senza escluderne ulteriori a venire.
Conclusione. Conte è un inetto, oscillante fra la risposta paradossale davanti alla prima sollecitazione emotiva a gennaio, per poi rincorrere in ritardo, oltre quaranta giorni dopo, la sopravanzante e per lui “sorprendente” realtà, scaricando su altri le proprie enormi responsabilità, politiche e non solo. La nave rischia di perdere anche il timone, sbattendo sugli scogli sui quali la porta il comandante fuori di testa. È ora che l’equipaggio s’ammutini, nomini un nuovo comandante, a meno che Sergio Mattarella non voglia condividerne le responsabilità.

https://www.pierolaporta.it/un-premier-inetto-e-un-po-isterico-ecco-cosa-doveva-fare-e-non-ha-fatto/

I “MOLTIPLICATORI DI IMPOTENZA” NELLA GUERRA IBRIDA, di Piero Visani

I “MOLTIPLICATORI DI IMPOTENZA” NELLA GUERRA IBRIDA

Si parla molto della questione se il Coronavirus sia stato o meno di produzione militare e si sostengono varie tesi al riguardo, tutte interessanti.
Sfugge però – a mio parere – un aspetto fondamentale: al centro della guerra ibrida non si pongono, come in altre tipologie belliche, i “moltiplicatori di potenza”, ma semmai quelli “di impotenza”, poiché essa si preoccupa di rovesciare, non di confermare, assetti già noti.
L’esempio italiano è classico, al riguardo. Si prenda una classe dirigente ignorantissima, ottusa, autoreferenziale e sempre pronta a vendere se stessa per pochi (e talvolta neppure così pochi) euro, a condizione di rimanere al vertice (anche al vertice di Cialtronia o di niente, pur sempre un vertice è, per nani e ballerine…; i primi, del resto, come ebbe a scrivere il mitico Faber, hanno il cuore – e pure la testa, aggiungo io – “molto vicino al buco del…” etc. etc.) e la si solleciti con stimolazioni che si sappia possano farle molto male, nel senso che – giostrando accortamente una serie di fattori di cui essa SA NULLA, in base al notorio principio che “uno vale uno e zero vale zero” (e la medesima è più prossima al secondo che al primo…) – la si possa danneggiare in profondità sotto vari punti di vista.
Adeguatamente stimolata alla reazione pavloviana, essa partirà in quarta, distruggendo un Paese, un’economia e un’immagine internazionale già pressoché inesistente semplicemente per attivare quei “moltiplicatori di impotenza” che è stata abilmente sollecitata ad attivare. Il risultato sarà l’ennesimo disastro, i suoi abitanti saranno ridotti al rango di appestati, la sua economia si fermerà e quella parte di suoi cittadini che era tanto favorevole all’accoglienza si vedrà chiudere in faccia tutte le porte possibili e immaginabili da parte di chi è un po’ meno fesso (o venduto…) di lei (e sono tanti…). Alcuni, poi, si accorgeranno che la globalizzazione vale fin che fa comodo ai padroni del vapore, poi fa subito loro decisamente più comodo la “glebalizzazione”.
Ecco come si attivano i “moltiplicatori di impotenza” in una guerra ibrida. E’ sufficiente che siano disponibili i materiali di base: gli idioti. E da noi – a quanto pare – abbondano.

Nadia Urbinati, Io, il popolo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Nadia Urbinati, Io, il popolo, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 339, € 24,00

 

Nella messe di libri pubblicati sul populismo, spesso esorcizzanti – per conto delle élite – i nuovi soggetti politici, questo lavoro si distingue perché, secondo l’autrice “il populismo non è un’ideologia, ma una forma di rappresentanza politica e di governo democratico, Questo lo rende rischioso e difficile da contrastare e, soprattutto, ne fa un fattore di successo molto remunerativo nell’età della politica dell’audience”; così “Questo libro prende sul serio tale concettualizzazione e cerca di capire che tipo di democrazia è la democrazia populista. Unire le più diverse rivendicazioni, anche quelle trasversali alle ideologie della destra e della sinistra, comporta superare la rappresentanza per mezzo dei partiti e creare un’unica frontiera: quella che separa chi esercita il potere e chi non lo esercita, l’establishment e tutti gli altri”. Il che non è altro che ricondurre al “criterio del politico” la lotta tra popolo ed establishment. Il populismo è contro i partiti (e soprattutto contro la partitocrazia), ma non è antidemocratico: “è lo specchio della democrazia rappresentativa”. Anche in tal senso, ma soprattutto perché i populisti stanno progressivamente conquistando il governo di molti Stati, non lo si può identificare con movimenti di pura protesta (di opposizione), giacché lì sono al governo. La Urbinati scrive che quella che critica è una debolezza concettuale: “La mia idea è che dovremmo abbandonare l’atteggiamento polemico e considerare il populismo alla stregua di un processo politico inteso a conquistare il governo. Suggerisco di vederlo come l’esito di una trasformazione dei tre pilastri sui quali si regge la democrazia moderna – il popolo, il principio di maggioranza e la rappresentanza… prendo in seria considerazione la capacità che i movimenti populisti hanno di costruire un particolare loro regime dall’interno della democrazia costituzionale. Il populismo è rappresentativo: ma una forma sfigurata, che si situa entro la categoria della deformazione”.

Al contrario della narrazione prevalente nei media “di regime” Urbinati ritiene che il populismo è “incompatibile con i regimi politici non democratici” e tuttavia, sfigura la democrazia rappresentativa.

L’autrice ritiene che la democrazia rappresentativa è diarchica: “La diarchia sta a significare che le elezioni e il forum delle opinioni fanno delle istituzioni al contempo il luogo del potere legittimo e però anche un oggetto di discussione, di controllo e di contestazione. Una costituzione democratica deve regolare e proteggere entrambi i poteri”; il populismo tende a svalutare/ridurre il momento del formarsi dell’opinione rispetto all’esercizio della volontà pubblica; con ciò sono anche svalutati gli “intermediari” d’opinione (partiti e mezzi di comunicazione), rispetto al rapporto tra capo e popolo. Scrive “Il cardine della mia analisi del populismo è la relazione diretta con il popolo che il leader stabilisce e mantiene. È questa la dinamica che sfuoca i confini della diarchia democratica. Tale dinamica consiste nell’accentuare il dualismo tra «i molti» e «i pochi» e nell’espandere il potere del pubblico fino a mettere in discussione la democrazia costituzionale”.

Così il populismo col suo insistere sul momento della decisione, sul principio maggioritario e sulla contrapposizione tra il popolo (in effetti la “sua” parte di popolo) e l’establishment “non è il compimento, né la norma, del principio di maggioranza e della democrazia, ma il suo sfiguramento… le cui «conseguenze illiberali non sono necessariamente conseguenti a una crisi del liberalismo in uno stato democratico», ma si possono sviluppare dalla pratica stessa della democrazia, dall’uso della libertà”.

Il populismo è pericoloso, ma non anti-democratico tuttavia, come scrive l’autrice è anti-liberale e ne individua quattro inevitabili tendenze: 1) è refrattario alle tradizionali divisioni partigiane e contempla solo il dualismo di base tra la gente comune e l’establishment; è insofferente del pluralismo 2) Il populismo conquista il potere attraverso la competizione elettorale, ma usa le elezioni come plebisciti per dimostrare la forza del vincitore; il voto serve a confermare l’esistenza del “popolo vero” 3) Il populismo opera questa trasformazione dopo aver respinto l’idea della rappresentanza come articolazione elettorale di rivendicazioni e interpretazioni 4) Il populismo interpreta la democrazia come maggioritarismo radicale… L’esito finale è un radicale fazionalismo, un’ammissione senza infingimenti del fatto che la politica è una guerra più che un gioco… Rappresenta la vittoria di una visione iperrealista e relativistica della politica come costruzione ed esercizio del potere che ha nella vittoria la sua legittimità (v. p. 302-303).

Il saggio, pur così articolato, presente due punti dolenti. Da un lato accomuna sotto il concetto e il termine “populismo” fenomeni che, sviluppandosi in contesti assai differenti, hanno caratteristiche comuni poco rilevanti se non marginali. L’Argentina di Peron a poco a che fare con l’Ungheria di Orban, la Gran Bretagna della Brexit o l’Italia del XX secolo.

La seconda è che a restringere l’esame al populismo contemporaneo, il carattere “illiberale” emerge poco o nulla, se si passa da una valutazione basata su impressioni, esternazioni, proclami polemici a quella sulle realizzazioni, sul piano istituzionale soprattutto.

Esame omesso. Perché, se si va a guardare gli USA di Trump, la Gran Bretagna post-Brexit o l’Ungheria di Orban, tutti gli istituti dello Stato di diritto non sono stati toccati. Non risulta, tra le realizzazioni dei leaders populisti qualcosa  che somigli, neanche lontanamente, alla legge sui pieni poteri votata dal Reichstag nel marzo 1933 (in sostanza l’abolizione della costituzione di Weimar), né alcuna significativa riduzione dei principi di separazione dei poteri o di tutela dei diritti fondamentali che sono, dalla solenne enunciazione nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 i principi del costituzionalismo liberale.

Anzi in taluni casi le garanzie sono state se non rafforzate, almeno estese.

Lo stesso parlamento europeo nell’approvare l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria nel 2018, non ha saputo trovare altro (di rilevante) che “violazioni” analoghe a quanto regolato analogamente in altri Stati dell’UE (ad esempio l’assenza di azione popolare alla Corte Costituzionale, come anche in Italia), e/o praticato come le attitudini “manesche” della polizia – anche qui condanne all’Ungheria e all’Italia da parte della CEDU – ed altro che i limiti di una recensione non consentono di ricordare. Gli è che, malgrado lo sforzo dell’autrice di non cadere negli esorcismi anti-populisti, le lesioni alla diarchia opinione-volontà appaiono poco non solo per considerarli attentati allo Stato di diritto ed ai suoi istituti, ma anche cambiamenti di qualche sostanza, perché si limitano alle modalità di propaganda ad aspetti marginali della formazione dell’opinione pubblica. Per fortuna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

COSA ABBIAMO IMPARATO, di Antonio de Martini e cosa dovremmo, di Piero Visani

COSA ABBIAMO IMPARATO, di Antonio de Martini

1) Per la difesa della salute, il livello decisionale regionale é privo di senso.
( il regime DC-PSI creando le regioni delegò a queste una competenza sanitaria che i fatti hanno dimostrato avere una valenza spaziale ben più vasta).

2) L’Unione Europea ha perso un’altra occasione per dimostrarsi viva. Non una direttiva e nemmeno linee guida. Nessuna previsione né prevenzione.un tardivo stanziamento per finalità da definirsi.

3) Anche affrancare la protezione civile dalla Difesa si è dimostrato un errore: si tratta di materie ( pianificazione operativa, logistica) capitale umano e mezzi che vengono studiati e impiegati solo dalle forze armate.

Incongrua una dirigenza « civile » : é una duplicazione costosa e inutile, visto che poi – tranne che per le conferenze stampa – si finisce per impiegare i militari, deresponsabilizzandoli con m’ affidamento del comando a estranei , quando non ostili, all’organizzazione principale.

4) Discorso analogo per « L’Unità di crisi » della Farnesina. Di fronte al fatto nuovo, ha reagito utilizzando il criterio usato per gli ostaggi dei terroristi o i reduci da un terremoto: rimpatriando i concittadini ( facendo ricorso all’aeronautica militare) . Anche qui, poco più che un numero verde e comunicati stampa.

Il sovrapporsi di competenze e coordinatori ha prodotto indugi e questi risibili e improvvisati tavoli da sessanta persone visti in TV, mentre sarebbe stato utile uno Stato Maggiore preparato e già affiatato a conoscenza dei limiti e potenziale dei mezzi a disposizione.

L’inferiorità metapolitica, di Piero Visani

       Dal momento che, quando si parla di metapolitica, l’occhio dei “centrodestri” italici si fa ancora più vacuo di quanto non sia abitualmente (e lo è già parecchio…), farò un esempio concreto, di quelli che – “con un piccolo aiuto degli amici”… – magari riusciranno a comprendere, visto che si tiene a debita distanza dal disprezzatissimo pensiero astratto: vi risulta che qualche magistrato si sia mosso onde denunciare qualche membro del governo, dal presidente del Consiglio in giù, per comportamento inizialmente molto omissivo nei riguardi del “Corona virus” e per aver parlato molto di razzismo, più che di altre forme di contagio? No, naturalmente. Come pure nessuna denuncia al Tribunale dei ministri, come accadde in passato a un ministro degli Interni. Tutti silenti, “allineati e coperti”, per nulla attenti alle molte omissioni di controllo e alle troppe restrizioni alla libertà dei cittadini degli ultimissimi giorni.
Non controllare il Deep State, lo “Stato profondo”, e non riuscire a fare politica a causa di tale mancato controllo: questa è inferiorità metapolitica, grave.

Coronavirus e struzzi politicamente corretti, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la pubblicazione di alcune incisive considerazioni di Andrea Zhok e Vincenzo Cucinotta, tratti da facebook, riguardanti le implicazioni e la gestione di una eventuale se non probabile diffusione epidemica o peggio pandemica del coronavirus. L’argomento meriterà sicuramente ulteriori riflessioni sulla falsariga di quanto sottolineato da Zhok e sostenuto a più riprese, ormai da anni, da questo blog a proposito della fragilità e della sempre più incipiente crisi di un sistema globalizzato di relazioni fondato su una visione unipolare ed economicistica del sistema di relazioni. Al momento preme sottolineare due aspetti della gestione casereccia di questa situazione di crisi.

  • L’atteggiamento della stampa e del sistema di informazione nella loro quasi totalità. I telegiornali ormai dedicano pressoché le intere edizioni alla crisi in atto. In realtà non fanno che soffermarsi ossessivamente sul numero dei casi, sulla condizione dei pazienti e sulle misure di isolamento dei soggetti e delle comunità implicati. Nessuna seria azione di vigilanza, puntualizzazione e critica dell’azione governativa a cominciare dalla verifica dei poteri di vigilanza e di efficacia di azione conferiti alla Protezione Civile e agli altri organismi preposti. Con il pretesto di evitare di concedere spazio alla strumentalizzazione politica, in parte effettiva, operata in particolare da Matteo Salvini, non fa che riportare pedissequamente e diligentemente l’azione governativa. Un atteggiamento di apparente neutralità ed oggettività che nasconde la funzione surrettizia di sostegno politico a questi ultimi; una mistura esplosiva di allarmismo sterile e conformismo politico innescata da un meccanismo a scoppio ritardato dalle conseguenze potenzialmente disastrose.
  • L’atteggiamento delle forze al governo. La preoccupazione primigenia di costoro è stata quella di lanciare “messaggi di inclusione” a contrasto e in polemica con un razzismo di fatto inesistente e irrilevante, almeno per il momento, nel nostro paese. Una strumentalizzazione politica peggiore di quella degli avversari e un messaggio che rischia di sminuire l’azione individuale di prevenzione. Lasciamo perdere per il momento il tema del ridimensionamento, deperimento delle strutture amministrative e di servizio del paese. Con tutti gli strumenti invasivi di controllo individuale disponibili, legati all’uso di carte di pagamento, di pedaggi e prenotazioni e via dicendo, pare che siano stati utilizzati strumenti più approssimativi e informali di individuazione dei focolai primigeni con conseguenti ritardi e carenze che costringeranno probabilmente a modificare la natura e la drasticità degli interventi futuri riguardo ad una patologia preoccupante più che per la mortalità per la contagiosità e l’oneroso trattamento medico necessario in buona parte dei casi il cui corso potrebbe portare al collasso il sistema ospedaliero.

Non pare, quindi, per chiosare Zhok, che il Governo sia consapevole della posta in palio e se lo è preferisce nascondere la polvere sotto il tappeto piuttosto che andarsene.

Andrea Zhok

Qualche osservazione sparsa e da profano sugli ultimi eventi relativi al ‘coronavirus’.

1) Il problema fondamentale rappresentato da una possibile epidemia di Covid-19 non sta nella mortalità, che è di poco superiore ad una normale influenza, ma nella pesantezza del decorso, che richiede spesso ricovero ospedaliero.

2) Quindi l’impatto problematico del Covid-19 si manifesta (potenzialmente) in primo luogo sulle strutture ospedaliere, che incidentalmente sarebbero lì per occuparsi di una pluralità di problemi, e che si possono trovare rapidamente al collasso. – In quest’ottica si comprende sia la sollecitudine (e mostruosa efficienza) cinese nella costruzione di nuovi ospedali, sia la preoccupazione di molti operatori ospedalieri italiani in un settore scarnificato dai tagli negli ultimi anni.

3) In seconda battuta, l’impatto del Covid-19 è particolarmente severo sull’intero sistema delle transazioni, sul ‘libero movimento di merci e persone’. In quest’ottica poche cose illustrano in modo più plastico di questa epidemia il sistema di interconnessioni ed interdipendenze globali. Al contempo ciò mostra l’immensa strutturale fragilità di sistemi produttivi così estesi, che dopo essere stati più volte messi sotto accusa per le ripercussioni ambientali di questa ‘frenesia di movimento’, e per le loro ripercussioni in termini di destabilizzazione economica (delocalizzazioni, ecc.), ora mostrano anche la corda nei termini di fragilità del controllo nazionale (quando il controllo nazionale è l’unica cosa cui puoi ricorrere, come in caso di epidemia).

4) Nel caso italiano temo che il rischio di essere il vaso di coccio del sistema sia altissimo. Paesi come la Cina giocano le loro carte sull’export, ma hanno un forte controllo nazionale, e ciò gli consentirà plausibilmente, nonostante una situazione inizialmente assai più grave, di rimettersi in carreggiata tra uno o due mesi. Se la curva dei contagi, come sembra, continua a ridursi, la Cina riprenderà (non senza strascichi) il suo ruolo attuale di ‘fucina del mondo’.
Altri paesi, come gli USA, hanno un mercato interno forte, che risentirà relativamente di eventuali prolungate interruzioni delle ‘supply chains’ mondiali.
I paesi europei sono quelli destinati a soffrire di più nel caso di un prolungarsi od aggravarsi della situazione, e l’Italia più di tutti, perché dipende più di ogni altro dalle proprie relazioni internazionali (sia come export, che come settore turistico).

5) Sul piano strettamente empirico, in Italia, in questo quadro c’è un particolare che finora mi sembra curiosamente assente dalla discussione. Siamo di fronte a due focolai distinti, di cui uno ha un possibile paziente zero (ma per ora non confermato), mentre nell’altro caso non mi risulta che ci sia alcun paziente zero.
Ora, la mancata individuazione dei focolai originanti dell’infezione è un evento di straordinaria gravità. Se il/i soggetto/i che diffonde il virus non viene isolato può contagiare un numero indefinito di persone, che visti i tempi di incubazione (da 2 a 15 giorni, sembra), potrebbe provocare una condizione pandemica in capo a un paio di settimane.

Ci si potrebbe trovare, e non è una proiezione particolarmente pessimistica, con una situazione di dimensioni ‘cinesi’. Scarsa consolazione sembra provenire dalla presunta stagionalità del virus, giacché a quanto pare si sta diffondendo anche in aree calde. Un quadro del genere può significare per l’Italia essere tagliati fuori come anelli dell’approvvigionamento europeo e come destinazione turistica.

Il tutto in una cornice già economicamente logorata e socialmente tesa.

E, per inciso, senza la possibilità di poter ricorrere a pratiche di autofinanziamento statale (per la ben nota deprivazione della potestà sulla propria erogazione di moneta).

Direi la tempesta perfetta.

Spero vivamente che chi ci governa abbia chiaro davanti agli occhi questo scenario, al momento non solo di principio possibile, ma significativamente probabile. Non è un momento in cui si può aspettare e stare a vedere cosa succede, per poi metterci delle toppe. Le toppe sono già quasi finite, e potremmo essere solo all’inizio.

 Vincenzo Cucinotta

Conte dice “stiamo facendo tutto il possibile”.
Il punto è che non si fa mai tutto il possibile, perchè se ciò che si fa esaurisce tutto il possibile, allora, non ci sarebbe nulla da decidere.
Quel Conte mi pare l’emblema stesso di questo aspetto più ignobile dell’italianità, questa approssimazione, questo volemose bene, uno che dice che gli italiani possono stare tranquilli perchè il governo sta facendo del suo meglio.
Vedo che non ci sono grandi consensi alla mia posizione “estrema”, cioè affrontiamo il contagio senza illuderci di poterlo contenere, ma credo che non sia chiaro che ogni battaglia che si intraprende, lo si fa per vincerla.
Mi chiedo allora coloro che sono nel panico per ogni possibile estensione del contagio, a quali sacrifici estremi siano pronti, a rimanere barricati in casa fino a esaurimento delle scorte, e poi affidarsi a lanci di derrate alimentari da elicotteri? Non so, non capisco, forse non è chiaro a tutti che ormai abbiamo una pluralità di fonti di contagio, molte delle quali tuttora ignote, e ognuna di queste può rapidamente dar luogo a numerosissime fonti di contagio. Come possiamo davvero credere che si riesca a controllarle tutte?
Mi chiedo se siano così scemi o se siano solo furbi, e invece di puntare a delimitare il contagio, stiano solo tentando di difendere la propria immagine dicendo appunto che “hanno fatto tutto il possibile”. A noi, che facciano tutto il possibile non interessa per niente, vogliamo risultati, e quindi se qualcuno ha un’idea in proposito, che adottino una strategia ben definita e articolata, sennò sarebbe meglio che non facessero nulla, il possibile di cui parlano può essere molto pernicioso.

http://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-31/14163

Orazio M. Gnerre, Prima che il mondo fosse, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Orazio M. Gnerre, Prima che il mondo fosse , Mimesis Ed. 2018, pp. 106, € 10,00.

“Alle radici del decisionismo novecentesco” è il sottotitolo di questo denso saggio, che non rende poi tutto ciò che vi si legge, dato che analizza, sotto l’aspetto decisionistico, la concezione antropologica dell’uomo moderno e, di conseguenza, il pensiero politico della modernità, connotato dal processo di secolarizzazione, dal divorzio tra cielo e terra, tra sacro e potere.

La ricerca di senso, anche in carenza del sacro tuttavia non si arresta: l’uomo moderno  cerca e trova dei surrogati, nella nazione, nel popolo, nella classe proletaria, nel Führer. Il Dio onnipotente, cui corrisponde l’onnipotenza giuridica del sovrano, è “messo tra parentesi” da Sieyès il quale ne dà la formula “La Nazione è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere”, la quale contiene lo spinoziano “tantum juris quantum potentiae”. Proprio l’abate sosteneva che la Nazione non può essere sottomessa ad alcun vincolo giuridico o forma positiva “una nazione è indipendente da qualunque forma; e in qualunque modo essa voglia, è sufficiente che questa sua volontà si manifesti, perché ogni diritto positivo venga meno dinanzi ad essa che è la fonte e l’arbitro supremo di ogni diritto positivo”. La volontà nazionale si muove in uno spazio vuoto dal diritto, il quale ne è il prodotto ma non il limite.  Non è – in questo senso – vincolata da nulla. Ma che cos’è “il nulla”? La risposta è che “il nulla è l’estremo oblio del mondo reale nella posizione formale di un ordinamento. Il nulla è l’irrazionalismo del fondamento che Kelsen pone all’apice del proprio Stufenbau internazionale” (dalla prefazione di A. Sandri). Così la dottrina giuridica del XX secolo innova al giusnaturalismo dei secoli precedenti, un ordine razionale astratto “non scalfito dalla politica durante il secolo XIX”. Mentre nella prima metà del secolo scorso nasce “l’idea che l’unità reale del popolo e la sua immediata connessione con il leader costituiscano il nuovo presupposto, difficilmente inquadrabile nelle regolarità della legge dello Stato liberale di diritto, della decisione politica, dell’organizzazione amministrativa dello Stato”, idea la quale si diffonde nelle dottrine politiche e costituzionali, dal nazionalsocialismo al comunismo, ma lambisce anche le teorie socialdemocratiche; in Italia, la concezione di Costantino Mortati.

Così il decisionismo ha avuto un ruolo non esclusivamente giuridico: “Il decisionismo è stata la declinazione di una temperie generale, da un lato, e dall’altro la formalizzazione di una nuova teoria giuridica che potesse fornire alcune risposte… a una definizione dell’immagine di una modernità che, per l’uomo dell’epoca, risultava sempre più asfissiante”. Tale periodo storico – scrive Gnerre rifacendosi a Del Noce – è dal filosofo torinese “identificato come il periodo sacrale della secolarizzazione, in contrapposizione all’epoca seguente, da lui chiamata invece l’epoca secolare profana, che coinciderebbe con l’avvento (anche in campo sovietico) di una società che dava preminenza al consumo ed al benessere e che, con il crollo del Blocco Est ha visto la nascita di una société consumériste mondiale”.

Ma, in detta epoca (prima della guerra fredda, poi del post-comunismo) occorreva rimuovere il periodo “sacrale” “Questo grande rimosso è il fenomeno totalitario, che ha rappresentato senza alcun dubbio una modalità diversa di immaginazione della modernità, una modalità che ha perso ogni legittimità ed è stata cancellata dalle possibilità storiche, avendo perduto la sfida all’edificazione del futuro dell’umanità in un più vasto momento di una guerra mondiale, combattutasi anche sui fronti culturali, economici e giuridici e conclusasi col collasso dell’esperimento comunista sovietico”. Tuttavia, scrive l’autore: “il periodo sacrale della secolarizzazione non è ancora un capitolo chiuso della storia dell’umanità”.

La tecnica, la macchina, lo “spirito rappreso” del XX secolo non soddisfano – ieri, come ancora oggi – la domanda di senso. Ma, con ciò, e con il progressivo prevalere dell’economico sul politico, non si attinge solo la pace ossia la fine del polemos, ma, proseguendo conseguenzialmente, anche della Polis. E così arriviamo ai giorni nostri dove è in corso il tentativo – già in parte riuscito – di depotenziare lo Stato nazionale a favore dell’economia e della governance globale.

La tesi di Gnerre ricorda quelle esposte da Karl Löwith nel saggio (pubblicata in Italia con lo pseudonimo di U. Fiala) dal titolo Decisionismo politico sul pensiero di Carl Schmitt, per cui “Schmitt, con riferimento a ciò, dice che l’essenza dello Stato si riduce necessariamente ad una decisione assoluta, creata dal nulla e non giustificabile; e che questo “attivo nichilismo è invece peculiare solo allo Schmitt e a quei tedeschi del XX secolo che gli sono spiritualmente affini”.

E nel concetto di dittatura sovrana cui Schmitt riconduce le concezioni dei giacobini e, soprattutto, dei bolscevichi è riassunta l’opera di innovazione radicale del totalitarismo, che azzera l’esistente e crea una nuova comunità umana, attraverso lo strumento di una dittatura che, al contrario di quella classica romana, non è istituita “per serbare gli ordini” (Machiavelli) ma per rompergli. In funzione di una società nuova, per un uomo nuovo; cioè fondata (anche) su una diversa concezione antropologica.

Questo e molto altro c’è nel saggio di Gnerre; dati i limiti di una recensione ci si contiene a una breve considerazione sul pensiero politico-giuridico della modernità classica e di quella tarda (o post)moderna, in relazione sia al rapporto tra ideale e reale, sia a quella tra esistente e  normativo. Nella “prima” modernità, ossia quella del liberalismo ottocentesco, la concezione dell’uomo rimane quella “classica” cioè di un’antropologia (relativamente) pessimistica, ossia realista, onde la necessità di governi – e di controlli sui governi, come scritto nel Federalista (la novità in ciò è quella del controllo sui governi). Nella modernità “totalitaria” c’è un passo decisivo: il comunismo proclama di avere scoperto la formula per cambiare la natura umana. Da qui la necessità di una dittatura sovrana per metterla in opera. Nel pensiero post-moderno, poi, il problema antropologico è messo in sordina; tuttavia lo si considera risolto con la governance, la tecnocrazia e soprattutto l’obliterazione/negazione del politico. Anche qui, in modo indiretto, si crede di risolvere il problema del dominio politico, negandolo. Solo che l’uomo è Zoon politikon a dispetto della governance, e continua ad esserlo. E la realtà prevale sulle aspirazioni (esternate).

L’altra che, s’inverte il rapporto tra esistente e normativo. Se alla prima modernità era evidente (v. Sieyès) che era l’esistente a legittimare il normativo, nella tarda modernità è questo a legittimare quello. Ad Hegel tesi consimili sembravano riempire le teste di vento (id est aria fritta): nella post-modernità le gonfiano senza limite. Finché, e se ne hanno le avvisaglie, almeno quelle dei governati scoppiano.

Teodoro Klitsche de la Grange

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