Campo di battaglia: Draghi, Consiglio Europeo, Coronavirus. Cronache del crollo, di Alessandro Visalli

Il Governo italiano ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio Europeo che si riunisce oggi, sottoscritta da Emmanuel Macron (Francia), Pedro Sanchez (Spagna), Sophie Wilmes (Belgio), Kyriakos Mitsotakis (Grecia), Leo Varadkar (Irlanda), Xavier Bettel (Lussemburgo), Antonio Costa (Portogallo), Janez Jansa (Slovenia).

Si parla di quasi la metà degli stati dell’eurozona (9 su 19), per un totale di 212 milioni di abitanti (64% dell’area) e 7.800 mila miliardi di Pil (il 57% di quello dell’eurozona).

E’ chiaro che se andassero fino in fondo, nel Consiglio Europeo di oggi (che include tutti i membri dell’Unione Europea, e quindi 442 milioni di abitanti e 17.000 miliardi di Pil, per cui in questo consesso si parla del 48% degli abitanti e 45% del Pil), sarebbe una forza imponente.

Rispetto all’attuale stato dell’epidemia i paesi firmatari sono “titolari” del 72% dei casi in Europa e del 77% dei casi nella sola eurozona. In rapporto agli abitanti il paese più colpito è il piccolo Lussemburgo (che ha 2,67 casi per 1000 abitanti), seguito dall’Italia (1,24), Spagna (1,04), Belgio (0,45), Irlanda (0,34), Francia (0,33), Portogallo (0,3), Slovenia (0,26), Grecia (0,07). Tra i paesi che non hanno firmato spicca la Germania, con 35.700 casi (0,44) e l’Olanda, con 6.400 (0,38), l’Austria con 5.500 (0,64), la Finlandia, con 900 (0,16), la Svezia, 2.500 (0,25), la Polonia, con 1.000 (0,03), Romania, 900 (0,05).

Jeremy Mann

 

Vediamo la lettera:

La lettera al Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, del Presidente Conte e dei leader di Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna.

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Caro Presidente, caro Charles

la pandemia del Coronavirus è uno shock senza precedenti e richiede misure eccezionali per contenere la diffusione del contagio all’interno dei confini nazionali e tra Paesi, per rafforzare i nostri sistemi sanitari, per salvaguardare la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali e, non ultimo, per limitare gli effetti negativi che lo shock produce sulle economie europee.

Tutti i Paesi europei hanno adottato o stanno adottando misure per contenere la diffusione del virus. Il loro successo dipenderà dalla sincronizzazione, dall’estensione e dal coordinamento con cui i vari Governi attueranno le misure sanitarie di contenimento.

Abbiamo bisogno di allineare le prassi adottate in tutta Europa, basandoci su esperienze pregresse di successo, sulle analisi degli esperti, sul complessivo scambio di informazioni. È necessario ora, nella fase più acuta dell’epidemia. Il coordinamento che tu hai avviato, con Ursula von der Leyen, nelle video-conferenze tra i leader è d’aiuto in tal senso.

Sarà necessario anche in futuro, quando potremo ridurre gradualmente le severe misure adottate oggi, evitando sia un ritorno eccessivamente rapido alla normalità sia il contagio di ritorno da altri Paesi. Dobbiamo chiedere alla Commissione europea di elaborare linee guida condivise, una base comune per la raccolta e la condivisione di informazioni mediche ed epidemiologiche, e una strategia per affrontare nel prossimo futuro lo sviluppo non sincronizzato della pandemia.

Mentre attuiamo misure socio-economiche senza precedenti, che impongono un rallentamento dell’attività economica mai sperimentato prima, abbiamo comunque bisogno di garantire la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali, e la libera circolazione di dispositivi medici vitali all’interno dell’UE. Preservare il funzionamento del mercato unico è fondamentale per fornire a tutti i cittadini europei la migliore assistenza possibile e la più ampia garanzia che non ci saranno carenze di alcun tipo.

Siamo pertanto impegnati a tenere i nostri confini interni aperti al necessario scambio di beni, di informazioni e agli spostamenti essenziali dei nostri cittadini, in particolare quelli dei lavoratori transfrontalieri. Abbiamo anche bisogno di assicurare che le principali catene di valore possano funzionare appieno all’interno dei confini dell’UE e che nessuna produzione strategica sia preda di acquisizioni ostili in questa fase di difficoltà economica. I nostri sforzi saranno prioritariamente indirizzati a garantire la produzione e la distribuzione delle attrezzature mediche e dei dispositivi di protezione fondamentali, per renderli disponibili, a prezzi accessibili e in maniera tempestiva a chi ne ha maggiore necessità.

Le misure straordinarie che stiamo adottando per contenere il virus hanno ricadute negative sulle nostre economie nel breve termine. Abbiamo pertanto bisogno di intraprendere azioni straordinarie che limitino i danni economici e ci preparino a compiere i passi successivi. Questa crisi globale richiede una risposta coordinata a livello europeo. La BCE ha annunciato lo scorso giovedì 19 marzo una serie di misure senza precedenti che, unitamente alle decisioni prese la settimana prima, sosterranno l’Euro e argineranno le tensioni finanziarie.

La Commissione europea ha anche annunciato un’ampia serie di azioni per assicurare che le misure fiscali che gli Stati membri devono adottare non siano ostacolate dalle regole del Patto di Stabilità e Crescita e dalla normativa sugli aiuti di Stato. Inoltre, la Commissione e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) hanno annunciato un pacchetto di politiche che consentiranno agli Stati membri di utilizzare tutte le risorse disponibili del bilancio dell’UE e di beneficiare degli strumenti della BEI per combattere l’epidemia e le sue conseguenze.

Gli Stati membri dovranno fare la loro parte e garantire che il minor numero possibile di persone perda il proprio lavoro a causa della temporanea chiusura di interi settori dell’economia, che il minor numero di imprese fallisca, che la liquidità continui a giungere all’economia e che le banche continuino a concedere prestiti nonostante i ritardi nei pagamenti e l’aumento della rischiosità. Tutto questo richiede risorse senza precedenti e un approccio regolamentare che protegga il lavoro e la stabilità finanziaria.

Gli strumenti di politica monetaria della BCE dovranno pertanto essere affiancati da decisioni di politica fiscale di analoga audacia, come quelle che abbiamo iniziato ad assumere, col sostegno di messaggi chiari e risoluti da parte nostra, come leader nel Consiglio Europeo.

Dobbiamo riconoscere la gravità della situazione e la necessità di una ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona.

In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia.

Vi sono valide ragioni per sostenere tale strumento comune, poiché stiamo tutti affrontando uno shock simmetrico esogeno, di cui non è responsabile alcun Paese, ma le cui conseguenze negative gravano su tutti. E dobbiamo rendere conto collettivamente di una risposta europea efficace ed unita. Questo strumento di debito comune dovrà essere di dimensioni sufficienti e a lunga scadenza, per essere pienamente efficace e per evitare rischi di rifinanziamento ora come nel futuro.

I fondi raccolti saranno destinati a finanziare, in tutti gli Stati Membri, i necessari investimenti nei sistemi sanitari e le politiche temporanee volte a proteggere le nostre economie e il nostro modello sociale.

Con lo stesso spirito di efficienza e solidarietà, potremo esplorare altri strumenti all’interno del bilancio UE, come un fondo specifico per spese legate alla lotta al Coronavirus, almeno per gli anni 2020 e 2021, al di là di quelli già annunciati dalla Commissione.

Dando un chiaro messaggio di voler affrontare tutti assieme questo shock unico, rafforzeremmo l’Unione Economica e Monetaria e, soprattutto, invieremmo un fortissimo segnale ai nostri cittadini circa la cooperazione determinata e risoluta con la quale l’Unione Europea è impegnata a fornire una risposta efficace ed unitaria.

Abbiamo inoltre bisogno di preparare assieme “il giorno dopo” e riflettere sul modo in cui organizziamo le nostre economie attraverso i nostri confini, le catene di valore globale, i settori strategici, i sistemi sanitari, gli investimenti comuni e i progetti europei.

Se vogliamo che l’Europa di domani sia all’altezza delle sue storiche aspirazioni, dobbiamo agire oggi e preparare il nostro futuro comune. Apriamo pertanto il dibattito ora e andiamo avanti, senza esitazione.

Firmato da

Sophie Wilmès, Primo Ministro del Belgio

Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese 

Kyriakos Mitsotakis, Primo Ministro of Greece

Leo Varadkar, Primo Ministro of Ireland

Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano

Xavier Bettel, Primo Ministro del Lussemburgo

António Costa, Primo Ministro del Portogallo

Janez Janša , Primo Ministro della Slovenia


Pedro Sánchez, Primo Ministro della Spagna

Un breve commento.

Cosa si sta dicendo qui? Che la crisi da coronavirus in corso è esterna e non è colpa di nessuno, che per affrontarla si interromperanno gli scambi e disgregheranno le “catene del valore” (ovvero la connessione di fornitori e clienti di ogni singola impresa), che nello sforzo di canalizzare le risorse contro l’aggressione virale ci sono aziende strategiche e non, che le prime vanno tenute in attività e protette dalle possibili aggressioni ostili, che i danni per i cittadini e l’economia vanno compensati da spesa pubblica, che per farla serve che ci sia un’emissione di titoli di debito comune, garantita in solido.

Nel luogo della lettera in cui si arriva al punto, e si chiede uno strumento di debito comune, alle medesime condizioni e per tutti, la frase successiva risponde all’obiezione luterana sempre ripetuta, che il debito è colpa e

Qui il caso è diverso, nessun paese è responsabile.

Quindi la lettera accende una piccola luce sul futuro e specifica che da ora bisognerà “organizzare le economie”, ovvero le catene del valore globali, i settori strategici, i sistemi sanitari e gli investimenti comuni.

Dunque nel campo di battaglia si è schierato un esercito, ed ha dichiarato le sue intenzioni.

Al contempo è sceso in campo un generale, Mario Draghi sul Financial Times, ha scritto un articolo di grande decisione e rilevanza.

Jeremy Mann

Leggiamolo:

“La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati.  Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile.  La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato.  È il ruolo corretto dello stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati l’hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei costi continui della guerra furono pagati con le tasse. Ovunque, la base imponibile è stata erosa dai danni di guerra e dalla coscrizione. Oggi è a causa dell’angoscia umana della pandemia e della chiusura.  La domanda chiave non è se ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette. I sussidi per l’occupazione e la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure di benvenuto per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo.  Mentre diversi paesi europei hanno diverse strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari e in alcuni paesi anche le poste sistema per tutti gli altri. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Le banche in particolare si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito.  Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli ulteriori scoperti o prestiti. Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette.  Le aziende, tuttavia, non attingeranno al supporto di liquidità semplicemente perché il credito è economico. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così. Tali società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare il debito per mantenere il proprio personale al lavoro. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere la loro capacità di investire in seguito. E, se l’epidemia di virus e i blocchi associati dovessero durare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato.  O i governi compensano i mutuatari per le loro spese, o quei mutuatari falliranno e la garanzia sarà resa valida dal governo. Se il rischio morale può essere contenuto, il primo è migliore per l’economia. Il secondo percorso sarà probabilmente meno costoso per il budget. Entrambi i casi porteranno i governi ad assorbire una grande parte della perdita di reddito causata dalla chiusura, se si vogliono proteggere posti di lavoro e capacità.  I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabilmente futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio.  Per alcuni aspetti, l’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia. Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ’20 è abbastanza una storia di ammonimento.  La velocità del deterioramento dei bilanci privati ​​- causata da una chiusura economica che è sia inevitabile che desiderabile – deve essere soddisfatta della stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nella ricerca di evidentemente una causa comune”.

Se i nove governi affermano che non è colpa di nessuno e che bisogna sia sostenere sia ristrutturare le economie europee, ma ragionano in termini di capitali da raccogliere sul mercato a condizioni di mercato, sia pure eguali per tutti, Draghi dice una cosa diversa.

Intanto ricolloca la crisi che nel paludato linguaggio delle segreterie era solo “senza precedenti”, come “tragedia di proporzioni bibliche”. Dichiara il costo economico essere al contempo “enorme ed inevitabile” e la recessione sia “profonda” sia “inevitabile”.

Abbiamo dunque al primo passaggio della sua stringente logica un costo economico “enorme” ed una recessione “profonda” (che potrebbe mutare in “depressione”[1]) entrambe inevitabili.

A ciò che è inevitabile bisogna rispondere inevitabilmente. E qui si diventa perentori, “la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico”.

E perché? La bomba arriva esattamente a questo passaggio. Anni di controinformazione, analisi condotte con il metodo dei saldi settoriali, insistenza sul debito privato e sulla eccessiva valutazione di quello pubblico ottengono improvvisamente piena legittimazione. A decine di servili ripetitori del senso comune economico devono essere scoppiate le orecchie: “la perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici”.

Ripetiamo:

  • le perdite del settore privato ed i debiti accumulati, devono essere assorbiti dai bilanci pubblici.

E il “moral hazard”? E la “colpa”? E … l’horror vacui qui colpisce anche buona parte della sinistra storica, che ha inconsapevolmente interiorizzato una versione della narrativa ordoliberale, immaginando che lo stato debba essere “austero” perché l’economia sia “sana”.

Cosa accade se, in condizioni date come queste, le perdite anche esse inevitabili (e, come vedremo, senza colpa) del settore privato, cittadini e imprese, sono assorbite nei bilanci pubblici? Che il debito pubblico sale, che sale in modo “permanente”, e che il debito privato viene “cancellato”.

C’è una glossa di teoria, “È il ruolo corretto dello stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire”.

Quindi è inevitabile, si deve agire, tramite l’espansione del debito pubblico.

Come? Qui c’è il punto. Il “se” è superato. Restano alcune cose:

  •   non fornire solo reddito di base (es, helicopter money), ma proteggere le persone dalla perdita del lavoro,
  •   garantire sostegno alla liquidità immediato,

Arriva la seconda bomba.

In una strategia rivolta a garantire liquidità all’economia reale, imprese e famiglie, Draghi propone di utilizzare le banche, che sono capillarmente diffuse. E propone che queste aprano linee di credito e scoperti di conto corrente, immediatamente e senza aspettare liquidità (quindi senza aspettare la Bce o altri), perché queste “possono creare denaro istantaneamente”.

Ripetiamo:

  • “Le banche possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito”.

E le riserve? E il buon padre di famiglia? E … anche qui l’horror vacui colpisce buona parte della sinistra storica, che non lo sapeva ma era rimasta ai tempi del dollaro-oro.

In sostanza le banche devono prestare soldi creati dal nulla, istantaneamente, a imprese che conservano l’occupazione. E lo devono fare a costo zero. La ragione è che le imprese, non licenziando, sostituiscono il pubblico che in caso diverso dovrebbe intervenire garantendo un reddito ed un lavoro.

Ovviamente il denaro si crea dal nulla, ma deve essere restituito (schematicamente una banca apre una scrittura contabile, che ad un certo punto deve essere chiusa), e quindi prestare a costo zero lascia impregiudicato l’assorbimento del danno delle mancate restituzioni. Serve qualcuno che faccia fronte e chiuda le scritture. Per questo il governo nello schema di Draghi non impegna denaro immediato per sostenere l’occupazione, ma presta garanzie alle banche per coprire il loro rischio. Ed il costo di queste garanzie, anche esso, deve essere zero.

Questa è la terza bomba, comincia ad assomigliare ad un bombardamento a tappeto. Il costo zero è come l’illimitato, sono altri due tabù. Si deve guadagnare dal sudore della fronte.

  • Ripetiamo, “il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette”.

C’è un problema, le regole prudenziali delle convenzioni di Basilea. Vanno sospese, “Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo”.

Abbiamo poi la quarta bomba. Per alcune imprese e “mutuatari”, il debito alla fine andrebbe cancellato. O tramite il fallimento e la copertura delle perdite da parte del governo o direttamente da questo lasciandole in vita.

Insomma, il debito pubblico salirà per tenere in vita la società. L’alternativa sarebbe peggiore. Ma salirà come? Senza aumentare i costi di servizio.

Qui non entra nel dettaglio, strettamente parlando un enorme incremento del debito pubblico, e la sua detenzione permanente, senza aumento dei costi del servizio di questo (ovvero in sostanza creando moneta) è possibile se gli Stati emettono titoli a scadenza illimitata, non redimibili, ed a tasso zero e se la Banca Centrale li acquista e li detiene. Un simile titolo non è “di mercato” per definizione e corrisponde ad una monetizzazione del debito.

Ogni altra soluzione aumenta i costi del servizio, soprattutto alla luce degli enormi volumi qui prefigurati.

Ciò non significa che i bilanci delle Banche Centrali (i titoli sarebbero poi da redistribuire pro quota nei vari bilanci) resteranno permanentemente ‘gravati’ da un attivo enorme, senza rendimento[2], ma che la progressiva espansione dell’economia li renderebbe sempre meno rilevanti. In fondo il debito pubblico è sempre stato riassorbito in questo modo, il suo vero problema è esclusivamente il costo del suo servizio, ovvero il monte degli interessi annuali che lo stato paga[3].

Tutto ciò va fatto in fretta, e senza remore, perché, ultima bomba: “La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono”.

Abbiamo un esercito che si è schierato ed abbiamo un generale che sembra volerne prendere la testa.

La battaglia si combatterà e penso che sarà persa. Troppo forte è l’inerzia del pensiero unico ordoliberale (attenzione, non che questa posizione sia rivoluzionaria, è comunque una variante di affidamento al mercato, ma con notevole incremento della presenza pubblica[4]). Nella scaramuccia di cavalleria dei giorni scorsi, in sede di Eurogruppo, è stato chiaro l’animus dell’armata nordica.

Mentre Peter Altmeier dichiara per la Germania che “Impediremo una svendita degli interessi economici e industriali tedeschi” (Wir werden einen Ausverkauf deutscher Wirtschafts- und Industrieinteressen verhindern) e, in inglese, in quanto rivolto oltre manica, “Germany is not for sale”, al contempo l’Olanda e la Germania, unite, hanno rigettato ogni ipotesi di messa in comune del debito. Sempre Altmeir, cambiando oggetto, ha detto che “la discussione sugli eurobond è un dibattito sui fantasmi” (Die Diskussion über Euro-Bonds ist eine Gespensterdebatte) e ha aggiunto che “dalla lezione degli anni ’70 abbiamo imparato che lo Stato non può salvare tutti” e che “l’Innovazione è più importante delle sovvenzioni” (Innovation ist wichtiger als Subvention). Insomma, gli interessi economici e industriali tedeschi saranno sostenuti contro qualsiasi nemico, ma quelli degli altri devono restare esposti. Per gli altri vale il principio che non si sovvenziona.

Per sé vale che “il nostro scopo non è solo proteggerci da acquisizioni nemiche (feindlichen[5]), ma anche evitare mancanza di capitale e di liquidità”, per gli altri, per i nemici, ovvero noi, solo se siamo capaci di farcela, se siamo “innovativi”.

Lo scontro delle cavallerie, la classica scaramuccia di avvio, è andato così.

Oggi c’è la battaglia. Avremmo bisogno di Decimo Claudio Druso (detto “germanico”), ma abbiamo solo Giuseppe Conte. Perderemo.

Ma non finirà qui. I popoli nordici hanno una strana caratteristica: sembrano sempre vincere, perché hanno una grande capacità operativa, ma poi alla fine perdono sempre e rovinosamente, perché non avendo la forza sufficiente vogliono troppo e non lasciano nulla. Finiscono per coalizzare tutti contro di loro, ed anche allora continuano, dritti, come un caprone lanciato nella corsa e la testa bassa. Ora pensano di aggirare questo ostacolo, che la sorte ha posto davanti ai piedi, assorbendo i nostri capitali e le nostre aziende, come fecero con quelle della Germania dell’est[6] quando cadde il muro e come hanno fatto per venti anni al tempo dell’euro.

Ma tutto sta arrivando al suo termine[7].

Il mondo non è già più quello della “fine della storia” tardo novecentesca[8], il baricentro si sposta verso est e noi siamo geograficamente, culturalmente, storicamente meglio posizionati. Tra qualche tempo dovremo rovesciare le cartografie d’Europa.

Tra dieci anni vedremo chi ha perso e chi ha vinto. Ma, come è accaduto già due volte, il prezzo per loro sarà altissimo.

 

[1] – Nel gergo economico una “recessione” è un evento ciclico relativamente normale, una “depressione” è una stagnazione permanente e difficilmente risolvibile dell’economia come quella del 29-39 aperta dalla crisi finanziaria e conclusa solo dalla seconda guerra mondiale.

[2] – Non sarebbe molto diverso se i titoli avessero un rendimento, una volta nel bilancio della banca centrale, perché questa deve restituire gli utili ai rispettivi Tesori. Come accade ora per la quota (20%) del debito già detenuto e che potrebbe benissimo essere annullato senza alcuna conseguenza pratica.

[3] – Bisogna notare che questo pagamento di interessi, che in Italia è attivato fino ad essere vicino ai cento miliardi, rappresenta un trasferimento netto di risorse dalla generalità dei cittadini ai renditieri che posseggono titoli di debito. È, insomma, un fattore tra i più rilevanti di incremento delle ineguaglianze e uno strumento potente di redistribuzione verso l’alto.

[4] – L’intero meccanismo proposto da Draghi è preordinato a salvaguardia delle gerarchie sociali e nazionali attuali. Limita l’intervento pubblico ad un consolidamento dello status dei rapporti di classe, si mette a salvaguardia del sistema delle imprese attuale, in qualche modo congelandolo. Certo, l’alternativa è diventare una colonia interna (ancora di più) del capitale nordico, ma ciò che serve è ben altro e molto più.

[5] – Come giustamente scrive Vincenzo Costa “Feindlich” allude a nemico, un termine che non si usa a cuor leggero. Non dice competitori: dice nemici. Allude al fatto che chi non riesce a proteggere la propria economia, chi non è in grado di sostenerla in questo momento, diventerà un terreno di conquista per altri. Perderà il dominio sui settori strategici, la sovranità sulle scelte di politica economica: diventerà una colonia. (cfr https://www.facebook.com/vincenzo.costa.79025/posts/106587930990528)

[6] – Si veda il testo di Vladimiro Giacchè.

[7] – Si veda “Riavviare l’economia in Cina, cronache del crollo

[8] – Titolo del famoso libro di Francis Fukuyama.

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2020/03/campo-di-battaglia-draghi-consiglio.html?fbclid=IwAR1XM3rbnJWlwkVHlHej6KZfzAAkH-R90D5rvpSAusTYaQMhQ6vs_8vvDdg

Doktor Faustus ci ha scritto una lettera, di Giuseppe Masala

Doktor Faustus ci ha scritto una lettera.

Mi pare che il periodo chiave della lettera di Mario Draghi pubblicata ieri dal Financial Times sia il seguente: <<La sfida che affrontiamo è quella sul come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di fallimenti aziendali che lascierebbero danni irreversibili. È evidente che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato>>.
Dunque Draghi propone la trasformazione il Debito Privato in Debito Pubblico al fine di evitare fallimenti aziendali privati (di banche e di grandi imprese) che creerebbero danni permanenti al sistema economico minacciando (questo è chiaro ma sott’inteso) i livelli occupazionali. Dice anche che il Debito Pubblico non è il male come lui stesso ha sempre detto in questi trenta anni. Una notevole svolta culturale. Ma una notevole svolta culturale fatta quando serve a lui, agli interessi suoi e dei suoi dante causa. Troppo comodo svoltare quando conviene dopo che per trenta anni – con il ditino alzato – ci è stato spiegato che vivevamo sopra le nostre possibilità: troppe pensioni, troppi dipendenti pubblici, troppe scuole, financo troppi ospedali. E ora ci dice che il Debito Pubblico può raddoppiare? E per di più – non troppo casualmente – quando serve per salvare banche, grandi aziende e finanziarie di ogni tipo e natura?

Peraltro Draghi si guarda bene dal fare un discorso di natura qualitativa sulla spesa pubblica che dovrebbe alimentare l’aumento del Debito Pubblico aggiuntivo che ora (ora!) pretenderebbe.
Il tranello del diavolo si nasconde nei particolari, e soprattutto in quello che non dice.
Ora, siccome solo un pazzo da manicomio, potrebbe continuare a sostenere la maggior efficienza del settore privato su quello pubblico (siamo alla terza crisi di enorme portata in 12 anni; 2008, 2012 e ora 2020) è ora di dire che se si fa spesa pubblica non deve essere solo per sussidiare il settore privato (e soprattutto del grande privato) ma deve ritornare lo Stato Imprenditore. Bisogna rifare esattamente ciò che Draghi e Prodi distrussero negli anni novanta. Bisogna rifare l’IRI, EFIM (per le piccole e medie imprese), bisogna rinazionalizzare le banche ma non per riprivatizzarle e ridarle in pasto agli squali di borsa (magari in cambio del solito piatto di lenticchie allo Stato, ovvero a noi) appena torna qualche sprazzo di sereno, ma per rimanerci: come fece Beneduce negli anni ’30. Punto. Non mi basta neanche la difesa dei livelli occupazionali (e magari degli stipendi da fame di oggi). Occorre un piano di assunzioni nel pubblico e nelle aziende rinazionalizzate a colpi di 200mila persone all’anno per almeno cinque anni esattamente come fece Tina Anselmi nel 1977. Sbancare le casse dello stato per salvare gli amici dopo che per trenta anni sono stati negati salario decente e anche un posto all’ospedale non mi pare una proposta accettabile.

Dunque, il Professor Draghi oltre ad un discorso quantitativo faccia anche un discorso qualitativo sulla spesa pubblica che andrà finanziata a debito pubblico per salvare il sistema produttivo. Se no il discorso oltre che tardivo, privo di quella necessaria autocritica è anche in assoluta malafede.

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il testo integrale: La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi. Le misure varate dai governi per impedire il collasso delle strutture sanitarie sono state coraggiose e necessarie, e meritano tutto il nostro sostegno.

Ma queste azioni sono accompagnate da un costo economico elevatissimo – e inevitabile. E se molti temono la perdita della vita, molti di più dovranno affrontare la perdita dei mezzi di sostentamento. L’economia lancia segnali preoccupanti giorno dopo giorno. Le aziende di ogni settore devono far fronte alla perdita di introiti, e molte di esse stanno già riducendo la loro operatività e licenziando i lavoratori. Appare scontato che ci troviamo all’inizio di una profonda recessione.

La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili. È ormai chiaro che la nostra reazione dovrà far leva su un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato.

Il giusto ruolo dello stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro scossoni di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire. Tutti gli stati hanno fatto ricorso a questa strategia nell’affrontare le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più significativo della crisi in atto – si finanziavano attingendo al debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e in Germania soltanto una quota fra il 6 e il 15 per cento delle spese militari in termini reali fu finanziata dalle tasse, mentre nell’Impero austro-ungarico, in Russia e in Francia, i costi correnti del conflitto non furono finanziati dalle entrate fiscali. Ma inevitabilmente, in tutti i paesi, la base fiscale venne drammaticamente indebolita dai danni provocati dalla guerra e dall’arruolamento. Oggi, ciò è causato dalle sofferenze umane per la pandemia e dalla chiusura forzosa delle attività economiche.

La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio. La priorità non è solo fornire un reddito di base a tutti coloro che hanno perso il lavoro, ma innanzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro. Se non agiremo in questo senso, usciremo da questa crisi con tassi e capacità di occupazione ridotti, mentre famiglie e aziende a fatica riusciranno a rimettere in sesto i loro bilanci e a ricostruire il loro attivo netto.

Il sostegno all’occupazione e alla disoccupazione e il posticipo delle imposte rappresentano passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma per proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un periodo di grave perdita di reddito è indispensabile introdurre un sostegno immediato alla liquidità. Questo è essenziale per consentire a tutte le aziende di coprire i loro costi operativi durante la crisi, che si tratti di multinazionali o, a maggior ragione, di piccole e medie imprese, oppure di imprenditori autonomi. Molti governi hanno già introdotto misure idonee a incanalare la liquidità verso le aziende in difficoltà. Tuttavia, si rende necessario un approccio su scala assai più vasta.

Pur disponendo i diversi paesi europei di strutture industriali e finanziarie proprie, l’unica strada efficace per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario: il mercato obbligazionario, soprattutto per le grandi multinazionali, e per tutti gli altri le reti bancarie, e in alcuni paesi anche il sistema postale. Ma questo intervento va fatto immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito.

Le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sottoforma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi. Regolamenti e normative collaterali non dovranno ostacolare in nessun modo la creazione delle opportunità necessarie a questo scopo nei bilanci bancari. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrà essere calcolato sul rischio creditizio dell’azienda che le riceve, ma dovrà essere pari a zero, a prescindere dal costo del finanziamento del governo che le emette.

Le aziende, dal canto loro, non preleveranno questa liquidità di sostegno semplicemente perché i prestiti sono a buon mercato. In alcuni casi – pensiamo alle aziende con ordini inevasi – le perdite potrebbero essere recuperabili e a quel punto le aziende saranno in grado di ripianare i debiti. In altri settori, questo probabilmente non sarà possibile.

Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.

O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva.

I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.

Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo shock fuori del comune, in quanto dispone di una struttura finanziaria capillare, capace di convogliare finanziamenti verso ogni angolo dell’economia, a seconda delle necessità. L’Europa dispone inoltre di un forte settore pubblico, in grado di coordinare una rapida risposta a livello normativo e la rapidità sarà assolutamente cruciale per garantire l’efficacia delle sue azioni.

Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.

La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune.

ALTRA LETTERA
Mi pare che ieri sia stata la giornata delle lettere. Molto importante quella scritta da Conte ai paesi dell’Eurozona che chiede uno sforzo comune dell’EU per contrastare la recessione. Bene, la lettera è stata cofirmata da Spagna, Francia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo e Italia. Tutti coloro che non l’hanno firmata evidentemente sono contrari. Siamo di fronte ad una spaccatura all’interno della UE senza precedenti. Anche se non lo dicono è così. I paesi dell’area euro sono 19, la lettera l’hanno firmata in 9 e conseguentemente 10 sono contrari.

 il testo della lettera: Caro Presidente, caro Charles

la pandemia del Coronavirus è uno shock senza precedenti e richiede misure eccezionali per contenere la diffusione del contagio all’interno dei confini nazionali e tra Paesi, per rafforzare i nostri sistemi sanitari, per salvaguardare la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali e, non ultimo, per limitare gli effetti negativi che lo shock  produce sulle economie europee. 

Tutti i Paesi europei hanno adottato o stanno adottando misure per contenere la diffusione del virus. Il loro successo dipenderà dalla sincronizzazione, dall’estensione e dal coordinamento con cui i vari Governi attueranno le misure sanitarie di contenimento.

Abbiamo bisogno di allineare le prassi adottate in tutta Europa, basandoci su esperienze pregresse di successo, sulle analisi degli esperti, sul complessivo scambio di informazioni. È necessario ora, nella fase piu’ acuta dell’epidemia. Il coordinamento che tu hai avviato, con Ursula von der Leyen, nelle video-conferenze tra i leader è d’aiuto in tal senso.

Sarà necessario anche in futuro, quando potremo ridurre gradualmente le severe misure adottate oggi, evitando sia un ritorno eccessivamente rapido alla normalità sia il contagio di ritorno da altri Paesi. Dobbiamo chiedere alla Commissione europea di elaborare linee guida condivise, una base comune per la raccolta e la condivisione di informazioni mediche ed epidemiologiche, e una strategia per affrontare nel prossimo futuro lo sviluppo non sincronizzato della pandemia.

Mentre attuiamo misure socio-economiche senza precedenti, che impongono un rallentamento dell’attività economica mai sperimentato prima, abbiamo comunque bisogno di garantire la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali, e la libera circulazione di dispositivi medici vitali all’interno dell’UE. Preservare il funzionamento del mercato unico è fondamentale per fornire a tutti i cittadini europei la migliore assistenza possibile e la più ampia garanzia che non ci saranno carenze di alcun tipo.

Siamo pertanto impegnati a tenere i nostri confini interni aperti al necessario scambio di beni, di informazioni e agli spostamenti essenziali dei nostri cittadini, in particolare quelli dei lavoratori transfrontalieri. Abbiamo anche bisogno di assicurare che le principali catene di valore possano funzionare appieno all’interno dei confini dell’UE e che nessuna produzione strategica sia preda di acquisizioni ostili in questa fase di difficoltà economica. I nostri sforzi saranno prioritariamente indirizzati a garantire la produzione e la distribuzione delle attrezzature mediche e dei dispositivi di protezione fondamentali, per renderli disponibili, a prezzi accessibili e in maniera tempestiva a chi ne ha maggiore necessità. 

Le misure straordinarie che stiamo adottando per contenere il virus hanno ricadute negative sulle nostre economie nel breve termine. Abbiamo pertanto bisogno di intrapredere azioni straordinarie che limitino i danni economici e ci preparino a compiere i passi successivi. Questa crisi globale richiede una risposta coordinata a livello europeo. La BCE ha annunciato lo scorso giovedì 19 marzo una serie di misure senza precedenti che, unitamente alle decisioni prese la settimana prima, sosterrano l’Euro e argineranno le tensioni finanziarie.

La Commissione europea ha anche annunciato un’ampia serie di azioni per assicurare che le misure fiscali che gli Stati membri devono adottare non siano ostacolate dalle regole del Patto di Stabilità e Crescita e dalla normativa sugli aiuti di Stato. Inoltre, la Commissione e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) hanno annunciato un pacchetto di politiche che consentiranno agli Stati membri di utilizzare tutte le risorse disponibili del bilancio dell’UE e di beneficiare degli strumenti della BEI per combattere l’epidemia e le sue conseguenze.

Gli Stati membri dovranno fare la loro parte e garantire che il minor numero possibile di persone perda il proprio lavoro a causa della temporanea chiusura di interi settori dell’economia, che il minor numero di imprese fallisca, che la liquidità continui a giungere all’economia e che le banche continuino a concedere prestiti nonostante i ritardi nei pagamenti e l’aumento della rischiosità. Tutto questo richiede risorse senza precedenti e un approccio regolamentare che protegga il lavoro e la stabilità finanziaria.

Gli strumenti di politica monetaria della BCE dovranno pertanto essere affiancati da decisioni di politica fiscale di analoga audacia, come quelle che abbiamo iniziato ad assumere, col sostegno di messaggi chiari e risoluti da parte nostra, come leader nel Consiglio Europeo. 

Dobbiamo riconoscere la gravità della situazione e la necessità di una ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona. 

In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia. 

Vi sono valide ragioni per sostenere tale strumento comune, poichè stiamo tutti affrontando uno shock simmetrico esogeno, di cui non è responsabile alcun Paese, ma le cui conseguenze negative gravano su tutti. E dobbiamo rendere conto collettivamente di una risposta europea efficace ed unita. Questo strumento di debito comune dovrà essere di dimensioni sufficienti e a lunga scadenza, per essere pienamente efficace e per evitare rischi di rifinanziamento ora come nel futuro.

I fondi raccolti saranno destinati a finanziare, in tutti gli Stati Membri, i necessari investimenti nei sistemi sanitari e le politiche temporanee volte a proteggere le nostre economie e il nostro modello sociale.

Con lo stesso spirito di efficienza e solidarietà, potremo esplorare altri strumenti all’interno del bilancio UE, come un fondo specifico per spese legate alla lotta al Coronavirus, almeno per gli anni 2020 e 2021, al di là di quelli già annunciati dalla Commissione.  

Dando un chiaro messaggio di voler affrontare tutti assieme questo shock unico, rafforzeremmo l’Unione Economica e Monetaria e, soprattutto, invieremmo un fortissimo segnale ai nostri cittadini circa la cooperazione determinata e risoluta con la quale l’Unione Europea è impegnata a fornire una risposta efficace ed unitaria. 

Abbiamo inoltre bisogno di preparare assieme “il giorno dopo” e riflettere sul modo in cui organizziamo le nostre economie attraverso i nostri confini, le catene di valore globale, i settori strategici, i sistemi sanitari, gli investimenti comuni e i progetti europei. 

Se vogliamo che l’Europa di domani sia all’altezza delle sue storiche aspirazioni, dobbiamo agire oggi e preparare il nostro futuro comune. Apriamo pertanto il dibattito ora e andiamo avanti, senza esitazione. 

Firmato da

Sophie Wilmès, Primo Ministro del Belgio
Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese
Kyriakos Mitsotakis, Primo Ministro of Greece
Leo Varadkar, Primo Ministro of Ireland
Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano
Xavier Bettel, Primo Ministro del Lussemburgo
António Costa, Primo Ministro  del Portogallo
Janez Janša , Primo Ministro della Slovenia
Pedro Sánchez, Primo Ministro della Spagna

 

PROSIEGUO

Paul de Grauwe, importante economista di origine belga sostiene che “senza coronabond l’intero progetto europeo scomparirà”. Per coronabond ovviamente bisogna intendere una qualche forma di mutualizzazione del debito indipendentemente dal nome che si voglia dare. Nel frattempo sembra che oggi ad aver silurato l’ipotesi sia stato Kurtz, il Cancelliere austriaco. Figuriamoci.
Gualtieri ripete come un disco rotto che “EU deve condividere rischi. Servono bond comuni”. Galtieri, mettiti l’anima in pace. Non c’è possibilità. E anche se i paesi del Nord Europa convergessero sull’ipotesi appena sarà chiara l’entità del disastro sarà evidente che si tireranno indietro. Io già lo dico da settimane: prepararsi all’impatto. L’Euro non si salva. Non è questione di se, ma di quando.

Sarebbe bene che si pensasse a salvare il salvabile. Che poi in questo caso sarebbe anche l’utile: Mercato Comune, iniziative culturali comuni e libera circolazione delle persone (al netto delle inevitabili restrizioni sanitarie). Salvare questi aspetti è importante al fine di minimizzare i rischi di guerra in Europa. Ripeto, ho detto minimizzare, non annullare. Il rischio c’è per i prossimi anni ed è legato purtroppo a dinamiche non europee.

PROTAGONISTI E COMPARSE

Io credo che il rigetto del documento finale del vertice dei capi di stato e di governo europei di oggi da parte dell’Italia sia un fatto davvero inedito. L’Italia è tradizionalmente il paese che più ha scommesso sul progetto europeo e adesso – in frangenti drammatici – fa ciò che che generalmente faceva la Gran Bretagna. La lettera divulgata stamane e firmata da nove paesi (Italia, Francia, Spagna, Lussemburgo, Belgio, Grecia, Portogallo, Irlanda e Slovenia) delinea chiaramente quella che è la linea di frattura interna all’UE:

👉 Mitteleuropa e Scandinavia capeggiate dalla Germania;
👉Paesi Latini, Mediterranei e anglosassoni capeggiati dalla Francia;

Politicamente il Trattato di Aquisgrana tra Germania e Francia è in pezzi. Ed è in pezzi perchè le condizioni reali pongono Parigi e Berlino su sponde opposte: la Francia, paese in grave difficoltà a causa di #Covid19 e con una situazione economico-finanziaria precaria chiede mutualizzazione del debito, Berlino paese con una situazione economico-finanziaria solida (almeno in apparenza, ma tanto da illudere i tedeschi di superare la crisi da soli) che non ne vuole sentir parlare.

Le due grandi capitali non si sono mosse in prima persona ma hanno lasciato che le seconde linee si scornassero. Austria e Olanda per i tedeschi e Italia e Spagna per i francesi.

Siamo ad un tornante della Storia d’Europa. Io credo che un accordo lo troveranno per questa volta. Ma quando sarà chiara l’entità del disastro economico ancora in corso secondo me la spaccatura definitiva sarà inevitabile. Salvare ciò che è giusto salvare (a partire dal Mercato Unico) non sarebbe sbagliato. Ritornare all’Europa dei primi del ‘900 non sarebbe interesse di nessuno.

ECCEZIONE E ORDINAMENTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E ORDINAMENTO

Dopo i primi decreti (amministrativi) sull’emergenza sanitaria è iniziato sulla stampa un lamento corale sulla triste “fine” dello Stato di diritto, col suo Parlamento, le sue leggi (e decreti-legge) ma soprattutto i suoi diritti, garantiti dalla Costituzione come (in genere) nelle altre costituzioni degli Stati democratici-liberali e nelle dichiarazioni (anche internazionali).

Di quella italiana la prima vittima è stato il diritto di locomozione (art. 16), ormai ridotto – in linea generale e salvo deroghe – alla facoltà di girare intorno al proprio isolato.

Tali considerazioni presuppongono che tra eccezione e norma vi sia incompatibilità assoluta e che un ordinamento “liberale” debba necessariamente bandire la prima – e le relative misure – dalla normativa.

Ma è vero ciò? Tra i tanti esempi contrari che si possono portare, è istruttivo ricordare le considerazioni – a  distanza più che secolare – che facevano sull’habeas corpus due pensatori come De Maistre e Gaetano Mosca.

L’habeas corpus è, come noto, un istituto dell’ordinamento inglese volto alla tutela della libertà personale e della legalità delle accuse, onde evitare arresti e detenzioni arbitrarie. Dopo la rivoluzione francese normative in qualche misura simili (anche se probabilmente meno efficaci) si diffusero agli ordinamenti europei (continentali) e nelle dichiarazioni internazionali dei diritti. A tale proposito Gaetano Mosca lo considerava lo strumento più semplice ed efficace pensato e praticato a tutela della libertà personale. Scrive Mosca che l’habeas corpustutela i cittadini inglesi… in modo così pratico ed efficace che non è stato possibile in nessun altro paese, e neppure nel secolo XIX, fare di meglio”.

Proprio per la sua libertà ed efficacia, De Maistre, un secolo prima di Mosca, sulla base del fatto che spesso era sospeso dal Parlamento, lo considerava un’eccezione, nel senso che, se applicato sempre, avrebbe travolto la costituzione (id est l’esistenza ordinata) della Gran Bretagna. Sosteneva De Maistre “La costituzione inglese è un esempio più vicino a noi, e di conseguenza colpisce maggiormente. La si esamini con attenzione: si vedrà che essa funziona solo nella misura in cui non funziona (se è consentito il gioco di parole). Essa non si regge che sulle eccezioni. L’habeas corpus, per esempio, è stato sospeso così spesso e così a lungo, che si è potuto sospettare che l’eccezione fosse divenuta la regola. Supponiamo per un istante che gli autori di tale famoso atto avessero avuto la pretesa di fissare i casi in cui potesse essere sospeso: l’avrebbero con ciò stesso ridotto a nulla”. Ovvero l’ordinamento inglese riesce a funzionare nella misura in cui l’habeas corpus è sospeso. Ma chi aveva ragione: il costituzionalista siciliano o il diplomatico sabaudo? È facile rispondere: entrambi. La tutela delle libertà fondamentali è connaturale ad un ordinamento liberale, come la sospensione o la deroga delle stesse lo è nel caso sia in pericolo la vita comunitaria ed individuale: perché senza vita non c’è libertà. Così nelle legislazioni e anche nelle costituzioni – sia degli Stati liberali era ed è previsto che in situazioni eccezionali potevano essere sospese le libertà individuali. La “costituzione più bella del mondo” non lo contempla: ma la legislazione ordinaria ha riconosciuto, anche ad organi amministrativi eccezionali, creati ad hoc, di provvedere con ordinanze, in deroga alle leggi, col solo limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico (ad es. art. 1 L. 22/12/1980 n. 876, in occasione del terremoto campano-lucano).

Parimenti gran parte degli ordinamenti liberali prevedevano e prevedono garanzie della libertà individuale simili (anche se – spesso – meno efficaci dell’habeas corpus). Pertanto è chiaro che lo Stato democratico-liberale tiene tanto alla libertà individuale quanto all’esistenza comunitaria, anzi in caso d’eccezione, limita quella per salvaguardare questa. In definitiva ha fatto proprie – come ogni ordinamento – le affermazioni di De Maistre che “non è nel potere dell’uomo fare una legge che non abbia necessità di alcuna eccezione”. E l’eccezione, tenuto conto del principio d’uguaglianza, è rapportata alla situazione oggettiva: se è realmente eccezionale sono necessarie e legittime le misure d’emergenza: se non lo è, deve applicarsi la normativa ordinaria. Di converso osservare questa se ricorre un caso d’emergenza significa fare un buco nell’acqua; del pari, attentare alla libertà individuale quando non ve ne sono i presupposti. Ossia dare all’apparato pubblico dei poteri enormi senza che ve ne sia ragione. Questi è stato il pretesto spesso usato per sovvertire l’ordine, giustificando abusi di potere, dal colpo di Stato in giù.

Il cui movente comune è salvaguardare la “poltrona” di chi esercita il potere talvolta in condizione di dichiarare legalmente lo stato d’eccezione. Ma all’uso improprio non c’è rimedio giuridico se non, come scriveva Locke (per i casi estremi) che l’“appello al cielo” ossia la disobbedienza e, al limite, la guerra civile.

Resta il fatto che la prima tutela che si ha in questi casi è la limitazione nel tempo soprattutto (e nello spazio) delle misure d’emergenza (la sunset clause della legislazione inglese), dimenticata talvolta in quella nazionale, dove misure eccezionali (anti BR) sono state in vigore anni dopo la fine della situazione che le aveva giustificate. La seconda, e la più importante: che i cittadini vigilino perché ciò non succeda.

Resta il fatto che in ogni ordinamento sia liberal-democratico che non, vale la regola che Machiavelli enunciava nei Discorsi sulla dittatura romana: “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti istraordinari… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli”.

Esorcizzare l’abuso (sempre possibile) opponendosi alle misure d’emergenza ed alla loro previsione è credere che la storia non possa bussare più alla porta di casa. Mentre il problema è essere pronti ad accoglierla, quando prima o poi si presenta.

Teodoro Klitsche de la Grange

La scoperta di un diverso paesaggio urbano, di Angelo Perrone

La scoperta di un diverso paesaggio urbano

Il coronavirus ha mostrato un tessuto urbano sconosciuto. E’ cambiato per necessità il “paesaggio” del lavoro, del divertimento, persino della sofferenza. Strade deserte, piazze vuote. Distanze nei rapporti umani. Luoghi d’arte liberati dall’assedio del turismo di massa. In poche parole, il vuoto e il silenzio al posto della folla e del rumore. Così il non visto è diventato di colpo visibile e ammirabile. Accanto alla novità e allo stupore, potremmo persino pensare che, superato il virus, sia utile un diverso rapporto con l’ambiente che ci circonda

 

di Angelo Perrone *

 

Ha anche effetti positivi il coronavirus? Siamo a questo paradosso? Proviamo a guardarci intorno, allora. Non si parla soltanto delle condizioni sanitarie delle persone, di cui sappiamo tutto o quasi. Un problema, in cima alle preoccupazioni di istituzioni e cittadini. Siamo monitorati in tempo reale. Per fortuna, anche se a volte ci lamentiamo degli eccessi. Cifre, statistiche, diagrammi.

Quanti i contagiati, i ricoverati, i sotto osservazione, i guariti. Regione per regione, e poi nelle macro aree: il nord rispetto al sud senza trascurare il centro. Aspetti più di dettaglio: l’incidenza per età, o attività lavorative. Perfino le new entry che – chissà perché – ci sorprendono, come se non potesse capitare anche a loro: ci sono anche giudici e politici tra gli infettati. Tutti nella stessa barca, il virus non fa sconti a nessuno.

Nemmeno si discorre soltanto delle conseguenze economiche del virus, che minacciano d’essere devastanti. Un colpo di grazia all’economia che già di suo non va affatto bene. L’occupazione, i dati sulla produzione e le vendite, l’export, il turismo: sono i settori sott’occhio, mentre si teme il tracollo da un momento all’altro e si pensa: ci mancava solo questo. E poi la questione delle forniture per l’industria: molte materie prime vengono da fuori, da est, esattamente proprio dalla Cina, la più “infetta” delle nazioni. A breve potrebbero non bastare più le scorte, cosa si fa?

Ce n’è abbastanza fin qui, potremmo fermarci a riflettere, se non a lamentarci per la mala sorte. Invece percepiamo anche conseguenze di altro tipo, che non avremmo immaginato. E che proprio per questo ci sembrano stupefacenti. Destano sorrisi, e lasciano intravedere qualcosa di utile. Di che si tratta? Tra le tante novità, viene da chiedersi: non sarà che il coronavirus riesce anche a mostrarci una dimensione diversa e più positiva del vivere quotidiano?

È cambiato d’un tratto il “paesaggio” urbano, l’ambiente nel quale svolgiamo le nostre attività: dove lavoriamo, con più o meno soddisfazione, e quando il lavoro c’è, si intende. Dove ci divertiamo, passiamo il tempo. Dove magari soffriamo. Per la cattiveria del prossimo, una delusione d’amore, una disavventura economica. Il contesto che spesso ci accompagna nelle tribolazioni, o nelle più rare gioie.

Eravamo abituati a città intasate: uomini e mezzi, ovunque. Davanti, accanto, dietro. Alla guida della nostra scatola di metallo, o sui mezzi pubblici, in mezzo a tanti altri con la nostra stessa faccia. Scontenta e abbrutita dallo stress. Magari l’insoddisfazione non dipendeva tutta dall’affollamento, ma era lo stesso, a qualcuno dovevamo pur dare la colpa. Non era un’impressione da poco: le piazze affollate di gente, i monumenti presi d’assalto da turisti multicolori, i musei delle principali città d’arte assediati da code inverosimili di visitatori, accaldati anche in pieno inverno.

Ora, strade deserte, eventi rinviati, attività pubbliche sospese, locali chiusi. Luoghi irriconoscibili. Perché così non li avevamo mai visti, nemmeno in qualche scolorita fotografia del dopoguerra. Una trasformazione radicale da far dubitare persino di aver mai conosciuto quei luoghi per come appaiono oggi. Ma quando hanno fatto quel complesso monumentale che chiamano Colosseo? E chi è quel Brunelleschi, il giovane di belle speranze (dicono si dia tante arie sui social)  che sta costruendo la meraviglia della cupola del Duomo a Firenze?

Così si rivede Fontana di Trevi, splendente dopo il restauro di alcuni anni fa (mai apprezzato a dovere, nessuno era riuscito ad ammirarlo con calma), all’improvviso libera dalle torme di turisti che si accalcano sui bordi, non per ammirarne la bellezza, ma per farsi i selfie, e dunque tutti rivolti con le spalle alle sculture, intenti sono a guardare sé stessi nelle immagini. A chi interessa: la Torre a Pisa ha smesso d’essere sorretta, sul lato della pendenza, dai volonterosi stranieri che, ogni giorno, si alternano nell’arduo ma essenziale compito, supponendo che, così storta, abbia bisogno di sostegno; stiamo a vedere se ora, senza quell’aiutino, si ammoscia e viene giù.

La Galleria a Milano è percorribile al riparo del timore di pestarsi i piedi, qualcuno è riuscito anche ad andare dallo stellato Gracco ad assaggiare la pizza fenomenale senza prenotare mesi prima; uscendo, ha potuto fare una passeggiata arrivando in breve sulle guglie del Duomo, che spettacolo da lì.

A Firenze, non si è interrotto, ma ha avuto una bella battuta d’arresto, il dotto dibattito surreale sulla basilica di Santo Spirito, sì proprio il gioiello rinascimentale (sul sagrato, meglio una cancellata o il sudiciume dei bivacchi notturni con spaccio di droga?). Che non si siano fermati del tutto nemmeno in quest’occasione tragica, glielo perdoniamo ai fiorentini, animi focosi ma d’ingegno: da Dante in poi, sempre litigiosi, il virus non poteva trattenerli.

Nulla è più come prima, c’è un cambiamento di prospettiva: il vuoto e il silenzio hanno preso il posto della folla e del rumore. Improvvisamente è mutata la dimensione dello spazio intorno a noi. La diversa visuale ci mostra un’altra realtà. Il cambiamento si accompagna a sorpresa e a smarrimento. E ci lascia senza fiato. Non ce ne siamo ancora ripresi. Anziché andare da un posto all’altro seguendo gli stretti corridoi che le moltitudini ci lasciavano, vaghiamo confusi nelle strade di sempre, inebriati da una libertà sconosciuta. Manca solo che, nel dubbio, ci si fermi agli angoli per leggere le targhe stradali.

Magari questo stravolgimento solleva quesiti stravaganti. Discussioni che fino a ieri nemmeno la fantasia più sfrenata avrebbe immaginato. Per esempio, il “paesaggio” urbano ha un significato diverso in città come Milano, Roma o Firenze? Ovvero, la natura di questi posti esige per caso scenografie differenti? Come dire: in ogni città, quote differenti di folla + auto, per rispettarne l’anima. Quasi che l’arte, i costumi, le tradizioni non esigano ovunque la stessa attenzione.

Detto in modo più dotto. Cosa conta di più per cogliere la bellezza di una città: l’assenza o la presenza? E’ necessario il vuoto per rimarcare il fascino di una piazza, di una chiesa, di un locale di qualità? Oppure è proprio la vitalità della gente a rendere gli stessi ineguagliabili? Che ruolo hanno allora la folla e l’animazione sociale, semplice fondale o parte integrante della recita?

La discussione non poteva che sintetizzarsi alla fine nel solito derby Milano – Roma. Tra chi, nel confronto, ritiene più bella la capitale (della storia) ora che è deserta e chi lamenta che l’altra capitale (quella della moda, dell’impresa, della cultura) sia più affascinante con tanta gente in giro. Tradotto nel conteggio finale: Roma avvantaggiata dal virus, Milano danneggiata. La partita è in corso e sull’esito è bene non scommetterci: la grande bellezza non è contestabile nemmeno dai milanesi, ma i romani peggiorano le cose: è lo zelo dei loro amministratori, oggi addirittura stellati, a far perdere alla città il campionato.

Invece, oggettivamente incerta è la questione, tutta lagunare, delle conseguenze del virus su Venezia. Il carnevale è stato un po’ triste e deprimente da che era esaltante e ricco, quante maschere in meno, quanti turisti persi sugli aerei rimasti negli aeroporti europei e americani per non parlare di quelli orientali, quanti tavolini vuoti in piazza san Marco. Ma, quando la bilancia nel misurare l’allegria lagunare sta per pendere contro il virus, ecco a rimettere in gioco il risultato la notizia: alle navi da crociera è stato sì finalmente vietato di avvicinarsi, però, come per tutti, il divieto è fissato solo in un metro e non è detto che basti a salvare la città.

Per contrastare l’epidemia paghiamo un prezzo pesante in termini di incertezza e di restrizione delle nostre abitudini, ma c’è anche un effetto sorprendentemente positivo. Ora che nuove regole ci impongono altri ritmi, potremmo scoprirne pure il lato utile. Un diverso rapporto con l’ambiente che ci circonda.

Abbiamo la possibilità di vedere finalmente quanto è a portata di mano. E anche di ammirare, usare, gustare, approfondire le cose che abitano il nostro orizzonte. Finora tutto questo ci sfuggiva, perché oscurato dalle cose che gli facevano velo. Possiamo riappropriarci dell’invisibile. Ora lo sappiamo: serve una misura di tempo, spazio, silenzio, per farlo davvero.

 

* Di formazione giuridica, si occupa di diritto e politica giudiziaria. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

 

DER ELEFANT IM RAUM (L’elefante nella stanza), di Pierluigi Fagan

I migliori, i più furbi. Non è detto i più intelligenti_Giuseppe Germinario

DER ELEFANT IM RAUM (L’elefante nella stanza). Un fantasma si aggira nelle statistiche mondiali sul fenomeno pandemico. Un solo Paese al mondo, mostra statistiche del tutto fuori logica tra i dichiarati contagiati ed i morti: la Germania.

E sì che la Germania è il Paese europeo più grande (demograficamente circa un terzo circa più grande dell’Italia, della Francia e dell’UK), ha un peso di popolazione anziana praticamente pari all’Italia ed in più, è il primo Paese europeo in cui si è accertata la precoce presenza del virus il che è ovvio visto che è anche il Paese con i maggiori contatti ed interscambi economici coi cinesi. Il virus è lì da più tempo che altrove, in un Paese pieno di anziani, un terzo almeno di più che in Italia, ma i tedeschi non muoiono. Lo “spread dei morti” tra ogni Paese del mondo e la Germania è ovunque alto ma si sa, quando si tratta di spread, ai tedeschi piace ben figurare.

Il mistero ha attratto i giornalisti anglosassoni, vi hanno scritto articoli a vario titolo il FT, the Guardian, the Indipendent, WSJ, ma molto meno la stampa europea. L’Espresso, l’altro giorno, vi ha posto ritardata attenzione confezionando un “the best of” di ragioni a spiegazione, copiato dagli articoli anglosassoni che avevano doverosamente riportato le risposte tedesche alle domande poste:

1) Il loro facente funzione di ISS, il Robert Koch Institute (RKI) afferma che i morti tedeschi sono più giovani quindi la popolazione anziana è stata misteriosamente per il momento evitata dal virus (a parte il medico della Merkel). Qualcuno sostiene che gli anziani tedeschi vivono più “isolati” dai giovani che non in Italia o Cina, ma francamente a me pare una stupidaggine insostenibile, anche perché andranno pur in giro a far la spesa come tutti, no? ma le spiegazioni arzigogolate hanno anche varianti;

2) i tedeschi sostengono che l’epidemia, da loro, si sarebbe sviluppata più tardi. Ma come? esistono studi pubblicati su the Lancet che confermano la precocità del paziente 0 in Germania come è ovvio che sia. Portano loro l’infezione in Lombardia ma non in Germania? Tutta Europa ha più morti percentuali di loro perché loro sono “in ritardo” nella diffusione del contagio? Incredibile … anche perché la stampa tedesca se ne uscì a gennaio e primi febbraio con notizie di una incredibilmente contagiosa e virulenta epidemia di influenza polmonare, rigorosamente diagnosticata come tale e non corona virus come probabilmente era. Alla domanda se RKI dispone di test Covid-19 post mortem, gli interessati hanno risposto sì ma i giornalisti inglesi hanno verificato che la strana struttura sanitaria tedesca che è iper-federale, crea notevoli asimmetrie tra centro e periferia, ognuno fa un po’ come gli pare. In più perché fare i tamponi ex post e non ex ante visto che dichiarano di farne in ognidove? Questa strana struttura della sanità tedesca darebbe anche conto del perché i tedeschi danno le cifre in ritardo mentre John Hopkins University che segue la pandemia dall’inizio, dà cifre diverse perché attinge direttamente ai Lander. Insomma, a voler pensar male si potrebbe notare una certa cortina fumogena di grande confusione fatta apposta per render difficile la comprensione reale degli eventi e sopratutto per darsi la libertà di sparare cifre ad estro;

3) poi c’è la versione secondo la quale i tedeschi farebbero molti più tamponi di chiunque altro, dichiarazione del RKI riportata anche dalla stampa inglese (in effetti RKI dichiara che “possono” far tamponi, non che li fanno). Non so, a me secondo altri dati non risulterebbe, o sono sbagliati i miei dati o la stampa inglese riporta dichiarazioni tedesche senza verificarle e chissà perché tutti fanno finta di crederci;

4) si arriva così alle note enormi capacità di ricovero ospedaliero e letti di terapia intensiva tedesche. Ma dati alla mano, è vero che la Germania sta messa meglio dell’Italia ma l’Italia starebbe comunque messa meglio di (in ordine) Francia, Svizzera, UK ed Olanda oltre a molti altri. Ma più che altro, questa spiegazione se sembra logica di primo acchito non lo è in approfondimento. In Italia il SSN ha retto botta per un bel po’ prima di andare in affanno ed è andato in affanno solo nell’area più colpita. I morti a casa perché gli ospedali son pieni, in Italia non compaiono nelle statistiche. In più i morti italiani censiti, passano dai letti di terapia intensiva e finiscono nella bara comunque, come per altro in tutto il mondo visto che non sembra esserci una cura effettiva ma solo un supporto terapeutico che è lo stesso in tutto il mondo. Cos’hanno i tedeschi di diverso? Letti più comodi? Respiratori fabbricati dalla Mercedes? Dottor House in ogni stanza? Non si sa …

Ma una rasoiata di Occkam comincia qui e lì a comparire a mezza bocca. Un portavoce del direttivo del’ISS che ogni sera affianca Borrelli in conferenza stampa, a precisa domanda, qualche giorno fa ha risposto qualcosa tipo “io so che noi contiamo sia “morti di” che i “morti con”, come contano gli altri, non lo so”. Da qualche giorno questo insistere sul fatto che noi contiamo -tutti- i morti è stata ripetuta da Borrelli, Brusaferro e altri membri dell’ISS che si alternano giornalmente anche fuori dal contesto della “questione tedesca”. Ieri hanno avanzato dubbi su questa differenza che è logicamente l’unica e per giunta auto-evidente statisticamente e logicamente parlando, un biologo su la Stampa ed uno sul Corriere.

Nessuno può ufficialmente accusare i tedeschi di contare i morti in modo scorretto è evidente, sarebbe guerra diplomatica ed anche improprio perché non lo si può dimostrare, ovviamente. E’ inoltre una questione più politica che non virologica o biologica, non sta a gli scienziati fare ipotesi di tal fatta anche se ogni biologo o virologo o statistico sa che quella sproporzione è talmente esagerata che non c’è altro modo per spiegarla. E così si spiega anche il silenzio pudico in Europa, chi va a fare una accusa così grave ed indimostrabile e pure antipatica perché politicizzare i morti è davvero brutto?

Abbiamo visto tutti come ogni cancelleria ha negato sin dall’inizio l’esistenza del problema del virus pur nota a tutti come ora viene fuori nei rapporti dati con grande anticipo tanto negli USA che in Francia, UK e non c’è motivo di non ritenere, anche Germania. E tutti abbiamo visto come i Paesi più ostinatamente difensori del mercato come ordinatore sociale abbiamo ritardato gli interventi a costo di mentire, inventare idiozie come “l’immunità di gregge”, modulare interventi ma salvaguardando l’operatività economica come plaudono anche molti insospettabili difensori del “market first”, forse involontari, qui da noi. Magari avanzando cautele costituzionali o biopolitiche o libertarie o sdilinquendosi davanti ai miracoli del “modello coreano” o solo perché ormai il far polemica su tutto gli parte di riflesso facebook-esistenziale. E vediamo tutti la reazione furibonda al decreto del Governo pur in ritardo, pur mal comunicato, pur pieno di difetti, quando tocchi la fabbrica ed il denaro scoppiano scintille, è ovvio.

Il governo tedesco non conta i morti reali per non spaventare la propria popolazione che lo costringerebbe a misure che vogliono ritardare il più a lungo possibile, come hanno provato a fare tutti, e questo avviene nel cuore dell’Europa, dell’Occidente democratico e trasparente che s’indigna per i ritardi cinesi e le nebbie russe. Il virus in Germania colpisce solo giovani alti, biondi e sanissimi, per questo le Merkel va in quarantena stanziando miliardi di miliardi per far fronte ai 90 morti dichiarati (cioè come gli svizzeri che sono otto volte di meno!) in un mese e mezzo su 82 milioni di individui. “Buying time”, comprare tempo pagandolo con morti non censiti. Berlino manipolando la sua opinione pubblica ed iniettando al contempo denaro nell’economia, si vuole garantire il suo rimaner al centro del sistema europeo anche nel “dopo”, perché è quella la sua “potenza”. Ed alla potenza si sacrifica tutto.

[Il post è della serie libere opinioni. Naturalmente seguo la faccenda da giorni ed ne ho letto e studiato il più possibile, per quanto mi è stato possibile. Se qualcuno ha da postare dati (le opinioni di articoli che si arrampicano sugli specchi per favore no), che facciano ulteriore luce, è il benvenuto. Vediamo chi mi fa cambiare opinione …]

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Strategie politiche contro il Coronavirus Numeri, analisi e ROI delle strategie dei governi nazionali, di Francesco Esposito


Crescita percentuale di nuovi casi in Italia al 15 marzo 2020

Questa analisi vuole partire dall’articolo di Roberto Buffagni su italiaeilmondo.com e dei commenti seguiti sul sito stesso.

Premessa: siamo in guerra. Se non per l’entità totale del rischio, lo siamo per almeno tre ragioni:

· Per la velocità con cui ci siamo trovati davanti agli occhi il fatto compiuto,

· Per le limitazioni alle libertà personali che dalla fine della seconda guerra mondiale non erano mai state messe in discussione, né durante gli anni di piombo né durante le stragi di mafia

· Per l’impatto sull’economia del Paese.

Eppure il rischio (i soldati e le bombe) non si vede, quindi siamo in guerra pur senza averne contezza.

Economicamente (e sui mercati finanziari) il propagarsi del corona virus è un misto fra l’attacco alle torri gemelle per violenza e imprevedibilità e la crisi del 2008 (o forse del ’29) per profondità. Anzi, probabilmente peggio: infatti i dati del Sole24Ore hanno evidenziato come i mercati americani ci abbiano messo solo 16 giorni per perdere più del 20% dai massimi raggiunti. Per fare un paragone calzante non si può guardare tanto al 2008 (poiché i massimi erano stati raggiunti nel 2007 e la situazione non era già delle più rosee), bensì al ’29. E nel ’29 ci vollero 42 giorni per perdere più del 20% del valore.

Rispetto alle reazioni politiche all’epidemia messe in atto dai vari paesi, in estrema sintesi Buffagni propone di dividerle sulla base di due differenti stili strategici:

· Approccio 1 (economico, breve termine): ci si rassegna al contagio, non contrastandolo, se non con misure estremamente blande, tali da non compromettere la tenuta dell’intero sistema economico e produttivo. Ci si libera, come in guerra, del peso economico (in termini di pensioni e di welfare nel complesso) degli anziani. Ci si rassegna ad un numero di morti che potrebbe essere alto;

· Approccio 2 (sociale, lungo termine): si contrasta il contagio con misure estremamente più limitanti delle libertà personali, con conseguente paralisi, almeno momentanea, del sistema economico. Si punta su una accresciuta unità sociale. Ci si rassegna ad un numero di imprese fallite che potrebbe essere alto.

Come Buffagni indica, Cina, Corea del Sud e Italia seguono il modello 2, pur con strumenti non omogenei. Gran Bretagna, (Germania, Francia) e Stati Uniti seguono (o vorrebbero seguire) il modello 1.

Le ragioni per la scelta strategica di un modello o dell’altro sono più e meno profonde.

Per la Cina si è trattato insieme di:

· Questione culturale di rispetto verso gli anziani, che sono le vittime sacrificali dell’approccio 1;

· Prove di militarizzazione di intere aree urbane;

· Tattica di lungo periodo, infatti la rinnovata e rafforzata unità nazionale potrebbe sostenere una crescita ancora più spiccata nel prossimissimo futuro;

· Asimmetria informativa: sono stati i primi a dover affrontare il virus e hanno dovuto costruire modelli predittivi e risposte adeguate senza sapere esattamente quanto e come fosse contagioso e letale il virus.

Per noi, citando letteralmente Buffagni, “la scelta [italiana] del modello 2 ha ragioni superficiali e consapevoli nei nostri difetti politici e istituzionali, e ragioni profonde e semiconsapevoli nei pregi della civiltà e della cultura a cui, quasi senza più saperlo, l’Italia continua ad ispirarsi, specie nei momenti difficili: siamo stati senz’altro umani e civili, e forse anche strategicamente lungimiranti, senza sapere bene perché”.

Infatti, abbiamo optato per il modello 2, pur con qualche ritardo, deroga e limite intrinseco (per esempio nella capacità di produrre procedure di controllo adeguate mettendo d’accordo Stato centrale e regioni varie), perché incapaci politicamente delle decisioni fortissime necessarie per attuare il modello 1, e perché fondamentalmente inconcepibili per la nostra cultura tendenzialmente cattolica e pacifista.

La cosa interessante, sempre riprendendo Buffagni, è nell’implementazione di tali modelli operativi: infatti la scelta 1 richiede forza e decisione politiche enormi (si immagini Conte a dire “moriranno centinaia di migliaia di persone”), eppure nessun cambio nella vita dei cittadini; al contrario la scelta 2 è politicamente più mite e naturale, eppure impone restrizioni pesantissime.

Di seguito una serie di domande sorgono spontanee, pur con la premessa che non esistono certezze scientifiche sull’evoluzione della curva epidemiologica e quindi non ci sono basi per previsioni che vadano molto oltre il “secondo me” sullo stato sociale ed economico di lungo periodo, ovvero si è nel raggio d’azione della Politica con la P maiuscola, quella che prende decisioni strategiche e non si limita all’esecuzione mera (pur lodevole) di pareri scientifici e tecnici.

· Quale dei due modelli produce sul breve-medio-lungo periodo più morti?
Una prima risposta naturale potrebbe essere l’opzione 1, poiché ci si rassegna in partenza ai morti. Eppure il periodo di isolamento imposto dall’opzione 2 porterà ad una crisi economica profonda con due probabilissime conseguenze: migliaia di aziende fallite che si trascinano dietro molti più disoccupati, welfare potenzialmente ridimensionato per far fronte alla crisi. Dunque sul medio periodo, magari anche in assenza di vaccini e con un ritorno del virus (cosa che la Gran Bretagna ha preventivato fino ad aprile 2021) non è affatto ovvio quale opzione provochi più morti.
La differenza politica tra le due possibilità è tutta nella scelta che si compie: privilegiando la continuità economica si sta sacrificando parte del paese (pur con tutti i se ed i ma della questione, come il tentativo del governo inglese di confinare in casa per 4 mesi gli anziani e far contagiare solo i giovani), nell’altro caso si sta scegliendo di provare a salvarli tutti, almeno in prima istanza.

· Quale dei due modelli è più sostenibile per l’equilibrio socio-economico dei paesi?
Francia e Germania hanno inizialmente provato ad attuare la strategia 1, salvo poi virare sempre di più verso il contenimento coatto del virus.
Questo perché c’è un numero di morti oltre il quale avviene il collasso sociale dello Stato, ovvero cominciano le rivolte. Inoltre, quanto tempo si può resistere continuando a produrre come se niente fosse quando gran parte degli altri paesi del mondo chiude le frontiere e le fabbriche? L’economia di un singolo stato può resistere al fermo di tutti gli altri? Nel mosaico che è la globalizzazione, la risposta è probabilmente no. Nei termini della teoria dei giochi, qual è l’equilibrio più conveniente?
Un peso enorme verrà poi giocato dagli Stati Uniti e dall’evoluzione della loro strategia e della loro situazione sanitaria che, per le elezioni imminenti e per la struttura della sanità (privata), potrebbe trasformarsi in un disastro epocale.
Se gli USA cambiassero verso la strategia di contenimento, naturalmente in ritardo rispetto a Cina ed Europa, per quanto rimarrà fermo il mondo? Alla ripresa completa della Cina non ci sarebbe praticamente mercato estero, il loro mercato interno basterà per evitare un profondo ridimensionamento delle loro ambizioni di crescita?

· L’equilibrio socio-economico da rispettare per evitare una catastrofe è unico per tutti i paesi?
Ovviamente no, e questo è chiaro analizzando la percentuale di morti sui casi totali di corona virus. Uno studio interessante è stato pubblicato su Medium.
Infatti in Corea del Sud la percentuale di morti è molto più bassa che da noi (circa l’1%), ergo lì l’opzione 1 sarebbe stata molto più praticabile che da noi (che abbiamo una percentuale di morti di circa il 7% al 16 marzo), pur consapevoli che un collasso degli ospedali avrebbe alzato il numero totale dei morti per l’impossibilità di curare anche chi avesse problemi diversi dal corona virus.
Queste differenze nel tasso di mortalità dipendono fondamentalmente da tre fattori: come si conteggiano i morti (per corona virus vs con corona virus), come è distribuita l’età della popolazione, quali fasce d’età vengono inizialmente colpite da un contagio. La Corea del Sud è stata fortunata perché, oltre ad avere meno anziani di noi europei, ha avuto la maggior parte dei contagi fra i giovani. Questa è, appunto, fortuna. Per la Germania si sta verificando la stessa cosa, in Francia sono a metà strada.
In linea totalmente teorica l’idea di Boris Johnson di far ammalare solo i giovani isolando gli anziani (come spiegato su NextQuotidiano), se realmente attuabile (e non lo è) produrrebbe probabilmente un impatto accettabile sia economicamente, poiché si tenterebbe di far lavorare tutti come se niente fosse, sia in termini di vite umane, perché sui giovani la mortalità è quasi nulla. Tutto ciò anche indipendentemente dalla presunta immunità di gregge, da dimostrare per questo nuovo virus in assenza di vaccino.

· Potevamo permetterci l’approccio 1? Potremmo dover cambiare in corso d’opera e sacrificare anche noi le vite delle fasce più a rischio?
Dipende dai dati effettivi sulla letalità del virus, sulla sua eventuale ricomparsa in autunno e scomparsa in estate, dai risultati dell’approccio 2 attuale. Di certo, per quanto animati anche da ottime intenzioni, non potremmo permetterci un fermo totale come quello attuale per un anno (seguendo le stime del governo inglese sulla primavera 2021). D’altro canto esiste la possibilità che le misure di contenimento non bastino e che allentandole il virus ricominci l’espansione. Dunque cosa si farebbe in quel caso?
Potremmo dover essere noi a cambiare e scegliere l’approccio 1, cioè il sacrificio e il lavoro come se niente fosse. A quel punto ci troveremmo potenzialmente punto e a capo. Considerando uno studio effettuato su Vo’, citato sul Corriere, il 50% degli infetti non ha sintomi. In extremis, potremmo dover essere pronti ad un sacrificio importante, consolati solo dal fatto che gli asintomatici abbasserebbero la percentuale di morti, pur senza mitigare il dolore (ed il peso, anche politico) dei morti veri. Altrimenti, se lo studio non si dimostrasse veritiero uniformemente su tutto il paese… Meglio non pensarci.

Riferimenti bibliografici

· https://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

· https://24plus.ilsole24ore.com/art/come-siamo-arrivati-ribasso-piu-violento-storia-mercati-peggio-crollo-29-ADtP5uC?cmpid=nl_best24

· https://medium.com/@andreasbackhausab/coronavirus-why-its-so-deadly-in-italy-c4200a15a7bf

· https://www.nextquotidiano.it/coronavirus-azzardo-di-boris-johnson/

· https://www.independent.co.uk/voices/coronavirus-deaths-trump-stock-market-pandemic-economy-bankrupt-italy-a9394891.html

· https://www.corriere.it/cronache/20_marzo_13/coronavirus-piano-marshall-veneto-moltiplichiamo-tamponi-938c48a8-6552-11ea-86da-7c7313c791fe.shtml

Per altre informazioni: youbiquitous.net oppure instagram.com/fesposi

tratto da https://medium.com/@fesposi.ybq/strategie-politiche-contro-il-coronavirus-6a46b5aa60b7

Lettera alla professoressa Capua, del dr. Giuseppe Imbalzano

 

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

 

Ill.ma professoressa Capua;

A seguito delle Sue domande, quale fosse il motivo delle criticità in Lombardia, mi permetto di scriverLe e descriverLe quanto accade per comprendere come e perché, in Lombardia, nonostante tutti gli interventi messi in atto, non ci sia una attenuazione della pressione infettiva.

Il motivo è un elemento che rende difficile la gestione di questa epidemia, che sta crescendo oltre le attese e in un tempo brevissimo, una epidemia con uno sviluppo lampo e in modo tumultuoso.

In Lombardia la gestione dei pazienti infettivi ha condotto ad attivare ospedali misti, con la presenza di pazienti acuti a cronici e pazienti infettivi, con diverse condizioni di criticità, mentre in area critica, in considerazione della gravità delle condizioni individuali, molte risorse sono state assorbite da questi pazienti.

Questa situazione ha comportato, purtroppo, che la infezione sia stata poi diffusa negli ospedali e un numero elevato di personale sanitario (l’assessore aveva indicato nel 12% la percentuali degli infetti) ne sia stato contagiato.

E sappiamo che gli stessi, per lavoro, hanno numerosi e significativi contatti con il resto del personale e i malati che si rivolgono a loro. Oltre ai familiari, che risultano anche loro contagiati, creando piccoli cluster familiari.

E dopo appena 30 giorni, i pochi casi sono diventati una vera epidemia.

Una infezione, certamente seria ma non impossibile da limitare, è diventato un grave problema di sanità pubblica nazionale.

Oltre una diagnosi, certamente presunta, credo che sia utile una proposta di terapia di questa situazione, che ha avuto linee ondivaghe e incerte di soluzione.

Dopo appena 30 giorni più comportamenti, distinti e differenziati, abbiamo un numero di decessi che nelle prossime ore sarà doppio rispetto alla Cina per non parlare della progressione infettiva che appare poco propensa a frenare la propria marcia.

E siamo in una situazione che mai mi sarei aspettato, certo del lavoro e delle qualità dei nostri servizi di sanità pubblica, che si è attivata, ma forse con mezzi e risorse insufficienti.

Le indicazioni che seguono sono, naturalmente generali:

  • Ricoveri distinti in ospedali e strutture di assistenza e di ricovero per anziani dedicati unicamente a pazienti infettivi con rapida eliminazione di situazioni di ambiguità nella gestione clinica, con livelli massimi di sicurezza biologica per il personale operante.
  • Il blocco delle attività per 30 giorni senza particolari deroghe, se non per necessità industriali e di continuità lavorativa, con una gestione attiva di tutte le condizioni a rischio e delle situazioni che necessitano di supporto sociale sanitario e di servizi operativi con un’organizzazione di alto profilo sociale e funzionale.
  • Definizione di aree territoriali limitate per valutare azioni relative alle specifiche necessità locali.
  • Particolare attenzione alle esigenze sociali e cliniche dei pazienti fragili a domicilio per garantire una assistenza che non conduca alla necessità di ricoveri ospedalieri.
  • Attivazione di èquipes mediche ed infermieristiche ambulatoriali e domiciliari in sostituzione della medicina generale classica per pazienti affetti da patologie infettive trasmissibili. La riduzione dei contatti consentirà di operare in piena sicurezza su entrambi i settori. Naturalmente garantiti per sicurezza e continuità. Questo è certamente un problema di sanità pubblica e non di medicina di famiglia.
  • Monitoraggio stretto delle situazioni a rischio e garanzia di continuità e intervento tempestivo per pazienti affetti dalla patologia infettiva. La scelta di trattare questa infezione come le altre che conosciamo non è accettabile. L’obiettivo dell’Oms è l’eradicazione e non il mero controllo (che comunque l’attuale modello di intervento non garantisce)
  • Va modificato il protocollo della valutazione dei positivi e non solo dei malati, la quarantena e la separazione dei positivi anche dalle loro famiglie che certo rischiano di non restare indenni dalla malattia per la presenza dei propri congiunti.
  • Va modificato il modello di gestione del personale sanitario perché non possono lavorare nel dubbio di essere infetti, per se stessi e per i cittadini che si rivolgono a loro
  • Utilizzo della diagnostica con correttezza e non in forma di screening poiché certamente oggi possono creare false sicurezze

Con questa nuova organizzazione appare meno complesso intervenire in situazioni di criticità operativa con meno rischi considerato che il personale sarà ben protetto e il malato perfettamente assistito nelle diverse strutture in cui si trova.

Si riducono le esigenze di garanzia ambientale negli ospedali temporanei solo per pazienti Covid 19 poiché tutti i malati hanno la medesima malattia infettiva

Per ridurre l’impatto della malattia in ambito comunitario vanno conosciuti i casi e fatta un’analisi dei contatti, che ormai sono impossibili da individuare, nella situazione in cui siamo, sia per quantità che per il rischio di infezione che corre il personale sanitario nel dover fare le relative interviste e valutazioni.

Le soluzioni non sono numerose.

Considerato che appare impossibile che siano fatte le necessarie indagini epidemiologiche (analisi dei contatti etc.) sui singoli casi e che vengano determinati solo i nuovi casi patologici, deve essere modificato il modello di individuazione dei positivi e che, in assenza di diverse possibilità di gestione, si ritiene necessario che venga tolto il divieto di individuazione nominativo dei malati in modo da consentire ai contatti di afferire in centri idonei per le verifiche del caso.

Comprendiamo che si tratti di un problema grave di Privacy, ma ne va della vita dei singoli e delle loro famiglie e per esteso dell’intera Nazione. Tale indicazione va attuata per un periodo limitato a 60 giorni, e solo per questa condizione patologica.

E i servizi di identificazione e supporto ai pazienti andranno rafforzati in modo del tutto eccezionale in questo momento.

In questa chiave i medici di famiglia dovranno seguire solo i pazienti non affetti da questa patologia e dalle patologie non infettive gli ospedali temporaneamente adibiti a servizio per infettivi saranno in grado di assorbire pazienti infettivi sino ad esaurimento di tutti i posti disponibili o attivabili e senza limitazioni ambientali o fisiche per i diversi motivi che abbiamo citato, condizione che è possibile attuare se effettuata con immediatezza.

La maggior parte degli ospedali dovranno operare solo per gli acuti e i cronici. Gli interventi programmati non urgenti, naturalmente rinviati, così come tutto non espressamente necessario.

Pochi, chiari e netti interventi, date le caratteristiche dell’infezione, possono portare ad una soluzione rapida, gestendo poi diversamente le code di questa infezione.

Scelte macchinose e prive di obiettivi di sanità pubblica porteranno problemi e difficoltà per lunghi periodi e rischi di ripresa infettiva con piccoli focolai locali che necessiteranno di interventi continui e comunque del tutto inadeguati.

La valutazione delle aree indenni e la relativa dichiarazione di aree virus free porterà ad una rapida ripresa delle attività lavorative e a pieno regime, senza compromessi.

Le aree in cui permarrà la presenza del virus sarà liberata da vincoli non appena avverrà la garanzia di non avere assolutamente più rischi nel proprio territorio. La definizione delle aree deve essere di moderata superficie e per aree limitate.

Aree vaste per essere gestite e bonificate rapidamente saranno il risultato delle mini aree bonificate, e gli interventi saranno selezionati per le diverse esigenze.

Una scelta radicale e con tempi di gestione brevi ma decisi, senza ambiguità, darà anche segno della capacità del nostro sistema sociale e sanitario di uscire rapidamente da un problema che certo non era così grave all’inizio, e difficile da immaginare per lo sviluppo più che tumultuoso che ha avuto in quattro settimane.

La debolezza economica che appare dai dati economici è più legata alla evidente incapacità di uscire da una situazione complessa che dalla situazione stessa, pure aggravata da parole e narrazioni che non sempre hanno riscontro con i fatti.

Per ultimo, una informazione corretta ed esaustiva è l’elemento principale della lotta alla infezione ed è certamente più utile per educare le persone in tempo di crisi, aiutando tutti ad affrontare con più coerenza i problemi a cui andrà incontro in futuro. Lavarsi le mani va sempre bene, ma dobbiamo proteggerci dalla infezione aero trasmessa, e certamente non è sufficiente.

Purtroppo in un quadro complesso e troppo rapidamente sempre più compromesso.

E non siamo lontani, in qualche Regione, ad un momento di criticità grave per un eccesso di pazienti infettivi in tutti i settori e non solo per le terapie intensive.

 

Con la più viva cordialità

 

Giuseppe Imbalzano

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L’energia del virus Tra catastrofisti e futurologi, di Giulio de Martino

L’energia del virus

Tra catastrofisti e futurologi

di Giulio de Martino

 

A un secolo dall’ultima pandemia – provocata nel 1918 dal virus H1N1, conosciuta dagli storici come «influenza spagnola»[1] – il mondo affronta una nuova patogenesi: diffuso a livello planetario è il virus SARS-CoV-2. La trasformazione microbiologica sempre in atto trova condizioni decisive di facilitazione pandemica in ambienti e ecosistemi specifici, ma anche nei processi di mondializzazione. Nel 1918 fu la Grande guerra con gli spostamenti di uomini e mezzi connessi, oggi sono l’intensa geolocalizzazione produttiva e l’interconnessione economica globale.

Osservata in forma cronachistica, la pandemia da coronavirus appare connotata da elementi specifici. Non mi riferisco soltanto al substrato microbiologico da cui ha avuto origine, o al suo terreno di coltura antropico, ma al correlato psicosociale che la sta accompagnando. La velocità e la refrattarietà del virus al controllo da parte degli organismi ha messo a dura prova sia le strutture sanitarie che quelle sociali circostanti, abituate a trend calcolabili e modellizzati.

Sul versante microbiologico emergono due caratteristiche: la rapidità della replicazione e circolazione del virus (non mesi, ma giorni) e la velocità dello sviluppo della malattia (non settimane, ma giorni). Potremmo aggiungere il virus si comporta come una «variabile indipendente» e si «sceglie» sia i contesti di diffusione che quelli di estinzione. Sono caratteristiche che confliggono con la planning e la clinica del mondo industrializzato basate su malattie di tipo degenerativo e cronicizzate, quindi non contagiose né acute e con l’assunto che la medicina costituisca un business che si avvale di una scienza e di una tecnologia sempre in grado, se non di curare, almeno di diagnosticare e prognosticare[2].

In eguale difficoltà si trovano gli economisti familiarizzati con concetti come quelli di crisi e di ciclo che consentono previsioni, calcoli e soprattutto interventi di gestione delle emergenze micro e macro economiche. La situazione effettiva di fronte alla quale si trovano i decisori politici è che si possa entrare in un territorio di distruzione irreparabile delle risorse che vada anche oltre le più avanzate strategie keynesiane di recupero sistemico.

L’aspetto che appare connotare, al di sopra di altri, l’ultima pandemia è il suo essere focalizzata sul rischio piuttosto che sul pericolo. Senza giungere a parlare di una infodemia, diciamo che si tratta di una pandemia anticipata, osservata e monitorata, alla quale si può partecipare come spettatori o come astanti anche senza esserne direttamente coinvolti[3]. I numeri – tolti dalla loro assolutezza e relativizzati rispetto alle dimensioni delle popolazioni coinvolte – mostrano che la società non è omogeneamente esposta al contagio, ma soltanto ad un rischio non precisamente calcolabile. Certamente, in alcuni settori – reparti di pneumologia infettiva – i sistemi socio-sanitari si sono rivelati sottodimensionati rispetto alla domanda di assistenza, ma il numero delle vittime è globalmente marginale. Tuttavia, poiché la società si è consegnata alla rete delle comunicazioni di massa – sviluppatasi enormemente negli ultimi venti anni[4] –  il rischio virtuale si è trasformato in un pericolo poiché ogni spettatore potrebbe diventare – se si verificassero specifiche condizioni – un protagonista dell’evento.

Il carattere probabilistico della scienza e il carattere statistico dei modelli previsionali è proprio dei saperi maturi: gli epistemologi del secondo ‘900 hanno evidenziato l’impianto definitivamente stocastico delle conoscenze[5]. Nel caso del coronavirus pandemico, a causa delle modalità di circolazione delle informazioni e delle opinioni lungo le reti massmediali, l’aleatorietà delle conoscenze si è trasformata in una forma di cogenza delle ipotesi. Per questo l’olismo della risposta politica al rischio di contagio – macrodecreti e macrodirettive – è diventato preponderante rispetto alle decisioni locali e differenziate per settori e ambiti. Un’unica priorità è subentrata alle molte, variegate e complesse, criticità precedenti: «evitare il contagio e la trasmissione del virus».

Sul versante sociale, si è velocemente passati dall’Homo oeconomicus – che si orientava sulla base di una valutazione ponderata dei rischi e dei benefici e con il «Watch and Wait» – all’Homo stocasticus che trasforma ogni rischio in una minaccia e che dà sfogo a quello che viene definito come «panico sociale» o, più precisamente come «crollo della fiducia reciproca». Non ci basa su di un processo di generalizzazione del dato specifico – che la matematica sconsiglierebbe – ma su di una universalizzazione del fatto singolare che assurge a simbolo della totalità[6].

Baudrillard aveva diagnosticato la «morte del sociale» nella civiltà postmoderna come una forma di entropia e di massificazione indecifrabili che avrebbero reso equiprobabile l’evoluzione del sistema[7]. In realtà, negli sviluppi attuali, il sociale sembra piuttosto patire una «morte simulata»: indotta dai sistemi politici che si difendono dai contraccolpi della pandemia provocando – sotto forma di prevenzione e contenimento del rischio – una «entropia di stato», pianificata e controllata attraverso i dispositivi dell’informazione e dell’ordine pubblico. E’ giusto non dare connotazioni «distopiche» al «coma sociale» prescritto alle popolazioni, come pure va evitato di demonizzare – quasi costituissero una sorta di «laisser faire» epidemico – scelte differenti. Si tratta sempre e comunque – sia nella ipotesi dell’attesa del Climax che in quella della provocazione del Plateau – di strategie deliberate in vista della conservazione delle condizioni di esercizio del potere politico, condizioni che, in regime democratico e liberale, includono anche il mantenimento del consenso – anche soltanto passivo – dei cittadini[8].

Al di là degli interventi specifici sul sistema sanitario, le misure di tipo precauzionale, pur comprimendo i diritti  di libertà dei cittadini (a cominciare da quelli di opinione, di riunione e di libera impresa), utilizzano formulazioni legislative compatibili con lo stato di diritto. Si vedano il reato di dichiarazione mendace, la raccomandazione dell’autoisolamento, la quarantena fiduciaria, l’autosospensione dal lavoro: sono prescrizioni che evocano altrettante assunzioni di responsabilità da parte dei cittadini. Certamente, in un contesto di rischio virtuale, la «responsabilità» del cittadino diventa anche un dispositivo di autotutela da parte del potere politico. Se la involontarietà e la colposità diventano identiche alla dolosità, il reato non deriva dalla contestazione di una «responsabilità penale personale», ma dal non aver ottemperato alle misure precauzionali imposte, dall’aver divulgato «notizie false e tendenziose», dall’aver provocato ad altri un danno biologico che poteva essere evitato. Ciò che viene imputato, in buona sostanza, è di aver impedito che l’«allarme virtuale» lanciato dalle istituzioni si diffondesse adeguatamente nel corpo sociale. Tutto ciò conferma il carattere democratico e perversamente liberale delle misure di contenimento del rischio di contagio.

Gli stati democratici più che disciplinare le forme della libertà – come sosteneva Foucault – hanno comandato l’autosegregazione come «servitù volontaria»[9]. Nei fatti la società si è rispecchiata profondamente nelle scelte dei decisori pubblici. Lo ha fatto anche quando ha mostrato di non voler aderire ai divieti e alle proibizioni. Ciò ha evidenziato, piuttosto, una sorta di compiaciuto «masochismo» che ha attivato inconsciamente anche il gioco della trasgressione. È la logica di ogni proibizionismo che è, insieme, ragionevole cautela e adescante divieto[10].

Davanti alla «morte terapeutica» del sociale indotta dalle politiche antiepidemia, il mondo dei mass-media si è diviso. Quelli maggiori – ad esempio le trasmissioni televisive – hanno scelto di tenere un profilo basso e di condividere gli obiettivi del sistema politico. Quando si parla del SARS-CoV-19, accolgono volentieri il viso severo, ma sereno, di virologi e medici che propongono una teleologia della lotta al male. Invece, sui quotidiani e sulla rete, dove c’è un più contenuto e diluito impatto di massa, vi è spazio per gli influencer catastrofisti e per i ribelli che fanno sentire il gusto del proibito.

I catastrofisti parlano di trame internazionali, di ecatombe biologica, qualcuno di nemesi ecosistemica. Da quando si sono eclissati gli oppositori politici – oscurati dal virus e dai suoi rimbalzi che hanno disinnescato il populismo – c’è più ascolto per le profezie di catastrofe perché rendono disponibile un fattore di salvazione e un «capro espiatorio» su cui riversare il proprio disprezzo.

All’interno dei catastrofisti si colloca il gruppo degli altermondisti: quelli di «un altro mondo è possibile», anzi imminente. Ad essi si aggiungono gli ecoambientalisti che intonano, con nuovo vigore, il salmo della «decrescita felice»[11]. Tra gli apocalittici vi è anche il gruppo dei biopolitici. Questi ultimi, memori delle arditezze del marxismo, argomentano che il «regime al potere» utilizza lo «stato di eccezione»  per rivelare il vero volto dei sistemi democratici e liberali: quello di essere dei regimi totalitari. L’errore grossolano di costoro è di mescolare la biologia (e quindi l’ecologia) con la politica e di pensare che l’utilizzo delle problematiche biomediche nelle attuali strategie pubbliche avvenga in maniera strumentale e truffaldina, come appunto accadde al tempo di Hitler e Mussolini[12]. Sfugge loro che nei regimi democratici e liberali non vi è alcun nesso diretto fra le questioni biomediche e le decisioni politiche: sempre l’ultima parola viene data agli «esperti». Da parte loro, le disposizioni di legge osservano la schietta coerenza ordinamentale: il divieto di un diritto come tutela di un altro diritto. il sistema politico – come quello economico e finanziario – si stanno certamente riposizionando, ma lo fanno al solo scopo di tutelare e potenziare i propri mezzi di esercizio modulandoli sulla base delle reazioni della società agli avvenimenti naturali. Tra le reazioni sociali – oltre alle più evidenti forme di obbedienza e di ribellione – vanno incluse anche la volontà di approfittare dell’emergenza per assicurarsi vantaggi attraverso contrattazioni di tipo non competitivo, ma piuttosto assistenziale e beneficiale.

E’ sensato spostare l’attenzione dai rischi sanitari ai pericoli per le attività economiche e relazionali, sia per quelle novecentesche (industria, trasporti, commercio), sia per quelle di sentiment postindustriale (turismo, fitness, cultura e gruppalità). In quest’ultimo ambito i cambiamenti portati dall’epidemia e dalle politiche pubbliche di neutralizzazione del sistema sociale sono massicci e di segno fortemente negativo. Molti si illudono che, passata la bufera, ognuno tornerà alle abitudini e alle attività precedenti. Più plausibilmente, la società imparerà a modificare i suoi stili di vita e di sviluppo. In buona sostanza: attraverso le procedure di sospensione giusta legge dei diritti, quarantena fiduciaria, distanziamento interpersonale, isolamento ecc. si è indotta una trasformazione del legame sociale. E’ proprio in campo psicosociale che vi sarà il cambiamento più evidente, quello che lascerà il segno. Non sarà, però, un cambiamento di tipo totalitario, bensì di tipo individuale e, insieme, reticolare. Vi si riferiscono già – oltre alle grandi aziende del WEB e alle centrali della finanza – i numerosi sviluppatori, psicologi e influencer che forniscono indicazioni e consigli, ovviamente via internet o schermo, alle persone disorientate dalla crisi e dall’emergenza.

Si può ipotizzare che quelle che oggi sono considerate come modalità secondarie e occasionali di lavoro, di formazione, di scambio di merci e relazioni potrebbero diventare modalità primarie. Quella che si definisce «economia digitale» – il sistema di produzione e scambio basato sulle tecnologie informatiche – potrebbe potenziarsi sia nell’hardware che nel software, sia online che offline, influendo sulla circolazione monetaria e su quella dei beni. Il profilo etico che prevarrà sarà quello del player, che nella letteratura è noto come Il giocatore[13]. Il player incarna il principio economico marginalistico: la ricerca del miglioramento in un contesto di scarsità e di maggior costo dei fattori di esistenza. Un soggetto decide di compiere una data azione soltanto se il sacrificio che questa comporta gli appare minore della soddisfazione che essa procura. Per questo persiste nell’azione intrapresa solo fino a quando l’incremento di sacrificio non supera l’incremento di soddisfazione. In buona sostanza, il player frammenta in segmenti uguali e piccoli il sacrificio di fronte alla decrescita degli elementi di soddisfazione, allo scopo di garantirsi una crescita meno rapida dell’insoddisfazione. Nelle relazioni di dipendenza ha convenienza ad accrescere la richiesta solo fino al punto in cui l’incremento di soddisfazione, che ricava da una nuova dose del bene, eguaglia l’incremento del sacrificio che ha dovuto compiere per ottenerlo. Cercando di massimizzare il vantaggio e di minimizzare il costo, il player cercherà allora di vendere meglio i propri prodotti e di dipendere in misura minore da quelli che deve acquistare.

Con i dispositivi blockchain, cloud e mobile si potrebbe passare dal mondo dell’«Internet of Things» (IoT) e dei social network al riassestamento dell’intero sistema di mercato e di produzione. Questo implicherà che le persone dovranno trascorrere più tempo di fronte al pc o consultando il proprio smartphone, oppure che saranno abolite le relazioni frontali («Face to Face») per sostituirle con quelle mediate dalle reti[14]? Probabilmente no. Ciò che cambierà sarà il rapporto fra l’offline e l’online: il primo diventerà più intenso e cercherà nuove modalità di riferimento al secondo. Il cambiamento avverrà, prima di tutto, all’interno della nostra mente: continuerà a essere offline, ma cercherà la connessione con le altre menti e le altre esistenze, sempre più spesso, attraverso i sistemi audiovisuali e scritturali online.

[1] Johnson Niall, Britain and the 1918-19 Influenza Pandemic. A Dark Epilogue, London and New York, Routledge, 2006.

[2]  Van Rensselaer Potter II,  Bioethics: Bridge to the Future, Prentice-Hall, 1971.

[3] Massimo Conte, Reti ed epidemie: quando il gioco si fa serio, “Complexity Education Project”, Università di Perugia, febbraio 7, 2020.

[4] Luciano Floridi, The Fourth Revolution. How the infosphere is reshaping human reality; Oxford University Press, 2014; tr. it. La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.

[5] Richard Feynman, Il senso delle cose (The Meaning of It All, 1998), Milano, Adelphi, 1999,

[6] Andrew Salmon, Democracies’ Covid-19 cures could be worse than the disease, in: “Asia Times”, march 18, 2020.

[7] Jean Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la fine del sociale, 1978, n. ed. a cura di Dario Altobelli, Mimesis, Milano 2019.

[8] Roberto Buffagni, Epidemia coronavirus. Due strategie a confronto, L’Italia e il Mondo, 14 marzo 2020.

[9] Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, Medusa Edizioni, 2001.

[10]  Bateson, G., Jackson, DD, Haley, J. & Weakland, J., Toward a Theory of Schizophrenia, “Behavioral Science”, 1956, 1, 251-264.

[11] Luigi Ferrajoli, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra, su: “il Manifesto” del 17.03.2020.

[12]  Giulio de Martino, Eutanasia del marxismo, Mimesis, 2020.

[13]  Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, 1ª ed. originale, 1866.

[14]  Giulio de Martino, La mente virtuale, Iacobelli 2015.

FAQ CORONAVIRUS 1 del dr. Giuseppe Imbalzano

AI LETTORI_ RIFLETTETE E CHIEDETE_GIUSEPPE IMBALZANO VI RISPONDERA’

FAQ CORONAVIRUS 1

del dr. Giuseppe Imbalzano[1]

 Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

Cosa è accaduto?

Un nuovo virus animale ha fatto il salto di specie ed ha infettato l’uomo.

È la prima volta?

No. Da sempre accade questo fenomeno tra specie che convivono insieme.

Una situazione come questa era inattesa?

No, da molti anni si preparano “piani pandemici” per evitare di farsi trovare impreparati. Non sappiamo chi sarà, ma qualcosa potrebbe succedere (e a volte succede).

E naturalmente questi piani di sicurezza e di emergenza servono per agire tempestivamente quando la situazione può essere necessaria.

Non sappiamo quando ci sarà un terremoto, ma se non siamo pronti non potremo intervenire con tempi di risposta brevissimi e utili a risolvere il problema per il bene di tutti, chiunque esso sia.

Se non si è pronti, l’intervento sarà tardivo e persino pericoloso ed inefficace.

Le ricette sono tante e se ne sceglie una per cucinare il problema.

La situazione era ignota?

Assolutamente no

Era stato attivato un sistema di allarme internazionale?

Si.

Errori e contraddizioni iniziali dalle informazioni (molto molto contraddittorie) provenienti dalla Cina?

Tanti e a lungo

E allora è indispensabile agire in modo più strutturato, organico e complessivo perché molti interventi vengono ritardati dalla assenza di informazioni tempestive e adeguate

Aerei dalla Cina che vengono fatti atterrare solo a Malpensa e a Fiumicino

Può essere sfuggito qualcuno dei nuovi arrivi? Certamente non tutto era ben determinato.

Anche prima dell’inizio della nostra riorganizzazione (infezioni che risalgono a dicembre dello scorso anno e forse prima, pipistrelli o meno)

Facile prendere il cittadino cinese chiuso in albergo già malato.

Difficile scegliere tra migliaia.

La scelta– la identificazione, secondo protocolli, per tutti i passeggeri, della ‘passenger locator card’ oltre allo scanning termometrico per i passeggeri atterrati.

La misura è efficace? Relativamente. Chi non ha febbre non è identificabile. Pare riesca a ritardare, per un periodo non lungo, lo sbarco dell’infezione nella nuova realtà territoriale.

Abbiamo più tempo per prepararci.

Sospensione dei voli dalla Cina dal 27 gennaio

La misura è efficace? Ormai l’infezione è presente in altre Nazioni e chi deve arrivare in Italia, anche dalla Cina, cerca soluzioni alternative.

E non sa neanche di essere infetto e poi malato. E gli arrivi da altre Nazioni non sono evidenti.

E se non è cinese meno ancora. E possono giungere da altre Nazioni che non abbiamo considerato. Magari italiano di ritorno.

Colpe delle scelte italiane?

Pare comunque difficile gestire un flusso tanto importante con certezze, malattia e con persone che non sono neanche identificabili.

Dare colpe? Polemiche?

Per spirito di autoflagellazione o altro?

Io l’avevo detto? Con quale spirito ed obiettivo?

Non risolve certo il problema di oggi.

Dopo numerose e lunghe informazioni non sempre chiare, con azioni locali che sospendono la circolazione interna ed esterna di 60 milioni di cittadini cinesi.

Dare colpa significa farlo nella piena gratuità di informazione. Siamo tra le Nazioni che hanno il maggiore interscambio economico con quella Nazione a livello mondiale.

I test e i tamponi, oltre ad essere stati predisposti da pochissimi giorni (gennaio), non sono infiniti e vanno testati, valutati e le raccolte di materiale devono essere idonee. Gli esami e i controlli eseguiti adeguatamente. Possono essere negativi ieri e positivi oggi. Possono essere negativi ma l’infezione può insorgere successivamente.

Solo chi ignora può pretendere o fare cose del tutto inefficaci.

Siamo in piena epidemia influenzale.

 

La sintomatologia delle due infezioni, influenza e coronavirus, è differente?

Non certo all’inizio

Come avviene l’infezione?

Semplificando, per contatto diretto (tosse, per via aerea, o contatto con le nostre mucose del materiale virale)

A che distanza? Breve – diciamo 2 metri. Questo materiale quanto resta vitale sulle superfici? Sembra alcune ore.

Si ammalano tutti?

No.

Quelli che si ammalano hanno tutti una patologia grave?

Assolutamente no.

Questo non è certo elemento che favorisca la individuazione dei casi e la soluzione dei problemi

Allora cosa è necessario fare?

Se non è arrivato nessun infetto, nulla.

Se la persona ha superato le barriere doganali nostro malgrado, sicuramente, in caso di malattia, raggiungerà il servizio sanitario in qualsiasi sede o forma, non appena ne avrà esigenza.

Perché la malattia, che per molti è del tutto insignificante, per alcuni vira in modo pericoloso in polmonite virale, non distinguibile dalle altre ma certamente neanche diagnosticabile e risolvibile senza le necessarie azioni di diagnosi e relativa cura.

E se sta male e va in pronto soccorso cosa accade?

Se il pronto soccorso è unico, se la sala d’attesa è unica, se l’ambiente è piccolo, se le persone non sono preparate, la diffusione è certa. Tutti i presenti ne verranno coinvolti.

Se l’ambiente è separato, ha tutti i sistemi di mitigazione del rischio attivati, se i test sono a disposizione e il personale ha idea che ci possa essere un problema reale e un rischio effettivo, la condizione, come nel 1770, colpisce con le pallottole i primi soldati che non sono ben protetti, ma impedisce la diffusione di un virus che non deve, perché nuovo e per il quale non abbiamo armi efficaci di contrasto, entrare nella circolarità quotidiana del nostro sistema sociale.

Ma una buona formazione, la disponibilità di strumenti di sicurezza idonei ne fanno non più dei fantaccini ma dei Signori Professionisti quali sono e di cui dobbiamo solo vantarci per competenza e professionalità di fronte al Mondo intero e dare loro rispetto.

Se non siamo preparati che accade?

Accade ciò che è accaduto.

E’ accaduto per caso o poteva essere evitato?

Chi ha portato il virus? Ormai non ci interessa se non per storia. E per polemica.

Ma non possiamo dire come sia avvenuto certamente e la polemica non risolve il problema.

Ma è possibile che sia arrivato anche prima di quando potessimo fare qualcosa.

 

[1] Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

 

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