DICHIARAZIONE DEL PRESIDENTE DONALD J. TRUMP_ Commento del generale Marco Bertolini

“Sappiamo tutti perché Joe Biden si sta affrettando a fingersi falsamente vincitore, e perché i suoi alleati dei media stanno cercando così pesantemente di aiutarlo; non vogliono che la verità venga rivelata. La semplice constatazione è che queste elezioni sono tutt’altro che finite. Joe Biden non è stato certificato come il vincitore in nessuno stato, per non parlare di nessuno degli stati altamente contestati avviati a riconteggi obbligatori, o stati in cui la nostra campagna ha avviato sfide legali valide e legittime che potrebbero determinare il vincitore finale. In Pennsylvania, ad esempio, ai nostri osservatori legali non è stato consentito un accesso agibile per osservare le procedure di conteggio. I voti legali decidono chi è il presidente, non i media.
“A partire da lunedì, la nostra campagna inizierà a perseguire il nostro caso in tribunale per garantire che le leggi elettorali siano pienamente rispettate e che il legittimo vincitore sia insediato. Il popolo americano ha diritto a un’elezione onesta. Ciò comporta contare tutte le schede legali e non considerare le schede illegali. Questo è l’unico modo per garantire che i cittadini abbiano piena fiducia nelle nostre elezioni. Rimane scioccante il fatto che lo staff di Biden si rifiuti di concordare con questo principio di base e vuole che le schede elettorali siano contate anche se sono fraudolente, fabbricate o espresse da elettori non ammissibili o deceduti. Solo una parte coinvolta in atti illeciti terrebbe illegalmente gli osservatori fuori dalla sala di conteggio per poi battersi in tribunale per bloccarne l’accesso.
«Allora cosa nasconde Biden? Non mi fermerò finché il popolo americano non avrà il numero di voti onesti che merita e che la democrazia richiede “.
– Presidente Donald J. Trump
Generale MARCO BERTOLINI
Ma ci rendiamo conto di cosa è accaduto con questo imbroglio? Il “modello” applicato in America, è lo stesso che è stato reso operativo anche da noi con l’imposizione di un governo senza alcuna legittimazione elettorale pur di non lasciare il potere ai “fascisti” di Salvini e della Meloni che avrebbero vinto le elezioni a man bassa se si fossero tenute. L’accusa di “fascismo” è infatti autocertificante e non ha bisogno di essere provata, e contro il fascismo (anche quello immaginario visto che quello vero è morto da settantacinque anni) è valido tutto, dal tradimento, alla menzogna, alla nomina di ministri incapaci o palesemente inadeguati, alla violenza. In fin dei conti cos’erano gli anni di piombo col loro motto “uccidere un fascista non è reato” se non una riedizione della resistenza nella quale era addirittura un merito versare il “sangue dei vinti” (soprattutto ben al riparo delle armi alleate)?
Negli USA è successa la stessa cosa: Trump è stato imposto come nemico da abbattere da una macchina mediatico politica trasnazionale e interna e contro di lui vale tutto, dalla guerra civile scatenata dai Black Lives Matter ai brogli elettorali fatti praticamente alla luce del sole con una faccia tosta che fa paura. Addirittura, viene censurato da questo stesso social e da altri, come se l’opinione e le prese di posizione del Presidente in carica degli USA non avesse valore, non sia addirittura di interesse mediatico. Avete capito? La voce del Presidente degli USA, di questo Presidente degli USA, è “trascurabile”, addirittura censurabile.
Il fatto che abbia chiuso guerre aperte dai suoi predecessori e che abbia fatto bene come nessun altro per l’economia del suo paese non conta: “deve” essere violento perchè rifiuta i diktat del politicamente corretto, perchè parla di interesse nazionale, perchè è pro-life mentre il democraticume statunitense e interazionale è abortista, omosessualista e eutanasista, perchè non mette la mascherina e anzi guarisce dal COVID ad una velocità irritante, perchè non vuole una guerra con la Russia (non a caso Biden ha già detto che la Russia è la principale “minaccia”), perchè non ha fatto niente per abbattere anche Assad dopo che il suo predecessore aveva incendiato Medio Oriente e Nord Africa, perchè ha una moglie che con la sua bellezza e il suo garbo è uno schiaffo ai miti del femminismo militante. Per ora si sono fermati lì, facendogli solo sentire il profumo della violenza che saprebbero scatenare. Per ora. Se avrà il coraggio e l’energia di tenere duro sarà possibile tutto, anche se non hanno niente da temere, visto che possono permettersi di violare leggi e norme come vogliono, in nome dei loro principi.
Non ci sono dubbi che la democrazia è arrivata ad un punto di crisi assoluto, o forse alla sua logica evoluzione grazie a mezzi di condizionamento potentissimi come i media e i social, che consentono di impapocchiare qualsiasi cosa, di creare qualsiasi fake-realtà, per il pubblico plaudente. Quanto ci vorrebbe, ora, la voce della Chiesa. Intendo quella cattolica, apostolica e romana

LA TORRE DI BABELE, di FF

LA TORRE DI BABELE
La montagna ha partorito un altro topolino ed è subito cominciata un’altra zuffa di tutti contri contro tutti.
Difatti, com’è noto, il governo adesso ha imposto nuove misure anti-contagio, dividendo l’Italia in tre fasce (zona rossa, arancione e gialla) in base a criteri che tengono conto della differente situazione delle regioni del nostro Paese per quanto concerne la pressione sul sistema sanitario causata dal virus, ma questi criteri vengono già contestati anche da diversi esperti.
Le regioni, che fino a pochi giorni fa chiedevano che venissero adottate restrizioni più severe, ora criticano il governo perché le nuove misure anti-contagio sarebbero sarebbero insufficienti per ridurre il contagio o, all’opposto, perché sarebbero tropo severe (solo due giorni fa i medici della Lombardia e del Piemonte chiedevano che queste regioni fossero ‘zone rosse’ ma adesso i governatori della Lombardia e del Piemonte criticano il governo perché ha inserito queste regioni nella ‘fascia rossa’).
I ‘nazi-populisti’ dell’opposizione, dal canto loro, pretendono addirittura di sostituirsi ai medici – ossia di stabilire come devono essere curati i malati di Covid – e di debellare il virus lasciando morire a casa i ‘nonni’, perché ormai ‘improduttivi’.
Molti protestano perché penalizzati dalle misure anti-contagio, ma badando soprattutto a difendere i loro interessi e infischiandosene degli interessi nonché della salute degli altri, come se si fosse tornati allo stato di natura immaginato da Hobbes, caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti.
La scuola, che prima del Covid era più simile ad una fabbrica di ‘semicolti idioti’ (nel senso etimologico del termine ossia socialmente più dannosi che utili) che ad un ‘sistema educativo’, è diventata improvvisamente un centro di ‘eccellenza didattica’ di vitale importanza per il Paese, di modo che adesso si può chiudere tutto – fabbriche e ospedali inclusi – tranne la scuola.
Intanto, piccoli ma aggressivi gruppi di interesse si contendono il controllo degli apparati dello Stato per tutelare i loro interessi e/o per imporre i loro ‘particolari valori’ all’intera collettività, spacciandoli per ‘valori universali’, mentre la maggiore preoccupazione del capitalismo ‘tricolore’ è sempre quella di socializzare le perdite e privatizzare i profitti.
Naturalmente, ci sono pure quelli – e il loro numero aumenta ogni giorno, perfino più di quello dei ‘positivi’ – che considerano tutta la ‘vicenda del Covid’ una gigantesca ‘montatura’ allo scopo di instaurare una ‘dittatura sanitaria’, nonostante che lo Stato neoliberale occidentale (meglio ‘rimarcarlo’, dacché in generale in Oriente vi è un diverso ‘senso dello Stato’) sembri una sorta di grottesco e imbelle ‘Stato groviera’ (capace cioè di soddisfare solo gli ‘appetiti’ dei gruppi di interesse più ‘pre-potenti’), per non parlare del governo e della maggioranza ‘giallo-rosa’, che sembrano più simili ad un’armata Brancaleone ma senza Brancaleone (che perlomeno non mancava di coraggio).
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Impossibile quindi evitare il paragone con la Cina.
Tuttavia, che la Cina sia riuscita a mettere ‘sotto controllo’ il virus non importa quasi a nessuno perché i cinesi sono ‘comunisti’ ossia brutti, sporchi e cattivi (al punto che alcuni accusano i cinesi di avere addirittura diffuso intenzionalmente il virus in tutto il mondo). Ma la Cina come ha messo ‘sotto controllo’ il virus?
‘Lockdown’ durissimo per due mesi, controlli capillari e ‘a tappeto’, personale sanitario e ospedali (costruiti, peraltro, in un batter d’occhio) solo per malati di Covid, eccezionale potenziamento del sistema sanitario, immediata ‘rimozione’ dei dirigenti politici o sanitari inetti, controlli severissimi alle frontiere e misure anti-contagio condivise e rispettate dalla popolazione, pena sanzioni severissime, così la Cina ha messo ‘sotto controllo’ il virus
E se si afferma che questo lo possono fare solo i cinesi, perché in Cina vi è una ‘dittatura’, allora come si può al tempo stesso affermare che Italia vi sarebbe una ‘dittatura sanitaria’?
Ma, si obietta, si può credere che gli ‘arconti dell’Occidente’ abbiano davvero a cuore la nostra salute e in particolare quella dei ‘nonni’? Ovviamente no. Sicché per alcuni questa sarebbe la prova migliore che la ‘vicenda del Covid’ è (perlomeno) una ‘mezza bufala’.
Insomma, per costoro il capitalismo si sarebbe imposto con l’inganno, la truffa e il complotto, non mediante il dominio della natura, sapendo cioè porre la natura e la stessa tecnoscienza al servizio degli interessi della classe capitalistica.
Certo, che per la parte più ‘avanzata’ della classe capitalistica il virus costituisca un’ottima occasione per una ‘distruzione creatrice’, al fine di imporre una nuova forma di capitalismo ‘green e digitale’, come, del resto, già stava accadendo prima del Covid, è ben difficile negarlo.
Tuttavia, un conto è controllare il virus in funzione dei propri interessi, un altro è ‘ficcare la testa sotto la sabbia’, lasciando correre liberamente il virus, come se il ‘grande capitale’ si potesse permettere di perdere il controllo della natura (tanto varrebbe pensare che la classe capitalistica occidentale si stia comportando come il Romolo Augusto di Friedrich Dürrenmatt!) e la storia del capitalismo non fosse caratterizzata solo dalla lotta tra dominanti e dominati ma pure dalla lotta tra dominanti e quindi dallo scontro tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ capitalismo, nonché dalla lotta per l’egemonia tra i diversi Stati (altro che ‘megacomplotto internazionale’!).
Nondimeno, che il capitalismo non possa ignorare le sfide della natura e della tecnoscienza, perché per il capitalismo o, meglio, per qualsiasi forma di capitalismo è comunque essenziale ‘vincere’ queste sfide – ossia imprimere, per così dire, il proprio ‘sigillo’ su tutto (virus incluso, che potrebbe pure mutare in modo imprevedibile) – a molti, anzi a troppi, non passa neppure per la mente. Difatti, è assai più facile spiegare tutto con i complotti e le ‘filosofesserie’ sulla ‘biodittatura’.

SECONDA INTERVISTA A MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

SECONDA INTERVISTA A MACHIAVELLI

La crisi pandemica ha prodotto un ampio dibattito sull’uso (e, secondo molti, l’abuso) dei DPCM da parte del governo Conte, che hanno limitato alcuni diritti garantiti dalla Costituzione, in particolare il diritto di locomozione di cui all’art. 16 della Carta. Virologi, maghi, giornalisti, soubrette, costituzionalisti, nani, politologi, ballerine, ecc. ecc. si sono accapigliati sull’emergenza, sullo stato d’eccezione, sulla compressione dei diritti, sfornando pareri ed opinioni contrastanti. Schmitt e Kelsen sono stati fatti uscire dall’armadio filosofico-giuridico-politico in cui riposavano da decenni, disturbati solo da qualche specialista, per corroborare le diverse tesi.

A me sembra utile, giacché lo avevo già fatto un paio di anni fa, andare nuovamente ad intervistare Machiavelli, che mi aveva cortesemente detto, al momento di concludere il precedente colloquio, di tornare a visitarlo.

Cosa pensa dell’eccezione sanitaria e della conseguente decretazione del Presidente Conte?

Come scrissi, tutte le repubbliche hanno necessità di prescrizioni ed organi per gestire le emergenze “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle republiche hanno il moto tardo” dato che le norme ordinarie diventano pericolosissime “quando egli hanno a rimediare a una cosa che non aspetti tempo. E però le republiche debbano intra loro ordini avere uno simile modo… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli”. Come ha ripetuto, pochi giorni orsono, un vostro grand commis. Se il vostro governo seguiva le procedure ordinarie contereste tanti morti in più.

Ma noi italiani non avevamo in Costituzione la previsione e la disciplina dello Stato di eccezione?

E avete fatto male a non prevederla; e vi credevate perfino d’avere la “costituzione più bella del mondo”; come se le costituzioni e gli Stati debbano essere belli, piuttosto che utili. Giudicavo: “Talché mai sia perfetta una republica se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo”. Perciò hanno fatto bene gli altri Stati, come Francia, Germania e Spagna, tra quelli più vicini a voi che hanno previsto gli ordini straordinari. Cosa pensavate? Che per non aver legiferato sulle situazioni eccezionali, queste vi avrebbero risparmiato?

Guerre, carestie, terremoti, pestilenze non hanno bisogno del permesso del costituente né dei pomposi giuristi di regime per colpire. Tanto meno poi le calamità sono allontanate dal progresso. Questo può servire – spesso – a limitare le conseguenze, ma poco o punto ad evitarle.

Ma se non c’era la disciplina normativa, cosa potevano fare?

Tutto il necessario. Nessuno può dire cosa con certezza. Ma, come hanno ritenuto tanti giuristi dopo di me, la necessità è fonte di diritto superiore alla legge (Santi Romano) e in questi casi, la forza sacrifica il diritto per salvare la vita (Jhering). E proprio della vita dei sudditi stiamo discutendo. Quanto al cosa e se sia opportuno o meno, è solo il risultato a poterlo dire. Se la tua azione è stata opportuna sarà il popolo a giudicarlo: non c’è norma che possa assolverti o condannarti, così come non c’è che possa vietarlo. O se c’è, è dovere derogarla o sospenderla.

E sulla “seconda ondata” che cosa dice?

Ho scritto che l’opinione che le cose del mondo siano governate dalla fortuna e da Dio è vera in parte: infatti la fortuna è arbitra della metà delle azioni nostre, ma dato che abbiamo il libero arbitrio ne lascia a noi il resto. La fortuna “assomiglia a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano li arberi e li edifizii… ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede a lo impeto loro, senza potervi in alcuna parte obstare”. Ciò nonostante, nei tempi quieti gli uomini possono provvedere con ripari di guisa che se straripano non rechino danni: “Similmente interviene della fortuna. La quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quindi volta li sua impeti, dove lo sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete l’Italia…, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo: ché, s’ella fussi reparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non avrebbe fatto le variazioni grande che ha, o la non ci sarebbe venuta”. Ma come diceva don Abbondio la virtù è come il coraggio: se uno non ce l’ha non se lo può dare.

Da mesi i telegiornali ci hanno raccontato che la seconda ondata era in arrivo.

Peggio: non aver previsto quello che sapevano anche i telespettatori – non molto più preparati dei villici con i quali giocavo a briscola – dimostra che i governanti hanno poca virtù. E dato che vale la regola di don Abbondio è meglio che se ne vadano a casa.

Ma potrebbero cambiare, forse?

Mi pare difficile, dato che finora hanno dimostrato di conservare gli stessi modi, anche se i tempi sono mutati. Parlano ancora di osservare le leggi, quando hanno il dovere – se necessario – di cambiarle. E poi hanno sempre la tendenza ad abusare della roba degli altri.

Pensa che generino così disordini?

Sicuramente e si vedono: se comandi a qualcuno di non lavorare, devi provvedere a sostentarlo, prima che ad infliggergli pene se lavora. Ho scritto che per un principe è meglio essere temuto che amato: ma ho aggiunto che quel timore non deve tramutarsi in odio. Per evitarlo il governante ha come regola di astenersi dalla roba dei sudditi. Cosa che i nostri non fanno: o gliene prendono troppa o non gliela lasciano fare, e poi non provvedono a fornirne, almeno quanto basta per sopravvivere.

Lei è pessimista, e cosa si può dire di confortante in una situazione così difficile?

Che è la più favorevole al cambiamento. Non potete ristagnare ancora come negli ultimi trent’anni. Come scrissi “era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch’è Persi, più dispersa che li Ateniesi senza capo, senza ordine, battuta, spogliata, lacera corsa…”. Dopo essere arrivati così’ in fondo, non si può che risalire.

Teodoro Klitsche de la Grange

Disturbare il conducente!?, di Gennaro Scala

LOTTA E TUMULTO_Trascinati per inerzia dentro un dilemma drammatico_Giuseppe Germinario
Lasciamoli lavorare, non disturbiamoli con le proteste, che stanno lavorando davvero molto bene. Le proteste dopo, bisogna pensare alla salute adesso! Peccato che quando vai alla cassa del supermercato non puoi dire: “Segni pure, che i conti li facciamo dopo” come si faceva una volta con i bottegai. Soltanto una popolazione attiva, reattiva rende virtuosi i governanti. Bisogna che abbiano del popolo paura, che sappiano che se si passa il segno, una massa inferocita che non ha nulla da perdere può venire a darti fuoco alla casa, come accadde durante la “rivolta dei Ciompi” a Firenze, secondo il racconto di Barbero (qualcuno ci ha fatto anche una vignetta). Il “governatore della Campania” deve aver intravisto questa possibilità, negli ultimi giorni è diventato meno delirante, più ragionevole. Chi comanda se ne frega della salute e del benessere collettivo. In presenza di una massa passiva, tende a prendere la soluzione che ritiene più comoda. Si è visto in questi mesi, in cui hanno fatto ben poco per prepararsi ad una seconda ondata, che ben era nel novero delle possibilità. Tanto se i ricoveri superano un certo numero tutti chiusi in casa. È automatico. Automatico un corno! si è dimostrata troppa disponibilità e passività verso una misura eccezionale che se prolungata nel tempo diventa una mostruosità.
Sì alle proteste, è un bene che ci siano, e bisogna mantenerle nell’ambito della protesta simbolica democratica. Ma bisogna che siano consapevoli che se si passa la misura può accadere l’impensabile. Tante cose che si credevano impensabili poi sono accadute.

MORALINA, LEGALINA ED ETICA POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

MORALINA, LEGALINA ED ETICA POLITICA

1.0 È risaputo che politica e morale (spesso) non vanno d’accordo; lo è parimenti che accusare i propri nemici di essere immorali o amorali è tra i più impiegati topos della propaganda. Ed è altrettanto diffuso ritenere che tra politica ed etica possa esservi antitesi inconciliabile; di guisa che per mostrarsi di una qualità etica superiore, si auspica l’antipolitica1.

A leggere, tra gli altri Croce, questi scrive delle varie forme dell’attività umana e di come l’una tenda a sottomettere l’altra. E ricorda2 che la schietta politica non distrugge, ma anzi genera la morale3. Proprio perché (l’esistenza e) l’attività umana non è possibile se non nella sua interezza4, sostiene “E l’uomo morale non attua la sua moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica”. Ciò significa accettarne i mezzi. Ed è proprio “L’amoralità della politica, l’anteriorità della politica alla morale fonda, dunque, la sua specificità e rende possibile che essa serva da strumento di vita morale”.

A Max Weber dobbiamo, nella ricerca di un’etica politica, la distinzione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità5.

La conseguenza è che chi agisce secondo la prima sarà auto-assolto da possibili insuccessi “Se le conseguenze di un’azione determinata da una convinzione pura sono cattive, ne sarà responsabile, secondo costui, non l’agente bensì il mondo o la stupidità altrui o la volontà divina che li ha creati tali”. Al contrario “chi invece ragiona secondo l’etica della responsabilità tiene appunto conto di quei difetti presenti nella media degli uomini; egli non ha alcun diritto… di presupporre in loro bontà e perfezione, non si sente autorizzato ad attribuire ad altri le conseguenze della propria azione, fin dove poteva prevederla”, assumendosi così la responsabilità del proprio operato6. Weber, in modo non dissimile da Croce, riteneva che “L’etica religiosa si è variamente adeguata al fatto che noi apparteniamo contemporaneamente a diversi ordini di vita, soggetti a leggi diverse tra loro” (i corsivi sono miei).

Da ciò deriva che spesso l’etica delle religioni ha adattato all’attività dell’uomo le regole da osservare. Così, per il cristianesimo “accanto al monaco che non può versar sangue altrui e non può trarre profitti, vi sono il pio cavaliere e il borghese, dei quali l’uno va esente dal secondo di quei divieti e l’altro del primo”7.

Dato che la politica è caratterizzata dall’uso della forza è questa che “determina la particolarità di ogni problema etico della politica”. L’apparato di potere (i seguaci o l’aiutantato, come lo chiamava Miglio) ha bisogno di “bottino, potenza e prebende. Il successo del capo dipende…dal funzionamento di questo suo apparato”8; il che comporta l’uso di mezzi per lo più non commendevoli o comunque estranei all’etica (della convinzione). Quindi l’etica della convinzione è del tutto irrealistica e politicamente inopportuna? Non del tutto, sostiene Weber perché “la politica si fa con il cervello ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione”9. Senza il riferimento ad un progetto, valori, al “regno dei fini”, la politica diventa un mestiere. Determinare quanto sia opportuno seguire l’una o l’altra etica è difficile da fare a priori. Perché, conclude Weber “l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione alla politica (Beruf zur Politik)”.

2.0 C’è nell’etica della responsabilità un elemento decisivo: che tiene in una considerazione prevalente l’interesse degli altri. È un’etica “sociale” per natura; è pensabile (pienamente) in relazione alla cura d’interessi non propri.

Se, come nel caso, poi la si applica alla politica, occorre tener conto cosa la politica è; e cosa l’istituzione politica – ossia, nella modernità, lo Stato – e per esso i governanti debbano curare. Freund definisce la politica “come l’attività sociale che si propone d’assicurare con la forza, generalmente fondata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di un’unità politica particolare garantendo l’ordine tra i conflitti nascenti dalla diversità e dalla divergenza d’opinioni ed interessi10.

Il pensatore francese per stabilire quale ne sia il fine specifico, parte da Aristotele; per il quale ogni attività umana ha un fine particolare (la salute del paziente per il medico; la vittoria in guerra per lo stratega, e così via). Lo scopo della politica (e dell’uomo politico) è il bene comune, definito come quello “della Repubblica (cioè dell’istituzione) o del popolo che formano insieme una collettività politica”11. Desumendone i caratteri essenziali da Hobbes, il bene comune consiste nella protezione contro i nemici, nella pace, nel benessere e nel godimento d’un’innocente libertà12. Il bene comune è sempre il fine, ma gli obiettivi da raggiungere per assicurarlo variano a seconda della situazione concreta.

Coniugando l’etica “di settore” al fine della politica ne consegue che l’etica del governante prescrive di tutelare e perseguire il bene comune e cioè l’interesse generale (come – per lo più – denominato nei moderni testi costituzionali).

Il fatto che poi il governante non sia sotto il profilo della morale “privata” uno stinco di santo – e di solito non lo è – è irrilevante (o poco rilevante).

Come scrive Croce in un passo tante volte ripetuto – è “l’ideale che canta nelle anime di tutti gli imbecilli”, di auspicare un governo d’onest’uomini, salvo poi, vistane l’inettitudine a guidare lo Stato, rovesciarlo; perché l’onestà politica “non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze” (il corsivo è mio). Lo stesso Montesquieu nell’Avertissement all’Ésprit de lois, temendo la confusione tra virtù privata e virtù pubblica (assai vicina all’oggetto qui trattato) chiarisce che parla di questa, come la molla (ressort) che da movimento al governo repubblicano.

3.0 Un problema analogo si è presentato, limitandosi all’epoca moderna senza voler risalire nel tempo (giacché se ne legge già nella Farsaglia di Lucano)13, nel contrasto tra norma giuridica e interesse generale o, meglio, “ragion di Stato”. Dove il contrasto più evidente è nello Status mixtus democratico-liberale (o borghese) perché coniugante principi di forma politica con i principi dello Stato borghese di diritto, tra i quali emerge la soggezione alla legge (anche) del potere esecutivo, che renderebbe invalida, se coerentemente applicata, la deroga alla legge. Cosa che potrebbe compromettere la stessa esistenza della comunità politica e dell’istituzione che la mette in forma. Per cui nelle costituzioni borghesi sono previste forme di deroga: dallo stato d’eccezione e dalle rotture costituzionali, fino alle eccezioni della giurisdizione (per gli Acts politiques) e ai giudizi penali speciali (per funzionari e politici). Si sostiene che certe deroghe ledono il principio d’uguaglianza: ma il carattere dell’istituzione politica, come si legge all’inizio dei manuali di diritto pubblico e costituzionale, è che i rapporti relativi sono tra soggetti giocoforza disuguali (per funzione): tra chi ha il diritto di comandare e chi il dovere di obbedire.

Senza tale disuguaglianza non può esistere unità politica, che è in primo luogo, unità del comando e dell’esecuzione.

4.0 Nella contemporaneità, quanto alla morale, è stato affermato che quella derivante dal “pensiero unico” è moralina “un concetto il cui nome rimanda, da una parte, alla morale e, dall’altra, grazie al suffisso impiegato, a tutte quelle sostanze che danno dipendenza, sostanze eccitanti e tossiche come l’anfetamina” il cui effetto è “che contamina queste stesse fonti con un manicheismo capace solo di opporre il bene al male, i buoni ai cattivi, il vero al falso, l’informazione all’intossicazione”14. In Italia accanto – e non ben distinta – dalla moralina, si è affermata, per così dire, la legalina, cioè una concezione della legalità che ne costituisce la caricatura (e spesso la strumentalizzazione).

I fondamenti della legalina sono: la soggezione di tutti alla stessa legge; l’inammissibilità delle procedure di deroga previste dall’ordinamento; la percezione strabica delle stesse deroghe, spesso incidenti su diritti che con la politica hanno meno a che fare, mentre ne hanno con la soggezione a decisioni e prassi burocratiche; la mancata considerazione che quelle deroghe appartengano alla natura dell’istituzione politica, la quale genera un proprio diritto – una propria giustizia, connotati fondamentalmente dell’ineguaglianza tra le parti, cioè la Temi di Hauriou (correlata al droit disciplinaire)15, contrapposta a Dike (correlata al droit commun). Scriveva il giurista francese, in relazione all’aspirazione di voler sottomettere lo Stato al diritto che nell’ordinamento inglese (così privatistico) c’è una prospettiva che inganna (trompe-l’oeil) nell’asserita soggezione degli amministratori pubblici alla legge: lo sono per le piccole cose, ma i grandi affari di governo restano fuori dal diritto16. Per cui questa aspirazione rimane sempre relativamente realizzabile: perché se lo fosse integralmente distruggerebbe l’istituzione (e la comunità). La politica risponde alla massima salus reipublicae suprema lex (l’esistenza politica prevale sul diritto), la giustizia su fiat justitia pereat mundus (fare giustizia a costo dell’esistenza)17.

Tale alternativa è decisiva per le conseguenze che può avere: valutare una scelta secondo criteri politici e non morali porta (spesso) alla distruzione e ancor più frequentemente alla decadenza dello Stato e della comunità: vale sempre il giudizio sulla bontà politica di Machiavelli: “perché un uomo che voglia fare in tutta la parte professione di buono, conviene ruini fra tanti che non sono buoni”. Giustamente Hegel, sosteneva che “lo stato non ha nessun dovere più alto della conservazione di se stesso” e ne deduceva che “E’ un principio noto e risaputo che questo interesse particolare è la considerazione più importante; e non è lecito ritenerla in contrasto con i doveri i diritti o la moralità perché anzi ogni singolo corpo statale, essendo uno stato particolare, è tenuto a non sacrificarsi per un universale dal quale non può aspettarsi alcun aiuto: piuttosto, il principe di uno stato territoriale come il consiglio comunale di una città imperiale hanno il sacro dovere di preoccuparsi del loro territorio e dei loro sudditi18 (il corsivo è mio).

5.0 In particolare la normazione relativa ai migranti del Governo Conte (1), fortemente voluta dall’allora Ministro Salvini, ha offerto una vasta casistica di affermazioni, riconducibili alla legalina. Il cui fondamento esegetico (principale) è trovare una qualche norma (regolamentare, legislativa, costituzionale, interna, internazionale, consuetudinaria, pattizia, eccezionale ecc. ecc.) che possa fornire un appiglio alla tesi preferita.

Il che spesso non è difficile, attesa la pletora di norme. Ma, dato che lo stesso problema si pone in tante interpretazioni giuridiche l’interpretazione preferibile è quella che non contrasta con il sistema, con l’ordinamento. Applicando così due noti principi enunciati in frammenti del Digesto19.

Così è stato affermato da un noto giornalista, che non fermarsi all’alt della guardia costiera è legale, perché il diritto di sbarcare in Italia sarebbe garantito dalla Costituzione (da quale articolo?); altrove si legge che un ex Sindaco ha detto “Nessuno deve evitare un processo se accusato di aver commesso reati e questo deve valere anzitutto per un uomo politico… non ci si deve nascondere dietro i ruoli politici e istituzionali per avere immunità particolari” (e allora la legge sull’accusa ai Ministri dov’è finita?). Ma comunque non è giusto, continua l’ex Sindaco perché “Salvini da Ministro dell’interno ha avuto un comportamento inaccettabile, che io considero un reato a livello umano e morale e anche politico; vedremo se i giudici riterranno che si sia trattato anche di un reato penale” né si può ridurre, sempre a giudizio dello stesso, il problema a questione d’ordine pubblico che è il principale compito del Ministro degli interni (se no, che ci sta a fare?).

Un gruppo di giuriste dell’Università di Torino ha poi equivocato sui fatti affermando che Salvini impediva “azioni umanitarie” (cioè i soccorsi in mare); in realtà, ha solo impedito l’ingresso nelle acque territoriali e i successivi sbarchi nei porti italiani, soggetti (le acque e i porti) alla sovranità nazionale di cui all’art. 1, della Costituzione (come sosteneva, più di due secoli fa, l’abate Galliani – tra gli altri).

Qualcun altro la “butta” sulla distinzione tra legalità e legittimità, anche se vi sono contrapposte opinioni sul punto – essenziale – se l’ex Ministro degli interni stava dalla parte della legalità e della legittimità: coloro i quali pensano che legittimità significhi rispondenza alla volontà del popolo, ritengono che il comportamento dell’ex Ministro sia contrario alla legalità costituzionale. Quelli che concedono che la legalità sia stata rispettata, fanno appello alla legittimità dei valori costituzionali, tirandosi appresso Antigone, i monarcomachi ecc. ecc.

6.0 In un contesto confuso, tra moralina e legalina e svariate opinioni sulle medesime, c’è da chiedersi se politico “morale” sia chi rispetta i dettami della morale privata (e della legge) o colui che provvede in vista del bene comune.

Non v’è dubbio che aveva ben visto Hegel per il quale preoccuparsi del territorio e dei sudditi è un sacro dovere (v. sopra); così Croce il quale faceva coincidere l’onestà politica (cioè il perseguimento del bene) con la capacità politica e non con l’essere l’uomo politico pio e morigerato. E con l’aver ancorato la politica e lo Stato all’utile, al vivere (e al buon vivere) cioè all’esistente prima che al normativo.

Ad applicare tale criterio, l’uomo a cui si addice di più appare proprio il leader della Lega e non i moralisti e legalisti salmodianti in politicamente corretto. Con un’avvertenza: che la capacità politica non si giudica sulla conformità a buone intenzioni, ma al raggiungimento dei risultati auspicati: per averla occorre, come sostiene Machiavelli, tanta virtù (politica) cioè prudenza e intelligenza delle situazioni necessarie a battere l’avversa fortuna. Da questo e non solo dall’intenzione di seguire l’interesse pubblico (che ne è la premessa necessaria) si misura.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 La quale, a parte la propaganda, è altrettanto possibile che abolire la legge di gravità, essendo la politica connaturale all’uomo come diceva già Aristotele (zoon politikon) e ribadito da tanti, tra cui Freund con la sua teoria delle essenze. Resta da dimostrare se proprio perché l’uomo ne ha diverse, può fare a meno di qualcuna. Ora il politico, ora l’etico, ora l’economico e così via.

2 “La politica, che è e non può essere schietta politica, non distrugge ma anzi genera la morale, nella quale è superata e compiuta. Non c’è nella realtà una sfera dell’attività politica o economica che stia da sé, chiusa e isolata; ma c’è solo il processo dell’attività spirituale, nel quale alla incessante posizione delle utilità segue l’incessante risoluzione di esse nell’eticità” , v. Etica e politica, Bari 1931, p. 228.

3 Op. loc. cit.

4 “Non vita morale, se prima non sia posta la vita economica e politica; prima il «vivere» (dicevano gli antichi), e poi il «ben vivere». Ma altresì non vita morale che non sia insieme vita economica e politica, come non anima senza corpo”

5 Scrive Weber “ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo l’«etica della convinzione» oppure secondo l’«etica della responsabilità». Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuol certo dir questo. Ma v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione la quale – in termini religiosi – suona: «il cristianesimo opera da giusto e rimette l’esito nella mani di Dio», e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni” v. Politik als Beruf, trad. it. di A. Giolitti ne Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1966, p. 109.

6 Weber delinea nel prosieguo alcuni tratti, in ispecie di chi segue l’etica della convinzione. Il rifiuto relativo della forza, a meno che non giustificata dalla santità dei fini. La non accettazione (almeno parziale) della realtà perché “non sopporta l’irrazionalismo del mondo; il rifiuto del paradosso delle conseguenze (Freund), cioè che buone azioni possano provocare il male (e viceversa). Ossia il contrario, dice Weber, di quanto credono tutte le religioni della terra, col problema fondamentale della teodicea (op. cit. p. 112). Già i primi cristiani, scrive “sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo”.

7 Op. cit., p. 116; per un esame sommario della teologia politica cristiana si rinvia ai miei articoli Meglio Callicle, in Behemoth n. 24 e Tangentopoli tra politica morale ed etica politica in Behemoth n. 23.

8 E prosegue “Il risultato da lui effettivamente raggiunto in siffatte condizioni del suo agire non è rimesso alla sua volontà, bensì gli è prescritto dai motivi – per lo più eticamente scadenti – ai quali s’ispira l’azione dei suoi seguaci… però questa fede, anche se soggettivamente sincera, è in gran parete dei casi semplicemente la «legittimazione» etica della brama di vendetta, di potenza, di bottino e di prebende”, op. cit., p. 116.

9 Op. cit., p. 118.

10 v. L’essence du politique, Paris 1965, p. 751.

11 op. cit., p. 651. Freund afferma di seguire la concezione di Hobbes (in effetti risente anche del pensiero di M. Hauriou), e sottolinea come nel corso dei secoli lo stesso concetto sia stato denominato con diverse espressioni.

12 op. cit., p. 652.

13 Nel consiglio dato da Plotino a Tolomeo di non proteggere Pompeo, fuggiasco in Egitto “«lus et fas multos faciunt, Ptolomaee, nocentes; dat poenas laudata fides, cum sustinet» inquit «quos fortuna premit. Fatis accede deisque et cole felices, miseros fuge. Sidera terra ut distant et flamma mari, sic utile recto. Sceptrorum vis tota perit, si pendere iusta incipit, evertitque arces respectus honesti. Libertas scelerum est, quae regna invisa tuetur, sublatusque modus gladiis. Facere omnia saeve non inpune licet, nisi cum facis. Exeat aula qui vult esse pius. Virtus et summa potestas non coeunt »”. E Pompeo, di conseguenza, fu ucciso con l’inganno. Nel consiglio dell’eunuco c’è l’antitesi tra interesse dello Stato e l’uso di dare asilo “politico”.

14 v. M. Onfray Teoria della dittatura, Milano 2020, p. 198.

15 Su questa e sulla situazione inegualitaria – spesso deprecabile – della giustizia nei confronti delle pubbliche amministrazioni, mi sia consentito rinviare al mio scritto Temi e dike nel tramonto della Repubblica in rete (v. Italia e il mondo).

16 v. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 100.

17 Sul punto v. Radbruch Propedeutica alla filosofia del diritto, Torino 1959, p. 116.

18Verfassung Deutschlands” trad. it. – in “Scritti politici” pag. 90-91, Torino 1974.

19 Incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita judicare vel respondere, e Scire leges non est verba earum tenère, sed vim ac potestatem, , ambedue di Celso.

Mali: serve un cambio di paradigma, di Bernard Lugan

Scrivo da anni che nel nord del Mali il problema non è principalmente quello dell’islamismo, ma quello dell’irredentismo tuareg. Questo dato a lungo termine, radicati nella notte dei tempi, si sono manifestati dal 1962 attraverso periodiche risorgenze [1] . Secondo l’equilibrio di potere del momento, si esprime sotto varie bandiere. Oggi è sotto quello dell’islamismo.
Avendo trascurato i loro consiglieri di tener conto del peso dell’etno-storia, i leader francesi definirono una politica nebbiosa confondendo gli effetti e le cause. Da qui l’attuale impasse strategico da cui è tanto più difficile districarsi poiché l’equilibrio di potere locale è cambiato. Infatti, i suoi “emiri” algerini sono stati uccisi uno dopo l’altro da Barkhane, Al-Qaeda-Aqmi non è più governata localmente da stranieri, ma dal tuareg Iyad ag Ghali. Tuttavia, e come avevo anche annunciato, questi ultimi finirono per prendere il controllo delle varie fazioni Tuareg per un periodo ufficialmente e artificialmente rivali. L’accoglienza personale che ha riservato a Kidal ai “jihadisti” recentemente rilasciati ha mostrato in modo eloquente che il nord del Mali è ora sotto il suo controllo.
È quindi con questa nuova realtà in mente che vanno analizzate e comprese le dichiarazioni del 14 ottobre dell’AQIM e del GSIM ( Support Group for Islam and Muslims ), due falsi nasi di Iyad ag Ghali, chiedendo la partenza di Barkhane attraverso la retorica bellicosa sulla lotta contro i “crociati”. Tuttavia, è soprattutto una nuvola di fumo destinata a non lasciare il campo aperto all’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) affiliato a Daesh e il cui leader regionale è Adnane Abou Walid al-Saharaoui, un arabo marocchino della tribù Réguibat. Questo ex quadro del Polisario, accusa di tradimento Iyad ag Ghali per aver privilegiato la rivendicazione Tuareg attraverso trattative con Bamako e ciò, a scapito del califfato transetnico per ingombrare gli attuali stati saheliani.
A meno che non si scelga deliberatamente la via dello stallo, questi recenti cambiamenti costringeranno i responsabili delle decisioni francesi a rivedere molto rapidamente le missioni di Barkhane. Altrimenti la guerra al nord si riaccenderà inevitabilmente e dovremo quindi affrontare un fronte aggiuntivo, quello dei Tuareg. Inoltre, poiché la “legittimità” del nostro intervento è diventata almeno “incerta” dopo il colpo di stato di Bamako lo scorso agosto, è quindi tempo di porre la questione della nostra strategia regionale nella SBS. (Banda sahelo-sahariana).
Si distinguono tre aree, ognuna delle quali merita un trattamento speciale:

– Nel nord del Mali dove, politicamente e militarmente, non abbiamo nulla da difendere, l’errore sarebbe quello di continuare a persistere in un’analisi basata sullo slogan artificiale della lotta al “terrorismo islamista” e di cui l’unico risultato sarebbe l’apertura delle ostilità con i Tuareg. In queste condizioni, poiché l’Algeria considera il nord del Mali come il suo cortile, lascia che i suoi servizi si adattino alle “sottigliezze” politiche locali, cosa che faranno tanto più facilmente perché non saranno paralizzati da i “vapori” umanitari che impediscono qualsiasi azione reale ed efficace sul terreno …

– La regione dei “tre confini” presenta un caso diverso perché è la chiusa del Burkina Faso e più a sud quella dei paesi costieri, compresa la Costa d’Avorio, con cui abbiamo accordi. Il nostro sforzo deve quindi concentrarsi lì attraverso il sostegno dato agli eserciti del Niger e del Burkina Faso.

– La regione del Ciad in senso lato, perché dobbiamo includere il Camerun e la Repubblica centrafricana, è una futura ampia zona di destabilizzazione. Ecco perché deve essere guardato con la massima attenzione. È quindi imperativo rafforzare la nostra presenza militare lì.

[1] Sono evidenziati e sviluppati nel mio libro Les guerres du Sahel des origines à nos jours .

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

La crisi pandemica in Italia_ con il dottor Giuseppe Imbalzano

Una lunga conversazione con il dottor Giuseppe Imbalsano. Si discute della gravità della crisi pandemica e delle modalità con le quali viene e dovrebbe essere affrontata. Le dinamiche politiche e geopolitiche rimangono nello sfondo; continueranno ad essere affrontate in altri articoli. La conversazione offre numerosi elementi per poterle individuare fondatamente secondo i vari punti di vista. Il dottor Imbalzano è medico, manager di aziende sanitarie e consulente; uno dei maggiori esperti nel settore. Ha scritto numerosi saggi e libri. Qui sotto alcuni link propedeutici alla intervista:

https://statisticallearningtheory.wordpress.com/2020/10/24/previsioni-covid-19-di-ricoveri-terapie-intensive-e-decessi-23-ottobre-15-novembre-2020/

https://www.valigiablu.it/scienza-etica-immunita-gruppo/

https://tg24.sky.it/cronaca/2020/10/24/covid-previsioni-contagi-ricoveri-terapie-intensive#06

dpc-covid19-ita-scheda-regioni-latest – 2020-10-23T170541.747

Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Responsabilità e dilemmi, di Andrea Zhok e Antonio de Martini

RESPONSABILITA’, di Andrea Zhok
Il quadro di evoluzione della pandemia in Italia e il DPCM in fase di elaborazione sollecitano alcune brevi riflessioni sulla questione delle responsabilità civili, a vari livelli.
1) In primo luogo, una considerazione la merita il ruolo delle regioni. Finora tutte le regioni avevano la facoltà di intervenire in forme più restrittive di quelle blande promosse a livello centrale. Questa opzione era coerente con l’idea, costantemente rivendicata dai presidenti di regione, secondo la quale essi avrebbero il polso della situazione locale e potrebbero prendere decisioni consone. Ma curiosamente (con l’eccezione del talentuoso cabarettista che guida la regione Campania), nessun presidente di regione è intervenuto restrittivamente, modulando in forme specifiche e selettive gli interventi, se non in misura omeopatica.
Anzi, al contrario, tutte le regioni sollecitano il governo centrale ad intervenire per ‘coordinare gli interventi’.
Ma questo sollecito in verità esprime un desiderio molto più semplice: i presidenti delle regioni vogliono che a loro sia lasciato il ruolo del ‘poliziotto buono’.
Vogliono che sia lo stato centrale a fare la faccia feroce, mentre, agli occhi dei propri elettori, loro vestono i panni di chi si batte per preservarne la libertà.
Si tratta di un gioco di deresponsabilizzazione alquanto vile, con tanti saluti alle ciance sulle autonomie regionali: l’autonomia la vogliono quando si tratta di spendere, ma quando si tratta di sporcarsi le mani con assunzioni di responsabilità, allora si ritirano su postazioni protette.
2) Se le regioni hanno torto, non è che il governo centrale abbia ragione. Gli interventi che si profilano nel DPCM sono come al solito tagliati con l’accetta e ispirati da un’approssimazione che solo la perenne emergenzialità può cercar di nascondere.
Le aree in cui il governo poteva e doveva intervenire direttamente erano una principale, e due di rincalzo.
Innanzitutto si doveva portare subito in remoto tutto quanto era possibile portare in remoto della pubblica amministrazione, oltre che delle scuole superiori e dell’università. Questo intervento da solo avrebbe ridotto drasticamente gli spostamenti nei mezzi pubblici, che sono certamente il principale veicolo di diffusione del virus.
In tutti e tre questi comparti, un po’ di preparazione (in gran parte già fatta in occasione della prima ondata) avrebbe consentito di svolgere questi servizi con una perdita di efficacia tutt’al più modesta.
Ma rispetto a questa prospettiva ha avuto la meglio una componente squisitamente ideologica, in cui, le invettive di Confindustria contro la pubblica amministrazione neghittosa che sta a casa, e le paranoie sulla sostituzione definitiva dell’insegnamento pubblico con forme telematiche hanno avuto la meglio.
Interventi collaterali a questi dovevano essere l’intensificazione del trasporto pubblico e della medicina territoriale. Trattandosi di interventi massivi, non potevano essere implementati abbastanza da essere decisivi, ma qualcosa di più poteva essere fatto.
Così, invece di predisporre (anche sul piano normativo, oltre che tecnico) un buon sistema di didattica a distanza, ed un efficiente sistema di erogazione del lavoro in remoto, (abbinato ad incremento del trasporto pubblico e di medici sul territorio) si è preferito puntare i piedi proclamando d’ufficio il ‘ritorno alla normalità’.
E se la realtà non è d’accordo, tanto peggio per la realtà.
Invece di questo tipo di soluzioni, semplicemente pragmatiche, si finirà per chiudere forzosamente e a tappeto bar, ristoranti, palestre, piscine, ecc. anche quando sono stati ligi ai protocolli, e anche in regioni in cui la circolazione del virus è relativamente bassa (ci sono regioni in cui le percentuali di positività sono un terzo o un quarto di altre).
Così, alla faccia del richiamo alle ‘responsabilità individuali’ e alle ‘specificità dei territori’, si farà il solito taglio lineare che dimostra solo la pochezza e imprevidenza di un ceto politico.
3) Infine, quanto alle responsabilità individuali, una parola va spesa nei confronti di tutti quelli che in questi mesi hanno giocato la partita della minimizzazione. Tutti questi, e sono tanti, che con i loro argomenti farlocchi hanno alimentato comportamenti sciatti e incauti (in particolare tra i giovani, passabilmente certi di non correre comunque seri rischi), questi che hanno persino promosso l’idea del ‘contagio terapeutico’ (variante dell’immunità di gregge) magari finendo per contagiare altri, quando non per finire essi stessi ad occupare un letto d’ospedale, ecco tutti questi sono corresponsabili della situazione emergenziale attuale.
Essi hanno remato nella stessa direzione che ora porta all’intasamento dei pronto soccorso e dei ricoveri, tirando con la loro stupefacente ottusità la loro palata di terra sulla salma del paese.
Ecco, tutti questi, se avessero pudore, dovrebbero soltanto e definitivamente uscire in silenzio dal dibattito pubblico per non farvi più ritorno.
SCEGLIERE TRA SALUTE E ORDINE PUBBLICO ?, di Antonio de Martini
Temo che la gente non abbia capito a cosa serva la QUARANTENA e il termine americano LOCKDOWN non abbia semplificato la situazione.
A questo, si aggiunge una banda di pubblici amministratori e imbonitori sanitari che hanno drammatizzato i fatti distorcendoli vieppiù per valorizzare le proprie persone/funzioni/trasmissioni.
La Quarantena è l’unico strumento a disposizione per difenderci ( relativamente) dal contagio e mantenere efficiente ( relativamente) il servizio sanitario nazionale scaglionando gli afflussi alle terapie intensive.
Se le terapie intensive si intasano, il pericolo di morte dei contagiati diventa certezza.
Il fatto che esistano piu numerose cause INELUDIBILI di morte non ha senso.
Se la morte – anche di pochi – è eludibile, va rimandata, altrimenti la società civile non ha motivo di esistere. A morire da soli siamo buoni tutti.
La Svizzera ci ha forse preceduti di poco decidendo di non ammettere più gli anziani ( della mia età) in terapia intensiva per riservare i non sufficienti letti a disposizione a chi ha ( relativamente) maggiori probabilità di sopravvivenza.
Sta accadendo quel che è successo durante la grande crisi finanziaria: si cercò anzitutto di salvare il sistema bancario indispensabile a mantenere in funzione una società civile.
Analogamente, senza un sistema sanitario generale, salterebbe ogni forma di pacifica convivenza civile.
Le avvisaglie affiorano: la selezione alla dottor Mengele tra gli “ atti alla vita” e no ; il ribellismo dei lazzaroni napoletani e la convocazione del Consiglio Supremo di Difesa al Quirinale con un ordine del giorno surreale.
Se guardate il sito della Unione Europea sul COVID19 le statistiche di tutti i paesi, potrete fare un collegamento tra la credibilità di ogni singola classe dirigente e i risultati di morte.
Dove i dirigenti sono rispettati, credibili e sinceri, i contagiati e i morti sono di meno ( sotto il famoso 1%) e il SSN regge.
Dove la direzione è carente, insincera, pulcinellesca e pretesca il sistema va verso la crisi.
Se la gente non comprerebbe un auto usata da costoro, come volete che li creda capaci di sottrarci alla morte e all’impoverimento dei superstiti ?
La comunicazione sia univoca e affidata a veri portavoce professionali e i politici siano banditi dalle TV su questi temi.
Si dica la verità senza infingimenti , si usino i militari come cervelli esperti in sopravvivenza e non come becchini, spazzini o protettori di incapaci e la crisi rientrerà entro parametri gestibili.
UN MIO COMMENTO _ Giuseppe Germinario

Allo scaricabarile ha partecipato ampiamente anche il Governo Centrale sin dall’inizio della crisi ma con una aggravante: i governi regionali sono in realtà dei centri di spesa e di amministrazione. La deresponsabilizzazione è quindi consustanziale e su quello, con poche eccezioni si è formato il personale politico che poi di solito assurge ad incarichi nazionali. Il Governo no; ha la piena responsabilità gestionale sia pure all’interno del disastro istituzionale ormai venuto alla luce non a caso in una situazione di crisi gravissima anche se non ancora catastrofica. Stasera pubblicherò una videointervista al dottor

Giuseppe Imbalzano

che offrirà qualche ulteriore spunto di riflessione

PARADOSSO, di Roberto Buffagni

E’ comica la nostra epoca, la più fissata con il cambiamento di tutta la storia umana, e la meno dotata delle capacità intellettuali e morali di cambiare alcunché.

ASCOLTATE QUESTO INTERVENTO. PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA PARTE CONCLUSIVA

NB_ tratti da facebook

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA, di Giuseppe Angiuli

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA

DOPO UN PERIODO DI CRISI E DESTABILIZZAZIONE

 

A sinistra Luis Arce, nuovo Presidente della Bolivia e già ministro dell’Economia nei Governi a guida di Evo Morales

A destra nella foto, il nuovo vice-Presidente David Choquehuanca

 

Le elezioni presidenziali tenutesi in Bolivia domenica 18 ottobre 2020 hanno visto la chiara vittoria senza contestazioni di Luis Arce Catacora, candidato del M.A.S. – I.P.S.P. (Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos), ministro di lungo corso nei governi diretti dell’ex Presidente Evo Morales.

Luis Arce, economista di solida formazione teorica, guiderà il Paese per i prossimi cinque anni e sarà affiancato dal suo vice David Choquehuanca, storico lìder dei movimenti contadini indigeni del Paese e già ministro degli Esteri con Evo Morales.

Queste ultime elezioni si sono celebrate in un clima di forte polarizzazione nel Paese andino e sono giunte al termine di un periodo di circa un anno contraddistinto da grande incertezza ed instabilità politica, dopo che l’ex Presidente Evo Morales (rimasto saldamente alla guida della Bolivia dal 2006 fino al 2019) era stato costretto a dimettersi a novembre dello scorso anno, appena dopo avere apparentemente vinto per la quarta volta consecutiva le elezioni presidenziali e quando le aspre contestazioni di piazza, unitamente alle pressioni dei vertici di Polizia e dell’esercito, lo avevano costretto alla fuga all’estero.

A partire dalla prima vittoria elettorale alla fine del 2005 di Evo Morales – soprannominato el indio, storico sindacalista dei contadini che abitano i vasti altipiani del Paese e primo Presidente indigeno (di etnia haymara) ad ascendere ai vertici di una nazione sud-americana – la Bolivia aveva imboccato un percorso politico di netta inversione di marcia rispetto al suo lungo passato di dominio coloniale ed aveva fornito un suo contributo decisivo al processo politico di integrazione continentale con gli altri Paesi del cono sur delle Americhe.

La Bolivia ha inscritta nel suo stesso nome tale propensione verso l’ideale dell’unità politica del sub-continente indio-latino e non per caso, circa due secoli fa, la nazione per un breve periodo era stata battezzata República de Bolívar, con un espresso riferimento alla figura mitica del libertador Sìmon Bolívar.

Anche in virtù del solido rapporto di amicizia che lo legava al compianto lìder venezuelano Hugo Chavez, Evo Morales non aveva avuto dubbi nel condurre la Bolivia all’interno del blocco dei Paesi latino-americani contraddistinti dal più enfatico radicalismo anti-U.S.A. e riuniti nell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América).

Da tale percorso politico, la Bolivia aveva tratto una forte spinta all’emancipazione dalla storica piaga del sottosviluppo e aveva saputo intraprendere con efficacia un programma di massiccia redistribuzione dei proventi delle sue copiose ricchezze naturali e minerarie, consentendo forse per la prima volta dopo secoli, alle componenti più povere della sua società, di riscattarsi socialmente e di recuperare un diffuso spirito di fierezza e dignità.

Alla base dell’azione politica di Evo Morales e del Movimiento al Socialismo (un movimento politico da lui stesso fondato nel 1997) vi è sempre stata una miscela ideologica sincretica data dalla fusione di alcuni principi del marxismo classico con gli storici ideali del nazionalismo indigeno latino-americano: nella comunicazione politica del M.A.S., assume da sempre una consueta centralità il richiamo alla necessità di recuperare una piena sovranità del popolo boliviano rispetto alle entità straniere che storicamente lo hanno sottomesso e umiliato, depredandolo delle sue risorse umane e materiali.

L’avvento di Morales alla Presidenza aveva dunque segnato un complessivo rovesciamento del paradigma di rappresentanza degli interessi interni al Paese, avendo egli messo al centro del suo programma per la prima volta i diritti delle popolazioni rurali di origine dell’altopiano andino – in particolare le rivendicazioni dei piccoli poveri contadini cocaleros, ossia i coltivatori di coca, una pianta tipica della cultura andina – e non più gli interessi delle componenti elitarie di etnia bianca indo-europea, da lungo tempo assolute dominatrici nella conduzione della politica e del modello economico  estrattivista del Paese.

Erano state proprio queste elites bianche di origine europea, molto presenti soprattutto nell’area industrializzata della città di Santa Cruz de la Sierra e da sempre assai legate agli U.S.A., a non digerire fin dal primo istante l’ascesa di Morales alla più alta carica governativa del Paese nel 2006: fin da quel momento, le classi dirigenti di quella ricca regione dell’est della Bolivia avevano pertanto dato vita ad una forte conflittualità e ad una radicale delegittimazione delle scelte del Governo centrale di La Paz, non mancando di alimentare anche delle pericolose spinte secessioniste.

Evo Morales, Presidente della Bolivia dal 2006 al 2019

 

Il primo evento di grande impatto simbolico che aveva suggellato l’avvio del nuovo corso della Bolivia era stato senz’altro l’avvento della nuova carta costituzionale nel 2009, allorquando il Paese aveva assunto per la prima volta la denominazione di Stato plurinazionale di Bolivia, a testimonianza della composizione pluri-etnica e del carattere multi-culturale della sua popolazione[1].

Con lo storico passaggio a tale nuova dominazione ufficiale dello Stato e con l’approvazione della nuova Costituzione indigenista (che presenta non pochi punti di contatto con le coeve nuove carte costituzionali adottate da Venezuela ed Ecuador), la nuova Bolivia di Morales aveva dunque segnato il riconoscimento della sua natura di Stato di diritto unitario, plurinazionale e comunitario fondato sul pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico.

 

Non per caso, fin dai suoi primi articoli la nuova carta costituzionale del 2009 menziona espressamente le nazioni e i popoli indigeni quali originari abitanti della Bolivia pre-coloniale e sancisce il diritto di tali componenti autoctone alla conservazione di alcune sfere intangibili di autonomia politico-amministrativa, al mantenimento della loro cultura originaria e ad esercitare delle forme di autogoverno tramite il riconoscimento di istituzioni proprie e tramite il consolidamento di entità territoriali autonome pur nel quadro di una pacifica convivenza all’interno dell’unità statale.

In altri passaggi della stessa magna carta, non manca una espressa consacrazione del diritto inalienabile delle comunità autoctone alla proprietà collettiva sulle terre ancestrali.

Come è tristemente noto, i percorsi rivoluzionari ispirati da una forte spinta ideologica di stampo egualitario  partono quasi sempre con degli ottimi propositi ma molto spesso – non soltanto alle latitudini latino-americane –  non riescono a raggiungere gli auspicati risultati in termini di benessere e sviluppo economico.

Anche in tempi recenti, altre esperienze di Governo delle sinistre in America Latina – tra tutte il Venezuela e il Brasile – a dispetto dei proclami enfatici di marca anti-imperialista, non sono state in grado di promuovere la nascita di nuovi modelli di sviluppo efficienti e dalle gambe solide.

Viceversa, nel caso della Bolivia di quest’ultimo quindicennio, pur senza volere indulgere verso qualsiasi atteggiamento di faziosità ideologica, è lecito senz’altro affermare che l’esperienza dei Governi a guida socialista non aveva oggettivamente deluso le attese anche sul terreno socio-economico, facendo conseguire al Paese degli indici di sviluppo e di crescita economica – pari a circa il 5% annuo in media – davvero invidiabili e che trovano difficilmente un riscontro all’interno di analoghi contesti nazionali dei Paesi latino-americani di questo XXI° secolo.

Nello stesso periodo, secondo i dati generalmente accettati dalla comunità internazionale e dalle principali testate giornalistiche del globo, i governi a guida del M.A.S. erano riusciti a mantenere sotto controllo sia l’inflazione che il tasso di disoccupazione e inoltre erano stati in grado di ottenere una drastica riduzione dell’indice di povertà interno al Paese: sotto quest’aspetto, è significativo ricordare che nel giugno del 2015, in occasione della 39^ Conferenza Generale della F.A.O. (organismo delle Nazioni Unite che si occupa di elaborare programmi per l’alimentazione e per lo sviluppo dell’agricoltura), il Governo boliviano era stato insignito del riconoscimento ufficiale per avere saputo ridurre di più della metà il dato percentuale della popolazione sotto-alimentata, che era passato dal 34% al 15% prendendo in esame un periodo compreso tra il 1990 ed il 2015.

Il celebre incontro tra Evo Morales e Papa Bergoglio nel 2015

 

Altrettanto significativo e per certi versi clamoroso era stato il riconoscimento pervenuto in tempi non sospetti ai governi socialisti a guida di Morales – che avevano visto proprio nell’attuale neo-Presidente Arce lo stratega della crescita economica nella sua qualità di ministro per l’Economia – perfino dalle colonne del Wall Street Journal, che nel 2014 aveva definito Luis Arce «il principale architetto del risorgimento economico del Paese»[2].

Tra le più significative misure di marca anti-liberista adottate negli anni di Governo a guida di Evo Morales va senz’altro segnalata la nazionalizzazione non solo dei giacimenti di gas naturale e di idrocarburi ma anche delle riserve di preziosi minerali e metalli strategici come litio, stagno e cobalto, oltre alla completa ri-pubblicizzazione delle risorse idriche del Paese, che prima dell’avvento dei governi di marca socialista erano finite anch’esse nel mirino delle società multinazionali, dando vita ad un forte rincaro dei costi di accesso all’acqua e così scatenando la protesta di ampie fasce del popolo boliviano.

L’immenso deserto di sale Salar de Uyuni in Bolivia, la più grande riserva di litio al mondo

 

Nel 2016, Evo Morales aveva provato a fare approvare con referendum consultivo una modifica alla Costituzione con l’obiettivo di consentire a se stesso di lanciarsi in una quarta ricandidatura consecutiva alle elezioni presidenziali (non permessa dalla magna carta da lui stesso promossa).

In quell’occasione, il popolo boliviano, votando a maggioranza per il NO al referendum costituzionale, aveva inviato al lìder un chiaro messaggio di presa di distanza dalla deriva auto-referenziale del suo potere personale.

Nell’occasione, si era registrato l’errore politico più evidente di Evo Morales, forse dettato da un suo eccesso di sicurezza e di spavalderia: il Presidente indio, anziché accettare di buon grado il responso dell’elettorato, aveva inaspettatamente forzato la mano, rivolgendosi alla Corte Suprema della Bolivia, dinanzi alla quale era riuscito a fare affermare il discutibile principio per cui il diniego alla sua possibilità di ri-presentarsi ancora una volta alle elezioni presidenziali avrebbe costituito una presunta «violazione dei suoi diritti umani» (sic).

Questa inaccettabile forzatura costituzionale aveva costituito la più imperdonabile delle sviste per Evo Morales ed aveva messo a rischio il funzionamento dei meccanismi di partecipazione democratica nel Paese, facendolo scivolare verso forme di caudillismo nella sua accezione deteriore (una strada già tristemente seguita dall’attuale Venezuela di Maduro).

Un vero peccato per il Presidente indigeno il quale, pure avendo bene governato per circa un quindicennio, non aveva saputo resistere alle tentazioni personalistiche e col suo comportamento aveva purtroppo creato un primo serio vulnus nel rapporto di fiducia fino ad allora sapientemente instaurato con la maggioranza della popolazione boliviana.

Morales in compagnia di Hugo Chavez e Rafael Correa

 

 

Alle elezioni presidenziali del 20 ottobre 2019, Morales si era dunque ri-presentato agli elettori provando ad essere ri-eletto per la quarta volta consecutiva.

Al termine del processo di conta dei voti, che aveva subito un andamento anomalo per via di alcuni poco facilmente spiegabili rallentamenti, secondo i dati diffusi dal C.N.E. (Consiglio Nazionale Elettorale) il Presidente uscente avrebbe conseguito il 47,08% dei voti contro il 36,51% del suo principale rivale e con tale scarto di voti, superiore al 10% dei votanti, non ci sarebbe stato bisogno di celebrare un secondo turno di ballottaggio ma Morales sarebbe stato rieletto Presidente al primo turno per la quarta volta consecutiva.

A quel punto, la sua controversa quarta proclamazione come Presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia non era stata riconosciuta dalle opposizioni che, forti del sostegno esterno di Luis Almagro e della Organizzazione degli Stati Americani (O.S.A.) da lui presieduta, avevano presto incitato alla rivolta di piazza, da cui era scaturito un clima di forte polarizzazione dello scontro politico, con scontri violenti nelle principali città del Paese andino che in pochi giorni avevano provocato almeno alcuni morti e diverse centinaia di feriti.

In seguito, in un clima di aspra contestazione del risultato che non accennava a placarsi, a convincere Evo Morales ad annunciare il 10 novembre 2019 le sue dimissioni dalla carica presidenziale, aveva assunto una valenza decisiva la pressione esercitata su di lui dai vertici delle Forze Armate e della Polizia, che avevano disconosciuto la validità della sua rielezione, mettendo così in atto, in forme analoghe a quanto già avvenuto nella storia più recente dei Paesi dell’America Latina, una sorta di Golpe morbido istituzionale.

Al momento di lasciare il suo Paese per rifugiarsi momentaneamente in Messico e per poi stabilirsi in Argentina, Evo Morales aveva denunciato al mondo di essere stato costretto a rinunciare alla sua carica a causa di un «colpo di Stato».

 

Un’immagine delle proteste di piazza in Bolivia dopo la deposizione di Evo Morales nel novembre 2019

 

 

La defenestrazione repentina di Evo Morales – come detto, senza dubbio favorita da un suo evidente errore politico – si era inserita in un vasto disegno di destabilizzazione dell’arco dei Governi progressisti dell’America Latina messa in agenda in questi ultimi anni dal Dipartimento di Stato U.S.A., con l’obiettivo di disarticolare quel processo di integrazione politica su base continentale che aveva preso vita nel primo decennio di questo secolo sotto il decisivo impulso del compianto Presidente venezuelano Hugo Chavez.

Nel corso del mandato presidenziale di Donald Trump alla Casa Bianca, l’amministrazione in carica a Washington, quantunque abbia sposato in molti casi un approccio più soft alla sua politica estera in aree lontane come il medio oriente e la Corea del Nord, ha palesato la consapevolezza sulla necessità di riassumere al più presto possibile il pieno controllo politico di quell’ampia area compresa tra il fiume Río Bravo e la Patagonia e che già 2 secoli fa veniva ufficialmente considerata dall’establishment U.S.A. come il proprio «backyard» («il cortile di casa»), secondo una celebre definizione data dal Presidente James Monroe nel 1823.

James Monroe, Presidente degli Stati Uniti d’America tra il 1817 e il 1825

 

Se tale esigenza di asservimento geopolitico dell’intera America Latina ha costituito da sempre un punto irrinunciabile per la proiezione imperiale degli U.S.A., tanto più la riassunzione di un pieno controllo sul subcontinente latino-americano ha necessitato di essere ribadita con forza in questi ultimi tempi, quando i consiglieri più in sintonia con Trump – sul punto in dissenso con i vertici del Pentagono – si sono convinti della insostenibilità per gli Stati Uniti della compresenza di troppi fronti di guerra in giro per il globo e sulla conseguente inevitabilità di un parziale e progressivo rientro a casa delle forze armate regolari già dislocate in alcune aree-chiave del pianeta (Siria e Afghanistan su tutte).

Sta di fatto che la netta vittoria popolare alle elezioni in Bolivia del 20 ottobre 2020 del nuovo Presidente socialista Luis Arce, successore espressamente designato da Evo Morales (oggi ancora in esilio in Argentina), sta a dimostrare che per gli U.S.A. forse è ormai davvero finito il tempo in cui in una qualsiasi nazione dell’America Latina bastava registrare una qualche sintonia di intenti tra i vertici dell’esercito e una ristretta elite indo-europea per sequestrare la volontà di un intero popolo, ancorchè questo fosse desideroso di voltare pagina: in questo senso, gli esempi di Governi filo-U.S.A. impostisi in America Latina nel secolo scorso per il semplice volere di falchi come Henry Kissinger sono innumerevoli, a cominciare dalla triste dittatura militare nel Cile di Augusto Pinochet.

 

Il popolo boliviano – che ha dovuto attendere quasi un anno per poter tornare ad esprimersi nelle urne, dopo che le elezioni già fissate al 3 maggio 2020 erano poi state rinviate per l’emergenza sanitaria da Covid –  avendo tributato dei generosi consensi pari al 52% a favore di Luis Arce, con circa 20 punti di distacco dal principale sfidante di destra, ha senza dubbio inteso esprimere un forte desiderio di continuità con le politiche anti-liberiste e di segno integrazionista che avevano contraddistinto quasi un quindicennio di azione politica di Evo Morales.

Vista la profonda sintonia di vedute tra il neo-Governo progressista boliviano e quelli dello stesso orientamento politico già al potere in Argentina e in Messico, adesso il quesito che resta da sciogliere è quale futuro attende il continente latino-americano, alla luce di un quadro politico alquanto variegato e composito, che ad oggi contraddistingue l’intera regione a sud del Rìo Bravo.

 

 

Giuseppe Angiuli

[1] All’articolo 8 della nuova Costituzione dello Stato plurinazionale di Bolivia, si legge: «Lo Stato si fonda sui valori di unità, uguaglianza, inclusione, dignità, libertà, solidarietà, reciprocità, rispetto, complementarità, armonia, trasparenza, equilibrio, pari opportunità, uguaglianza sociale e di genere nella partecipazione,
benessere comune, responsabilità, giustizia sociale, distribuzione e ridistribuzione dei
prodotti e beni sociali, per vivere bene
».

[2] Cfr.  l’articolo a firma di John Otis, «Luis Alberto Arce, l’uomo dietro il successo di Evo Morales», The Wall Street Journal, 9 ottobre 2014.

 

LA COLPA E LA PAURA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA COLPA E LA PAURA

Da quando il Covid-19 ha riportato il dibattito pubblico alla realtà dell’esistenza, fatta di buona e cattiva sorte, di guerre, pestilenze, terremoti, alluvioni, come di pace, benessere, bel tempo e buona salute, tutte cose ottenute grazie al progresso e al buon governo (??), l’argomento onde spiegare (e addossare) le responsabilità della mala sorte è che i governati sarebbero confusi dal sentimento della paura; quello occultato è che sono condizionabili da quello di colpa. Cose ambedue affermate già da Thomas Hobbes.

La prima, la paura, è nota; l’antropologia del filosofo inglese si basa sul potere dell’uomo di uccidere il proprio simile (e sulla frequenza con la quale avviene) e sulla conseguente necessità di creare un’istituzione che protegga la vita degli associati: contratto sociale, obbligazione politica, sovranità, comando e obbedienza ne sono i derivati coerenti.

Ma di ciò, della coerenza delle conclusioni alla premessa (il sentimento di paura per la propria vita) se ne sta facendo un’arma politica; sia per darla in testa agli avversari, sia per ingannare i governati.

Così il candidato democratico Biden accusa Trump perché ha sottovalutato l’impatto del virus (vero, ma l’hanno fatto quasi tutti i governi della terra, Giuseppi, Macron, Johnson in testa): è, aggiornata, la caccia all’untore dei “Promessi sposi”. Nell’altro, al fine di propiziare i DPCM – comodo tipo di normazione – sostenendo che sono fatti (anche se male) con buone intenzioni (possibile) e con risultati riconosciuti eccellenti nell’ “Universo e in altri siti” come cantava Dulcamara e ripete il nostro Governo.

Ma perché ciò si verifichi, continua la canzone governativa, occorre che i cittadini siano disciplinati, mascherati, tappati in casa, poco deambulanti e mai di notte. Se i risultati non saranno quelli sperati (vivamente da tutti) la colpa sarà dei governati indisciplinati, goderecci, incivili ed insensibili.

E qua torniamo all’altro sentimento, meno noto, ma necessario nell’arte di governo, evidenziato da Hobbes nel “Behemoth”: la colpa, o meglio il senso di colpa. Questo, sostiene il filosofo, è uno strumento necessario per esercitare potere sul comportamento degli altri, instillandone il senso per certe azioni ed intenzioni, ed acquisire così influenza. E lo enuncia a proposito dei predicatori puritani. Scrive: “questi predicatori inveivano spesso con grande zelo e severità contro due peccati, la concupiscenza della carne, ed il parlar profano; il che, senza dubbio, era molto ben fatto. Ma da ciò la gente comune era resa incline a credere che niente fosse peccato, salvo ciò che è proibito dal terzo e dal settimo comandamento… Sia nei sermoni, sia negli scritti, questi ministri sostenevano ed inculcavano l’opinione che i primissimi movimenti della mente, cioè il piacere che uomini e donne provano alla vista del bel corpo d’una persona dell’altro sesso” fosse già peccato “E, così, divennero confessori di quelli che avevano la coscienza turbata per questo motivo, e che obbedivano loro come a direttori spirituali, in tutti i casi di coscienza”. È acuto il filosofo di Malmesbury nel fondare almeno in parte la costituzione di un rapporto di potere (e quindi di comando/obbedienza) sul senso di colpa. Cosa sempre capitata nella storia delle istituzioni.

Ma di ciò i governanti italiani hanno fatto uso continuo e sovrabbondante, sia per sostenere la bontà delle proprie intenzioni e realizzazioni (in altri tempi per salvarli dall’inferno, ora dal virus); sia per trasferirne le responsabilità ai governati. Mentre risuona sempre il ritornello sulle tasse (paghiamone meno, paghiamole tutti), che per aumentarle a chi le paga, da quasi cinquant’anni i governanti ne attribuiscono la causa a chi non le evade. E continuano a farlo ad onta dell’inefficacia del ritornello. Come non fosse nota la pulsione del governanti ad attingere dal portafoglio dei governati.

Così col Covid, se arriverà una seria seconda ondata, la colpa sarà dei passeggiatori smascherati, dei bevitori in compagnia, dei banchettatori nei matrimoni e cresime. Troppo facile: ripensiamo a Hobbes.

Teodoro Klitsche de la Grange

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