TOCQUEVILLE, LA PANDEMIA E IL DISPOTISMO (POST) MODERNO, di Teodoro Klitsche de la Grange

TOCQUEVILLE, LA PANDEMIA E IL DISPOTISMO (POST) MODERNO

Mi è capitato di scrivere che il dispotismo e/o la tirannide da temere al nostro tempo non è (tanto) quello classico, basato su un illimitato uso della forza al servizio di una volontà non opponibile, ma un altro, più che sulla violenza e la paura fondato sulla frode e il raggiro.

Se ne era accorto quasi due secoli fa Tocqueville; nella Démocratie en amerique si chiedeva “quale tipo di dispotismo debbano paventare le nazioni democratiche”. Il capitolo è quanto mai interessante e, come succede ai pensatori di valore, prevede il futuro delle società dallo sviluppo delle tendenze in atto.

In primo luogo usa il termine dispotismo, ma si affretta a precisare che quello delle nazioni europee a lui contemporanee ha poco a che spartire con quanto, a tale proposito, scriveva Montequieu: per il quale dispotico era il regime che si basava come principio di governo sulla paura e i cui esempi erano prevalentemente non europei e non cristiani.

Tocqueville scrive che “un assetto sociale democratico, simile a quello degli Americani, poteva agevolare particolarmente lo stabilirsi del dispotismo” e le monarchie europee avevano già cominciato a servirsene “per allargare la cerchia del loro potere”: “Ciò mi portò a pensare che le nazioni cristiane avrebbero forse finito col subire un’oppressione simile a quella che un tempo pesò su molti popoli dell’antichità”. Ma, meglio riflettendo sul tema, ne mutava l’oggetto. Perché il dispotismo “antico” aveva il limite di non poter controllare capillarmente tutte le articolazioni di un vasto impero “l’insufficienza delle conoscenze, l’imperfezione delle procedure amministrative, e soprattutto gli ostacoli naturali suscitati dalla disuguaglianza delle condizioni, l’avrebbero ben presto fermato nella esecuzione di un programma così vasto”.

Così che il potere degli imperatori romani “non si estendeva mai su un gran numero di persone; si attaccava a qualche grande oggetto e trascurava il resto; era violento e limitato”.

Invece il dispotismo moderno “avrebbe altre caratteristiche: sarebbe più esteso e più mite e avvilirebbe gli uomini senza tormentarli”, e ciò per due ragioni. In primo luogo perché “in secoli di lumi e d’uguaglianza quali sono i nostri, i sovrani potrebbero giungere più facilmente a riunire tutti i poteri pubblici nelle loro sole mani e a penetrare più abitualmente e più profondamente nella cerchia degli interessi privati di quanto non abbia potuto mai fare nessun sovrano dell’antichità. Ma questa stessa uguaglianza che facilita il dispotismo, lo mitiga”.

Secondariamente perché data la modestia delle passioni, la mitezza dei costumi, la purezza della religione, l’umanità della morale, il rischio non è incontrare dei tiranni al governo, ma dei tutori. L’oppressione che minaccia i popoli democratici è del tutto nuova. Dalla parte dei governati Tocqueville vede “una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo” quanto “al resto dei concittadini, (il cittadino) vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria”.

Da quella dei governanti invece “Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite”. Questo governo “lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri… perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere? È così che giorno per giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro l’impiego del libero arbitrio, restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione della volontà e toglie poco alla volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo e spesso anche a considerarlo come un vantaggio”. Dopo che il sovrano stende le sue braccia sulla società “Ne ricopre la superficie di una rete di piccole regole complicate, minuziose e uniformi… non spezza la volontà, la fiacca, la piega e la domina; raramente obbliga all’azione ma si oppone continuamente al fatto che si agisca; non distrugge, impedisce di nascere; non tiranneggia, ostacola, comprime, spegne, inebetisce e riduce infine ogni nazione a non essere più che un gregge timido e industrioso, di cui il governo è il pastore”.

E l’aspetto peggiore è che questa specie di servitù “Potrebbe combinarsi più di quanto non si immagini con qualche forma esteriore di libertà e che non le sarebbe impossibile stabilirsi all’ombra stessa della sovranità popolare”. Alla fine i governati “immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini; combinano centralizzazione e sovranità popolare… si consolano del fatto di essere sotto tutela, pensando che essi stessi hanno scelto i loro tutori”; e prosegue “Esiste ai nostri giorni molta gente che si adatta facilmente a questa specie di compromesso tra il dispotismo amministrativo e la sovranità popolare, e che pensa di avere sufficientemente garantita la libertà individuale quando l’affida al potere nazionale. Questo non mi basta. La natura del padrone mi importa molto meno del fatto di obbedire”. Scegliere i propri governanti è un rimedio, ma non decisivo: significa diminuire il male, che la centralizzazione può produrre ma non eliminarlo “Capisco bene che in questo modo si conserva l’intervento individuale negli affari più importanti, ma non per questo lo si sopprime meno nei piccoli e in quelli privati. Ci si dimentica che l’asservimento degli uomini è pericoloso soprattutto nelle minuzie. Dal mio canto sarei quasi incline a credere la libertà meno necessaria nelle grandi cose che nelle piccole, se pensassi che non si potesse mai essere sicuri dell’una senza possedere l’altra. La soggezione nei piccoli affari si manifesta ad ogni momento, ed è sentita indistintamente da tutti i cittadini. Non li porta alla disperazione, ma, contrariandoli continuamente, li induce a rinunciare a far uso della loro volontà. Spegne, poco alla volta, il loro spirito e fiacca il loro animo”, di guisa da sembrargli incapaci di esercitare anche quello che residua loro “Diventeranno comunque ben presto incapaci di esercitare questo grande ed unico privilegio che rimane loro. I popoli democratici, che hanno introdotto la libertà nella sfera politica mentre accrescevano il dispotismo nella sfera amministrativa, si sono trovati in una situazione molto strana. Allorché si tratta della gestione di piccoli affari in cui il semplice buon senso potrebbe bastare, ritengono che i cittadini ne siano incapaci; allorché invece si tratta del governo di tutto lo stato, attribuiscono a questi cittadini immense facoltà; ne fanno alternativamente lo zimbello del sovrano e i suoi padroni, più che dei Re e meno che degli uomini”. Perché “È, in effetti, difficile capire come uomini, che hanno interamente rinunciato all’abitudine di dirigersi da soli, potrebbero riuscire a scegliere bene quelli che debbono guidarli; e nessuno riuscirà mai a far credere che un governo liberale, energico e saggio, possa mai uscire dai suffragi di un popolo di servi”.

Ho citato a lungo il pensatore francese perché penso che abbia descritto e compreso il nostro presente assai meglio di tanti contemporanei. Il dispotismo moderno (e post-moderno) non è basato sulla forza e (poco) sull’arbitrio, ma sulla frode e la manipolazione. Invece che un “tintinnar di sciabole” c’è un overdose di messaggi manifesti o subliminali, volti a creare obbedienza servendosi poco di frusta e catene. Al posto dei berretti dei generali, impongono le fake-news più improbabili. Tutte volte a magnificare un potere che si presenta come superiore, depositario della verità – oggi scientifica soprattutto – sollecito e provvido alla vita pubblica ma soprattutto privata.

La si vedeva da tempo, in particolare dalla prima crisi economica di questo secolo (quella del 2008), propalata con argomenti peraltro di una evidente improbabilità.

Ancor più ciò spicca nella crisi pandemica: non si erano mai visti condizionamenti così pervasivi della sfera del “privato”. Si replicherà – e con qualche ragione – che la causa della crisi – una malattia sconosciuta – comporta necessariamente dei limiti a diritti più “privati” che “pubblici”. Così il diritto di locomozione, di manifestazione, al lavoro; tutti comportanti correlativi divieti alla socializzazione, alle relazioni con gli altri.

Per cercare di ridurre danni ed effetti perversi occorre ricordare che l’eccezione (l’emergenza) ha un primo limite fondamentale, desumibile dal concetto, dalla ragione e dalla normativa dello Stato borghese: ossia di essere una situazione di fatto e che le limitazioni ai diritti per combatterlo durano finché dura la situazione eccezionale e non un giorno di più. Se non lo si rispetta allora significa che da una situazione (e una normativa) d’emergenza si è passati ad una situazione normale, ma con i vincoli dell’emergenza. Cioè al dispotismo, magari mite, ma pur sempre generatore di servitù.

D’altronde l’altro limite della normativa di emergenza nello Stato borghese è di non conculcare diritti che non hanno a che fare con l’efficacia delle misure di difesa. E qua il sospetto che, invece lo si voglia fare, è più che lecito. Non solo per (molte) prese di posizione – sopra le righe – contro il dissenso dalle misure governative (v. no-vax, green-pass), ma anche per un possibile sfruttamento della crisi pandemica al fine di rinviare o condizionare scelte costituzionali. Come l’elezione del Presidente della Repubblica. Nel qual caso, come ancor più nelle ripetizioni (ormai decennali) di Premier che non hanno ricevuto maggioranza elettorale (da Monti in poi), avremmo non lo scambio ineguale stigmatizzato da Tocqueville (meno libertà più democrazia) ma una sinergia, un crescere di pari passo: ossia meno libertà e meno democrazia.

Anche questo paventato dal pensatore francese come conseguenza del primo.

Teodoro Klitsche de la Grange

La globalizzazione dopo la pandemia, Di  Antonia Colibasanu

La globalizzazione dopo la pandemia

Due crisi economiche globali in meno di due decenni hanno infranto la fiducia nella struttura dell’economia globale.

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Entriamo nel 2022 con la stessa speranza che avevamo all’inizio del 2021: che la pandemia finisca presto. Questa volta avremo ancora più vaccini e cure per il COVID-19. Ma abbiamo anche una nuova variante del virus e la quasi certezza che ce ne saranno altre. Comunque vada, qualcosa di profondo è successo all’umanità dall’inizio della pandemia. La malattia è sempre una minaccia per l’umanità, ma è una minaccia che ignoriamo la maggior parte del tempo. Ora che ciò non è possibile, siamo colpiti dall’incertezza, che a livello sociale si traduce in una generale mancanza di fiducia nel futuro.

In geopolitica, la fiducia conta. I leader agiscono in base a ciò che sanno o, più precisamente, a ciò che credono di sapere. La diminuzione della fiducia nell’economia, ad esempio, potrebbe modificare un’intera strategia nazionale. E ci sono molte ragioni per la scarsa fiducia nell’economia. La pandemia ha innescato una crisi energetica e della catena di approvvigionamento, carenza di manodopera e, in definitiva, inflazione, sconvolgendo la vita economica e sociale e aggravando la disuguaglianza all’interno e tra i paesi. Cosa più importante, ha accelerato il declino della globalizzazione in un momento in cui la cooperazione globale è più importante che mai.

Sondaggio mondiale Gallup | Indice di fiducia economica
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Dal 2008 al 2022

La deglobalizzazione è iniziata nel 2008 con la crisi finanziaria globale e si è sviluppata lentamente negli oltre dieci anni successivi, fino a quando il COVID-19 non l’ha portata in tilt. La deglobalizzazione è un processo economico, ma soprattutto è guidato dalla crescente mancanza di fiducia nel sistema economico globale e nelle sue convinzioni a sostegno. Dopo il 2008, le persone hanno dubitato della convinzione che la globalizzazione potesse portare solo un cambiamento positivo nella vita delle persone e che l’interconnessione e l’interdipendenza fossero forze di stabilità. Segnò la fine del mondo post Guerra Fredda e l’inizio di una nuova era in cui lo stato-nazione era chiamato a proteggere la società dalle forze negative della globalizzazione. L’ascesa di movimenti nazionalisti e populisti ha annunciato questo cambiamento, insieme a indicazioni di un aumento del protezionismo in tutto il mondo. Brexit e Stati Uniti

Commercio internazionale e investimenti
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Il 2021 ha visto una straordinaria ripresa economica dopo il crollo del 2020, ma l’impennata inaspettatamente grande del consumo globale ha innescato una crisi della catena di approvvigionamento ed è stata la causa principale della crisi energetica. Le restrizioni sui viaggi hanno privato l’industria navale di lavoratori a basso salario mentre i lavoratori esistenti nel settore, già sottoposti a forti pressioni, hanno lasciato il lavoro in gran numero. I costi di spedizione già elevati sono aumentati di quasi dieci volte rispetto al 2020. Queste interruzioni hanno prodotto scarsità, che ha fatto aumentare i prezzi per quasi tutto.

Tendenze dell'inflazione
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Inflazione settoriale
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Le interruzioni legate alla pandemia hanno anche indotto le aziende a rivalutare le proprie priorità e vulnerabilità. In una recente indagine dell’Istituto Ifo di Monaco di Baviera, in Germania, la potenza delle esportazioni europee, il 19% delle aziende manifatturiere ha dichiarato di voler reinsediare la produzione. Quasi due terzi di queste aziende hanno affermato che cercheranno fornitori tedeschi, mentre il resto ha affermato che cercherà di soddisfare le proprie esigenze internamente. Questo è un cambiamento importante per un’economia così dipendente dal commercio. Circa il 12% degli input totali utilizzati nei settori di esportazione della Germania (ad es. automobili, macchinari, apparecchiature elettriche, elettronica) viene importato da paesi a basso reddito come la Cina, altre parti dell’Asia oi Balcani. Il quadro è simile in altri paesi. E mentre questo sviluppo è guidato dalle imprese, i governi sono sicuri di adeguare anche le loro politiche,

Inflazione, automazione e implicazioni

Questi turni di produzione stanno accelerando il processo di deglobalizzazione. La pressione che aggiungono all’economia globale si farà sentire nel 2022.

Dalla fine degli anni ’80, le tendenze a favore della globalizzazione hanno contribuito a tenere a bada l’inflazione, poiché i produttori a basso costo hanno fornito input per le economie avanzate. Se la deglobalizzazione viene sostenuta, può portare a uno shock dal lato dell’offerta che aumenterà le già elevate pressioni inflazionistiche. Insieme al rallentamento dell’innovazione ea una forza lavoro limitata nel settore manifatturiero delle economie sviluppate, ciò potrebbe creare ulteriori carenze e persino, alla fine, una depressione.

Un potenziale rimedio sarebbe l’adozione accelerata dell’automazione. Nell’ambiente di bassi tassi di interesse che ha seguito la crisi finanziaria del 2008, il costo degli investimenti nei robot è diminuito, incoraggiando le aziende dei paesi ricchi ad automatizzare dove potevano e a ripristinare parte della produzione. La Germania è leader mondiale nell’adozione di robot, con 7,6 robot ogni 1.000 lavoratori, rispetto ai sei della Corea del Sud e poco più di quattro in Giappone. Gli Stati Uniti, invece, hanno solo 1,5 robot ogni 1.000 lavoratori. Non è chiaro se queste economie sviluppate abbiano attualmente livelli di automazione sufficientemente elevati da separarsi dai paesi a basso reddito. Inoltre, il lento tasso di adozione dal 2011 e l’adozione ineguale tra le economie sviluppate e in via di sviluppo è motivo di scetticismo. A lungo termine, tuttavia,

Un altro effetto della deglobalizzazione è che i mercati nazionali diventeranno meno vulnerabili agli shock esterni. Invece, saranno più suscettibili agli shock interni. E poiché le aziende accorciano le loro catene di approvvigionamento, aumenterà la loro esposizione alle interruzioni regionali.

Il nuovo paradigma

Dalla fine della seconda guerra mondiale, e soprattutto dal crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno guidato l’ascesa della globalizzazione. Integrazione tradotta in beni più economici per gli americani e per il mondo. L’outsourcing era visto come un vantaggio, non una minaccia, per la prosperità interna. Ma il 2008 ha infranto la fiducia del pubblico in quelle idee e la sicurezza economica è tornata a essere una priorità assoluta dei politici. La pandemia ha ulteriormente rafforzato questa tendenza, un amaro promemoria che il profitto non è nulla senza resilienza e robustezza.

Nel nuovo paradigma, le alleanze bilaterali soppianteranno quelle multilaterali, anche se queste perdurano. L’Unione europea, ad esempio, manterrà il suo principale vantaggio di ospitare il più grande mercato comune del mondo. Continuerà a sviluppare accordi commerciali strategici con paesi come il Giappone e, più recentemente, il Vietnam. Di fronte alla percepita aggressione cinese, gli Stati Uniti e l’UE continueranno a lavorare per stabilire accordi commerciali e di investimento in settori strategici come i semiconduttori e l’acciaio. Allo stesso tempo, le strutture di alleanza in evoluzione come il patto USA-Regno Unito-Australia noto come AUKUS (costruito sulla struttura di condivisione dell’intelligence Five Eyes che esiste dalla fine della seconda guerra mondiale) integreranno accordi commerciali come la Trans-Pacific Partnership , a cui il Regno Unito (e la Cina) stanno tentando di aderire.

La pandemia ha creato distorsioni (come l’inflazione) che evidenziano la necessità di un’azione collettiva globale. Il cambiamento climatico sta spingendo i leader delle economie avanzate a presentare piani ambiziosi per una finanza globale “verde”. La pressione interna per tenere a freno le aziende multinazionali, in particolare le big tech, ha aperto la strada a un accordo globale sulla tassazione minima sulle società alla fine dello scorso anno. Allo stesso tempo, le economie sviluppate si stanno allontanando ulteriormente dal resto del mondo e crescono le aspirazioni a ricostruire comunità politiche ed economiche dietro i confini nazionali. Una cosa è chiara: il 2022 sarà un anno di tensioni per l’economia globale.

https://geopoliticalfutures.com/globalization-after-the-pandemic/

Le guerre e i fallimenti dell’America_Di  George Friedman

Le guerre e i fallimenti dell’America

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Sessant’anni fa, nel 1962, gli Stati Uniti presero la decisione di entrare in guerra in Vietnam, schierando per la prima volta in battaglia importanti forze aeree e di terra. Questa era una frazione degli uomini e degli aerei che sarebbero serviti lì negli anni a venire. Era una linea che l’amministrazione Kennedy si rese conto di attraversare. Ha visto il coinvolgimento degli Stati Uniti come una mossa minore, persino sperimentale. Ma quando una nazione manda i suoi soldati in guerra, una logica prende piede. Quando gli uomini muoiono, la nazione presume che sia per un interesse vitale. I leader non possono dichiarare l’esperimento un fallimento perché non possono ammettere di aver sperimentato la vita dei soldati. Una morte richiede una ragione degna, e stabilire che la morte non è stata vana è incompatibile con “tagliare e scappare”, nelle parole di Lyndon B. Johnson. L’intervento è difficile. Il ritiro sotto tiro è agonia.

Per capire la strategia americana dal 1962 ad oggi, dobbiamo capire cosa vedeva e pensava John F. Kennedy quando prese il primo grande impegno. Kennedy è stato creato dalla seconda guerra mondiale, e anche i militari più anziani lo erano. Nella seconda guerra mondiale, l’America ha capito il suo nemico. La Germania era governata da Hitler, e Hitler e i suoi subordinati erano intelligenti, spietati e come noi nel combattere una guerra di macchine e industria. Abbiamo capito che Hitler era un tiranno senza principi. Il Giappone era un impero governato da un governo brutale e, come abbiamo visto in Cina, combattenti spietati. Sapevamo anche che, come i tedeschi e gli americani, stavano combattendo una guerra industriale. Conoscevamo il nemico, non ne sottovalutavamo mai la forza, e facevamo coincidere la nostra guerra con la produzione industriale. Conoscevamo il valore degli alleati, gli usi delle portaerei e dei carri armati, e come addestrare gli uomini alla guerra. Abbiamo imparato questo e altro. E avremmo combattuto fino alla fine, senza quartiere né chiesto né dato.

Gli Stati Uniti hanno superato il Vietnam del Nord e il Viet Cong in ogni misura che ha vinto la seconda guerra mondiale. Non ci rendevamo conto di non aver capito il nostro nemico. Non erano industriali, né erano divisi tra comunisti e una serie di fazioni. Chiaramente i non comunisti del sud odiavano la tirannia del nord. La popolazione anticomunista doveva essere mobilitata e armata con le migliori attrezzature e la bandiera degli Stati Uniti, insieme a quella vietnamita, avrebbe sorvolato Hanoi. La folla nel sud si allineava sulle strade accogliendo gli americani anche se gli Stati Uniti non prendessero Hanoi. Lo scopo dell’intelligence è prevedere cosa faranno gli altri, e proprio come la CIA non è riuscita a capire le conseguenze della Baia dei Porci, non ha capito il Vietnam. Anch’esso era bloccato nella seconda guerra mondiale.

Il Vietnam non era la SS che combatteva contro i Maquis (combattenti della Resistenza francese). Il Vietnam era diviso per trattato, ma era un paese. I comunisti si erano impossessati del nord ei non comunisti governavano il sud. I non comunisti venivano in molte forme, ma l’unica cosa che condividevano con i comunisti del nord era che erano vietnamiti. Non erano scioccati da un regime comunista repressivo quanto dal pensiero di una guerra civile vietnamita, che è ciò che gli americani stavano vendendo, che la chiamassero così o meno. Non volevano combattere altri vietnamiti. Quello che volevano era essere lasciati soli. I vietnamiti non vedevano gli americani come liberatori e protettori. Li vedevano come consegnare i terrori della guerra industriale. Dopo aver sopportato l’occupazione francese e l’oppressione dei vietnamiti che i francesi avevano elevato a governanti fantoccio, non avrebbero scelto tra un nuovo imperialismo e una dittatura comunista. Ciò non significava che l’anticomunismo non fosse presente, né che molti non vedessero gli americani come una forza amica. Significava che le passioni dei vietnamiti erano divise, complesse e volubili.

Gli americani hanno commesso tre errori. La prima era che pensavano che, come in Belgio, il loro arrivo in Vietnam sarebbe stato accolto con gioia universale. Non lo sapevano perché la leadership non ha ascoltato l’intelligence.

In secondo luogo, non capivano il nemico comunista. I comunisti trassero gran parte della loro legittimità dall’aver cacciato i francesi. Il loro comunismo e nazionalismo erano legati. Questo era vero anche per il comunismo cinese di Mao e il discorso di Stalin in difesa della patria. Ci sono quelli che combattono per convinzioni astratte, ma molti di più che combattono per la loro patria. Non sono sicuro di quanti americani nella seconda guerra mondiale abbiano combattuto per la democrazia liberale o per l’America, ma sospetto che la protezione della patria abbia risuonato di più. Il Vietnam era stato governato da molti bruti, ma almeno i comunisti erano bruti vietnamiti. Erano comprensibili.

Infine, hanno combattuto la guerra dal punto di vista della percezione, in particolare della percezione del pubblico statunitense. Piuttosto che fare ciò che è stato fatto durante la seconda guerra mondiale, che era chiarire che questa sarebbe stata una guerra lunga e sanguinosa e quindi vincolare il pubblico alla verità, il governo ha cercato di allineare la strategia con l’idea che la vittoria si stava avvicinando e che le vittime sarebbero declino. Ciò significava che l’offensiva del Tet aveva infranto ogni fiducia. Si spera che mentire funzioni meglio quando la realtà collabora.

Gli Stati Uniti non hanno capito il loro nemico oi suoi amici. Temeva i comunisti meno dell’opinione pubblica americana. Nelle guerre, il momento più buio potrebbe essere appena prima del successo. Pensa alla battaglia delle Ardenne. Il momento più buio non poteva essere un momento come questo perché assurde pretese di successo non avevano preparato il pubblico americano ad esso.

Quando pensiamo di non capire il proprio nemico, di plasmare una guerra per non sconvolgere le falsità del conflitto, e di cercare di sopraffare con la guerra industriale un nemico che sta combattendo una guerra molto diversa, possiamo pensare anche alle guerre in Iraq e Afghanistan. Il nemico poteva o meno odiare il governo, ma un numero sufficiente di persone odiava gli americani perché non erano iracheni o afgani. L’ideologia e la religione hanno avuto un ruolo ma non sono state la chiave. C’era uno sconosciuto in casa loro e dovettero cacciarlo via.

Gli americani dovrebbero esserne consapevoli, perché la nostra rivoluzione è stata progettata per scacciare i superbi britannici, con le loro regole e regolamenti. La rivoluzione era impegnata nella Dichiarazione di Indipendenza, ma il vero nemico erano gli inglesi. Erano stranieri in casa nostra e dovettero essere espulsi. Il principio morale c’è, ma gli uomini muoiono per amore del proprio.

Ci sono poche guerre come la prima e la seconda guerra mondiale, grazie a Dio. Ragionare su come abbiamo vinto quei conflitti di solito porterà al fallimento in altre guerre. L’ondata di guerre americane dopo la seconda guerra mondiale e i loro risultati insoddisfacenti dovrebbero testimoniarlo. Andare in guerra e fallire rappresenta una leadership senza discernimento, con una fede irrazionale nelle proprie forze e un folle rifiuto della motivazione e dell’intelligenza del nemico. Anche se molti ci accolgono come liberatori, saranno questi fattori a determinare il nostro destino. Fortunatamente per l’America, è troppo ricca e forte per essere abbattuta da un fallimento. Ma è importante non sfidare la fortuna.

Le guerre sono necessarie e accadranno, ma dovrebbero iniziare come la seconda guerra mondiale: con paura e timore reverenziale nei confronti del tuo nemico. Qualsiasi altra cosa ti rende negligente. Come ha notato Tucidide, la guerra non può essere combattuta da una città divisa e spaventata. Ciò si è dimostrato vero in Vietnam, Iraq e Afghanistan. La domanda più importante non è mai stata posta: come trarrebbero vantaggio gli Stati Uniti dalla vittoria e quanto costerebbe la sconfitta? La sconfitta non è mai stata immaginata e il beneficio del successo è stato ampiamente sopravvalutato. Il mondo non è finito, né il potere americano. Ma temendo le conseguenze della sconfitta, rimandiamo l’inevitabile. Oggi gli Stati Uniti collaborano con il Vietnam contro la Cina. Ciò che allora era impensabile e insopportabile non lo è nemmeno oggi. Le guerre, quindi, dovrebbero essere rare e assolutamente necessarie.

https://geopoliticalfutures.com/americas-wars-and-failures/

2001-2021. Quali risultati per le relazioni tra la Francia e l’Africa francofona? Yves Montenay

Continuiamo a presentare il punto di vista francese sulle dinamiche geopolitiche africane. Le posizioni dei vari analisti sono diverse e spesso contrapposte, come si arguisce dai tanti scritti di Bernard Lugan postati sul nostro sito. La Francia rimane comunque un paese dal ruolo cruciale in quell’area, anche se costretta ad appoggiarsi e richiedere sempre più il sostegno dei paesi alleati della NATO, tra cui l’Italia. Sirene alle quali si dovrà prestare molta cautela. L’atteggiamento minimizzatore del nostro ceto politico non aiuta certo a cogliere a pieno la complessità della situazione_Giuseppe Germinario

La Francia mantiene importanti legami con le ex aree colonizzate dell’Africa, legami economici e militari ma anche linguistici. Questo aiuta a creare un rapporto speciale, che si è evoluto molto negli ultimi vent’anni. Intervista a Yves Montenay.

Ingegnere di formazione, Yves Montenay è stato consulente per molte PMI in Asia e Africa. Ha lavorato con Léopold Sédar Senghor e ha completato una tesi in demografia politica. Ha insegnato in diverse istituzioni superiori, permettendogli di visitare regolarmente diversi paesi africani.

L’arrivo della Cina e la presenza sempre più forte della Russia danno l’impressione che la Francia sia cacciata dal suo distretto africano. I soldati di Wagner sono presenti nella Repubblica Centrafricana e l’ostilità verso la Francia si manifesta in maniera ricca. Gli ultimi 20 anni non hanno segnato la fine della presenza francese nel continente africano?

Una parola in primis sulla Repubblica Centrafricana dove l’ attività concreta di Wagner dovrebbe essere maggiormente diffusa. In primo luogo, si sono distinti per la brutalità nei confronti della popolazione, che viene documentata, e in secondo luogo il loro servizio non è gratuito. Sono remunerati con una tassa del 25% sulle attività minerarie.

I maliani, abituati al “servizio gratuito” della forza Barkhane, e che sognano di vedere arrivare i “nostri amici russi”, dovranno regalare loro parte della loro produzione, soprattutto oro, il che significa che dovranno utilizzare la forza nelle miniere informali.

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Ma attenzione, questo non è colonialismo, è amicizia! E poi saranno solo poche migliaia, come i francesi. Non si dovrebbe quindi contare su di loro per occupare la terra a nord. Allora a cosa serviranno? Probabilmente di guardia del pretorio agli attuali dirigenti, che, ricordiamolo, sono stati addestrati a Mosca.

Lo noteremo non appena la popolazione chiederà un po’ di democrazia o, più semplicemente, sarà delusa dall’assenza di sicurezza o di miracoli economici.

Africa occidentale (c) Wikipedia

Ma dobbiamo parlare della fine della presenza francese nel continente africano?

La situazione è estremamente variabile da un paese all’altro, e in alcuni le difficoltà della Francia stanno aumentando a ritmi vertiginosi.

Sono piuttosto pessimista, perché si tratta di un taglio generazionale alimentato dalle potenze, Cina, Russia e Turchia per limitarsi alle principali, che sono perfettamente radicate nelle operazioni di influenza e ad essa dedicano mezzi significativi.

Tuttavia, la Francia ha pochissimi interessi economici nella regione, in particolare in Mali, e ciò sarà accentuato dalla vendita degli asset di Bolloré a un gruppo svizzero.

Inoltre, l’Africa subsahariana non è affatto un blocco. Ogni paese è molto diverso dal vicino e li classificherò in tre gruppi:

I paesi costieri , a cui si aggiungono il Congo Brazza e il Madagascar, sono prevalentemente oa cornice cristiana (tranne il Senegal). Non hanno seri problemi con la Francia, anche se certi comportamenti possono infastidire Parigi, come la tentazione del Gabon per il Commonwealth. Ciò non impedisce a questi paesi di avere gravi problemi interni, in particolare in Madagascar e Camerun, dove il governo reprime la parte anglofona (che secondo me dovrebbero dare autonomia quanto prima!). E la parte musulmana della sua popolazione non è immune da quanto sta accadendo nel Sahel (compreso Boko Aram per il Camerun) e dalla propaganda wahhabita,

La Repubblica Democratica del Congo, che è un mondo a parte, con i suoi 92 milioni di abitanti. La Francofonia sembra essersi ben radicata lì, in particolare grazie a un vasto settore scolastico cristiano, ma la politica è imperfetta e non siamo immuni da una sorpresa.

Ad esempio il padre Kabila aveva decretato l’inglese come lingua ufficiale, cosa che non aveva conseguenze pratiche, prima che questa decisione fosse cancellata (questo è stato anche il caso del Madagascar). Non conosco alcun problema particolare tra la Repubblica Democratica del Congo e la Francia che non fosse la potenza colonizzatrice.

Rimangono i paesi del Sahel , e il caso particolarmente difficile del Mali, che non riescono a far fronte all’offensiva jihadista e la cui parte più chiassosa della popolazione accusa la Francia di tutti i mali. Tuttavia, ho echi diversi da un’altra parte della popolazione che ha legami intellettuali o cooperativi o familiari con la Francia.

Negli anni ’90, le Nazioni Unite hanno stabilito gli obiettivi di sviluppo del millennio per l’Africa. La Francia è molto coinvolta nello sviluppo del continente, attraverso l’AFD e le sue numerose ONG. Eppure questi aiuti sembrano essere un pozzo senza fondo e non sembrano essere visibili grandi risultati. Abbiamo fatto 20 anni di aiuti per niente?

Tornerò a monte. Siamo passati impercettibilmente dal periodo coloniale a un periodo chiamato neocoloniale.

Il termine è tecnicamente giustificato, d’altronde la sua connotazione negativa non lo è affatto, poiché in generale questo periodo neocoloniale è stato il migliore per la maggior parte di questi paesi, come illustrato ad esempio dal Madagascar e dalla Costa d’Avorio. .

Ho assistito a questa epoca neocoloniale durante la quale molti amministratori francesi sono passati dalla carica di esecutivo a quella di consiglio.

In precedenza, e contrariamente a quanto si dice oggi, la fine del periodo coloniale fu quella dello sviluppo forse paternalistico, ma non del saccheggio, termine che peraltro ha realtà concreta solo in ambito militare e non ha senso economico.

NB: lo studio economico della colonizzazione e la critica alla nozione di “saccheggio” sono sviluppati nel mio libro  The Myth of the North-South Ditch, and How One Cultivates Underdevelopment

E sono crollati i paesi che tagliavano violentemente con le metropoli come la Guinea.

Questo periodo neocoloniale si è spesso concluso con rivoluzioni, colpi di stato o guerre civili, lasciando una situazione molto degradata.

Ciò è stato particolarmente evidente in Madagascar, che non si è mai ripreso, e in Costa d’Avorio, dove la prosperità, in parte dovuta alla presenza di PMI francesi brutalmente espulse, non è tornata del tutto.

È vero che questo periodo neocoloniale si è riflesso anche in un’influenza politica della Francia, che si è riflessa in particolare nei voti favorevoli all’ONU e nell’ingerenza nella scelta dei leader dei paesi africani. Ma è un’era che è finita da tempo e gli eredi dell’influenza politica francese, ad esempio in Gabon, Camerun o Ciad sono liberi, e inoltre il loro comportamento autocratico è disapprovato a Parigi… che però non interviene.

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Ma la propaganda antifrancese usa questo periodo neocoloniale per proclamare: “certo, siamo mal governati, ma è perché la Francia ci ha imposto cattivi governanti”.

Dimentichiamo che le Indipendenze hanno ormai circa 65 anni e che tutti gli interessati sono scomparsi. Dimentichiamo anche i successi economici di questo periodo neocoloniale, soprattutto rispetto alla situazione odierna.

Quindi l’uso di questo argomento nella propaganda antifrancese oggi si basa sull’ignoranza delle giovani generazioni.

Questa rottura generazionale è aggravata dalla scolarizzazione nell’istruzione superiore a livello locale e non più in Francia.

C’è quindi una scarsa conoscenza di questi ultimi, per non parlare del ruolo di alcuni insegnanti che hanno cercato di “porsi opponendosi” o di dirigenti formati nei paesi ostili sopra citati, a cui si aggiungono le università islamiste, tra cui quello di Riad.

Il sentimento antifrancese degli studenti è colorato dall’ostilità verso la lingua francese (la lingua “vera” è l’arabo) e verso l’Occidente “decadente” in generale.

Nell’Africa nera, la Francia guarda soprattutto ad ovest: Costa d’Avorio, Sahel, Senegal. L’Africa orientale e quella dei Grandi Laghi sono definitivamente perse per la Francia?

La Francia non è mai stata molto presente lì, nonostante il periodo “globalista e anglofono” del MEDEF.

Inoltre, questa regione, contrariamente alla sua reputazione, si sta sviluppando piuttosto meno bene dell’Africa francofona , ad eccezione del Ghana e del Kenya. Il peso massimo, il Sud Africa, è sicuramente il paese più sviluppato dell’Africa, ma è rimasto fermo per molto tempo.

Il peso massimo demografico è la Nigeria , che teoricamente ha un guadagno inaspettato di petrolio. Ma sappiamo che questa cosiddetta manna è in realtà un handicap che esacerba le rivalità tribali, alimenta la corruzione e pesa sullo sviluppo.

Mentre la grande metà musulmana del paese nel nord rimane particolarmente sottosviluppata e in parte disorganizzata da Boko Aram e dai suoi rivali.

La Francofonia ha ancora oggi il ruolo che ha svolto nel 2001?

A differenza del Commonwealth, l’Organizzazione Internazionale della Francofonia non ha mai avuto obiettivi economici e si limita all’azione culturale.

Ciò che mi sembra importante non è questa organizzazione, ma la diffusione della lingua francese. Quest’ultimo è cresciuto notevolmente dal 2001, per tre motivi.

Il primo è il progresso della scuola in francese e in particolare nelle scuole private dalla scuola materna all’università. Certo, non ci sono scuole ovunque, e alcune sono composte solo da un’unica classe supervisionata da un insegnante mal pagato, se non del tutto e quindi alimentata dai genitori. Ma non dobbiamo dimenticare il gran numero di scuole che operano normalmente.

La seconda è che la borghesia locale è sempre più spesso nella terza generazione nell’istruzione, il che fa del francese la sua lingua madre . Il francese non è quindi più una lingua straniera per questa borghesia, ma la vera lingua nazionale.

Il terzo motivo più noto è la rapida crescita della popolazione dell’Africa. Questa crescita demografica porterà tutti i paesi francofoni a 750 milioni intorno al 2050, se gli eventi politici non interromperanno la scuola in francese.

Infine, l’ambiente letterario parigino e in particolare quello degli editori hanno a lungo sottovalutato gli scrittori di lingua francese. Questo periodo sembra finito, come dimostra l’attribuzione dell’ultimo premio Goncourt a Mohamed Mbougar Sarr.

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Ma ovviamente chi dice francofonia non significa necessariamente francofonia. Gli oppositori più virulenti della Francia parlano in francese.

Una parola sul Nord Africa

Il Maghreb si avvicina ai 100 milioni di abitanti, a cui si aggiungono circa 100 milioni di egiziani. La crescita demografica considerata molto rapida in Francia è infatti più debole lì che nel sud del Sahara, dove la sola Nigeria presto supererà l’intera regione.

È anche la parte più sviluppata dell’Africa, anche se questo confronto non ha molto senso, date le disparità regionali nel nord come nel sud del continente.

Nel Maghreb i tre paesi, umanamente e storicamente abbastanza simili, hanno continuato a divergere, ma i dati principali non sono cambiati dal 2001:

Un Marocco che parte da inferiore agli altri, ma in solida progressione con una buona base industriale e agricola a criteri europei e una libertà politica e religiosa superiore al resto del mondo arabo, eccettuata la Tunisia. L’istruzione pubblica è deplorevole, ma il settore privato, in gran parte di lingua francese, con progressi comunque in inglese, fornisce quadri intermedi. A meno che non si verifichi un incidente una tantum, i rapporti con la Francia sono buoni,

Una Tunisia che condivide molte caratteristiche con il Marocco, ma parte da più alti in termini di tenore di vita e democrazia, nonostante i recenti fallimenti,

Un Algeria , che, al contrario, sta lottando per uscire del socialismo e non di sviluppo, i proventi del petrolio in corso in gran parte confiscati. Queste entrate consentono un’economia basata sull’importazione con scarsa produzione nazionale, anche se la privatizzazione della cultura e la relativa liberalizzazione industriale hanno consentito scarsi progressi. Insomma, un flagrante fallimento economico e politico, la cui responsabilità è attribuita contro ogni evidenza alla Francia . Ciò ha comportato l’esclusione delle esportazioni francesi a vantaggio della Cina in particolare e culturalmente da pressioni sulla parte francofona della popolazione.

Quanto all’Egitto,ha praticamente chiuso il cerchio negli ultimi 20 anni: la dittatura militare di Mubarak ha lasciato il posto alla democratizzazione che ha portato al potere i Fratelli Musulmani. Il loro fallimento ha generato una nuova protesta, che si è conclusa con il ritorno al potere dell’esercito. La posizione della Francia, preponderante fino al 1956, è stata distrutta dall’affare Suez e il socialismo Nasser ha rovinato il Paese, che si è ripreso solo in parte da esso e il cui precario equilibrio economico è dovuto solo agli aiuti americani, ai canoni del Canale di Suez, del gas e del petrolio, e spedizioni espatriate in Arabia Saudita. L’immagine della Francia resta buona, ma i nostri interessi economici non sono molto importanti e la Francofonia è stata ridotta a una parte dei circoli privilegiati.

Per concludere, colpisce vedere il riemergere della demonizzazione della colonizzazione , quando quest’ultima ha 60 anni e talvolta molto di più, e quindi non ha nulla a che vedere con i problemi africani attuali.

Ma il punto è che questo argomento ha molto più successo che ai tempi dell’indipendenza, forse proprio perché i testimoni sono scomparsi. E che non possono contraddire i proclami “anticoloniali” dei concorrenti della Francia e dell’Occidente in Africa.

Questo è il periodo in cui la Russia e la Turchia sono state a lungo colonizzatori sanguinari e da allora la Cina non è stata gentile con Manciù, Mongoli e Tibetani e, più recentemente, con gli uiguri.

Covid in Africa: un po’ di raffreddore?, di Bernard Lugan

Il centro epidemiologico Epicentro annesso a (MSF) Medici Senza Frontiere, ha pubblicato il 28 dicembre 2021 un articolo intitolato “Covid-19 in Africa: il virus circola più di quanto annunciato” e, sotto la didascalia “L’epidemia di Covid 19 è stata sottovalutato? ”

Questi due titoli “allarmisti” nascondono l’interesse principale dell’articolo, che è quello di riportare il “flagello del secolo” alla sua vera realtà. Almeno per quanto riguarda l’Africa, dove la devastazione annunciata non si è verificata poiché i casi ufficiali di Covid, lì sono particolarmente bassi. Un mistero vista la sua contagiosità e il bassissimo tasso di vaccinazione.

Inoltre, per cercare di capire questa eccezione africana, sono stati condotti diversi studi sulla sieroprevalenza, questo marcatore infallibile che consente di contare il numero di soggetti che, in un momento o nell’altro, sono stati in contatto con il virus o i virus. del covid.

Lo studio, che è stato condotto in sei paesi, Mali, Niger, Kenya, Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Camerun, ha permesso ai suoi autori di stabilire che la percentuale di persone asintomatiche, cioè che non manifestano alcun sintomo, è molto alta . Così, secondo le analisi di sieroprevalenza, il 42% dei nigerini è stato infettato una volta o l’altra dal, o dal, covid, e questo senza avvertire il minimo sintomo mentre il tasso ufficiale nazionale è dello 0,02%. In Mali i rapporti sono 25% e 0,07%, in Sudan 34% e 0,08%.

Lo studio spazzando via il desiderio delle autorità di camuffare le reali figure dei pazienti, la spiegazione è potenzialmente triplice:

1) Non avendo sintomi, i cittadini di questi paesi non verranno testati.

2) Il virus circola in maniera molto importante, ma sotterranea, e senza provocare forme gravi. Tranne, come in Europa, nelle persone a rischio, i giovani non sono molto sensibili ad esso. Tuttavia, la popolazione africana è giovane. In queste condizioni, scrive il rapporto, “In Niger forse non è necessario vaccinare tutta la popolazione, la cui età media è di 15 anni”. Tanto più che lo studio ci dice che il 42% della popolazione è ormai immune da quando è stato in contatto con il virus…

3) Attraverso ciò che scrivono gli autori, ma senza che lo dicano apertamente, in Africa, l’immunizzazione naturale della popolazione sembra quindi essere una realtà,Ancrepuò essere lo stesso in Europa? Questo merita un nuovo studio.
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Il piano della Russia per corteggiare l’Azerbaigian, Di  Ekaterina Zolotova

Il piano della Russia per corteggiare l’Azerbaigian

Mosca sta facendo del suo meglio per invogliare Baku ad unirsi alla sua alleanza eurasiatica.

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La Russia ha trascorso gran parte del 2021 cercando di ristabilire i cuscinetti persi dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Ha dispiegato truppe al confine occidentale con l’Ucraina, ha aumentato l’integrazione con la Bielorussia, ha continuato la sua missione di mantenimento della pace nel Caucaso e ha approfondito la cooperazione con le nazioni dell’Asia centrale. Nel 2022 Mosca sposterà la sua attenzione su un Paese del Caucaso meridionale che da anni è in bilico tra Occidente e Russia: l’Azerbaigian. E lo farà utilizzando l’Unione economica eurasiatica, un blocco regionale post-sovietico che domina, come strumento di coercizione.

mano nascosta

Il mese scorso, il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha visitato Bruxelles su invito del segretario generale della NATO. Durante il loro incontro, Aliyev ha affermato che l’Azerbaigian è un partner affidabile della NATO e mantiene stretti legami con gli alleati della NATO, in particolare la Turchia. Commenti come questi irritano il Cremlino, che vuole limitare il più possibile la presenza della Nato lungo la sua periferia. L’Azerbaigian è una parte fondamentale di questa strategia, poiché separa la Russia dalle forze della NATO in Turchia.

Le zone cuscinetto della Russia
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Di recente, Mosca ha utilizzato una combinazione di cooperazione economica e coinvolgimento militare (nella forma della sua operazione di mantenimento della pace nel Nagorno-Karabakh) per mantenere il suo punto d’appoggio nel Caucaso. Ma considerando i suoi crescenti problemi economici e l’assortimento di altre priorità, la capacità della Russia di competere per l’influenza economica qui si sta indebolendo. Ad esempio, rappresenta solo il 5% delle esportazioni azere, mentre l’Italia e la Turchia (entrambi paesi della NATO) rappresentano rispettivamente il 30% e il 18%. Baku sta anche aumentando la cooperazione militare con la Turchia, che ha sostenuto l’Azerbaigian nella guerra del 2020 in Nagorno-Karabakh.

Mosca, però, ha una mano nascosta da giocare. L’Azerbaigian è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas verso l’Occidente. Oggi, circa il 68 percento delle esportazioni totali del paese sono petrolio greggio e prodotti correlati e il 15,9 percento sono gas di petrolio e altri idrocarburi gassosi. Il Cremlino, che comprende meglio della maggior parte delle insidie ​​del fare affidamento così pesantemente sulle esportazioni di energia, probabilmente prevede che Baku vorrà diversificare le sue vendite all’estero per ridurre la sua vulnerabilità economica. Ma questo sarà difficile per un paese come l’Azerbaigian, considerando il livello di concorrenza e la mancanza di domanda per i suoi prodotti non energetici. Così, alla vigilia della visita del presidente dell’Azerbaigian a Bruxelles, il Cremlino ha ricordato a Baku i vantaggi della sua partnership.

Pochi giorni prima che Aliyev partisse per la riunione della NATO, il presidente onorario del Consiglio economico eurasiatico, un organismo di regolamentazione dell’Unione economica eurasiatica, ha affermato che l’Azerbaigian potrebbe ottenere lo status di osservatore nel blocco, di cui fanno parte Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia. L’adesione all’unione doganale del blocco potrebbe avere vantaggi significativi per l’Azerbaigian, che riceve circa il 18% delle sue importazioni dalla Russia.

Mosca ha anche fornito sottili accenni altrove sui vantaggi della sua cooperazione. Diverse pubblicazioni dei media russi hanno recentemente propagandato i forti legami tra l’Azerbaigian ei membri dell’EAEU. Ad esempio, l’affiliato azero del sito web russo Sputnik News ha pubblicato un articolo il mese scorso evidenziando i vantaggi dell’adesione. Secondo la pubblicazione, l’adesione dell’Azerbaigian alla EAEU aumenterebbe le esportazioni del settore agricolo e non petrolifero del paese di 280 milioni di dollari. Ha inoltre affermato che l’adesione potrebbe aumentare il prodotto interno lordo dell’Azerbaigian dello 0,6 percento rispetto ai livelli attuali e che ogni residente dell’Azerbaigian trarrebbe profitto di 1.013 dollari, un importo sostanziale in un paese il cui PIL pro capite è di soli 4.202 dollari.

Il Cremlino ha anche recentemente menzionato un sondaggio del 2018 del Centro analitico per il governo della Federazione Russa che ha rilevato che quasi il 40% della comunità imprenditoriale dell’Azerbaigian accoglierebbe con favore relazioni economiche più strette con l’UEE. Questi numeri, spera il Cremlino, suoneranno allettanti in un paese la cui economia si sta riprendendo dalla pandemia, ma lentamente. Sebbene l’Azerbaigian abbia sofferto meno degli effetti economici della pandemia rispetto ai suoi vicini, in gran parte a causa delle sue esportazioni di energia, la disoccupazione, la povertà e l’emigrazione (principalmente verso la Russia) rimangono problemi significativi.

Il commercio dell'Azerbaigian
(clicca per ingrandire)

Tuttavia, la Russia sa che non può fare affidamento esclusivamente sul mercato interno dell’UEE per attirare l’Azerbaigian, poiché anche le economie di alcuni degli altri membri del blocco sono in difficoltà. Pertanto, l’EAEU è in trattative per un accordo di libero scambio permanente con l’Iran. (Le due parti hanno firmato un accordo commerciale provvisorio nel 2018.) Il blocco ha anche accordi di libero scambio con Serbia, Vietnam e Singapore, e entro il 2025, India, Israele ed Egitto saranno aggiunti all’elenco. Ciò significa che unendosi al blocco, l’Azerbaigian avrà accesso a una serie di mercati aggiuntivi, non solo a quelli dei suoi cinque membri.

Un altro vantaggio è che aiuterebbe a domare le ostilità con il rivale storico dell’Azerbaigian, l’Armenia. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha affermato che il suo paese non si opporrà all’adesione dell’Azerbaigian se contribuirà alla pace regionale. La dichiarazione è un chiaro ramoscello d’ulivo visti i frequenti scontri tra i due Paesi.

Ostacoli

Ma ci sono anche ostacoli nel percorso della Russia per trascinare l’Azerbaigian nell’UEE. In primo luogo, acquisire l’appartenenza, o anche lo status di osservatore, può essere un processo lungo che richiede il consenso tra tutti i membri dell’EAEU. Dati i requisiti legali per l’adesione al blocco, nonché le tensioni in corso con l’Armenia, i negoziati potrebbero complicarsi. Mosca potrebbe dover provvedere per un po’ all’Azerbaigian per mantenerlo interessato, il che è difficile da fare data la concorrenza nella regione.

In secondo luogo, Baku deve considerare le reazioni degli altri suoi alleati. L’Azerbaigian sta aumentando il commercio con i paesi europei e stringendo alleati con la Turchia. Preferisce trovare un equilibrio tra Occidente e Russia, piuttosto che schierarsi.

In terzo luogo, l’EAEU ha problemi interni propri. Gli Stati membri non sono d’accordo su una serie di questioni e non sono sempre disposti a concedere per colmare le loro divisioni. È anche in competizione per l’influenza con la Comunità degli Stati Indipendenti, un’altra istituzione guidata dalla Russia che consiste di nazioni post-sovietiche. Inoltre, il mercato comune della UEE è ancora in evoluzione, con problemi sul funzionamento del mercato comune del gas e dell’energia e la migrazione dai paesi meno sviluppati a quelli più sviluppati.

In definitiva, l’Azerbaigian deve vedere i vantaggi dell’adesione; gli azeri medi devono sostenere il processo di integrazione; e non ci devono essere limiti alla libera circolazione delle merci, anche attraverso la regione del Nagorno-Karabakh, piena di conflitti. Senza che queste condizioni siano soddisfatte, è improbabile che l’Azerbaigian voglia unirsi al blocco. Sarà difficile da raggiungere nel medio termine, ma per Mosca questo è il momento migliore per fare la sua mossa, poiché Baku cerca partner affidabili per rilanciare la sua economia e i suoi partner tradizionali sono impantanati nei propri problemi. Tirare l’Azerbaigian nell’UEE sarebbe una vittoria per il Cremlino. Non è un percorso facile, ma è quello che Mosca seguirà per tutto il prossimo anno.

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Libia: offuscamenti democratici sulla realtà, di Bernard Lugan

In Libia, le elezioni del 24 dicembre 2021 sono state cancellate e “rinviate”.

Gli ingenui  avevano assicurato che avrebbero chiuso la parentesi del caos aperta nel
2011 da un Nicolas Sarkozy molto mal ispirato da BHL. Un fallimento in più per il benpensante democratico-occidentale. Da quando nel 2011, rifiutando di prendere in considerazione le realtà umane, quest’ultima anzi pretende di ricostruire la Libia intorno

a prerequisito elettorale incompatibile con il sistema politico tribale. Quindi un vicolo cieco

sulla base di quattro grandi errori:
1) Il postulato dell’esistenza di una nazione libica. Ordunque, non esiste identità Libica. La costante storica è piuttosto la debolezza del potere centrale in relazione alle tribù. Le basi demografiche dei gruppi tribali sono certamente scivolato verso le città, ma il legami tribali non si sono certo allentati. Raggruppate in alleanze o confederazioni le tribù hanno loro proprie regole interne di funzionamento che non coincidono con la democrazia individualista occidentale basata su “Un uomo, un voto”.
2) Non aver visto che il colonnello Gheddafi aveva fondato il suo potere sull’equilibrio tra le tre principali confederazioni libiche.
Or dunque, eliminato il colonnello eliminò, queste ultime hanno riacquistato la propria autonomia in relazione al potere centrale.

3) Avere privilegiato politici di ritorno dall’esilio e ignorato le vere forze del paese

Ora, insediati dagli occidentali, questi politici non rappresentano che solo se stessi e

non le reali forze del paese che sono le tribù.

Il 14 settembre 2015, il Consiglio delle tribù della Libia aveva dichiarato a questo proposito che solo il figlio del colonnello Gheddafi, Seif al-Islam era autorizzato a parlare in loro nome.

4) Hanno imposto il prerequisito elettorale prima di ricostruire lo stato

La priorità però non sono le elezioni.
Come dopo il 1945, fu necessario stabilire un nuovo patto sociale partendo dalla realtà  tribale e regionale. Tutto al contrario, ingabbiati dalla loro ideologia, gli occidentali hanno postulato che le elezioni avrebbero permesso di raggiungere un consenso nazionale
tra le fazioni libiche.

Nel 2012 e 2014, tre elezioni sono state poi organizzate con un forcipe e hanno permesso di eleggere un Congresso Generale, un’Assemblea Costituente, poi una Camera dei Rappresentanti.
Nell’agosto 2014, minacciata dalle milizie, queste ultime si rifugiarono a Tobruk, in Cirenaica.
Invece di costruire consenso, queste tre elezioni hanno al contrario accentuato le divisioni locali, ampliato il divario tra Tripolitania e Cirenaica e provocato una guerra civile all’interno della guerra civile, specialmente in Tripolitania. Di conseguenza, una guerra di tutti contro tutti senza via d’uscita, punteggiato di accordi internazionali mai rispettati sul terreno e alla fine l’interferenza della Russia e della Turchia.
Oggi, e più che mai, la Libia è tagliata in due, messa male se non attraverso un sistema confederale in grado di riportare la Cirenaica e i Tripolitani a inventarsi un destino comune. Ma la “comunità internazionale ” si ostina ad esigere che la data delle elezioni sia

fissata …

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Intervista con il professor David Arase dell’Università di Hong Kong e dell’Hopkins-Nanjing Center Di SCOTT FOSTER

Belt & Road Phase 2 va oltre l’infrastruttura
Intervista con il professor David Arase dell’Università di Hong Kong e dell’Hopkins-Nanjing Center
Di SCOTT FOSTER
29 DICEMBRE 2021
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Il corridoio economico Cina-Pakistan da 60 miliardi di dollari è una parte importante della Belt and Road Initiative cinese. Immagine: CPEC/Facebook
Tieni d’occhio la Belt & Road Initiative della Cina nel nuovo anno. Sta succedendo più di quanto generalmente si creda.

Belt & Road non è solo la costruzione di “corridoi” di trasporto terrestre e marittimo attraverso e intorno all’Asia verso l’Africa, l’Europa e oltre per facilitare il commercio; non solo porti e porti costruiti dai cinesi lungo le coste dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che potrebbero essere trasformati in basi navali; non solo una “diplomazia della trappola del debito” volta a trascinare le nazioni in via di sviluppo in un ordine internazionale cinese emergente.

David Arase, professore onorario presso l’Asia Global Institute presso l’Università di Hong Kong e professore residente di politica internazionale presso l’Hopkins-Nanjing Center della Johns Hopkins University School of Advanced International Studies, affronta questi punti in modo molto dettagliato.

Dettagli più che sufficienti per smentirci dall’idea che – i suoi metodi e i suoi scopi essendo stati chiamati in causa dalla rumorosa diplomazia americana – Belt & Road sia in svantaggio.

In un saggio pubblicato , Arase scrive che i cinesi sono da tempo consapevoli delle carenze dell’originale Belt & Road Initiative (BRI) incentrata sulle infrastrutture fisiche – compreso il rischio di credito, ambientale e reputazionale – e se ne stanno occupando in modo completo , modo lungimirante:

Con il secondo Belt and Road Forum (BRF) nel 2019, la Cina aveva reagito alle prospettive di rischio-rendimento negative della fase iniziale di cooperazione annunciando una nuova era “verde e sostenibile” per la Belt and Road…

Meno notato, ma forse più significativo, è stato il nuovo focus sull’armonizzazione di diversi regimi legali, politici e di standard tecnici tra i paesi BRI collegati. Nel suo discorso al BRF del 2019, [il presidente cinese] Xi ha sottolineato che “dobbiamo promuovere la liberalizzazione e la facilitazione del commercio e degli investimenti, dire no al protezionismo e rendere la globalizzazione economica più aperta, inclusiva, equilibrata e vantaggiosa per tutti”. In termini concreti, ciò significava promuovere standard uniformi per le zone di libero scambio, la protezione della proprietà intellettuale, le regole sul trasferimento di tecnologia, la riduzione delle tariffe, la stabilizzazione del tasso di cambio, l’applicazione dei trattati commerciali e la risoluzione delle controversie commerciali e di investimento…

Mentre sarebbe ancora necessaria la cooperazione in progetti di infrastrutture pesanti per aggiornare la connettività dei corridoi, la cooperazione BRI si è espansa nella tecnologia: tecnologie digitali ad alta intensità di conoscenza (la “via della seta digitale”), industrie legate alla salute (la “via della seta della salute”) e complesse Progetti di Internet of Things (IoT) basati sul 5G come le città intelligenti (“cooperazione per l’innovazione”).

Con questo come sfondo – e non potendo incontrarmi a causa del virus – ho intervistato via e-mail il professore di Tokyo. Ecco la prima parte dell’intervista modificata in due parti:

D: Hai parlato prima del fatto che la Belt & Road cinese non è solo una questione di promozione del commercio attraverso le infrastrutture, ma una geostrategia completa con una componente militare. Potresti approfondire?

I progetti infrastrutturali Belt & Road creano una testa di ponte per il commercio, gli investimenti, la finanza, la tecnologia e la logistica cinesi per entrare nelle economie dei paesi in via di sviluppo molto più piccoli e per modernizzare e dominare i settori in cui possono operare con profitto.

Se l’economia modernizzata di un paese raggiunge un punto in cui non può essere mantenuta senza le imprese cinesi e l’accesso alla finanza, al commercio e alla tecnologia cinesi, i governi messi in questa situazione sarebbero soddisfatti, corrotti o costretti a seguire le richieste e le preferenze cinesi per garantire le proprie interesse per la stabilità economica e politica.

Potrebbero persino essere persuasi a richiedere la cooperazione con l’Esercito di liberazione popolare e i ministeri della sicurezza civile cinese per proteggere e difendere i loro investimenti congiunti in infrastrutture e connettività Belt & Road con la Cina.

Se questo tipo di situazione si diffondesse in tutta l’impronta della Belt & Road, con le loro future prospettive economiche e politiche in gioco, i governi di tutta l’Eurasia non avranno altra scelta che cooperare con le agende di governance economica, politica e di sicurezza della Cina, anche se queste minano e sostituiscono quelle degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

La BRI promuove questo tipo di strategia geo-economica fornendo “hardware” o impianti fisici, attrezzature, trasporti, energia e infrastrutture digitali finanziate da banche statali e costruite e gestite da imprese statali cinesi.

Queste entità di punta dello stato di partito portano un intero ecosistema di esportatori cinesi, subappaltatori, fornitori di servizi di lavoro, imprese private e piccoli imprenditori ovunque siano costruiti i progetti Belt & Road.

D: Ma questo processo non crea sempre più risorse all’estero che la Cina deve proteggere?

Esattamente. Quando uno stato accumula interessi acquisiti all’estero, deve provvedere alla loro protezione. L’ordine [internazionale] basato su regole ha stabilito norme concordate a livello multilaterale e giuridicamente vincolanti che disciplinano l’acquisizione e la protezione degli interessi esteri.

Ma affinché il sistema funzioni in assenza di un governo mondiale, tutte le parti contraenti devono rispettare le norme che si sono impegnate a sostenere.

Secondo l’ordine attuale, ci sono due ragioni diverse per sviluppare capacità armate e reclutare alleati per difendere i tuoi interessi all’estero. Uno è quello di difendere i tuoi diritti legittimi secondo l’ordine basato sulle regole. L’altro è rivendicare con forza nuovi diritti e imporre nuove norme di governance per migliorare i propri interessi a spese delle norme esistenti e dei diritti di altri attori.

L’accumulo di interessi all’estero è ciò che la Belt & Road Initiative fa in grande stile attraverso e intorno all’Eurasia. Mentre la Cina costruisce porti, piantagioni, miniere, ferrovie, parchi industriali e zone commerciali, nuovi mercati, nuove rotte di trasporto e comunità di cittadini d’oltremare, non può essere criticata per aver cercato modi per proteggerli.

D: Significa che ciò che è iniziato come attività economica è ora collegato alla difesa nazionale della Cina?

Al contrario, lo è stato fin dall’inizio.

La Belt & Road Initiative è stata lanciata nell’autunno 2013 insieme a iniziative diplomatiche, politiche e istituzionali complementari per costruire un nuovo tipo di ordine internazionale incentrato sulla Cina. Queste iniziative dei partner includevano la “diplomazia della periferia”, la costruzione di una “comunità di destino comune” e l’Asian Infrastructure Investment Bank.

L’infrastruttura Belt & Road deve essere costruita in conformità con i mandati legali e politici formali della Cina che implementano l’integrazione o la fusione militare-civile. La legge sulla mobilitazione della difesa nazionale del 2010 stabilisce che i progetti di infrastrutture civili “strettamente correlati alla difesa nazionale devono soddisfare i requisiti di difesa nazionale e possedere funzioni di difesa nazionale” e devono essere consegnati per uso militare quando necessario.

Le guardie di sicurezza camminano davanti a un cartellone per il Belt and Road Forum per la cooperazione internazionale a Pechino il 13 maggio 2017. Foto: AFP / Wang Zhao
Il 13 ° Piano quinquennale (2017-21) prevede progetti integrati di sviluppo civile-militare nelle regioni marittime d’oltremare. Il libro bianco sulla difesa del 2015 richiede uno sviluppo di infrastrutture che tenga conto sia dell’uso civile che militare che sia “compatibile, complementare e reciprocamente accessibile”.

E la legge nazionale sui trasporti del 2017 richiede “pianificazione, costruzione, gestione e utilizzo delle risorse nei settori dei trasporti come ferrovie, strade, corsi d’acqua, aviazione, condutture e porti allo scopo di soddisfare i requisiti della difesa nazionale”.

Le imprese statali cinesi che progettano e costruiscono infrastrutture BRI devono agire in conformità con queste leggi.

D: E questo, presumo, porta inevitabilmente all’espansione delle attività cinesi legate alla sicurezza all’estero?

Sì. La Cina non riconosce alcuna connessione formale tra Belt & Road e l’Esercito di Liberazione Popolare. Ma in realtà, l’estensione degli interessi di investimento all’estero tramite Belt & Road richiede che i ruoli e le missioni di protezione all’estero dell’esercito stiano al passo.

Secondo i pianificatori strategici dell’esercito, “dove gli interessi nazionali si espandono, deve seguire il supporto della forza militare”. Pertanto, l’influenza geopolitica della Cina avanza con l’Iniziativa Belt & Road all’avanguardia e con l’Esercito di Liberazione Popolare che fa da retroguardia per proteggere gli investimenti Belt & Road e le rotte commerciali da potenziali minacce.

Nello svolgere le sue missioni di protezione all’estero di Belt & Road, l’Esercito di Liberazione del Popolo dovrebbe trovare governi partner di Belt & Road disposti ad accettare istruzione, addestramento e attrezzature militari che migliorano la propria sicurezza nazionale e la sicurezza degli investimenti cinesi.

L’Esercito di Liberazione del Popolo dovrebbe anche trovare il porto di Belt & Road e le infrastrutture di trasporto accessibili, familiari e facili da usare in caso di emergenza, se necessario.

Con l’avvio della Belt & Road Initiative dal 2013, non è casuale che la legge antiterrorismo del 2015 abbia autorizzato la polizia armata popolare a svolgere missioni antiterrorismo all’estero e che il white paper della difesa del 2015 abbia aggiunto la salvaguardia della sicurezza degli interessi cinesi all’estero. e mantenere la pace regionale e mondiale per le missioni strategiche dell’Esercito di Liberazione Popolare.

Il white paper della difesa del 2019 descrive “interessi all’estero” come operazioni e supporto militari all’estero migliorati, strutture logistiche all’estero, operazioni di protezione delle navi, sicurezza strategica delle rotte marittime e operazioni di evacuazione all’estero e di protezione dei diritti marittimi.

Nel 2020, la legge sulla difesa nazionale è stata rivista per aggiungere “salvaguardia degli interessi cinesi all’estero” e ha autorizzato l’Esercito di liberazione popolare a “mobilitare le sue forze” per “difendere i suoi interessi nazionali e interessi di sviluppo e risolvere le differenze con l’uso della forza” come aggiunte. alle “missioni e compiti” dell’esercito.

Le attività della Belt & Road e gli investimenti commerciali e gli interessi commerciali successivi costituiscono ovviamente interessi di sviluppo all’estero, quindi ora l’Esercito di Liberazione Popolare, aiutato dalla diplomazia cinese, deve sviluppare cooperazione e capacità per difendere questi interessi se ordinato dal Partito Comunista Cinese. .

Non è che l’esercito cinese si sia fatto cogliere impreparato. La marina cinese completerà una terza portaerei (e nuovo modello) entro l’estate 2021 e ha iniziato a costruirne una quarta. Ha anche sviluppato una forza antiterrorismo in grado di dispiegarsi all’estero, un corpo di marina di spedizione e un corpo di paracadutisti con grandi nuovi tipi di navi da trasporto marittimo e aereo per dispiegare queste forze.

Con una sola base d’oltremare ufficialmente riconosciuta a Gibuti, la protezione all’estero degli interessi di sviluppo di Belt & Road richiederà la negoziazione di accordi con i paesi ospitanti per la transizione di porti, aeroporti e zone di sviluppo che fino ad ora erano esclusivamente civili in strutture a uso doppio o parallelo disponibili per supportare un livello rafforzato di presenza strategica dell’Esercito di Liberazione del Popolo per garantire gli interessi di sviluppo dei paesi partner cinesi e Belt & Road.

D: In che modo questo cambia il calcolo della geostrategia Belt & Road?

Oltre ad assicurare il sostegno alle operazioni dell’Esercito di Liberazione Popolare, i dividendi includono la definizione dell’agenda nei forum di governance regionale; la conquista dei mercati e l’approvvigionamento di risorse critiche; Belt & Road cooperazione con i partner militari e di polizia dello stato del partito per garantire interessi e aumentare l’influenza con i partner; e l’influenza politica attraverso l’istruzione e la formazione di politici, funzionari governativi, soldati e poliziotti e giovani nei paesi partner. Per un partito-stato dedito all’agenda del sogno cinese, tali guadagni politici e strategici potrebbero superare di gran lunga il costo finanziario delle cancellazioni del prestito del progetto Belt & Road.

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Scott Foster, laureato alla Johns Hopkins University School of Advanced International Studies di Washington, DC, è un analista presso LightStream Research a Tokyo. Seguilo su Twitter: @ScottFo83517667

Buon Anno a modo nostro dalla redazione e da TKG

Anche il 2021 è andato. Auguriamo un 2022 migliore del precedente. Sarà un anno intrigante e inquietante nel mondo; dal destino segnato, ahimé, per il nostro paese. Sappiamo però che i destini privati non coincidono necessariamente con quelli di una comunità. E’, comunque, nostro dovere e nel nostro piccolo far emergere le risorse vitali che pur esistono nel nostro paese. Come con gli auguri natalizi intendiamo affermare lo spirito che alimenta l’impegno nel nostro sito con la pubblicazione di un contributo di una figura esterna, ma ormai affezionatissima_Giuseppe Germinario

PANDEMIA DOCET, di Teodoro Klitsche de la Grange

A detta di tanti, la pandemia – ormai biennale – ha insegnato molte cose, e altrettante ne cambierà. Perciò m’intruppo anch’io in questa (folta) compagnia, onde esporre quale ammaestramento – a mio avviso – se ne può trovare.

Il pensiero prevalente a livello di comunicazione mainstream prima della pandemia trovava il proprio nocciolo duro nelle credenze che: a) il mondo viaggiasse sul binario di un progresso lineare ed irreversibile dal più povero al più ricco, dal più violento al meno violento, dal più malato al più sano (e così via) b) all’orizzonte, ma già in larga misura in atto, c’era un ordinamento sociale privo d’eccezioni e quindi puramente normativo ed essenzialmente statico.

Nell’utopismo marxista (finito) era la società senza classi; nel successivo pensiero unico (e anche debole) ha assunto forme e nomi (parzialmente) diversi, dalla “fine della storia” alla “governance globale”. Tutte accumunate dal fatto che le emergenze, in tutte le loro manifestazioni, erano sostanzialmente finite, quali stroncate (il più delle volte) dal progresso, e ridotte in altre – più limitate (dal terremoto all’incidente aereo)- dalla capacità di contenerne e ridimensionarne gli effetti negativi.

La pandemia ha mostrato il carattere illusorio, anzi affabulatorio di certe credenze: è stata l’irruzione della realtà in un mondo di favole.

Il fatto che ci sia già costata oltre cinque milioni di morti e danni enormi (economici e sociali); e perfino che abbia limitato al minimo i consumi voluttuari (con scorno delle élite), rende impossibile ricondurla alla prima o alla seconda categoria: quanto alla seconda, per le dimensioni (non è un terremoto appenninico); quanto alla prima perché è evidente che il progresso non ci protegge da certi eventi. Anzi, una verosimile spiegazione della nascita e diffusione del Covid lo ascrive ad un errore nel laboratorio di Wu-Han, costruito – si dice – per lo studio delle malattie virali. Un classico caso di eterogenesi dei fini, scriverebbe Max Weber (a non fare ipotesi più maligne).

Resta il fatto che il progresso non produce solo il bene, ma anche il male: e in ogni caso, ci aiuta, ma non elimina i rovesci della fortuna.

Uso il termine impiegato da Machiavelli nel XXV capitolo del Principe, perché il genio fiorentino contrappone alla fortuna la virtù (dei governanti). La fortuna assomiglia a un fiume che allaga e distrugge edifici e colture; ciononostante gli uomini possono limitarlo con argini e ripari “Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta a sua impeti, dove ella sa che non sono fatti gli argini né ripari a tenerla”. In Italia trova una campagna senza argini, ossia manca virtù nei governanti. Cosa che non succede nella “Magna, la Spagna e la Francia”.

Ad applicarla alla situazione italiana nelle crisi di questo secolo (quella finanziaria del 2008 e la pandemica), abbiamo la conferma di quanto sosteneva il segretario fiorentino: le due crisi sono state affrontate da governanti carenti di virtù. Tant’è che la prima si è trascinata in Italia per oltre un decennio, e in Europa (in Magna….) è durata assai di meno e provocato danni inferiori.

Quanto alla seconda, per trovare una risposta organizzativa non scadente in misure da “parata” (primule, banchi a rotelle, ecc. ecc.) abbiamo dovuto cambiare governo. Non so se questo basterà. Ma qualche miglioramento sicuramente l’abbiamo visto. Resta il fatto che la pandemia ci ha insegnato che i paternostri dispensati a piene mani dalla classe dirigente erano inutili; che tale inutilità era data essenzialmente dal non comprendere che la virtù consiste nella capacità di dare una risposta efficace a situazioni improvvise; che norme e progresso servono a poco se non adatte ad affrontare l’emergenza. E che la vita non è un viaggio in treno dove comunque, senza fatica, si arriva a destinazione. Ma soprattutto che per affrontare le crisi occorre la virtù, ossia la capacità prima di prevederle e prepararsi, poi di gestirle. Cioè tutto il contrario di quanto ci hanno propinato da decenni. Non so se l’anno prossimo vedremo il capitolo XXVI del Principe, ossia il riscatto generato proprio dall’aggravarsi della crisi. Non si vede il Principe adatto, né moderno né antico; d’altra parte la stessa sorte toccò a Machiavelli e all’Italia del XVI secolo, che trovò il proprio Principe solo nel XIX.

Teodoro Klitsche de la Grange

Fusione nucleare e ENI: perché conta, di Piergiorgio Rosso

Qui sotto un breve articolo di Piergiorgio Rosso, apparso su www.conflittiestrategie.it, riguardante lo stato dell’arte, in casa ENI, sulle prospettive di ricerca del processo di fusione nucleare e un lungo articolo, dal carattere prevalentemente agiografico ma comunque interessante, del sito IndustriaItaliana, sulla partecipazione della piccola e media industria italiana allo sviluppo delle moderne tecnologie nucleari. Seguirà all’indomani un lungo commento ai due testi. _Giuseppe Germinario

Il quotidiano La Verità del giorno 22 dicembre u.s. dedicava l’intera pagina 19 ad un articolo molto informato sulle prospettive della ricerca sulla fusione nucleare soffermandosi in particolare sul ruolo dell’ENI.

 Le osservazioni in proposito sono diverse e tutte rilevanti. La prima è che ci sono voluti 100 giorni dal comunicato ANSA, perché della questione se ne parlasse diffusamente su un quotidiano quindi destinato al grande pubblico non specializzato. I cosiddetti “giornaloni si sono limitati a riportare delle sintesi dell’agenzia ANSA in merito, relegate per lo più nelle pagine di economia/mercato.

 La seconda è che l’ENI, una delle poche grandi aziende italiane sopravvissute con difficoltà allo smantellamento/spezzettamento sistematico subito dall’industria pubblica italiana negli ultimi trent’anni, sta giocando un ruolo da protagonista in un campo di ricerca di punta, ad altissima tecnologia, con ampie ricadute in tutti i settori industriali. Svolgendo puntualmente il ruolo che lo Stato le ha affidato in particolare nel campo energetico. La scelta di allearsi con gli americani del MIT assumendo la maggioranza azionaria in CFS – la società che ha realizzato il test positivo di un magnete superconduttore per il confinamento del plasma – sembra suggerire che il gruppo dirigente ENI abbia scelto un approccio insieme realistico ed autonomo. Occorre infatti sottolineare come la ricerca in questo campo coinvolge tutte le nazioni ad alto sviluppo scientifico e la competizione per arrivare “primi” a produrre energia da questa fonte, è fortissima.

 La terza è che la notizia del test positivo superato da CFS è arrivata proprio nel momento in cui è diventato evidente e di dominio pubblico (…finalmente! è il caso di dire …) che la sostituzione dei combustibili fossili con eolico e solare è una chimera – per l’intermittenza di vento e sole – oltretutto poco sostenibile socialmente ed economicamente. Il significativo disinvestimento nell’esplorazione e sfruttamento delle riserve di fonti fossili, stimolato in questi ultimi anni dalle politiche energetiche definite “alternative/ecologiche”, ha comportato una penuria delle stesse fonti che ha messo in crisi settori fondamentali (come l’industria dei fertilizzanti) e ne ha fatto schizzare i prezzi. Tutto questo ha rilanciato il dibattito sulle fonti energetiche nucleari da fissione (una realtà consolidata) e da fusione. Per quanto riguarda la prima, l’Unione Europea si è convinta a definirla “sostenibile”, garantendole i necessari investimenti (gode la Francia, nicchia la Germania). Per quanto riguarda la seconda, è uscita opportunamente dai laboratori ed è stata presentata sulla scena pubblica come uno dei protagonisti dei prossimi decenni.

 Che su questa scena sia apparsa l’ENI da protagonista non può che essere motivo di soddisfazione. Non sfugge d’altra parte che il comunicato ENI del 21 settembre scorso, ripreso e rilanciato dall’ANSA, potrebbe riflettere anche una reazione difensiva da parte ENI, da tempo attaccata su vari fronti e da diverse direzioni, nazionali ed internazionali.

Se poi consideriamo la scarsa attenzione che la grande stampa nazionale ha rivolto a quel comunicato, capiamo come sia ancora lunga la strada da percorrere per ribaltare la narrazione ambientalista relativa alla “nocività-della-CO2-di-origine-antropica-per-il-pianeta” e difficile, ancorché necessario, su questa stessa strada difendere e rilanciare la nostra grande industria energetica nazionale.

Da qui la nostra enfatizzazione di questo importante evento scientifico/tecnologico che nella nostra lettura permette tra l’altro di rilanciare la significatività e fertilità – anche interpretativa dei fatti – del concetto lagrassiano di conflitto strategico per la supremazia, agente in tutte le sfere sociali. In questo specifico caso nell’industria/finanza, nella comunicazione/controllo dei media, nella politica.

http://www.conflittiestrategie.it/fusione-nucleare-e-eni-perche-conta-di-piergiorgio-rosso

Eni e CFS: raggiunto un traguardo fondamentale nella ricerca sulla fusione a confinamento magnetico

08 SETTEMBRE 2021 – 1:15 PM CEST
Una fonte di energia sicura, sostenibile e inesauribile che riprodurrà i principi alla base della generazione dell’energia solare

 

San Donato Milanese, 8 settembre 2021 – Eni annuncia che CFS (Commonwealth Fusion Systems), società spin-out del Massachusetts Institute of Technology di cui Eni è il maggiore azionista, ha condotto con successo il primo test al mondo del magnete con tecnologia superconduttiva HTS (HighTemperature Superconductors) che assicurerà   il confinamento del plasma nel processo di fusione magnetica.

La fusione a confinamento magnetico, tecnologia mai sperimentata e applicata a livello industriale finora, è una fonte energetica sicura, sostenibile e inesauribile che riproduce i princìpi tramite i quali il Sole genera la propria energia, garantendone una enorme quantità a zero emissioni e rappresentando una svolta nel percorso di decarbonizzazione.

La tecnologia oggetto del test è di particolare rilevanza nel quadro della ricerca sulla fusione a confinamento magnetico poiché rappresenta un passo importante per creare le condizioni di fusione controllata, e questo rende possibile il suo impiego in futuri impianti dimostrativi. Studiare, progettare e realizzare macchine in grado di gestire reazioni fisiche simili a quelle che avvengono nel cuore delle stelle è il traguardo tecnologico a cui tendono le più grandi eccellenze mondiali nella ricerca in ambito energetico.

L’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha commentato: “Lo sviluppo di tecnologie innovative è uno dei pilastri su cui poggia la strategia di Eni volta al completo abbattimento delle emissioni di processi industriali e prodotti, nonché la chiave per una transizione energetica equa e di successo. Per Eni, la fusione a confinamento magnetico occupa un ruolo centrale nella ricerca tecnologica finalizzata al percorso di decarbonizzazione, in quanto potrà consentire all’umanità di disporre di grandi quantità di energia prodotta in modo sicuro, pulito e virtualmente inesauribile e senza alcuna emissione di gas serra, cambiando per sempre il paradigma della generazione di energia e contribuendo a una svolta epocale nella direzione del progresso umano e della qualità della vita. Il risultato straordinario ottenuto durante il test dimostra ancora una volta l’importanza strategica delle nostre partnership di ricerca nel settore energetico e consolida il nostro contributo allo sviluppo di tecnologie game changer”.

Eni è impegnata da tempo in questo ambito di ricerca e nel 2018 ha acquisito una quota del capitale di CFS per sviluppare il primo impianto che produrrà energia grazie alla fusione. Contestualmente, l’azienda ha sottoscritto un accordo con il Plasma Science and Fusion Center del Massachusetts Institute of Technology (MIT), per svolgere congiuntamente programmi di ricerca sulla fisica del plasma, sulle tecnologie dei reattori a fusione, e sulle tecnologie degli elettromagneti di nuova generazione.

Il test ha riguardato proprio l’utilizzo di tali elettromagneti di nuova generazione per gestire e confinare il plasma, ovvero la miscela di deuterio e trizio portata a temperature altissime da fasci di onde elettromagnetiche, e ha dimostrato la possibilità di assicurare l’innesco e il controllo del processo di fusione, dimostrando l’elevata stabilità di tutti i parametri fondamentali. La tecnologia oggetto del test potrebbe contribuire significativamente alla realizzazione di impianti molto più compatti, semplici ed efficienti. Ciò contribuirà a una forte riduzione dei costi di impianto, dell’energia di innesco e mantenimento del processo di fusione e della complessità generale dei sistemi, avvicinando in tal modo la data alla quale sarà possibile costruire un impianto dimostrativo che produca più energia di quella necessaria ad innescare il processo di fusione stesso (impianto a produzione netta di energia) e consentendo, successivamente, la realizzazione di centrali che possano più facilmente essere distribuite sul territorio e connesse alla rete elettrica senza dover realizzare infrastrutture di generazione e trasporto dedicate.

Sulla base dei risultati del test, CFS conferma la propria “roadmap”, che prevede la costruzione entro il 2025 del primo impianto sperimentale a produzione netta di energia denominato SPARC e successivamente quella del primo impianto dimostrativo, ARC, il primo impianto capace di immettere energia da fusione nella rete elettrica che, secondo la tabella di marcia, sarà disponibile nel prossimo decennio.

SPARC sarà realizzato assemblando in configurazione toroidale (una ciambella detta “tokamak”) un totale di 18 magneti dello stesso tipo di quello oggetto del test. In tal modo sarà possibile generare un campo magnetico di intensità e stabilità necessarie a contenere un plasma di isotopi di idrogeno a temperature dell’ordine di 100 milioni di gradi, condizioni necessarie per ottenere la fusione dei nuclei atomici con il conseguente rilascio di un’elevatissima quantità di energia.

https://www.eni.com/it-IT/media/comunicati-stampa/2021/09/cs-eni-cfs-raggiunto-fusione-confinamento-magnetico.html

Nucleare: il tassello perfetto per raggiungere il net zero. E un’industria che ci piace moltissimo!

di Filippo Astone e Laura Magna ♦︎ È un settore che vedrà la rivoluzione della fusione e tecnologie di avanguardia nella fissione: i mini reattori modulari. In Italia, una filiera di aziende fornitrici di significativo impatto economico: Ansaldo Nucleare, Fincantieri, Asg, Cestaro Rossi, Simic. I progetti Iter e Dtt per reattori di quarta generazione

Tokamak

Il net zero? Impossibile senza Nucleare, soprattutto quello in parte avveniristico della Fusione, ma anche la nuova fissione dei mini-reattori.  Una verità che emerge con forza in questi giorni, dopo che la Commissione europea ha deciso che il nucleare rientrerà nella tassonomia delle attività economiche sostenibili. Una mossa rivoluzionaria che segue la presa di posizione del ministro italiano per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, secondo cui non solo l’accelerazione data dalle rinnovabili è insufficiente per la transizione ma «non ha senso pensare che dietro l’aggettivo nucleare si celino solo ed esclusivamente tecnologie pericolose, poco efficaci e costose». Anche perché il nucleare sta cambiando profondamente – non è più quello della vecchia fissione rigettato da due referendum anche nel nostro Paese.

Ma è un settore caratterizzato da tecnologie di avanguardia nella fissione stessa (come i mini reattori modulari) ma che soprattutto mirano a creare energia dalla fusione tra atomi, replicando lo stesso processo che avviene nelle stelle. Last but not least, come raccontiamo nell’articolo qui nel nostro Paese è presente una filiera di aziende fornitrici di tecnologie ad altissimo valore aggiunto e di significativo impatto economico. Filiera preziosa e strategica, da difendere e da far crescere il più possibile. Per tutti questi motivi, Industria Italiana è fortemente a favore del nucleare: la fusione in primo luogo, ma anche la nuova fissione dei mini-reattori puliti. Riteniamo che l’avversione pre-giudiziale e irrazionale verso il Nucleare sia l’ennesima manifestazione dell’autolesionismo italico e di quella mentalità anti-impresa che ha già fatto troppi danni. (Filippo Astone)

I protagonisti della filiera italiana del Nucleare, che sta cambiando

Iter è un reattore deuterio-trizio in cui il confinamento del plasma è ottenuto in un campo magnetico all’interno di una macchina denominata Tokamak. La costruzione è in corso a Cadarache

Un settore che vede tra i suoi protagonisti, in Italia, aziende di grandi dimensioni come Ansaldo Nucleare e Fincantieri, ma anche e soprattutto pmi attive nella componentistica a elevato contenuto di innovazione: la Asg della famiglia Malacalza che produce magneti superconduttivi; Cestaro Rossi, meccanica pugliese che ha diversificato nella costruzione e nel montaggio di impianti nucleari; Simic che partendo dall’oil&gas si è poi specializzata nei Tf coils, tubi che contengono i magneti superconduttivi.

E un settore che sta cambiando grazie in particolare a due progetti, quello globale – ma con un cuore tutto italiano – Iter e quello domestico Dtt. Sono progetti che valgono, solo per la filiera italiana oltre due miliardi (1,6 il primo e 600 milioni il secondo). E sono i progetti che abiliteranno i reattori di quarta generazione, capaci di garantire la produzione di energia dalla fusione nucleare. La parte manifatturiera di Iter – al cui centro c’è la realizzazione del reattore sperimentale Tokamak, che si basa sull’approccio del confinamento magnetico – è all’80%. Lo afferma Sergio Orlandi, head of department di Iter Organisation. Per Dtt invece, secondo il presidente Francesco Romanelli, è stato impegnato il 30% del budget: la tecnologia italiana sarà usata per risolvere il problema dello smaltimento del calore che si genera nella fusione e che arriva intorno a 60 megawatt al metro quadro, gli stessi che avremmo se fossimo seduti sul sole. Quando i progetti vedranno la luce i primi impianti di generazione commerciale, nel 2035, secondo le stime più accreditate. Le informazioni e gli interventi che i lettori troveranno in questo articolo sono tratte da un recente convegno che Confindustria ha organizzato a Roma. La parte informativa è frutto di nostre rielaborazioni. Le parole virgolettate sono state pronunciate in quella sede.

L’energia da fusione? È necessaria (e va messa sullo stesso piano delle rinnovabili)

Oggi in Europa i reattori operativi sono 292, in cui viene prodotta il 20% dell’elettricità e il 43% della generazione a basse emissioni. Tuttavia, le fonti fossili dominano ancora, anche perché negli ultimi 20 anni oltre 70 reattori sono stati scollegati dalla rete e nella metà dei casi rimpiazzati da fonti fossili. Sono dati contenuti in un rapporto rilasciato dalla United Nations Economic Commission for Europe (Unece).

L’energia nucleare è una fonte di energia a basse emissioni di carbonio che ha svolto un ruolo importante nell’evitare le emissioni di CO2. Negli ultimi 50 anni, l’uso del nucleare ha ridotto la CO2 globale emissioni di circa 74 Gt, ovvero quasi due anni del totale emissioni globali legate all’energia. Solo l’energia idroelettrica ha svolto un ruolo maggiore nella riduzione storica emissioni

Secondo il rapporto, le centrali nucleari hanno un elevato potenziale di riduzione delle emissioni perché possono produrre in modo continuato sia elettricità sia calore utile a diversi processi, dal riscaldamento residenziale agli usi industriali. A favore del nucleare ci sono anche ragioni legate al costo (già con una penetrazione pari al 50%, le rinnovabili intermittenti renderebbero l’elettricità più costosa del nucleare). Senza considerare che sta aumentando vertiginosamente il prezzo del gas naturale, che è il migliore sostituto del nucleare per fornire backup alle rinnovabili intermittenti. Ma se il suo costo aumenta viene meno il vantaggio marginale.

 

L’LCOE confronta tutti i costi a livello di impianto, ma non lo fa non tener conto del valore o dei costi indiretti per il sistema complessivo ed è scarso per confrontare le tecnologie che operano in modo diverso (es. rinnovabili variabili e tecnologie dispacciabili). Mentre i costi della variabile le fonti di energia rinnovabile (VRE) stanno rapidamente diminuendo, queste tecnologie impongono anche costi di sistema aggiuntivi che iniziano ad aumentare significativamente a penetrazioni più elevate. Questi costi di sistema aggiuntivi aumentano il totale costo dell’energia elettrica

E anche sul fronte dell’impatto ambientale e sanitario il nucleare è vincente. L’impatto (sul ciclo di vita) è molto ridotto, più esiguo del solare e secondo solo all’eolico per quanto riguarda i potenziali danni agli ecosistemi. Tuttavia i progetti scontano le difficoltà insite nell’elevato costo capitale iniziale e nella durata di lungo termine che li rende soggetti al mutare delle agende politiche e dell’opinione pubblica. Ecco perché è prioritario che si instaurino politiche di supporto che consentano al nucleare di competere alla pari con le altre fonti a basse emissioni. E lo si fa, secondo Unece, perseguendo due strade: creando un clima a lungo termine favorevole agli investimenti, a cominciare dal suo inserimento nel novero degli investimenti sostenibili – punto che è stato almeno in parte soddisfatto grazie alla nuova tassonomia. E accelerando lo sviluppo delle tecnologie nucleari avanzate per favorirne l’ingresso sul mercato.

Anche le centrali nucleari richiedono acqua per il raffreddamento e questo deve essere gestito per prevenire impatti sul locale ecosistemi acquatici. Ciò richiede un’attenta ubicazione e valutazione di impatto ambientale. L’analisi comparativa del fabbisogno di spazio delle diverse fonti di energia è presentato nel grafico

 

La roadmap di Iter e il ruolo della filiera della fusione nucleare italiana

Su questo secondo punto sono proprio Iter e Dtt a poter fare la differenza. Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor) è in costruzione a Cadarache, nel Sud della Francia, per iniziativa di un consorzio internazionale che vede partecipare Europa, Russia, Cina, Giappone, Usa, India, Corea del Sud. Per la sua realizzazione saranno investiti 21 miliardi di euro. Si tratta del progetto più importante in assoluto a livello globale, avviato nel 2006: ne deriverà la prima centrale termonucleare al mondo. Al centro il già citato Tokamak, il reattore sperimentale a cui stanno lavorando tutti i grandi nomi e anche i più innovativi dell’industria italiana della fusione.

Le aziende italiane si sono aggiudicate circa il 60% dei contratti industriali del valore dei bandi per componenti ad alto contenuto tecnologico per la costruzione di Iter. Come cinque settori del Vacuum Vessel, la camera di vuoto del reattore, come pure i grossi magneti capaci di assicurare il confinamento magnetico del plasma nella camera stessa sono in produzione da parte di aziende italiane.

Circa il 60% dei contratti industriali per la costruzione di Iter sono stati aggiudicati da aziende italiane

Orlandi (Iter): «I lavori sono all’80%»

Tokamak, il reattore sperimentale a cui stanno lavorando tutti i grandi nomi e anche i più innovativi dell’industria italiana della fusione.
Le aziende italiane si sono aggiudicate circa il 60% dei contratti industriali del valore dei bandi per componenti ad alto contenuto tecnologico per la costruzione di Iter

Tokamak si sarebbe dovuta accendere nel 2019, ma a giugno 2016 il Consiglio Direttivo ha annunciato ufficialmente che la previsione iniziale per la data di ignizione dovrà essere spostata a dicembre 2025. Dello stato di avanzamento dei lavori parla Sergio Orlandi, head of department di Iter Organisation: «I lavori sono all’80% – dice Orlandi – Le imprese italiane hanno commesse per 1,5 miliardi di 7 miliardi di investimenti complessivi. Nato nel 2007 per accordi internazionali, il progetto prevede la costruzione di un sito grande almeno 4 volte un impianto medio nucleare a fissione, complesso, sulla frontiera delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e l’integrazione tra attori diversi che hanno cooperato in tempi difficili. Il sito comprenderà la parte elettrica con 400 kw volt, trasformatori di impianto, convertitore di potenza e impianto criogenico; pozzi freddi ad acqua e edifici ad alta frequenza».  Per quanto riguarda Tokamak, l’edificio reattore con una massa di 400mila tonnellate, con una platea (fondazione) di un metro e mezzo, numeri che già di per sé rappresentano un record, «tutto quello che ruota intorno a questa opera è completato, siamo al commissioning – dice Orlando –Il caricamento del combustibile nucleare è previsto a dicembre 2035». Ma l’impianto, spiega il responsabile, viene costruito per fasi successive, allo scopo di testare la macchina i progress: «il primo stadio è fissato a dicembre 2025 in cui facciamo la reazione di fusione pulita, studiamo il plasma e cerchiamo di mettere in commissionig tutti i sistemi; poi la fase due prevede il caricamento del criostato; e infine il test dei sistemi in modo integrato per avere certezza del buon funzionamento».

L’industria nostrana sta offrendo il suo altissimo contributo nelle attività di montaggio e di avviamento dell’impianto, qualificandosi per la capacità di assicurare la qualità del prodotto. I principali player sono Ansaldo Nucleare nell’assemblaggio e Fincantieri nei montaggi d’impianto. Ma anche nella costruzione: ancora Ansaldo è coinvolta nell’ideazione dei componenti chiave come il divertore o la camera di vuoto; il design della zona di raffreddamento delle acque; la produzione dei settori della Vacuum Vessel; la produzione dei prototipi dei divertori. Poi c’è il contributo di Asg, l’azienda della famiglia Malacalza che produce magneti superconduttivi e che ha un giro d’affari intorno ai 40 milioni, specializzata nella produzione di magneti superconduttivi: per Iter ha prodotto bobine poloidali in sito e bobine toroidali per le quali è stato necessario allestire una fabbrica ad hoc al porto di La Spezia in modo da poterle trasportare poi a Cadarache. E il lavoro delle Università di Pisa, Padova, Torino e Roma. Insomma un progetto che ha un cuore italiano.

Romanelli (Dtt): «Attività al picco nel prossimo biennio. Facciamo palestra per le necessarie partnership pubblico-private che dovranno seguire»

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Tokamak si sarebbe dovuta accendere nel 2019, ma a giugno 2016 il Consiglio Direttivo ha annunciato ufficialmente che la previsione iniziale per la data di ignizione dovrà essere spostata a dicembre 2025

Strettamente collegato alla realizzazione del reattore Tokamak di Iter è la Dtt (Divertor Test Tokamak), progetto questo tutto italiano avviato nel sito Enea di Frascati, con capofila Ansaldo Energia ed Enea. La roadmap di Dtt prevede la costruzione di un reattore dimostrativo nel 2050, la chiave è il successo di Iter e in cui il know how italiano ha avuto modo di farsi valere. «Ci siamo focalizzati sulla sfida principale che è lo smaltimento del calore che si genera nella fusione – dice il presidente Francesco Romanelli – Il calore fluisce verso il bordo del plasma e poi viene trasferito nel divertore (in una nicchia intorno ai bordi). Localmente i carichi termici arrivano intorno a 60 megawatt al metro quadro, gli stessi che avremo se fossimo seduti sul sole. Dobbiamo fare componenti in grado di sopravvivere sulla superficie del sole. Enea e Ansaldo Nucleare lavorano a questo».

Quanto allo stato di avanzamento, Dtt è già in costruzione, «abbiamo impegnato circa il 30% del budget, firmato contratti con Asg per la fornitura delle bobine superconduttrici, per i cavi e per le casse dei magneti stiamo per firmare, abbiamo una serie di attività che raggiungeranno il picco nel 2022-23 con gare per edifici e componenti della macchina». Un progetto che è un elemento fondamentale nella roadmap europea: una sfida e una grossa opportunità. «Prevede un salto tecnologico a livello di dimensioni e tipologie – continua Romanelli – Nelle tecnologie dei magneti superconduttori, nei sistemi di riscaldamento avanzati, nelle diagnostiche innovative: questo richiede una organizzazione del progetto adeguata che metta assieme tutte le competenze che servono». Ma non è solo sul fronte della tecnologia che Dtt rappresenta un balzo senza precedenti. «Si tratta – prosegue Romanelli – di un laboratorio interessante anche per lo studio di partnership pubblico-private: abbiamo di fronte una sfida per il sistema energetico che deve assicurare sostenibilità, sicurezza di approvvigionamento e competitività economica. La soluzione verrà da un portafoglio di fonti che includono fer, fissione, soluzioni di cattura di co2 ma la fusione ha interesse particolare per i vantaggi che offre. È una sorgente diffusa e infinita. Deuterio e litio nell’acqua durano 30 milioni di anni, non producono gas serra ed è una fonte intrinsecamente sicura. Quanto ai materiali radioattivi, riguardano sono la camera di fusione e sono a rapido decadimento, dopo 100 anni possiamo riciclare tutto in un nuovo reattore e non abbiamo bisogno di depositi geologici».

 

Minopoli (Ain): «Ecco perché la fusione nucleare, e le prossime frontiere della fissione – come i minireattori modulari, sono un’occasione che l’Italia non può perdere»

Realizzazione del reattore sperimentale Iter

Nel prossimo futuro oltre alla fusione, hanno prospettive interessanti sono i mini reattori modulari, basati sulla fissione e sotto i 300 megawatt di potenza (rispetto ai 1600 megawatt di una centrale tradizionale): cilindri di metallo grandi come un paio di container che contengono il nocciolo con il combustibile e il generatore di vapore: il calore del nocciolo trasforma l’acqua in vapore e aziona un alternatore che produce energia (senza l’intervento di pompe). Con tre vantaggi: possono essere montati in fabbrica e trasportati ovunque, occupano il 10% dello spazio di una centrale tradizionale e producono meno scorie perché il rifornimento può essere fatto ogni 3-7 anni con combustibili non convenzionali, contro gli 1-2 anni. «Rischiamo di perdere il treno perché ci sono cose che vanno fatte subito – spiega il presidente dell’associazione italiana del nucleare Umberto Minopoli – Nel mondo il nucleare esiste ed è un mercato competitivo, perché per i piccoli reattori sono per esempio già 70 i modelli in pipeline, pronti a essere lanciati sul mercato; così i dimostratori della fusione nucleare. Cose per cui in Italia si fa ancora fatica a capire di cosa parliamo. Ci sono dietro impegni degli Stati e aziende privati del settore che hanno investito e si apprestano a sfidarsi sul mercato. Perché alle aziende italiane e ai centri di ricerca deve essere precluso partecipare a questa iniziativa competitiva? Al di là che poi impianteremo o no le centrali. Lo fa la Francia ma anche la Uk. Noi oggi siamo fuori da tutte le leggi di ricerca e sostegno e innovazione. Fa specie quando si parla del nucleare come qualcosa rispetto a cui aspettare cosa succede in Europa».

Per questo la decisione dell’Europa sulla tassonomia è importante: «La tassonomia non è qualcosa di astratto di cui si discute tra paesi pro e contro. La Commissione aveva proposto un anno fa che il nucleare debba far parte delle tecnologie della transizione energetica perché ci siamo dati un target sulla decarbonizzazione che con la sola tecnologia no carbon non riusciremo neanche ad approcciare. Il “tutto rinnovabili” potrebbe essere uno slogan ma ci poniamo l’obiettivo di realizzare i target bisogna essere onesti riconoscere che solo con le rinnovabili non si riesce». Inserire il nucleare nella tassonomia, ovvero nelle politiche finanziarie che servono a incentivare gli investimenti nelle tecnologie no carb, è una presa di posizione precisa. E rappresenta il superamento delle resistenze ideologiche. «Anche il Gse si è espresso sulla pericolosità delle tecnologie nucleari, con riferimento ai temi della sicurezza e della riduzione delle scorie. Il Gse ha prodotto un poderoso documento concludendo che il problema non esiste: il nucleare è no harm per tutti gli obiettivi della transizione e risponde pienamente alle esigenze della transizione».

Marchesini (Confindustria): «Bisogna affrontare il nucleare senza barriere ideologiche»

il Vice Presidente di Confindustria per le Filiere e Medie Imprese Maurizio Marchesini, ceo dell’omonima azienda bolognese di macchine industriali

Proprio l’urgenza di abilitare la sostenibilità rende necessario lavorare sulle tecnologie nucleari. Ne è convinto Maurizio Marchesini (Vicepresidente Confindustria), secondo cui «non si può trascurare il nucleare con barriere ideologiche ma la questione deve essere affrontata con il giusto peso. Altro aspetto che va tenuto in considerazione: la lotta ai cambiamenti climatici richiederà investimenti in tecnologia per 650 miliardi in dieci anni solo per l’Italia e bisogna partire adesso. L’Europa è responsabile dell’8% delle emissioni di CO2, dunque se la strada non è fatta in sintonia globale assisteremo a ondate di delocalizzazione e a un impoverimento del nostro tessuto industriale. Le filiere sono il modo in cui l’Italia sviluppa nuovi settori e tecnologie per cui sono richieste competenze. Non conta la dimensione ma la capacità di innovare».

Se la filiera è il modo di produrre italiano, dobbiamo trovare le policy giuste per trasformare il rapporto da commerciale «a relazione di scambio di tecnologie e affidamento tra aziende di tutte le dimensioni, con un ruolo cruciale svolto dai capofiliera. Che hanno bisogno di far crescere la filiera su digitalizzazione, green, crescita culturale dei collaboratori anche sulla base di un ragionamento collettivo. O cresciamo tutti o non riusciamo a competere. Molti capofiliera organizzano la crescita della filiera, Ansaldo è una di queste, ma anche Leonardo. E lo fanno per “puro egoismo industriale”: o crescono gli elementi della filiera o non ce la facciamo

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