Le probabilità (scarse) di affermazione di un Fronte Nazionale in Italia, di Massimo Morigi… prosecuzione del dibattito

Nell’ottima – e per molti versi condivisibile – analisi dell’amico Roberto Buffagni ne ” Le probabilità (scarse) di affermazione di un fronte nazionale in Italia” si rileva un soggetto che brilla per assenza, il movimento cinque stelle. Oltre che per le rilevate ragioni da Buffagni che ostacolano in Italia l’affermazione di qualcosa di simile a un fronte nazionale modello francese (e anche al di là della sacrosanta necessità di disintegrare la sinistra italiana), è da rilevare che, allo stato attuale, il principale ostacolo in Italia per innestare un reale ed efficace movimento sovranista è il movimento cinque stelle che ha fatto dell’assenza assoluta di un qualsiasi programma con un minimo di intelliggibilità la sua formula vincente (non dell’ ambiguità e/o della scarsa credibilità: questa è roba da vecchi arnesi della politica: onestà, onestà è il suo grido di battaglia. Ergo si è in presenza – come fra l’altro è stato ampiamente dimostrato – di un movimento che può assumere tutte e nessuna posizione politica e che proprio per questa sua aurea caratteristica, oltre a far man bassa di voti fra le fasce di elettori la cui educazione è solo quella di tipo informatico, è lo strumento ideale per eterodirezioni di ogni tipo e provenienza). In presenza di questa tragica immaturità dello scenario politico italiano, temo fortemente che i rimedi proposti dall’amico Buffagni ( legarsi a movimenti antisinistra e all’interno di questi condurre una battaglia culturale oltre che politica) sconti con eccessivo ottimismo questa ulteriore degenerazione politico-culturale rappresentata dal movimento cinque stelle. Giudico pertanto unica soluzione razionalmente possibile non tanto associarsi a stanchi movimenti e partiti che, sfibrati eredi della destra della prima repubblica – o eredi delle disillusioni di questa – dell’ambiguità e del gabbare il povero elettore han fatto bandiera (mi vien da ridere pensare che costoro non solo dovrebbero combattere con efficacia la sinistra ma dovrebbero anche contrapporsi al vivacissimo e – letale per le sorti d’Italia – movimento cinque stelle) ma al contrario, impegnarsi per la costruzione ab imis di un movimento politico-culturale che sulla scorta, fra l’altro, dell’inquadramento teorico (ma anche pratico, molto pratico, anche se non di facile implemetazione: a questo proposito si rimanda al Vom Kriege di Von Clausewitz e alle sue considerazioni sulla semplicità teorica e complessità applicativa dell’ arte della guerra …) di Gianfranco La Grassa possa veramente generare quel previano riorientamento gestaltico che investa in una indissolubile e al tempo stesso dinamica unità dialettica il momento culturale e quello politico. Oltre a Gianfranco La Grassa e a Costanzo Preve, riaffiorano così certe presenze che ci sono state sempre care: un certo Machiavelli, un certo Gramsci, un certo principe rinascimentale, un certo principe moderno. Se ne può parlare , se ne deve parlare (e, ovviamente, si deve anche agire) …

IL GIORNO DEL RINGRAZIAMENTO, di Giuseppe Germinario

Un epilogo beffardo!
Appena sette settimane fa Renzi era accolto a tavola del Presidente degli Stati Uniti d’America, uscente ma pur sempre il Presidente.
Trattandosi dell’Ultima Cena, non risulta alcun gesto scaramantico da parte di Renzi al suo ingresso a tavola.
Il suo futuro del resto si prospettava fulgido e pregno di aspettative. Uno dei suoi mentori principali presiedeva lo staff elettorale della pressoché certa nuova Presidente statunitense e da quegli ambienti aveva attinto buona parte dei propri consiglieri; con l’uscita, al momento proclamata, della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’Italia si accingeva a sostituirla nel ruolo primario di contraddittorio dell’asse franco-tedesco e di portavoce diretto dell’alleato d’oltreatlantico in sede europea.
Un Capo di Governo che deve la propria fortuna soprattutto all’investitura esterna più che al radicamento negli interessi forti e diffusi del proprio paese, non poteva del resto che costringere le proprie sorti principalmente alle vicende d’oltre confine.
L’elezione di Trump ha rappresentato la rottura della faglia principale su cui era costruito il castello delle aspettative. La sua politica estera e la sua politica economica, almeno nei proclami e nelle intenzioni, sono antitetiche rispetto al progetto e ai legami esibiti sin troppo spavaldamente dal nostro indomito.
La vittoria di Fillon alle primarie repubblicane francesi prefigura una particolare interpretazione della svolta trumpiana fondata su un asse tattico franco-russo-americano potenzialmente antitedesco e, in una prospettiva più larga, anticinese.
La ricandidatura di Angela Merkel, lo sponsor più controproducente da esibire, rappresenta invece il probabile tentativo di conservare la preminenza del sodalizio tedesco-americano in Europa fondato sulla permanenza esplicita o surrettizia del vecchio establishment americano e sulla sconfitta o neutralizzazione della svolta trumpiana.
Sono le due faglie secondarie destinate a rendere ancora più precaria la condizione del paese e la posizione del Matteo dimissionario. Meriteranno assieme alla prima senz’altro un articolo a parte.
Si tratta comunque di uno sciame sismico che ha dissestato le fondamenta e messo a nudo la precarietà dell’edificio renziano.
Un edificio che aveva come tetto una riorganizzazione istituzionale e amministrativa che tendeva correttamente ad una centralizzazione, ad un riordino e ad una semplificazione delle competenze e delle funzioni ma le cui pareti erano costituite da una politica economica e sociale del paese disastrosa non solo per le ripercussioni, la disgregazione, i corporativismi che stanno innescando nella formazione sociale ma soprattutto perché porta a perdere il controllo della produzione di quelle risorse necessarie a garantire l’autonomia politica, la riorganizzazione istituzionale, la coesione della formazione sociale e la prospettiva del nostro paese.
Il risultato è stato una riforma pasticciata della quale si è assunto il patrocinio Renzi ma della quale sono responsabili tutti i partiti; un tentativo di centralizzazione di stampo oligarchico perché incapace di dare una prospettiva di sviluppo e di autorevolezza politica, frutto quindi di un compromesso precario estorto a quelle stesse forze che avrebbe dovuto sconfiggere ed emarginare.
Il piano di implementazione dell’industria 4.0, presentato dal serissimo ministro Calenda, rappresenta l’emblema di quella politica economica. Un piano fondato su incentivi generalizzati ed investimenti di ricerca tesi a digitalizzare, informatizzare ed integrare i processi industriali assecondando però il processo di periferizzazione della merceologia e della tecnologia di prodotto. Una politica antitetica rispetto a quei paesi emergenti tesi a competere con gli Stati Uniti, ma soprattutto del tutto disallineata rispetto alla politica economica tracciata da Donald Trump in America.
Una vittoria non troppo schiacciante del sì probabilmente avrebbe segnato il destino delle due componenti, accorciato una loro agonia comunque in corso e reso più trasparente il sistema politico.
Sta di fatto che l’esito del referendum ha riportato in campo almeno temporaneamente e più saldamente Silvio Berlusconi e la componente minoritaria del PD. Assisteremo al tentativo di ricostituire il gioco destra-sinistra e con questo puntare ad ingabbiare la Lega e Fratelli d’Italia nel centrodestra e rinsaldare una sinistra progressista comunque minoritaria. Alla bisogna si troveranno le forme di collusione necessarie a neutralizzare l’ascesa del Movimento Cinque Stelle (M5S). La Lega, dal canto suo, sino a quando non si emanciperà dal proprio peccato originale di forza localistica ed autonomistica difficilmente potrà resistere a lungo alle sirene dei vecchi schieramenti. Non si conoscono però ancora casi di emancipazione dal peccato originale se non rinnegando la religione che lo inculca.
Il risultato, però, ha anche confermato l’esistenza di tante talpe capaci di rendere instabile il terreno ma ancora cieche ed incapaci di individuare la via di uscita in superficie. Una luce fioca ma esposta attualmente alla disgrazia di avere, quelle stesse talpe, delle guide le quali piuttosto che indirizzarle e tracciare loro la strada pretendono direttive precise da loro stesse.
È appunto la retorica della democrazia dal basso e dell’annichilimento dei poteri forti, tanto cara alle forze politiche proclamatesi alternative, in particolare il M5S, tanto loquaci quanto in realtà inconcludenti; è questo l’aspetto oscuro e paralizzante del cosiddetto populismo. Il paese, al contrario, ha disperatamente bisogno di un ceto politico deciso ed autorevole, di poteri forti capaci di aggregare la pletora di interessi in cui è frammentato il paese in un progetto di emancipazione politica.
L’elezione di Trump da questo punto di vista rappresenta un vero e proprio caso di studio.
Il declino drammatico del nostro paese è passato d’altro canto proprio attraverso l’annichilimento e la subordinazione di questi poteri piuttosto che dal loro rafforzamento.
All’inizio ho parlato di epilogo. Forse è una affermazione troppo drastica.
Renzi è stato colpito e probabilmente si metterà da parte per qualche tempo. La personalizzazione dello scontro non è stato solo un calcolo sbagliato del protagonista, ma era intrinseca al fatto che il suo governo è nato per fare le riforme istituzionali. Il suo destino sarebbe stato comunque legato all’esito del referendum. Se riuscirà a conservare la carica di Segretario avrà ancora diverse carte da giocare anche nell’immediato; dovesse perdere anche quella, dovrà altrimenti attendere le eventuali invocazioni dei ribelli che lo hanno scalzato ma che si sono dispersi nella palude. A quel punto il suo progetto di Partito della Nazione circondato da satelliti assumerebbe un significato del tutto diverso e più integrato nella logica degli schieramenti classici.
Con un Trump però forte e soprattutto coerente con se stesso difficilmente potrà assurgere ad un ruolo di primo piano.
Piuttosto cresceranno spazi per un Berlusconi quasi esanime o qualcuno dei suoi eventuali eredi, ma con scarsi benefici per il paese; oppure, ma è solo una speranza poco corroborata, qualcosa di realmente nuovo potrebbe sorgere dalle macerie delle forze di opposizione e mettere in condizione di trattare su basi più dignitose e paritarie la nostra collocazione estera e le nostre condizioni di sviluppo.
Dipenderà ancora una volta soprattutto dal comportamento dei nostri vicini di casa.

ps_ per una ricostruzione storica del Governo Renzi consiglio la seguente lettura http://italiaeilmondo.com/2016/12/05/%CE%BC%CE%B1%CE%B8%CE%B8%CE%B1%CE%B9o%CE%BD-matteo-dono-di-dio-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-apparso-il-12-novembre-2014-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/

ΜΑΘΘΑΙOΝ (MATTEO), “DONO DI DIO” (2A PARTE) DI GIUSEPPE GERMINARIO, già apparso il 12 novembre 2014 sul sito www.conflittiestrategie.it

Ripubblico due miei articoli su Matteo Renzi apparsi nel novembre 2014 sul sito www.conflittiestrategie.it
per leggere la prima parte, ecco il link http://www.conflittiestrategie.it/%ce%bc%ce%b1%ce%b8%ce%b8%ce%b1%ce%b9o%ce%bd-matteo-dono-di-dio-1a-parte-di-giuseppe-germinario

Nei pochi momenti riservati nei quali può concedersi il lusso di gettare la maschera dell’ottimismo ad oltranza, Matteo Renzi confida di aver legato il proprio destino all’esito del confronto in Europa.

Probabilmente si è trattato di un balon d’essai in vista di quello che potrà succedere nell’Unione Europea dalla prossima primavera; probabilmente Matteo Renzi è uno degli ami cui è attaccata l’esca che dovrà catturare i tedeschi, piuttosto che il rugoso pescatore che brandisce la canna. Non si può dire che abbia sortito l’effetto desiderato. Le sue richieste hanno assunto inizialmente l’aspetto di un atto d’imperio di un capo di governo, di uno statista; un impeto volitivo cui i nostri statisti negli ultimi trent’anni ci avevano del tutto disabituato.

In verità già il contenuto del contenzioso era assai modesto: il mantenimento del deficit sostanzialmente al 3% piuttosto che l’approssimarsi allo zero, l’abbattimento dello stock del debito di uno 0,1%, piuttosto che di uno 0,5, l’estrapolazione degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit nella speranza di un prossimo varo del piano di 300 miliardi di investimenti europei.

I possibili compagni di strada, i francesi compagni di partito, si sono ovviamente dileguati ed hanno preferito negoziare e mendicare per proprio conto, direttamente con la Cancelliera tedesca, le garanzie per le loro trasgressioni; lungo il percorso ne ha trovato un altro, l’inglese Cameron, la qual cosa lascia sospettare la reale finalità di quel test e i suoi possibili sponsor dalla “manina discreta d’oltreoceano”.

Il parto ha generato poco meno di un topolino con l’abbattimento dello stock ad uno 0,3% nominale e 0,4 effettivo rispetto allo 0,5 % preventivato dalla CE ed il mantenimento del deficit al 3%; la differenza tra la prosopopea e l’accondiscendenza sarà coperta dai fondi per gli investimenti degli enti locali, dal fondo per l’abbassamento delle imposte dirette e con il drenaggio di qualche ennesimo balzello; la quota di deficit da destinare alla domanda si riduce quindi drasticamente. Il carattere espansivo della manovra, già viziato, come vedremo, da una larga presunzione, subisce ahimè un ulteriore serio contraccolpo, sino ad invertirne gli effetti.

Rimane l’aspettativa recondita sui trecento miliardi aggiuntivi, così recita, almeno, il comunicato dell’ultimo Consiglio Europeo, da rimediare in parte dalle contribuzioni degli stati europei, in parte da finanziamenti privati; i primi proverranno comunque da fondi dei vari stati nazionali, quindi sotto forma di contribuzioni oppure dal dirottamento dei fondi strutturali inutilizzati; i secondi verranno elargiti con le necessarie garanzie sugli interessi oppure sulla possibilità di riscossione di rendite legate ad eventuali concessioni di sfruttamento. Dal punto di vista macroeconomico, l’eventuale carattere espansivo dipende dalla differenza tra contribuzione, rendite ed investimento e dalla capacità produttiva dei singoli paesi. L’eventuale saldo positivo per l’Italia dipenderà dalla capacità del Governo di ribaltare la posizione di contribuente europeo attivo, di riorientare i flussi destinati, anche per evidenti ragioni geopolitiche, in Europa Orientale a beneficio indiretto prevalente di Germania e Stati Uniti, di proporre ed utilizzare con efficienza gli investimenti eventuali. Un bel salto di autorevolezza che farebbe impallidire l’impulso volitivo manifestato da Matteo come poc’anzi descritto, ma con scarso costrutto. La sostanza, purtroppo, non pare molto diversa dalle aspettative illusorie manifestate da Bersani tempo fa in campagna elettorale.

L’analisi qualitativa dell’intervento di investimento dell’Unione Europea richiede, per di più, ancora ulteriore cautela nelle aspettative e nei giudizi. E’ indubbio che l’avvio di appalti e l’organizzazione di servizi innescano un incremento immediato ma temporaneo di redditi e domanda; rimane problematica l’analisi sugli effetti strutturali di questi interventi.

Esiste ormai una ampia letteratura, anche la più europeista, la quale esprime perplessità sugli effetti strutturali di questi investimenti. La conclusione più accettata e benevola, in quegli stessi ambienti, propende ormai per una ambivalenza degli effetti. Gli interventi sulle infrastrutture, sulle reti, sulla formazione comportano generalmente un miglioramento della qualità di vita, ma non innescano di per sé un processo di sviluppo ed innovazione diffusa; in mancanza di una politica industriale generatrice di attività e capacità autoctone possono al contrario acuire la polarizzazione e innescare una progressiva regressione. Occorre infatti contribuire a tessere tutta una trama di relazioni tra ricerca fondamentale, ricerca applicata, piattaforme industriali, commercializzazione, formazione professionale ed incentivazioni tali da innescare un processo endogeno di sviluppo e di formazione imprenditoriale. Una trama dall’esito incerto che può raggiungere vari livelli di complessità e di successo. In nome del libero mercato interno comunitario, della necessità di non penalizzare il libero gioco tra le imprese, ma anche della incapacità di gestire le rivalità tra gli stati nazionali, le politiche comunitarie si fermano alla fase propedeutica ed impediscono e ostacolano di norma e di fatto il più delle volte la formazione sia di nuova imprenditoria nei settori innovativi e nelle aree depresse, sia la formazione di aziende dalle dimensioni necessarie a sostenere la competizione internazionale anche oltre i confini della comunità europea.

Occorre, quindi, una politica nazionale di intervento parallela ed autonoma dalle direttive comunitarie che poggi su finanziamenti svincolati da tali direttive, sull’istituzione di agenzie dedicate capaci di coordinare i vari ambiti, sulla partecipazione delle grandi aziende strategiche superstiti e sul sostegno e il controllo di un sistema finanziario in grado di raccogliere il risparmio nazionale e orientarlo agli investimenti industriali; una politica consapevole dei limiti operativi della stessa grande imprenditoria privata, tutt’altro che propensa, il più delle volte, a superare determinate basse soglie di rischio non ostante l’epica dei capitani d’industria tuttora in auge. Lo hanno compreso da tempo al centro dell’impero; in Italia siamo ancora suggestionati dalle favole, salvo i pochi ben introdotti ai banchetti già imbanditi.

Dalla metà degli anni ’80, i governi del nostro paese hanno seguito una strada opposta: hanno liquidato e ceduto gran parte delle grandi imprese senza particolari riguardi alle loro prospettive; innescato processi di privatizzazione e di riorganizzazione in gran parte di tipo estorsivo e speculativo e riduttivi rispetto alle potenzialità di sviluppo; soppresso le agenzie dedicate, a cominciare dalla Cassa per il Mezzogiorno, dilapidando capacità professionali e trasferendo competenze a strutture decentrate inadeguate per massa critica e formazione necessaria; parallelamente alla drastica riduzione dei fondi europei destinati all’Italia, hanno ridotto progressivamente quelli nazionali e hanno convogliato quelli residui verso forme generiche e diffuse di agevolazioni dirette alle aziende sopprimendo contestualmente la defiscalizzazione dei salari nelle industrie meridionali; ridotto progressivamente e sterilizzato negli effetti applicativi gli investimenti in ricerca e trascurato ogni indirizzo nei pochi punti di forza del sistema economico come i distretti industriali.

Un processo scellerato che non si è ancora compiuto e promette ulteriori sviluppi nefasti; il ministero di Matteo, non ostante il petto gonfio, l’impeto patriottardo e il proposito rottamatorio, prosegue esattamente in questo solco: la politica di deficit, per quanto ampiamente ridimensionata dalle ingiunzioni comunitarie, rischia di essere velleitaria e controproducente in mancanza di un controllo e di un orientamento verso gli investimenti di lunga durata dei flussi finanziari e della moneta; gli investimenti nel solco delle attuali politiche comunitarie rischiano di assecondare, in cambio di benefici immediati fatui, processi di periferizzazione ormai innescati da alcuni anni.

Il risultato è l’impressione immediata di leggerezza, contraddittorietà e scarsa credibilità dei propositi governativi e soprattutto l’errore strategico dovuto all’incomprensione più o meno beata dei motivi dell’attuale politica di austerità a trazione tedesca; non solo di penalizzazione e soggezione della periferia e dei rivali economici europei, in primo luogo mediterranei, ma soprattutto di resistenza passiva ad una più accentuata dipendenza e soggezione alla potenza americana senza l’ambizione di rimettere in discussione le attuali gerarchie.

La conseguenza è una gestione dirompente e tendenzialmente antagonistica, ma incoerente delle contraddizioni tra i paesi europei e la tentazione sempre più irresistibile di dare ascolto alle sirene americane e di cercarne il sostegno in funzione antitedesca. Una tentazione ricorrente coltivata soprattutto nei momenti peggiori della storia repubblicana.

Ulisse conosceva gli appetiti delle sirene; Renzi, in qualità di traghettatore, probabilmente ritiene di avere una particolare immunità da quegli appetiti; una condotta dal probabile esito da sposo “mazziato e cornuto”; oppure, molto più verosimilmente, conta di offrire in sacrificio prede sufficienti a saziare il dio crudele e a risparmiare i sacerdoti del tempio.

IL VANGELO SECONDO MATTEO

I detrattori più sanguigni e superficiali tendono ad attribuire a Renzi l’assenza di pensiero e una contestuale sfrenata ambizione fine a se stessa; un errore madornale che induce alla sottovalutazione sistematica degli avversari politici e alla ricerca di una comoda posizione di testimonianza, predisposizione comune ormai ad intere generazioni di contestatori.

Nella fattispecie un equivoco nato anche dall’assenza di una esposizione sistematica della sua visione in prima persona.

L’apostolo Matteo, anche per l’innegabile arretratezza tecnologica dell’epoca fatta tutt’al più di tavolette piuttosto che di “tablet”, ma soprattutto per il suo fervore religioso, non ha esitato a mettere a repentaglio la propria vita pur di esporre la propria verità profonda.

Il Matteo contemporaneo fa invece il misterioso; si può dire che nasca già più “scafato”; affida al vate l’esposizione del pensiero profondo, riservando a se stesso la ben più divertente opera di divulgazione.

Il più accreditato in questa funzione è l’economista-matematico Gutgeld dal cui libro “più uguali, più ricchi” traggo alcune considerazioni utili a comprendere le linee di condotta e le contraddizioni del ministero renziano.

Vediamo di riassumere il pensiero in poche righe. Si parte dall’assunto della necessità di superare la contrapposizione tra la sinistra impegnata a garantire l’uguaglianza con l’aumento della tassazione e la destra intenzionata a stimolare l’iniziativa privata e la promozione individuale con la riduzione della tassazione, specie nella sua modalità progressiva, attraverso il taglio della spesa pubblica e il ridimensionamento dei servizi pubblici. Si tratta invece di passare dal principio di uguaglianza, reo di appiattire indistintamente il riconoscimento delle competenze e di impedire lo sviluppo, al principio di equità, in grado di garantire il merito e di estendere le occasioni di opportunità a prescindere dallo status sociale degli individui, capace di innescare sviluppo economico ma anche il più delle volte diseguaglianza. L’attuale condizione dell’Italia consente di sfuggire da questa dinamica; con l’eccezione della pubblica amministrazione, l’applicazione del criterio di equità riuscirebbe a garantire sia sviluppo che maggiore eguaglianza. Lungo la strada obbligata dell’integrazione europea, la chiave dello sviluppo si trova nella riorganizzazione radicale dell’amministrazione pubblica e dei servizi a parità di prestazioni, nell’abbattimento della spesa e dei livelli di tassazione e nella conseguente liberazione di risorse nel settore privato di per sé efficiente, meritocratico e fautore di sviluppo. Una gestione manageriale e l’adozione di criteri meritocratici sono gli strumenti necessari imprescindibili di questa riorganizzazione dello Stato. Si tratta, in questo contesto, di garantire servizi essenziali, in primo luogo scuola e sanità, di passare da una politica di monetizzazione del disagio ad una di offerta di servizi pagati secondo la capacità di reddito e di trasferire reddito da ambiti privilegiati, ad esempio i pensionati a sistema retributivo di fascia medio-alta, alle fasce più basse.

Tutto deve, quindi, concorrere alla liberazione della intraprendenza e della energia della società civile, garantendo comunque soglie minime di reddito .

COME LA GERMANIA, COME L’AMERICA

Indicata la bussola, a questo punto non resta che individuare meglio la rotta che Renzi intende intraprendere e i modelli di riferimento.

Da anni è invalsa l’abitudine, da parte dei responsabili politici, di aggrapparsi alle esperienze degli altri paesi pur di sostenere proposte evidentemente non in grado di affermarsi per forza intrinseca e per l’autorevolezza dei fautori.

Renzi non è da meno.

Il “jobs act” e la riduzione degli oneri fiscali societari (IRAP) sono i vessilli scelti dall’attuale nostro condottiero. In realtà sono una rappresentazione caricaturale delle politiche ben più organiche e radicali di quei due paesi.

Il “jobs act” statunitense è, in realtà, un insieme complesso di provvedimenti che riguarda del tutto marginalmente la regolazione giuridica del rapporto di lavoro dipendente; riguarda al contrario, tra i vari aspetti, una politica di investimenti che spazia da interventi keynesiani minimalisti al limite di un mero assistenzialismo ad investimenti importanti nei settori strategici ed innovativi; di modularizzazione e riorganizzazione del sistema di funzionamento della ricerca scientifica e dell’innovazione tali da integrare e fondere ulteriormente la ricerca scientifica militare e quella civile, quindi in grado di coordinare la ricerca fondamentale, quella applicata, la trasformazione in prodotti commerciabili attraverso piattaforme industriali adeguate per il tramite di una cooperazione e competizione dei vari soggetti pubblici e privati laddove le agenzie pubbliche, in particolare la DARPA, assumono un ruolo sempre più preminente. Il tutto supportato da una politica monetaria e finanziaria controllata e confortato dal peso della potenza di quella formazione sociale. Una politica che meriterebbe un’analisi adeguata, specie se comparata con le politiche europee e delle potenze rivali, la quale permetterebbe di valutare con più realismo i rapporti di forza attuali. Qualcosa di ben più complesso e paradossale rispetto alle favolette che ci propinano sui miracoli esclusivi dell’imprenditoria privata e alle prodezze mirabolanti degli imprenditori sorti dal nulla in quel paese delle quali si nutrono le stesse infatuazioni del nostro apostolo contemporaneo.

Il trasferimento fiscale dall’imposizione diretta, in particolare delle imprese, a quella indiretta sui consumatori e il dualismo nel mercato del lavoro introdotti più di dieci anni fa in Germania, sono anch’essi una piccola parte di una serie di provvedimenti e politiche; questi spaziavano da un controllo ferreo ed un intervento attivo del sistema finanziario centrale e delle banche locali, queste ultime rimaste fuori dai controlli comunitari, ad una integrazione pubblica dei redditi intaccati dal precariato, ad un sostegno importante alla ricerca scientifica anche se del tutto inadeguato rispetto a quello americano ed ora anche cinese, ad una politica di svalutazione, con l’introduzione dell’euro, rispetto alla rivalutazione di altri paesi europei in grado di favorire i volumi produttivi a scapito però, nel lungo periodo, della profittabilità e degli investimenti strategici. Sono politiche che possono poggiare sul punto di forza determinante di quel paese: la forza, il ruolo e la partecipazione pervasiva delle associazioni, specie professionali (sindacato, associazioni imprenditoriali e professionali) e dei partiti ed una struttura istituzionale sufficientemente coesa e molto più ordinata nelle gerarchie e nelle competenze rispetto a quella italiana

I MERITI, LE CONTRADDIZIONI E LE MILLANTERIE DI RENZI

Una analisi statica dell’azione di governo del nostro protagonista rischia tuttavia di portare ad una sottovalutazione della sua capacità di cambiamento e di dominio dell’onda giusta, spesso al di là delle sue stesse intenzioni; di dar torto ai “meriti storici”, probabilmente involontari che i posteri gli dovranno, forse a denti stretti.

Il modo con il quale Matteo Renzi sta gestendo i rapporti con l’Unione Europea e i suoi Stati più importanti sta sancendo definitivamente, grazie anche all’affermazione parallela dell’euroscetticismo, il declino della retorica europeista universalistica della quale in Italia Letta e Bersani sono stati gli ultimi malinconici e rassegnati epigoni; sta evidenziando che l’ambito europeista non è altro che un campo di azione particolare entro cui si esercita, dal dopoguerra, l’attività degli stati nazionali europei, più o meno indeboliti, e di quello statunitense attraverso i suoi vari centri di potere. L’esito delle prime esplicite scaramucce, accennate all’inizio di questo scritto, lascia però intravedere rapidamente il velleitarismo e la mistificazione della sua particolare conduzione del confronto; lascia presagire anche l’amaro destino cui rischia di andare incontro un paese esposto agli appetiti dei contendenti.

Ha saputo rappresentare con enfasi la necessità inderogabile di una riorganizzazione e di una gerarchizzazione dei vari livelli della struttura statale e degli organi istituzionali e probabilmente riuscirà a portare a termine l’incipit di quest’ultimo programma pur con tutti i limiti evidenziati nella prima parte dell’articolo.

L’aspetto costruttivo del suo dinamismo mi pare che si stia tuttavia arrestando qui.

Sulle conseguenze della sua politica europea mi soffermerò nella terza parte di questo scritto.

Sul secondo aspetto, già affrontato precedentemente, mi pare che il suo livore antiburocraticistico, giustificato dall’attuale conformazione degli ordinamenti amministrativi e delle loro funzioni, sottenda in realtà un’avversione a qualsivoglia modello operativo burocratico, quando proprio questa modalità operativa sta compenetrando, in forme più flessibili, sia la gestione pubblica che quella privata delle grandi imprese e delle grandi unità amministrative delle formazioni sociali dominanti in un processo avviato già negli anni del “new deal” americano. La spinta modernista rischia quindi di trasformarsi in una riproposizione retriva della contrapposizione tra l’immobilismo del burocratismo pubblico e la virtù della libera iniziativa individualistica in un paese che ha proprio nelle dimensioni ridotte delle aziende, nella loro gestione familistica e nella pletoricità e parassitismo di buona parte del ceto medio stesso, uno dei punti di debolezza più drammatici. Gli stessi propositi di trasferimento di risorse dai ceti cosiddetti privilegiati, titolari ad esempio della pensione retributiva a quelli più umili, titolari ad esempio delle pensioni sociali, non fa che accentuare significativamente quell’appiattimento verso il basso dei redditi a prescindere dal contributo professionale che le singole persone sono state e sono in grado di offrire, già innescato dai mutamenti tecnologici, dai modelli organizzativi adottati dalle aziende specie in una economia declinante come quella italiana. Una tendenza che, stando all’enfasi meritocratica strombazzata, dovrebbe essere contrastata vivacemente a favore di un dirottamento verso gli investimenti di risorse altrimenti immobilizzate in rendite, tesaurizzazioni o disperse fuori del paese.

E’ il momento quindi di passare alle contraddizioni stridenti e alle manifestazioni di ottimismo oltranzistico che caratterizzano sempre più gli atti di un politico stretto tra i proclami modernisti e le rappresentazioni bellicose dei propri comportamenti e la realtà di uno spazio di intervento circoscritto innanzitutto dalla sua collocazione politica e dai limiti che si è definito, quindi dalla precarietà e ambiguità delle forze disposte a sostenerlo, da una parte ed il contenuto reale, decisamente conformisti, di gran parte dei compromessi in via di maturazione sino a spingere il nostro a rifugiarsi progressivamente nelle proprie debolezze e a cedere alla propria indole di giocoliere.

Tralascio i giochini sulla realtà delle cifre riguardanti il taglio dell’IRAP e la restituzione degli ottanta euro. Sono somme al lordo di compensazioni o che comprendono conferme di agevolazioni degli anni precedenti

Più grave la rappresentazione della gestione delle vertenze riguardante aziende in crisi; sono regolarmente presentate come soluzioni positive semplici rinvii di liquidazioni e chiusure comunque in atto. Lo abbiamo visto, tra i tantissimi casi, con l’Elettrolux, con l’AST; tanto sotto traccia viene mantenuto il dibattito sulla quantità impressionante di aziende in via di chiusura e sulla sparizione di interi settori produttivi, compresa l’industria di base, quanto è incalzante la adulazione “dell’Italia che ce la fa”. La perdita di controllo di interi settori anche complementari è celebrata come un inno alla libertà imprenditoriale. Nessuna analisi qualitativa delle trasformazioni in corso nell’apparato produttivo del paese e soprattutto una spessa coltre omertosa a coprire la disastrosa continuità tra la liquidazione e destrutturazione del patrimonio industriale avvenute con le cessioni negli anni ’90 e l’attuale politica di privatizzazione e depotenziamento del residuo patrimonio industriale strategico e di base.

I suoi atti, spesso sono azzardi, come le defiscalizzazioni, giustificati anche come azioni propedeutiche alle contestuali riduzioni di spesa e riorganizzazioni delle strutture amministrative; con ciò ignorano bellamente la discrasia di tempi evidente tra i due processi.

Si sbandierano come alleggerimenti fiscali una politica di mero trasferimento dall’imposizione diretta a quella indiretta e tributaria senza riuscire a dirottare e concentrare le risorse verso quei settori in grado di far invertire l’inesorabile tendenza al degrado.

In nome della fruibilità immediata, si cerca di concentrare la spesa in interventi diffusi (edilizia scolastica), in grado forse di alleviare la crisi edilizia e riavviare il volano, in contrapposizione alle grandi opere; una presa d’atto, in pratica, della scarsa capacità di gestione di interventi più complessi, ma più incisivi nella prospettiva.

L’urgenza del consenso spinge, non ostante le nobili intenzioni, verso la scorciatoia facile della monetizzazione piuttosto che lungo la strada complessa dell’organizzazione dei servizi, come celebrato nelle pie intenzioni iniziali.

Più che la spinta dell’ottimismo, mi pare che a muovere le anime sia sempre più la frenesia e la fibrillazione dettate dal senso di claustrofobia.

Una frenesia condita di una retorica che lo sta rendendo sempre più prigioniero di ambiti ristretti della società, ma rappresentativi della direzione tutt’altro che attraente che sta prendendo il paese, almeno nella sua grande maggioranza.

Lo vedremo meglio nella terza parte dello scritto.

Le probabilità (scarse) di affermazione di un Fronte Nazionale in Italia, di Roberto Buffagni

Traggo dal sito http://ilblogdilameduck.blogspot.it/2016/11/make-italy-great-again.html#comment-form un interessante intervento di Roberto Buffagni
In effetti e *oggettivamente*, secondo la formula prediletta da Stalin, oggi il clivage principale dello scontro politico non è tra sinistra e destra, ma tra forze favorevoli e contrarie alla UE e all’euro, quali che ne siano provenienza e cultura politica. In linea di principio e in un mondo migliore, la strategia del superamento del clivage destra/sinistra e della costruzione di un’alleanza – o addirittura dell’integrazione in nuovo partito – tra forze politiche provenienti da sinistra e da destra, allo scopo di uscire dall’eurozona e di riappropriarsi della sovranità nazionale alienata alla UE, sarebbe la più adeguata alla fase politica.

Peccato che secondo la mia valutazione – che può, beninteso, essere sbagliata – in Italia l’edificazione di questa alleanza è impossibile in tempi politici prevedibili (5-10 anni); non solo, ma il tentativo di crearla può rivelarsi gravemente controproducente.

Una forza politica che – pur tra limiti e contrasti interni – da anni si sta trasformando per superare il clivage destra/sinistra ed opporsi efficacemente a UE ed euro è il Front National di Marine Le Pen. Sinora, la riconversione strategica ha avuto successo, tant’è vero che il FN è il primo partito di Francia, e Marine Le Pen ha la reale possibilità di vincere le presidenziali del 2017. Il Front National, nato da Vichy e dall’OAS contro il gaullismo e de Gaulle, ha oggi una linea gaulliana, cioè a dire una linea politica patriottica che difende insieme l’interesse nazionale e l’interesse dei ceti popolari (il FN oggi si prende il voto operaio che fino a poco fa andava a sinistra). Questa metamorfosi ha dovuto innestarsi su una solida base di nazionalismo “di destra”, per il fatto elementare che il nazionalismo “di sinistra”, che pure in Francia c’era, è stato cancellato dall’adesione della sinistra alla UE.

In Italia, purtroppo, una riedizione come che sia aggiornata dell’esperimento FN è impossibile – almeno per un’ “ora” nient’affatto breve – perché l’Italia non ha avuto un Charles de Gaulle, cioè un nazionalista antifascista che, rappresentando nella sua persona la continuità dello Stato e l’indipendenza della patria dopo la sconfitta bellica e la collaborazione col nemico occupante, ha saputo risparmiare alla Francia il destino di nazione vinta e occupata dalle forze vincitrici della IIGM. L’Italia ha avuto Benito Mussolini e Pietro Badoglio, il 25 luglio e l’8 settembre: la continuità dello Stato, l’indipendenza della patria, persino l’idea di nazione e di interesse nazionale come valori sovraordinati alle appartenenze politiche, sono stati travolti dal disastro fascista, dalla fine disonorevole della dinastia, da una guerra civile in cui entrambi i campi si sono subordinati a potenze straniere, dalla sconfitta bellica e dall’occupazione militare alleata.
In Italia, quindi, manca la base – ancor prima culturale e ideologica che politica – su cui innestare un progetto di fronte nazionale, che, lanciando una parola d’ordine del tipo “la destra dei valori, la sinistra del lavoro”, si proponga di superare contrapposizioni politiche ormai incapacitanti in nome dell’indipendenza della patria, della sovranità dello Stato, dell’interesse della nazione e del popolo italiano.
Mi si obietterà: ma certo che c’è, la carta dei valori intorno alla quale costruire il Fronte Nazionale di Liberazione! C’è la Costituzione! La Costituzione italiana, che presidia la sovranità popolare, difende la democrazia e il lavoro, ed è incompatibile tanto con le usurpazioni di sovranità e legittimità commesse dalla UE con la complicità dei governi italiani, quanto con le politiche economiche imposte da UE ed euro, che intenzionalmente producono disindustrializzazione, disoccupazione di massa e progressivo peggioramento delle condizioni di vita del popolo italiano.

E’ così? Davvero la Costituzione italiana può far da base all’alleanza politica che darà vita al Fronte Nazionale di Liberazione dall’euro e/o dalla UE? Io penso di no. Spiego perché.

La Costituzione antifascista non è un valore o una piattaforma che possa accomunare destra e sinistra italiane antiUE/antieuro e farle ritrovare intorno a un programma minimo comune. L’aggettivo “antifascista” non è un fatto accessorio, è una qualificazione decisiva. Nella destra italiana, il fascismo è un residuo minimo, e dunque non è questo l’ostacolo. L’ostacolo principale è invece un fatto storico molto rilevante: che dopo il 1945, con la (benemerita) decisione di Togliatti e di Stalin di conformarsi a Yalta, e cioè di non perseguire anche qui la linea della guerra civile in vista dell’instaurazione di una “democrazia popolare” (come invece fu tentato proprio in Grecia), il PCI ha sostituito la linea “rivoluzionaria di classe” con la linea “antifascista e interclassista” e il mito (sottolineo due volte mito) della Resistenza. Cioè a dire, la linea del CLN.
Quando si proclamano “i valori della Costituzione” a un elettore di destra, automaticamente egli intende “valori di sinistra”. Non conta, qui, se l’elettore di destra sia un liberale, un leghista, un fascista, un cattolico tradizionalista, un nazionalista, etc.: conta che “la Costituzione più bella del mondo” per l’elettore di destra è anzitutto la Costituzione di una parte politica (non la sua). Quando la sente nominare, assocerà mentalmente cose diverse, a seconda dei suoi interessi e della sua ideologia: assistenzialismo e Roma ladrona se è leghista, sindacati e tasse se è un liberale, divorzio e aborto se è un cattolico tradizionalista, stragi partigiane e tradimento dell’alleato se è un fascista, occupazione americana e perdita dell’indipendenza se è un nazionalista, etc.: non assocerà mai “la preziosissima carta fondamentale della nostra patria”. La realtà a lui più simpatica a cui la potrà associare è la Prima Repubblica, per la quale alcuni (non tutti) gli elettori di destra provano una certa nostalgia, specie se non sono più giovani.
Qui non affronto il tema se l’elettore di destra abbia torto, ragione, torto e ragione insieme, etc.: segnalo soltanto il fatto che è così, e aggiungo un paio di esempi che possono illustrare meglio questa realtà.

Primo esempio. Al suo insediamento, il presidente Mattarella è andato a omaggiare i caduti delle Fosse Ardeatine. Così facendo, egli non ha reso omaggio alla nazione: altrimenti, avrebbe omaggiato l’Altare della Patria, che sta lì a due passi. Ha reso omaggio a una parte della nazione, quella che appunto si riconosce nella narrazione antifascista e di sinistra e nel mito della Resistenza. Però c’è anche un’altra parte della nazione che non vi si riconosce, e non è composta esclusivamente di nostalgici di Salò: anzi.
Secondo esempio. Quando gli antieuro/antiUE chiamano “fascista” la politica della UE e il meccanismo dell’euro, io capisco benissimo perché lo fanno: per sottolinearne l’antidemocraticità, l’illegittimità e l’incostituzionalità. Però, l’apposizione dell’etichetta “fascista” alla UE e all’euro segnala una contraddizione che rischia d’essere incapacitante, e un equivoco pericoloso. Perché?
In primo luogo, perché non tutti i regimi antidemocratici sono fascisti: anzi, in questo caso è vero l’esatto opposto. Sono proprio gli eredi legittimi dell’antifascismo (USA + classi dirigenti antifasciste europee, socialdemocratiche, liberali e cattoliche) ad avere impiantato e a sostenere UE ed euro. Mentre il fascismo (che si è reso storicamente responsabile di mali ben più gravi dell’euro e della UE) è affatto incompatibile con UE ed euro: il fascismo storico è una forma estrema di nazionalismo, che tutto avrebbe potuto fare tranne regalare sovranità a una entità sovranazionale come la UE; il fascismo storico fu anche antiliberale, statalista e dirigista, e dunque non avrebbe mai sostenuto il “più mercato meno Stato”, la libera circolazione di capitali e forza lavoro, la doverosa accoglienza di un numero imprecisato di stranieri sul suolo nazionale, e le altre formule liberali e liberiste care alla UE.
Insomma, la “democrazia”, cioè il principio legittimante secondo il quale la sovranità appartiene al popolo, può effettivamente essere un minimo denominatore comune tra destra e sinistra antiUE/antieuro, per la ragione principale che è l’unica arma di cui dispongono contro il comune nemico, che del parere dei popoli e delle elezioni fa volentieri a meno. Non può esserlo la Costituzione.

L’Italia è, malauguratamente, un paese profondamente diviso. Il giorno in cui, nei momenti solenni della vita nazionale, tutti gli italiani senza distinzione di parte politica trovassero naturale cantare insieme, spontaneamente e senza retropensieri, l’inno nazionale, si potrebbe pensare alla costruzione di un Fronte Nazionale di Liberazione. Oggi, questo può accadere – forse – solo quando la Nazionale italiana di calcio partecipa a una competizione internazionale importante. Purtroppo, non basta.
Segnalo un sincronismo assai significativo. La proposta di un Fronte Nazionale di Liberazione avanzata da più parti coincide con la proposta di un Partito della Nazione lanciata da Matteo Renzi. Lo trovo un sintomo da non trascurare, e anzi chiarificatore ed allarmante. Il più grave errore del fascismo storico, che origina dal suo rifiuto di principio del pluralismo politico, è proprio la pretesa di identificare, ossimoricamente, partito e nazione. La nazione, che è l’insieme di tutto un popolo che si radica nel passato dei suoi morti e si protende, attraverso i viventi, verso i suoi figli futuri, non può venire identificata con un partito, che ne è per definizione una parte, senza che ne conseguano due effetti: 1) chi non appartiene al partito non appartiene alla nazione, e dunque non gode, almeno sul piano etico e culturale, della piena cittadinanza 2) la nazione e l’interesse nazionale non potranno mai più essere valori sovraordinati alle altre appartenenze e lealtà, perché la nazione è stata identificata con una parte politica, e ne condivide la transeunte relatività e parzialità: simul stabunt, simul cadent.

In sintesi: chiunque fondi il “Partito della Nazione” prepara senza saperlo la dissoluzione, senz’altro spirituale ma in circostanze favorenti anche materiale e politica, della sua patria.

Nella lotta politica italiana dei prossimi tempi, il costituendo Fronte di Liberazione Nazionale potrebbe dunque contrapporsi al costituendo Partito della Nazione; e lo scontro si incentrerebbe, per forza di cose, intorno al quesito: “chi è autenticamente italiano? Chi appartiene davvero alla nazione?” Basta rifletterci un momento per accorgersi che questa è la ricetta della guerra civile, un piatto indigesto che ci siamo ammanniti più d’una volta, nella storia nazionale; e anche un buon compendio della tragedia politica nazionale italiana, inaugurata dal fascismo e solo rovesciata di segno dall’antifascismo.
Dunque, se non è possibile un Fronte Nazionale di Liberazione contro l’euro e/o la UE, è impossibile agire politicamente?
Io non penso. Spiego perché.

Si può sempre agire politicamente, non appena si sia designato il nemico : perché caratteristica fondante del politico è, appunto, la coppia di opposti amico/nemico.
La domanda a cui si deve rispondere è: la UE, con l’euro che della UE è strumento politico consustanziale, è un nemico? Personalmente, rispondo di sì.

Risponde di no, per esempio, la sinistra critica, che rappresenteremo in Stefano Fassina, perché sebbene egli constati che “nella gabbia liberista dell’euro” “la sinistra…è morta”, propone come sola “via d’uscita” “il superamento concordato della moneta unica, esemplificato ad esempio nella proposta di ‘Grexit assistita’ scritta dal Ministro Schäuble e avallata dalla Cancelliera Merkel”, e la giudica “l’unica strada realistica per evitare una rottura caotica dell’eurozona e derive nazionalistiche incontrollabili”.
Fassina dunque considera l’attuale UE un avversario, non un nemico; incardina il proprio disegno politico sullo spostamento degli equilibri politici interni alla UE, e lo subordina alla vittoria di una linea politica (minoritaria) interna al paese egemone. In sintesi Fassina ripropone, in forma più radicale, più seria e più coraggiosa – e dunque più dannosa perché più credibile – la tesi delle due UE: la UE realmente esistente (falsa e cattiva) e la UE possibile (vera e buona).

Le obiezioni alla tesi delle due UE sono note, ma qui ne sottolineo una: e se ti dicono di no? se lo spostamento degli equilibri politici interni alla UE non riesce, se la linea Schäuble perde, che fai? Qual è la tua ragion d’essere politica e la tua strategia? Detto altrimenti, qual è il tuo nemico? La UE e l’euro nel cui quadro “la sinistra…è morta” o le “derive nazionalistiche incontrollabili”?
La tesi delle due UE non conduce a un’azione politica vera e propria, ma a un circolo vizioso nevrotico: avanzare petizioni farcite di appelli ai principi di sinistra della “buona e vera UE possibile”, facendole seguire da violente, isteriche proteste verbali ogni volta che la petizione non viene accolta e i principi vengono disattesi dalla “falsa e cattiva UE realmente esistente”: l’esatta dinamica della sciagurata trattativa tra governo Tsipras e vertici UE.

Certo: è probabile che una recisa dichiarazione di inimicizia verso UE ed euro condannerebbe Fassina a una posizione minoritaria o addirittura testimoniale all’interno dei dissidenti del PD, a cui si rivolge in vista della creazione di una nuova forza politica. Però, la tesi delle due UE da un canto condanna la costituenda nuova forza politica a una posizione minoritaria o addirittura testimoniale all’interno della “UE realmente esistente”, e dall’altro replica lo schema tipico del rapporto di subordinazione e reciproca strumentalità tra sinistra di governo e sinistra massimalista (PD e SEL, per intenderci). La sinistra massimalista intercetta il dissenso antisistemico, e poi, nei momenti decisivi, lo spende per sostenere la sinistra di governo, che in cambio garantisce ai suoi quadri posti e finanziamenti: priva com’è di una strategia politica autonoma da quella della sinistra di governo, se la sinistra massimalista non segue questo schema semplicemente sparisce.

Uno spazio di azione politica vera e propria si apre solo se si risponde, senza ambiguità, alla domanda: la UE, con l’euro che della UE è strumento politico consustanziale, è un nemico?
Se si risponde di no – quali che siano le aggettivazioni e le mezze tinte che si accludono alla risposta – si agisce politicamente all’interno del quadro UE così com’è, con i rapporti di forza, le ideologie e gli schieramenti nazionali e internazionali realmente esistenti: e ogni riferimento a “un’altra UE possibile” resta pura e semplice espressione di un desiderio e/o mozione degli affetti a uso interno + slogan propagandistico a uso elettorale.

Se si risponde di sì, ne consegue immediatamente che i propri alleati sono tutti coloro che condividono la stessa valutazione, a prescindere dal resto (cultura e linea politica). Si può fare eccezione solo per chi si ponga su posizioni incompatibili con la nostra civiltà (per esempio, l’ISIS è certamente nemica della UE, ma non è un alleato possibile).

Per le ragioni esposte nella terza parte di questo scritto, non credo praticabile in Italia la via della costruzione di un Fronte Nazionale di Liberazione, e dunque considero sbagliata – non in linea di principio, ma di fatto – ogni proposta di alleanza strategica tra forze politiche organizzate provenienti da destra e da sinistra.
A mio avviso, se si vuole agire politicamente contro la UE le vie da percorrere oggi sono tre.

Una: influire culturalmente, nei canali disponibili e ciascuno secondo le proprie forze individuali o collettive, senza aderire ad alcun partito. Risulterà naturale che chi sceglie questa via si rivolga, principalmente, a chi appartiene alla sua cultura politica di provenienza: anche se probabilmente è proprio lì che incontrerà gli ostacoli e le sordità maggiori, perché nemo propheta in patria. E’ un lavoro indispensabile, prezioso e ingrato.
Due: aderire a una delle due sole forze politiche organizzate e rilevanti che in Italia si dichiarino (con gradi diversi di chiarezza e coerenza) nemiche della UE: Lega, e Fratelli d’Italia. Aderirvi in forma individuale o se possibile organizzata, partecipare al dibattito interno, scontare i limiti dell’adesione a una linea politica che non persuade per intero, e tentare di influirvi, cioè fare carriera nel partito per consolidarvi la vittoria (tutt’altro che definitiva) della linea anti UE e antieuro.

Tre: lavorare per dividere, mandare in confusione e battere la sinistra italiana. A mio avviso, infatti, la sinistra italiana è il problema principale, e senza una vera e propria metamorfosi non sarà invece mai (so che è una parola grossa) la soluzione.

In altri termini: la sinistra italiana è il nemico principale, all’interno dei confini nazionali, perché è il principale collaboratore della UE, che senza di essa non sarebbe mai riuscita ad affermarsi, a convincere e a vincere. Lo è perché nella sinistra italiana, sia quella di provenienza comunista, sia quella di provenienza cattolica, l’internazionalismo farà sempre aggio sulla difesa dell’interesse nazionale, e oggi l’internazionalismo si declina solo nel quadro UE; mentre la battaglia per il ripristino della sovranità dello Stato contro un’istituzione sovrannazionale come la UE può appoggiarsi solo su fondamenta nazionaliste: per prendere un topo ci vuole un gatto, non un cane.

Dunque la sinistra italiana va, anzitutto, divisa e mandata in confusione. Sono benemerite tutte le iniziative interne alla sinistra, individuali o organizzate, che la dividono, la indeboliscono, la riempiono di contraddizioni e le mettono in qualsiasi modo i bastoni fra le ruote e lo zucchero nel carburatore, per esempio incrementando l’astensionismo e la disaffezione di elettori e militanti. Particolarmente importanti le iniziative interne alla sinistra che contribuiscano a farle perdere la superiorità morale, il “moral high ground”, perché la dimensione morale del conflitto è la più importante, sul piano strategico (poi vengono la mentale e la fisica). Sono invece deprecabili, dannose e da battere le iniziative interne alla sinistra che si ripromettono di dividerla per creare altre formazioni di sinistra “autentica”, comunque denominate, perché non fanno altro che perpetuare l’equivoco, dare ossigeno a un nemico in affanno, e resuscitare per qualche anno o mese la cantafavola della superiorità morale della sinistra e la velenosissima tesi delle due UE, che è attualmente l’arma ideologica più potente del nemico.

Soprattutto, la sinistra italiana va battuta. Il primo obiettivo da proporsi è che la sinistra italiana subisca una chiara sconfitta elettorale, chiunque sia a infliggergliela, fosse anche Attila re degli Unni. Ogni volta che la sinistra perde, perde la UE (anche se non è vero che quando vince la destra vincono le forze nemiche della UE).
Non lo dico per pregiudiziale ideologica avversa alla sinistra, anche se la cultura politica della sinistra non è la mia. Lo dico perché se vogliamo che la sinistra italiana sperimenti un “riorientamento gestaltico”, come lo definiva Costanzo Preve, ovvero la metànoia o conversione che la conduca a dichiararsi nemica della UE e dell’euro, dobbiamo sapere se ne verificheranno le condizioni di possibilità solo in seguito a un evento traumatico maggiore: cioè a un’inequivocabile, dura sconfitta.

Ricordo che la stessa identica dinamica si è verificata per la destra italiana: nella quale sono sorte e hanno conquistato la leadership posizioni nemiche della UE e dell’euro solo in seguito al processo dissolutivo da essa subito con l’avvento del governo Monti, la subordinazione e collaborazione del suo principale leader Silvio Berlusconi tramutato in prigioniero di Zenda e capo dell’opposizione di Sua Maestà, etc.

So che le posizioni che ho formulato qui sulla sinistra sono brutalmente semplificatorie. La cultura politica della sinistra non è la mia. La mia cultura politica è quella di un nazionalista moderato (moderato dal cattolicesimo, perché per me prima della patria viene Dio, e quindi non è lecito fare qualsiasi cosa in nome e nell’interesse della nazione). Non ritengo che la cultura politica della sinistra sia malvagia o irrimediabilmente erronea in sé. Ritengo che abbia bisogno di una profonda revisione, che può avvenire solo dal suo interno: per questo ho ammirato e incoraggiato l’opera di Costanzo Preve, del quale mi onoro d’essere stato amico. Lo stesso vale, d’altronde, per la cultura politica della destra: qui la più importante revisione è stata compiuta da Alain de Benoist; altre sono in corso d’opera e sono benemerite. Ritengo altresì che uomini degni di rispetto e ammirazione – o di avversione e disprezzo – ce ne siano in tutti i campi politici.
La brutale semplificazione che ho proposto è motivata da questo: che siamo in guerra, anche se non si spara. Scopo della guerra è imporre la propria volontà al nemico, i mezzi dipendono dalle circostanze. La guerra oggi in corso, che vede in un campo la UE e i ceti dirigenti proUE (alle spalle dei quali stanno gli USA), e nell’altro le nazioni e i popoli d’Europa, viene condotta con mezzi economici, giuridici, amministrativi, psicologici; il fatto che sia una guerra che non osa dire il proprio nome non la rende meno pericolosa e meno aspra.
Anzi: finché questa guerra rimane segreta e sottaciuta, è impossibile difendersi e combatterla, figuriamoci vincerla; l’esempio catastrofico di Tsipras mi pare esauriente.
Ora, per difendersi da una guerra di aggressione bisogna anzitutto: a) accorgersi che c’è, cioè accorgersi che qualcuno ti ha designato come nemico b) ricambiare il favore, cioè designare nemico lui c) delimitare i campi, che possono essere solo due, e chiarire chi sta nel campo nemico e chi sta nel campo amico d) situarsi di qua o di là e) dividere e battere il nemico usando tutti i mezzi atti allo scopo (dai quali escludo i mezzi violenti, per la ragione elementare che un passaggio al livello militare dello scontro importerebbe l’immediata e totale sconfitta del campo in cui mi situo io).
Designo la sinistra come nemico principale all’interno delle frontiere italiane perché la sinistra italiana si è totalmente identificata con la UE (salvo benemerite eccezioni, purtroppo quasi sempre individuali) e perché la sinistra è la principale portatrice della funesta tesi delle due UE, che, ripeto, è attualmente l’arma ideologica più potente del nemico: sinistra = UE dal volto umano.

In altri termini: finché la sinistra resterà maggioritaria nell’opinione italiana, la maggioranza degli italiani continuerà a credere che la UE sia riformabile, cioè che la UE sia un compagno che sbaglia o alla peggio un avversario, non un nemico. Io invece penso che la UE sia un nemico. La guerra semplifica brutalmente: nemico, amico; di qua, di là; perdere, vincere. E’ brutto, è peggio che brutto, ma è così: prima ce ne persuaderemo, meglio sarà.
Insomma: la sinistra può svegliarsi dal sogno europeo? E se la risposta è “sì”, in che modo?
Sì, la sinistra può svegliarsi dal sogno europeo. In che modo? Se dopo una dura, inequivocabile sconfitta, le voci di chi, dall’interno della cultura politica della sinistra, ha saputo operarne una profonda revisione e le ha indicato come nemico la Ue e l’euro che di essa è strumento consustanziale, vi troveranno ascolto e ne conquisteranno la leadership.

Roberto Buffagni

Vittoria Trump: in Scandinavia e Ucraina si sente odore di marcio, di Max Bonelli

Vittoria Trump: in Scandinavia e Ucraina si sente odore di marcio, di Max Bonelli
tratto da https://dnipress.com/it/posts/vittoria-trump-in-scandinavia-e-ucraina-si-sente-odore-di-marcio/
21 Nov 2016

Con Trump la politica occidentale in Nord Europa potrebbe cambiare radicalmente e da quelle parti lo hanno già capito bene.

Con la presidenza di Trump alla Casa Bianca aleggia una preoccupazione politica che è stata dipinta da un tipo raffinato come Lyasko, capo dei nazionalisti radicali nella Rada ucraina, con la seguente frase: “si sente un forte tanfo a Kiev dopo l’elezione di Trump”. Poi questa voce è stata corretta dicendo “tutti i discorsi di Trump in campagna elettorale non sono altro che retorica”.

In effetti Petro Poroshenko e i suoi accoliti non hanno molto da essere allegri con questa elezione, il nuovo presidente americano ha dichiarato chiaramente che non vuole avere un così alto livello di conflitto con la Russia come quello perseguito dall’amministrazione Obama. Inoltre ha rifiutato di incontrare il leader ucraino quando è venuto in visita a New York in modo tale che un deputato del partito di Poroshenko, Mustafa Nayyem si è lanciato addirittura in un parallelo tra Yanukovich e Donald Trump.

Difficile pensare che ci saranno delle inversioni a 360 gradi nella politica estera americana ma degli aggiustamenti significativi se li aspettano tutti e già un semplice restringimento dei flussi di dollari che tengono in vita il governo fantoccio di Kiev possono risultare fatali per un paese già in bancarotta dichiarata.

Lo stesso “tanto” investe tutti i paesi scandinavi che avevano rotto le loro linee guida di neutralità di fronte ai due candidati presidenziali ed avevano fatto tifo da curva per la Clinton con i media arruolati come se fossero elezioni in casa propria.

Sicuramente nei due mandati alla Casa Bianca del nobel della pace Obama con 7 guerre in 8 anni di mandato, gli scandinavi avevano ottenuto molto in termini di relazioni economiche e supporto nella loro politica espansionistica commerciale. Espansione che li ha visti sostituire la Russia come partner commerciale prima nei paesi baltici e poi dopo Maidan con pesanti investimenti in Ucraina insieme al supporto militare di Kiev (sono infatti secondi solo ai polacchi nelle operazioni in Donbass). Il caso dello sniper svedese Mikael Skilt che si vantava di aver ucciso 150 russi sul nostro Corriere della Sera è solo la punta di un iceberg composto di contractors scandinavi e polacchi, che sostenuti da Washington si sono aggirati nella steppa dell’Est Ucraina.

Basta leggere i giornali svedesi, danesi, norvegesi del 9 novembre per trovare dichiarazioni dove la flemma scandinava è “svampata” e tutti si lasciano andare a commenti che vanno dal premier svedese Löfven, che dice apertamente che avrebbe preferito la Clinton ma che farà comunque gli auguri a Trump, per passare a un preoccupato segretario della Nato, Jens Stoltenberg, che cercava di rassicurare i membri dell’Alleanza che in ogni caso verranno difesi, anche se non avranno raggiunto la cifra del 2% del PIL investita nella difesa. A tal proposito Trump aveva dichiarato che gli USA non si possono accollare la gran parte degli oneri finanziari di questa elefantiaca organizzazione che si chiama Nato e che ormai in Ucraina come piuttosto in Siria ha dimostrato di essere oltremodo aggressiva nei confronti del tranquillo (almeno fino al golpe di Kiev del 2014) orso russo. Ma queste sono le reazioni più equilibrate, la maggior parte degli articoli sui giornali rasentano l’isteria.

Commentatori di politica estera come Jonas Gummesson sullo Svenska Dagbladet vedono una minaccia per la sicurezza nazionale svedese in questo possibile non dico abbraccio ma affievolimento delle tensioni tra le due superpotenze. La Svezia solo formalmente è un paese neutrale ed ultimamente ha apertamente partecipato ed ospitato esercitazioni Nato sul suo territorio. Idem per la Finlandia che all’inizio di Maidan aveva un comportamento abbastanza neutrale, ma che ultimamente aveva firmato un trattato di cooperazione militare con gli Usa, certo facendo cosa poco gradita a Mosca.

Per quanto riguarda gli svedesi c’è un problema in più e si chiama Julian Assange. Sono loro che per compiacere l’amministrazione Obama hanno ordito la tela per incastrarlo e consegnarlo agli americani. Adesso si ritrovano con un presidente americano che ha un debito di riconoscenza nei confronti del fondatore di Wikileaks. Assange ha inondato internet di migliaia di email di Clinton e dei suoi più stretti collaboratori, la stessa FBI ha dovuto incominciare ad indagare, ma al di là dei risultati dell’indagine il volto cinico e senza scrupoli della Clinton era stato messo a nudo, il danno d’immagine non poco ha contribuito a questa sconfitta elettorale. Infatti Trump disse in un comizio “I love Wikileaks”.

Per la Svezia pare proprio che saranno tempi di grandi imbarazzi ed incertezze politiche. Nessuno per adesso nella leadership scandinava ha iniziato un sano “mea culpa”, sembra che la capacita di autocritica da quelle parti segni stabile sotto zero.

Ma il tanfo si sente e se anche il biondo miliardario mantenesse la metà delle sue promesse elettorali in politica estera, lì nel Nord Europa l’aria politica sarà irrespirabile, mentre a Kiev gireranno con la maschera antigas.

Max Bonelli, l’Opinione Pubblica

LA STORIA SI RISCRIVE, di Gianfranco Campa

LA STORIA SI RISCRIVE, di Gianfranco Campa

Le storiche elezioni americane si sono concluse con la vittoria di Donald Trump. Al mondo gira la testa; alle élites mondiali non basterà l’aspirina ad alleviare l’emicrania. Con la vittoria di Trump si è girato decisamente pagina, lasciando fuori dalla Casa Bianca una associazione a delinquere: la famiglia Clinton.
Dopo otto anni di Bill Clinton, dodici anni dei Bush, con l’intermezzo degli otto anni di Obama, ci si aspettava un ritorno al passato con la signora Clinton.
Un monopolio rotto solo dall’avvento di una figura estranea alla politica.
Certo che diventa sempre più difficile sfatare le teorie della cospirazione, che vedono nel sistema politico un’oligarchia a cerchio chiuso asservita a poteri sovranazionali. In retrospettiva Donald Trump ha già raggiunto la più grande delle vittorie: mettere fuori gioco e consegnare agli annali della storia due potenti dinastie, la famiglia Bush e la famiglia Clinton. I Bush e i Clinton, ma ci aggiungerei anche Obama, colpevoli di aver causato la morte di milioni di vittime innnocenti in guerre, rivoluzioni colorate, cambiamenti di regime avviati e sostenuti e attraverso l’intero globo negli ultimi trenta anni: Somalia, Serbia, Honduras, Iraq, Afghanistan, Egitto, Siria, Libia, Ucraina e via dicendo.
In questa ottica ci vuole un bel coraggio a sbandierare il pericolo dei fantasmi nazionalistici e populistici di Trump.
Con Trump gli americani hanno riaccarezzato l’idea di eleggere il primo presidente “nazionalista” dall’assassinio, nel Settembre 1901, del presidente William Mckinley. Tre cose suggellarono il destino di McKinley: la sua opposizione al primo concetto di globalismo, l’opposizione alla creazione di una banca centrale (la Federal Reserve) e la decisione di mantenere il dollaro agganciato al valore dell’oro, rifiutando l’idea di un sistema inflazionistico. Diceva McKinley: “…Sotto il libero scambio, il prodotto diventa il maestro e il lavoratore lo schiavo… Il libero scambio distrugge la dignità e l’indipendenza dei lavoratori americani…”
Due altri presidenti si sono opposti a questo sistema e tutti e due hanno fatto la fine di McKinley: Lincoln e Kennedy.
Alla morte di Mckinley assunse il potere il suo vicepresidente, Theodore Roosevelt; un interventista, globalista, anche lui vincitore, guarda caso, di un premio Nobel per la Pace (1906).
A pensare male si fa peccato, ma probabilmente Trump dovrà guardarsi molto alle spalle…
La Clinton ha basato la sua campagna elettorale su due punti fondamentali:
• eleggere la prima donna presidente alla Casa Bianca, mobilitando l’elettorato femminile contro Trump e usando l’espediente del sessismo come arma per distruggere il repubblicano
• presentare Trump come un personaggio pericoloso, amico di Putin e amante di dittatori e per questo nemico dell’America. Descritto inoltre come incapace di autocontrollo, così da squalificarlo come depositario delle chiavi dell’armamento nucleare. Un uomo pericoloso insomma, un Hitler reincarnato.
Una trovata semplice ma efficace che ha invertito le parti, rendendo la Clinton una donna accettabile e “moderata” e Trump un estremista fanatico.
Questa ultima tattica non è nuova ma è stata rispolverata dalla campagna presidenziale del 1964, tra il democratico Lyndon B. Johnson e il repubblicano Barry Goldwater. In quella famosa campagna, Goldwater viene descritto come un’estremista di destra, potenzialmente pericoloso, dal grilletto facile; un personaggio instabile, capace di innescare la minaccia nucleare. In un video famoso, pagato dai fondi della campagna di Johnson e trasmesso dalla televisione americana, si vede una bambina sfilare i petali della margherita in un conto alla rovescia che porta alla detonazione di un ordigno nucleare. Nel sottofondo si sente la voce di Johnson commentare il video con una famosa frase: “Questa è la posta in gioco…o ci amiamo a vicenda oppure periamo..” https://www.youtube.com/watch?v=dDTBnsqxZ3k
Osteggiato sia dai Rockefeller repubblicani (l’establishment di allora), sia dai Democratici per questa sua visione populista, Goldwater venne attaccato pesantemente su tutti i fronti; una battaglia impari che lo vide sconfitto, sommerso dalla valanga di voti a favore di Johnson.
Dopo le elezioni Goldwater, un uomo dal temperamento mite, ritornerà nell’anonimato come senatore in Arizona. Il suo rapporto con il partito Repubblicano rimarrà tormentato durante tutta la sua carriera politica, accusando i repubblicani, in più occasioni, di essere troppo radicati a destra, quindi posizionandosi più su una piattaforma di tipo centrista-liberale. Un politico ragionevole insomma che venne dipinto come un pericoloso guerrafondaio. Il pacifista Johnson, salvatore dell’umanità dall’altro canto mise in moto la macchina militare e politica che portò gli Stati Uniti alla guerra in Vietnam, con il sacrificio di oltre 50000 militari americani e oltre due milioni di vittime tra civili e militari vietnamiti. Se la storia insegna qualcosa, tenendo conto che la Clinton non ha mai affrontato una guerra con qualche dispiacere, se fosse stata eletta, allora il futuro del mondo sarebbe stato decisamente fosco…
La stessa tattica, è stata impiegata contro Trump. Una strategia politica brillante, già testata nella sua efficacia, talmente efficace da dipingere un uomo, senza nessun precedente politico decisionale su cui basare un giudizio, come un guerrafondaio e dall’altra parte, una donna, con anni di documentata schizofrenia geopolitica, amante delle guerre esportatrici di democrazia, come una persona calma e ponderata. L’unica cosa e che i Clinton non hanno calcolato è che, rispetto al 1964, il mondo dell’informazione e molto più aperto grazie ai social media; i crimini della Clinton sono stati esposti, non dai mass media tradizionali, ma dagli utenti Facebook, Twitter, YouTube e sopratutto WikiLeaks .
Trump entra alla Casa Bianca dopo una battaglia disumana, impari, combattuta su tutti i fronti, contro molteplici nemici sia all’interno che all’esterno del proprio schieramento. Trump ha dovuto difendersi dall’ establishment del proprio partito, dai falchi neocons i quali più volte sono usciti allo scoperto sostenendo la Clinton; da tutti i mass media, nazionali e internazionali; dalle grandi multinazionali, come Apple, General Motors, Ford, solo per menzionare alcuni; da banche e finanziarie, tipo Goldman Sachs, da investitori di hedge found come George Soros; dalla macchina Hollywoodiana, con attori e attrici famosi, musicisti e celebrità in genere; dalla segreteria dell’ONU, per finire dalla magistratura federale e statale.
Gli attacchi a Trump sono avvenuti in varie forme e modalità. Si sono inventati fantomatiche vittime di abusi sessuali (le sue accusatrici si sono tutte dileguate dopo le elezioni), hanno travisato le sue parole, costruendo una retorica al vetriolo intorno al suo personaggio, fino a reinventarlo, costruendoci intorno una figura alternativa a quella reale. Un Trump fittizio, venduto al mercato di masse semi-colte e di intellettuali elitisti, che lo hanno assorbito e regurgitato come veritiero.
Bisogna dare atto alla macchina Clintoniana. Politici navigati che hanno sfruttato al meglio il loro potere mediatico, politico e finanziario con oltre un miliardo di dollari in contributi ricevuti dai soliti globalisti, moderni oppressori di popoli, burattinai della classe politica. In un mondo sano ed equilibrato una minaccia come la Clinton non avrebbe neanche dovuto arrivare cosi vicina alle soglie della Casa Bianca
Trump ha vinto, ma i suoi nemici rimangono, le nubi all’orizzonte sono sempre cupe e si preannunciano per lui quattro anni difficili. Sono i nemici interni più di quelli esterni da cui dovrà ben guardarsi. Gli ultimi saliti sul carro saranno i primi a saltarne fuori, al primo segno di rallentamento.

LA RIVOLTA DEGLI SCERIFFI, di Gianfranco Campa già pubblicato su www.conflittiestrategie.it il 18 giugno 2016

Pubblico un articolo curioso e illuminante nella sua particolarità, apparso il 18 giugno 2013 sul sito www.conflittiestrategie.it del quale abbiamo fatto parte sia il sottoscritto che l’autore. E’ utile a comprendere gli antefatti che hanno portato all’attuale situazione negli Stati Uniti. Giuseppe Germinario

LA RIVOLTA DEGLI SCERIFFI
18.06.2013 conflittiestrategie 0 Comments
sceriffo
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Dalla finestra del suo ufficio si vede l’autostrada, una tipica freeway californiana con almeno quattro corsie per senso di marcia, si alza dalla sedia e si avvicina alla finestra, sembra fissare le macchine che sfrecciano sulla strada; non è ora di punta ma il traffico è già sostenuto. Si gira verso di me: “vuoi un caffè?”

La mia è una visita cordiale, ci sono stato altre volte nell’ufficio di questo sceriffo; un’autorità molto amata in questa contea di media grandezza nello Stato dell’oro, la California. Alto, di corporatura media, con una lunga carriera alle spalle, uno di quelli che ha cominciato dalla gavetta, facendo pattugliamento sulla strada e arrivando fino alla posizione più alta; “no grazie, il caffè l’ho già preso” rispondo. Ritorniamo a parlare del più e del meno ma c’è una domanda che mi brucia; aspetto il momento giusto; “hai mai avuto il piacere di incontrare l’ex sceriffo Richard Mack?” Mi guarda sorridendo, capisce che la mia è una domanda trabocchetto: “ma non eri venuto solo per salutarmi…? No, non ho mai avuto il piacere…Ma lo so dove stai andando a parare…Senti io non appartengo alla categoria degli sceriffi ribelli…” Il suo viso si fa serio “ le nuvole all’orizzonte sono cupe e minacciose …” dice lui, adesso anche io volgo lo sguardo alla finestra. Una giornata di sole di tarda primavera tipicamente Californiana; d’altronde nella baia di San Francisco da Aprile a Ottobre non piove mai, le nuvole cui si riferisce annunciano…ben altre tempeste… da tardo impero americano …

Quando nell’ormai lontano 1994, l’allora Sceriffo Richard Ivan Mack, della contea di Graham in Arizona, fece causa al governo Clinton, accusando il governo federale di violare la costituzione con il Brady Handgun Violence Prevention Act, pochi consideravano la possibilità che nel futuro immediato si sarebbe creato un gruppo consistente di sceriffi, sparsi in tutto il territorio a stelle e strisce, pronti ad alzare le barricate contro il tiranno federale (https://www.youtube.com/watch?v=uEoeLGIL3BI). Dopo quasi vent’anni dalla causa di Mack, siamo alla resa dei conti. La proposta di legge fatta recentemente dai democratici con il supporto di un ristretto numero di repubblicani e poi bocciata, la quale prevedeva l’ inasprimento delle norme sul controllo delle armi, ha creato un’onda d’urto considerevole tra molti sceriffi e tutori della legge americani, al punto da far sorgere lo spettro tangibile della ribellione armata.

Mentre gli americani devono confrontarsi, scandalo dopo scandalo, con la totale incompetenza e il delirio dell’imperatore nudo Obama e dei suoi fedeli, nei posti più remoti dell’America, più di 400 sceriffi, sparsi in 15 stati (il 15% degli sceriffi), su un totale di 3080, hanno giurato di opporsi a qualsiasi tentativo dei politici di violentare la costituzione, soprattutto riguardo al secondo emendamento: il diritto di possedere armi (https://www.youtube.com/watch?v=UAgcgGyv_i0). Sotto la magistrale regia dell’ormai ex sceriffo Mack con la sua stella appesa al chiodo, ma non il suo fucile, il movimento patriottico Americano ha ritrovato nuova linfa. Una linfa che non si vedeva forse dai tempi della guerra di indipendenza, quando nelle taverne del paese, gruppi di contadini, sceriffi, fuorilegge, coloni, tutti insieme patrioti convinti, si ritrovavano per esprimere la loro frustrazione e rabbia contro l’oppressione della corona inglese che limitava la loro libertà. Quegli stessi che poi si ritroveranno a combattere per l’indipendenza dal tiranno d’oltre oceano. Allora solo il 30% circa della popolazione di coloni, credeva nella necessità di liberarsi dal giogo della tirannia materna inglese. Ma quel 30 % era pronto a morire per il loro ideale di libertà, un concetto di patriottismo pressoché sconosciuto in Italia. Soprattutto questa Italia odierna del politicamente corretto, asservita ai padroni sparsi tra Europa e Nord America, preoccupata più delle proprie marchette che della propria sopravvivenza.

Questi 400 sceriffi, hanno non solo giurato di difendere la costituzione Americana dall’attacco perpetrato, secondo loro, da componenti del governo federale, ma sono passati dalle parole ai fatti. Negli Stati dello Utah e Nuovo Messico, 58 sceriffi hanno spedito una lettera di sfida alla Casa Bianca. In New Hampshire, uno sceriffo ha dichiarato che sia lui che ì suoi vice si ritengono giustificati nello sparare a vista contro i dottori abortisti per proteggere la vita “di piccoli innnocenti”, vittime di barbari assassini. Nella contea di Maricopa, in Arizona, l’ormai leggendario sceriffo Joe Arpaio (genitori originari di Lacedonia), è impegnato con i suoi incaricati a purgare la contea da immigrati illegali, cosa che gli è costata una denuncia da parte del Dipartimento di Giustizia Americano per abuso di potere; ma Arpaio ha risposto mostrando l’indice medio al governo federale e per ritorsione ha ordinato ai suoi vice, di avviare una inchiesta, per accertare, una volta per tutte, se il certificato di nascita mostrato da Obama è autentico oppure falsificato, caso questo che validerebbe la teoria cospiratrice che Obama non è nato negli USA, ma in Africa; quindi ineleggibile alla presidenza secondo la regola dettata dalla Costituzione Americana (https://www.youtube.com/watch?v=RbxBZ12sjgQ ).

Più di qualche sceriffo ha anche dichiarato che ogni agente federale che cercherà di applicare nella loro contea qualsiasi legge che sia in violazione o in diretto contrasto con la Costituzione Americana dei padri fondatori, verrà dichiarato fuorilegge e quindi sottoposto ad arresto immediato da parte dei suoi incaricati; una minaccia indirizzata soprattutto alla FBI. Lo Sheriffo Greg Hagwood, della contea di Plumas in California, ha dichiarato recentemente che il governo federale con le sue azioni incostituzionali “ha svegliato il gigante dormiente” (https://www.youtube.com/watch?v=a_fhPEMFOxk ). I casi sono virtualmente infiniti e non basterebbe un libro di 300 pagine per menzionare tutti gli sceriffi e le dichiarazioni da loro fatte negli ultimi mesi contro il governo centrale, contro Obama e contro i vigliacchi colleghi delle forze dell’ordine che non hanno ancora preso una posizione antigovernativa. Al riguardo è significativo aggiungere che recentemente in Colorado, durante una visita di Obama, un gruppo di Sceriffi ribelli ha manifestato contro in presidente, fuori dal luogo in cui parlava (https://www.youtube.com/watch?v=Vsgtvz4OnYw ). La cosa peculiare è che il Presidente aveva alle spalle, durante il comizio, un gruppo di agenti della Polizia di Denver ed il comizio si teneva nell’edificio principale dell’accademia di polizia di Denver. Passato l’evento si è saputo da alcuni degli agenti presenti, che molti colleghi sono stati ”obbligati” dall’amministrazione ad attendere e partecipare alla manifestazione di Obama. Si profila uno scontro tra forze di polizia contrapposte.

La storia degli sceriffi ribelli, non è l’unico segno di cedimento strutturale della potenza Americana. Come riportato l’anno scorso in questo mio articolo ( http://www.conflittiestrategie.it/cracks-in-the-empire) il problema è anche politico, oltre che civile/sociale. Lo scontento manifestato dagli sceriffi, anche se per il momento circoscritto a circa il 15%, potrebbe allargarsi ancora di più. Questi sceriffi si ergono a barriera contro la deriva liberale progressivista che pervade la terra a stelle e strisce. Loro sono pronti alla difesa estrema della causa patriottica conservatrice. Nelle parole dello sceriffo della contea di Milwaukee, David A. Clarke Jr., si sentono i tuoni, ancora lontani ma in avvicinamento, di una seconda rivoluzione americana (https://www.youtube.com/watch?v=hgH7LfNTt3U )

Questi 400 sceriffi possono contare sui loro incaricati, agenti addestrati allo stesso modo e a volte anche più di poliziotti regolari; vice che pattugliano ogni giorno le strade delle contee americane. Se calcoliamo questi subordinati fedeli ai loro sceriffi, parliamo di un potenziale di circa 40.000 agenti (stima per difetto). A questi deputati bisogna aggiungere semplici civili patrioti, militari ed ex militari, milizie anti-governative, poliziotti statali e cittadini comuni; quindi gli ingredienti ci sono veramente tutti per un nuovo 1776. Tutto dipenderà dal comportamento di Obama e della sua amministrazione su certe tematiche e politiche. Le sue elezioni, anche se apparentemente maggioritarie, seguite dagli scandali a ruota che coinvolgono la sua amministrazione e dalle leggi federali anti-costituzionali, hanno lasciato un segno indelebile e cambiato il corso del paese mettendolo quindi in rotta di collisione con milioni di cittadini americani. Il voto popolare preso da Obama in Novembre, non assicura la sua sopravvivenza perché le forze contrapposte a lui e al partito democratico sono quelle “dure e pure” (forze che vanno al di là del Partito Repubblicano, dove è in corso una resa dei conti stile “notte dei lunghi coltelli”) pronte a lottare e morire per la loro causa. I prossimi 3 anni di Obama saranno cruciali per capire se l’America che conosciamo potrà sopravvivere nella sua forma attuale oppure quella forma assumerà per sempre altre vesti.

Mi rivolgo di nuovo allo sceriffo: “ti vedo preoccupato …” Mi guarda diretto negli occhi “hai mai sentito la frase che fu detta da Lincoln?” “Quella sulla caduta dell’unione?” Chiedo io. “Sì, proprio quella” risponde continuando a scrutarmi negli occhi. “Non me la ricordo a memoria, mi pare che menzioni la caduta del nostro paese come una possibiltà concreta più dovuta a un fattore interno che esterno.” Con il dito si tocca la tempia “l’ho memorizzata fin da piccolo, mi rimase impressa dopo una discussione nella lezione di storia alle medie: America will never be destroyed from the outside. If we falter and lose our freedoms, it will be because we destroyed ourselves.” … Le nuvole all’orizzonte si stanno gonfiando di un nero pesante …

CREPE NELL’IMPERO, di Gianfranco Campa già pubblicato il 19 marzo 2012 sul sito www.conflittiestrategie.it

Pubblico un articolo curioso e illuminante nella sua particolarità, apparso il 19 marzo 2012 sul sito www.conflittiestrategie.it del quale abbiamo fatto parte sia il sottoscritto che l’autore. E’ utile a comprendere gli antefatti che hanno portato all’attuale situazione negli Stati Uniti. Seguirà un articolo dello stesso autore sulla rivolta degli sceriffi. Buona lettura, Giuseppe Germinario

CREPE NELL’IMPERO, di Gianfranco Campa

“La storia è una galleria di immagini in cui ci sono pochi originali e molte copie” Alexis de Tocqueville

Marcus Cassianius Latinius Postumus si dice sia nato in una famiglia povera di origine gallica, crescendo in condizioni modeste fino in età adulta, quando si arruolò nell’esercito. Postumus eventualmente avanzò di grado per effetto del suo coraggio, forza, intelligenza e capacità diplomatiche. Postumus e vissuto in una era di grande inquietudine per l’Impero Romano. Nel terzo secolo l’ambiente stava cambiando ed i Romani avevano a che fare con gravi problemi sia all’interno che al di fuori dell’impero. Postumus divenne il governatore della Germania Superiore durante il regno dell’imperatore Gallieno. Nel 258 DC, fu un anno di grande fermento alle frontiere: i Goti e le altre tribù germaniche venivano spinti contro i confini romani da una nuova tribù barbara di grandi guerrieri che erano tutto ad un tratto apparsi dall’ est: gli Unni. Gallieno era già impegnato in una guerra per difendere le frontiere orientali dai Persiani, suo figlio, Saloninus, si trovava in Germania per difendere la frontiera del Reno. Postumus nel frattempo era diventato il comandante delle legioni di stanza sulla frontiera del Reno. Non correva buon sangue tra Postumus e Saloninus, situazione che portò all’assassinio di quest’ultimo. Dopo la morte di Saloninus, Postumus si proclamò imperatore del nuovo Impero gallico, che comprendeva i territori di Spagna, Gran Bretagna, Gallia e Rezia. Il comandante ribelle affermò così la sua indipendenza da Roma e dall’imperatore Gallieno, arrivando a coniare una nuova moneta raffigurante il proprio volto . Postumus avrebbe regnato tra il 260-269 DC, quando fu assassinato da uno dei suoi uomini. L’Impero Gallico sarebbe andato avanti per altri cinque anni, fino al 274 DC, quando, dopo la battaglia di Chalons, l’imperatore Aureliano avrebbe reintegrato i territori di Postumus nell’Impero romano.

Nonostante la crisi del III secolo, l’impero romano sopravviverà per altri 200 anni, grazie soprattutto a due grandi imperatori: Diocleziano e Costantino, che contribuirono a immettere nuova linfa nell’impero morente. Le invasioni barbariche, iniziate nel 376 DC, con i Goti, e la sconfitta delle legioni romane ad Adrianopoli nel 378, avrebbero continuato per un secolo con i Visigoti nel 410, seguita dagli Unni nel 451 e dai Vandali nel 455, fino a quando l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo fu deposto da Odoacre nel 476 DC data che segnò la fine dell’impero romano occidentale. Le invasioni barbariche sono state il risultato, non la causa della debolezza romana. Quando Odoacre prese il potere, Roma era ormai un guscio vuoto.

Quando i padri fondatori hanno stipulato la Costituzione americana, lo hanno fatto prendendo ad esempio la Repubblica Romana come un modello politico. Da allora un numero incalcolabile di libri, relazioni accademiche e opinioni sono state rese sul confronto tra l’Impero Romano e gli Stati Uniti. Una considerevole quantità di storici e sociologi oggi vedono molte similitudini tra la fine dell’Impero Romano e la situazione attuale in evoluzione negli Stati Uniti. Il motivo di tanta ricerca è che gli USA siano la versione attuale dell’Impero Romano. Per loro, Hollywood equivale agli spettacoli tenuti nel Colosseo, la politica estera degli Stati Uniti con i loro tentacoli di vasta portata, l’esercito americano con la sua presenza ufficiale e non ufficiale in 140 paesi in tutto il mondo sono paragonabili alla legione romana a guardia del vasto territorio dell’impero. Naturalmente, questi confronti possono essere inverosimili, soggettivi e discutibili. A mio parere, Roma è troppo distante dagli Stati Uniti in termini di tempo per esprimere un giudizio equo. Gli Stati Uniti e Roma non sono confrontabili, ma per il ragionamento di questa analisi, facciamo finta che l’equazione USA = Romano Impero sia correlata. Dobbiamo partire dal presupposto che se gli Stati Uniti equivalgono all’Impero Romano i due condividerebbero allora lo stesso destino, compreso il loro collasso. Uno stato di fatto è che tutti gli imperi e le civiltà che ci hanno preceduto sono nati e morti seppelliti dalla storia. Alcuni di essi sono durati più a lungo rispetto ad altri, ma non c’è mai stata una civiltà che è sopravvissuta intatta al flusso del tempo.

Probabilmente, la caduta dell’impero romano non è stata causata da un singolo evento, ma era la combinazione di molti eventi, alcuni più importanti di altri. Non importa quale sia la ragione, i segni del declino erano presenti per essere interpretati e spiegati ben prima della fine dei Cesari. Si possono prevedere i tempi della fine americana? Possiamo interpretare i segni di decadenza americana e il collasso? Può essere, ma è un giudizio soggettivo di chi fa l’analisi. Nel terzo volume della La Storia della Civiltà, del suo splendido libro, Cesare e Cristo, pubblicato nel 1944, Will Durant ha scritto: “Una grande civiltà non viene conquistata dall’esterno fino a quando non si è distrutta dall’interno“.

Durante gli anni dell’Amministrazione Bush, personaggi appartenenti all’altra parte dello spettro politico avevano ipotizzato la caduta degli Stati Uniti a causa delle guerre in Iraq e in Afghanistan, del terrorismo, della globalizzazione, della erosione delle libertà civili, della violazione della Costituzione, della crisi economica, ect. Se abbiano realmente creduto alla sua morte è un’altra questione. Ora che Obama è in carica, l’ideologia politica avversa vede Obama e i risultati delle sue decisioni, come un segno del declino americano. Essi dichiarano: le guerre continuano, destabilizzazione di Medio Oriente e Africa, la spesa e il debito nazionale, la recessione economica, crollo della struttura familiare, erosione dei valori morali, la violazione della Costituzione, immigrazione, ect. Come potete vedere, alcuni di questi fattori sono gli stessi di entrambe le parti politiche e tutti insieme hanno una qualche validità nell’ipotizzare la possibilità del crollo americano. Tenete a mente, però, che fare la previsione su modelli futuri e stabilire una linea di tempo è quasi impossibile e non importa quanto efficaci si e`nell’interpretare gli eventi attuali; si può solo speculare. Forse uno dei più grandi errori che possiamo fare è quello di concentrarci sui segni più grandi, mentre sottovalutiamo i piccoli.

A volte i guai cominciano negli angoli più remoti dell’impero, i luoghi più tranquilli. Si inizia con una crepa, per quanto piccola, ma queste piccole crepe sono quelli più difficili da affrontare. A volte possono passare inosservate, anche quando sono visibili, non si prendono sul serio, perché sembrano innocue. Se non immediatamente chiuse, queste sono le crepe che si espandono mettendo così in moto una serie di effetti devastanti sulla fondazione; mettendo di conseguenza in pericolo la stabilità della struttura dell’impero. La proposta di legge del Wyoming HB85 potrebbe essere una di quelle piccole crepe.

Il Wyoming è un posto tranquillo, uno Stato bellissimo di montagne imponenti, maestosi parchi nazionali come Yellowstone e il Grand Tetons, con una massa di terra di 251501 chilometri quadrati, più grande della Gran Bretagna e Irlanda del Nord messe insieme. Confina con il Montana a nord, Nebraska e South Dakota ad est, Colorado e Utah a sud, Idaho ad ovest. Ci sono solo circa 570.000 residenti in Wyoming, ma è una terra ricca di risorse naturali. Wyoming fu acquistato dalla Francia nel 1803. A volte ci si riferisce al Wyoming come a “lo Stato Cowboy”. Oltre alla bellezza naturale, il Wyoming è uno degli stati che negli ultimi anni hanno espresso un certo “dispiacere” nei confronti del governo centrale e dell’amministrazione Obama.

Alcuni sostengono che questo malcontento è dovuto al fatto che il Wyoming è governato da un repubblicano, come repubblicani sono il segretario di Stato, il procuratore generale e il tesoriere. Non nego che ci sia una certa verità in questa affermazione, ma minimizzare il malcontento strisciante presente in alcuni degli stati dell’Unione, come una questione puramente ideologica-politica è troppo semplicistico. Per iniziare, il Wyoming è ben lungi dall’essere semplicemente uno “Stato Cowboy”come dice il suo soprannome. Il Wyoming ha una storia molto progressista. E ‘stato il primo stato dell’Unione a concedere alle donne il diritto di voto nel 1869, ha avuto la prima donna giudice di Pace nel 1870, la prima giuria tutta femminile nel 1870, la prima donna governatore negli Stati Uniti tra 1925-1927; il primo senatore donna negli Stati Uniti è stato eletto nel Wyoming, la prima città in America ad essere interamente governata da donne ; la città di Jackson nel biennio 1920-1921. Inoltre, Wyoming non è il primo Stato che ha cercato di esercitare una sorta di “indipendenza” da Washington. Dopo l’introduzione della legislazione sanitaria di Obama, molti stati, come Florida, Oklahoma, Colorado, Virginia, South Carolina e Georgia, hanno introdotto una legislazione locale in opposizione a determinati requisiti del mandato di salute pubblica di Obama. Inoltre, lo Utah, una volta ha tentato di creare il suo sistema monetario. In molti casi, questi stati si appellano al decimo emendamento della Costituzione americana che dice: “I poteri non delegati agli Stati Uniti dalla Costituzione, né proibiti ai singoli Stati, sono riservati ai rispettivi Stati, o ai cittadini. ” Originariamente i padri fondatori dell’America hanno messo l’emendamento decimo nel Bill of Rights, perché non volevano che il governo centrale diventasse troppo potente. Ma il decimo emendamento è stato dimenticato e indebolito da anni di continui cambiamenti e dall’acquisizione di maggiori poteri federali.

Il Wyoming HB85 va oltre la lotta alla legislazione sanitaria federale. HB85 è un nuovo tipo di disegno di legge senza precedenti dalla fine della guerra rivoluzionaria. HB85 propone la creazione di una task force “per studiare la continuità del governo locale in caso di interruzione nei poteri del governo federale.” Questa task force sarebbe stato costituita da due senatori nominati dal Senato. Nella proposta di legge è scritto: “La task force studierà gli impatti potenziali sul Wyoming di … una potenziale interruzione del governo federale degli Stati Uniti, compreso, ma non limitato a:

(I) gli effetti potenziali del rapido declino del dollaro degli Stati Uniti …

(Ii) gli effetti potenziali di una situazione in cui il governo federale non ha alcun potere effettivo o autorità sul popolo degli Stati Uniti;

(Iii) I potenziali effetti di una crisi costituzionale;

(Iv) Il coordinamento tra l’ufficio del governatore, la guardia nazionale e il personale militare federale nel Wyoming;

(V) I potenziali effetti di una interruzione nel settore della distribuzione alimentare;

(Vi) I potenziali effetti di una interruzione nella distribuzione di energia “.

Il disegno di legge è stato subito soprannominato il ” Doomsday Bill.” Introdotto da David Miller, un legislatore repubblicano del Wyoming, in un’intervista con un giornale locale, l’autore ha affermato che “Le cose a volte accadono in fretta. Guarda la Libia, guarda l’Egitto, vedi quelle situazioni “Miller ha anche aggiunto che” Se continuiamo su questa linea, questo è il modo in cui ogni società finisce -.. Con una moneta senza valore .”

HB85 è morta nella mattinata di Martedì 28 per soli tre voti, 30-27. Il disegno di legge inizialmente era sopravvissuto alla Camera, ma poi, prima della votazione finale, un altro parlamentare repubblicano, Kermit Brown, ha aggiunto una nuova clausola nel disegno di legge che la modificava in modo da includere uno studio per la creazione di un esercito indipendente del Wyoming, compresi marina e aviazione. In più alla possibilità di acquisto di una portaerei (non importa che il Wyoming sia senza sbocco sul mare). E facile intuire che Brown potrebbe aver deciso di aggiungere l’emendamento per una ragione: rendere il disegno di legge scandalosamente ridicolo firmandone la sua condanna. Forse Brown, un ex ufficiale della Marina, è stato colpito da un senso di fedeltà al governo federale. Brown ha dichiarato dopo aver aggiunto l’emendamento sulla portaerei “Ho deciso di iniettare un po’ di umorismo in questo disegno di legge“. Brown, ovviamente, non ha voluto immaginare uno stato dell’unione potenzialmente con il proprio esercito e la propria valuta.

Se il disegno di legge fosse passato, si sarebbe creato un gruppo di studio. Questo gruppo di studio avrebbe dovuto redigere un rapporto entro il dicembre di quest’anno, consigliando quali passi sono necessari per creare un esercito e una moneta. Chissà cosa sarebbe venuto dopo? Una volta che la porta è aperta, tutto può succedere. Non è difficile immaginare forse non nell’immediato futuro, ma nei prossimi anni, che, inspirato dal Wyoming, qualcuno potrebbe prendere l’iniziativa di presentare un referendum per l’indipendenza da Washington.

Molti degli altri Stati dell’Unione hanno problemi di bilancio e il governo federale è di $ 15 trilioni di debito. Alcuni hanno chiamato i sostenitori della ” Doomsday Bill” pazzi da complotto apocalittico e stanno ridendo di loro. Ma dietro queste etichette facilmente appiccicate,il Wyoming ha il diritto di essere preoccupato. Per Miller e molti dei legislatori del Wyoming, l’incubo di un crollo del governo centrale è reale. Miller ha dichiarato: “Le cose le facciamo giuste nel Wyoming, abbiamo la miglior conduzione dello Stato incluso un avanzo di bilancio. ” Le finanze del Cowboy State sono molto migliori rispetto al resto del paese. Sam Krone, un rappresentante repubblicano di Cody, ha dichiarato: “Siamo in una situazione relativamente buona finanziariamente, con $ 14 miliardi di risparmio e surplus.” La disoccupazione in Wyoming è anche la più bassa rispetto al resto del paese con il 5,7%; ben al di sotto del 8,5% a livello nazionale. Lo Stato del Wyoming in questo ciclo di bilancio in corso prevede di finire con 1.000 milioni dollari in eccesso. Sicuramente la gestione del “Cowboy State” è molto positiva

Se l’umanità sopravvive, in 1000 anni, gli storici guarderanno indietro nel la storia e` forse identificheranno la HB85 come una di quelle piccole crepe che sono diventati un punto di svolta nella caduta degli Stati Uniti. Se ci sono voluti 200 anni per Roma a cadere, ci vorrà molto meno per gli Stati Uniti. Se non è il Wyoming, forse sarà un altro Stato a bussare alle porte dell’indipendenza, usando come mezzo il “referendum democratico” creando probabilmente un effetto domino. Allora la caduta sarà veloce come il collasso dell’Unione Sovietica. Non vedo uno Diocleziano o Constantino all’orizzonte. Il meglio che l ‘America è in grado di produrre al giorno d’oggi sono persone del calibro di Obama o di Romney. Invece di ridere, mi metterei a piangere.

Potete leggere una copia del HB-85 aprendo questo link: http://legisweb.state.wy.us/2012/Bills/HB0085.pdf

“History is a gallery of pictures in which there are few originals and many copies” Alexis de Tocqueville

It has been said that Marcus Cassianius Latinius Postumus was born to a poor Gallic family and after growing up in modest conditions until adult age, he joined the army. Postumus eventually rose through the ranks due to his courage, strength, intelligence and diplomatic skills. Postumus’ times were times of great unrest for the Roman Empire. By The third century the environment was changing and the Romans were dealing with severe problems inside as well as outside the empire. Postumus eventually became the governor of Germania Superior during the reign of Emperor Gallienus. In 258 AD, there was great turmoil on the frontiers: The Goths and other Germanic tribes were being pushed against the Roman borders by a new barbarian tribe of great warriors that suddenly appeared from the east: The Huns. Gallienus was already engaged in a struggle to defend the eastern frontiers from the Persians; his son, Saloninus, was in Germany defending the Rhine frontier. By then, Postumus had become the commander of the legions stationed on the Rhine frontier. There was bad blood between Postumus and Saloninus, leading to the execution of the latter. After the death of Saloninus, Postumus declared himself Emperor of the Gallic Empire, which included the territories of Spain, Britain, Gaul and Rhaetia. The rebel commander asserted his independence from Rome and the Emperor Gallienus by also coining a new currency. Postumus would reign from 260 to 269 AD, when he was assassinated by one of his own men. The Gallic Empire would go on for another five years until, after the Battle at Chalons in 274 AD, Emperor Aurelian claimed back the territories for the Roman Empire. Despite the crises of the third century, the Roman Empire would linger on for another 200 years, thanks mainly to two great emperors: Diocletian and Constantine, who were instrumental in breathing new life into the dying empire. The barbaric invasions, which started in 376 AD with the Goths and the defeat of the Roman legions at Adrianople in 378, would continue for a century off and on, with the Visigoths in 410, followed by the Huns in 451 and the Vandals in 455, until the last Roman emperor, Romulus Augustulus was deposed in 476 AD by Odoacer which, as a date, marked the end of the western Roman empire. The barbaric invasions were the result, not the cause, of Roman weakness. By the time Odoacer came to power, Rome was an empty shell.

When the founding fathers drafted the American Constitution, they looked at the Roman Republic as a political model. Since then countless numbers of books, scholarly papers and opinions have been rendered on the comparisons between the Roman Empire and the USA. A considerable amount of historians and sociologists today see many similarities between the fall of the Roman Empire and the evolving situation in USA today. They see the USA as the current version of the Roman Empire. To them, Hollywood is comparable to the spectacles played in the Coliseums; the US foreign polices with their far reaching tentacles and the US military with its official and unofficial presence in 140 countries around the world is comparable to the Roman legions guarding the vast territory of the empire. Naturally, these comparisons may be farfetched, subjective and debatable. In my opinion, Rome is far too distant from the USA in terms of era to render a fair judgment. The United States’ and Rome’s achievements are not comparable, but for the sake of this analysis, let’s pretend that the equation USA=Roman Empire is interrelated. We have to start from the presumption that if the USA is equal to the Roman Empire, then the two will share the same fate, including their collapse. It is a fact that all empires and civilizations that have preceded us have come and gone, some of them have lasted longer than others, but there has never been a civilization that has survived untouched the flow of time.

Arguably, the Roman Empire’s fall was not due to a single event, but was the combination of many events, some more important than others. No matter the reason, the signs of the decline were there well before the end of the Caesars. Can we predict the timeframe of the end of the American enmpire? Can we interpret the signs of American decay and collapse? Of course that depends on whom you are talking to; opinions on the matter will differ. In the third volume, The Story of Civilization, of his splendid book, Caesar and Christ, published in 1944, Will Durant wrote, “A great civilization is not conquered from without until it has destroyed itself from within.”

During the years of the Bush administration, people on the opposite side of the political spectrum claimed the pending demise of the USA due to the wars in Iraq and Afghanistan, terrorism, globalization, erosion of civil liberties, violation of the Constitution, economic crises, etc. Now that Obama is in charge, the other side of the political ideology sees Obama and his decision-making results as a sign of the American demise. They point to continuing wars, destabilization of the Middle East and Africa, spending and national debt, economic recession, the breakdown of the family structure, the eroding of moral values, violation of the Constitution, immigration, etc. As you can see, some of these factors are the same from both political prospectives and, all together, they have some validity in making the case for the American downfall. Keep in mind, however, that predicting future patterns and establishing a time line is impossible, and no matter how well one interprets the current events, one can only speculate. Perhaps one of the biggest mistakes we can make is to focus on the bigger signs, while underestimating the small ones.

Sometimes trouble starts in the far reaches of the empire, the quietest places. It begins with a crack, however small. Sometimes these cracks go undetected. Even though visible, they are not measured seriously because they look harmless. If not patched promptly, these cracks will expand, setting in motion a series of devastating effects on the foundation and stability of the empire. The Wyoming Bill HB85 is one of those small cracks.

Wyoming is a quiet place, a beautiful State of towering mountains, majestic national parks such as Yellowstone and the Grand Tetons, with a land mass of 251,501 sq. km, larger than Great Britain and North Ireland put together. It borders Montana to the north, Nebraska and South Dakota to the east, Colorado and Utah to the south, and Idaho to the west. There are only roughly 570,000 residents in Wyoming, but it is a land rich in natural resources. Wyoming was purchased from France 1803. Sometimes people refer to Wyoming as the “Cowboy State.” Besides its natural beauty, Wyoming is also one of several states that in the last few years have voiced certain “displeasure” toward the central government and the Obama administration.

Some argue that this malcontent is due to the fact that Wyoming is governed by a Republican, and the secretary of state, the attorney general and the treasurer are also Republicans. I won’t deny that there is a certain truth in this statement, but to discount the malcontent slithering around some of the states in the Union as political issues is too simplistic. To start, Wyoming is far from its nickname of “Cowboy State.” Wyoming has a rather progressive history. It was the first state in the Union to grant women the right to vote in 1869; it had the first woman Justice of the Peace in 1870; the first all-women jury in 1870; the first woman governor in the US from 1925-1927; the first female senator in the US was elected from Wyoming; the first town in America to be governed entirely by women was the city of Jackson from 1920-1921. In addition, Wyoming is not the first state that has tried to exercise some kind of “independence” from Washington. Since the introduction of Obama’s Health Care legislation, many states, such as Florida, Oklahoma, Colorado, Virginia, South Carolina, and Georgia, have introduced local legislation in opposition to certain requirements of the Obama Healthcare mandate. Additionally, Utah once attempted to create its own monetary system. In many cases, these states are appealing to the 10th Amendment to the American Constitution which says, “The powers not delegated to the United States by the Constitution, nor prohibited by it to the States, are reserved to the States respectively, or to the people.” Originally, America’s founding fathers put the 10th Amendment into the Bill of Rights because they didn’t want the central government to become too powerful. But the 10th amendment has been forgotten or weakened by years of constant changes and the acquisition of more federal powers.

Wyoming HB85 goes beyond the fight over federal healthcare legislation. HB85 is a new kind of bill, unprecedented since the end of the Revolutionary War. HB85 called for a task force “to study governmental continuity in case of a disruption in federal government operations.” This task force would have been made up of two senators appointed by the Senate. It stated that, “The task force shall study potential impacts on Wyoming of…a potential disruption of the United States federal government including, but not limited to:

(i) Potential effects of the rapid decline of the United States dollar…

(ii) Potential effects of a situation in which the federal government has no effective power or authority over the people of the United States;

(iii) Potential effects of a constitutional crisis;

(iv) Coordination between the governor’s office, Wyoming national guard and any federal military in Wyoming;

(v) Potential effects of a disruption in food distribution;

(vi) Potential effects of a disruption in energy distribution.”

The bill was quickly nicknamed the “Doomsday Bill.” It was first introduced by David Miller, a Republican Wyoming Legislator. In an interview with a local newspaper, Miller stated that “Things happen quickly sometimes. Look at Libya, look at Egypt, look at those situations.” Miller also added that “If we continue down this course, this is the way any society ends up – with a valueless currency.”

HB85 was killed on Tuesday morning, February 28 2012, by three votes, 30-27. The bill initially survived the House, but prior to the vote, another Republican legislator, Kermit Brown, added new language in the bill amending it to include a study to train and establish an independent Wyoming army, including navy and air force, in addition to the possibility of the purchase of an air carrier (never mind that Wyoming is landlocked). It appears Brown decided to add the amendment to make the bill so outrageously ridiculous to effectively kill it. Perhaps Brown, a former navy officer, had an allegiance to the federal government. He stated after adding the air carrier amendment that “It was just injecting a little bit of humor into the bill.” Brown obviously did not want to envision a state within the United States with potentially its own army and currency.

If the bill had passed, it would have created a task force. That task force would have had to come up with a report by December of this year, advising on what steps were necessary to take to have an army and a currency. Even though the bill does not call for a split from the central government, the mere fact that a possibility of a central government collapse is taken into the account is troubling. Who knows what would have come after the task force’s report? Once the door is open, anything can happen. It’s not hard to imagine that in the next few years, someone might take the initiative to submit a referendum for independence from Washington. Other states of the Union have major budgetary issues and the Federal government is $15 trillion in debt. Some people have called supporters of the “Doomsday Bill” apocalyptic conspiracy lunatics, and they are laughing at them. But behind these easily attached labels, Wyoming does have the right to be worried. To Miller and many of the Wyoming legislators, the nightmare of a collapse of the central government is real. Miller stated, “We do it right in Wyoming, we have the best-run state. We have a budget surplus.” Its finances are in better shape than the rest of the country. Sam Krone, a Republican Representative from Cody, stated “We’re in relatively good shape financially, with $14 billion in savings and assets.” Unemployment in Wyoming is also the lowest of the Union with 5.7%, well below the 8.5% nationally. The state also has billions of dollars in savings and in this current budget cycle is expected to end with $1 billion surplus.

If humanity survives, in 1,000 years historians may look back in time and identify HB85 as one of those small cracks that became a turning point in the fall of the United States. If it took 200 years for Rome to fall, it will take much less for the United States. If it’s not Wyoming, perhaps it will be another state that could seek independence by means of a “democratic referendum” or legislative actions to create a domino effect. Then it will be as fast as the fall of the Soviet Union. I don’t see a Diocletian or Constantine on the horizon. The best America can produce nowadays are people of the caliber of Obama or Romney. Instead of laughing, we should be crying.

Here is the link to HB85: http://legisweb.state.wy.us/2012/Bills/HB0085.pdf

UNA CHIOSA di MASSIMO MORIGI a “la posta in palio delle elezioni americane”

Una chiosa di Massimo Morigi a “la posta in palio delle elezioni americane” che va al di là delle considerazioni sull’evento oggetto dell’articolo spingendosi a riflessioni sul piano teorico e sui fondamenti impliciti di questa analisi. Buona lettura
Ne “La posta in palio delle elezioni americane” Giuseppe Germinario, oltre a fornirci una completa ed esatta radiografia delle forze in campo nelle elezioni presidenziali USA del 2016, una disamina che per nitore e completezza ridicolizza tutti gli sproloqui in proposito dei vari turiferari di destra e sinistra del nostro paese il cui unico scopo è vendere ai consumatori della politica (i.e. il popolo) le magliette della propria squadra politica, è un anche un esempio di scuola di una metodo che in tempi – parafrasiamo Lenin – quando si era teoricamente più arretrati ma politicamente ben più avanzati, si sarebbe definito dialettico, metodo dialettico perché il nucleo della dialettica, in verità assai semplice da comprendere da qualsiasi persona di buon senso, è la consapevolezza che nelle società (così come nella natura, ma per il momento tralasciamo questo legame, la cui discussione va ben al di là dello scopo di queste brevi note dedicate a commentare l’articolo di Germinario) non esistono da una parte i valori e dall’altra delle forze, la cultura, l’economia, la politica, che rispondono ad una diversa legalità ma che, al contrario, fra questi vari momenti dell’espressività umana convivono, si intrecciano e si fondono tutti quegli aspetti che una mente ingenua (o più spesso, interessata) vuole tenere distinti. Prima ancora che di Marx, fu questa la fondamentale acquisizione di Machiavelli e come non machiavelliana – non nel senso deteriore del “fine che giustifica i mezzi”, concetto mai del resto espresso dal Segretario fiorentino, ma nel senso che la politica ha una morale che la morale comune, proprio perché intrinsecamente non dialettica, non può comprendere – potrebbe essere giudicata l’affermazione dove, per esempio, in relazione alle capacità di mobilitazione del Partito democratico della parte meno avvertita e politicamente consapevole della popolazione statunitense, Germinario scrive che “Il concetto di diritto individuale inteso come soddisfazione di bisogni personali e di gruppi particolaristici che sovrasta e prescinde dai contesti sociali e politici, proprio del radicalismo democratico, assurge al rango di ideologia dominante e motivante. La stessa ambizione al benessere tende ad essere ridotta al diritto a un reddito e a un sostentamento, ad una mera redistribuzione di risorse”?, o dove quel moderno imperativo categorico delle cosiddette democrazie rappresentative che va sotto il nome di ‘diritti umani’ viene messo in discussione e ricondotto alla sua valenza di instrumentum regni di matrice geopolitica quando Germinario giudica che “La stessa pratica del multilateralismo, d’altro canto, comporta una crescente dispersione delle energie politiche ed una progressiva caduta di credibilità legata alla posizione di arbitro-giocatore nei conflitti e alla mutevolezza opportunistica delle alleanze più o meno dichiarate. Una dinamica che sta erodendo inesorabilmente l’efficacia del richiamo al rispetto dei cosiddetti diritti umani”? E se “La posta in palio delle elezioni americane” è quindi un’ ottima dimostrazione di come la dialettica della lotta fra gruppi dominanti sia produttiva – oltre che, ça va sans dire, di potere – di valori, in quanto cimento dialettico è anche un importante ed affilato strumento per una rinnovata prassi politica intesa a spazzare via dalla faccia della terra tutti quegli idola fori che l’imparaticcia cultura delle cosiddette democrazie avanzate occidentali ha iniettato nelle teste dei poveri consumatori passivi della politica. L’ultimo frutto di questa pseudocultura, accanto al ridicolo concetto appartenente alla demonologia polemologica e neo-colonialista di ‘terrorista’, è l’abuso del termine ‘populismo’, che non ha altra funzione di sostituire, come strumento di demonizzazione dell’avversario, l’ormai consunto ‘fascismo’ e suoi derivati, area semantica quest’ultima ormai priva di ogni senso politico, assiologico e valoriale sia per la distanza temporale che ci separa dall’esperienza fascista e nazista (se prima le masse, almeno intuitivamente, sapevano per esperienza diretta di cosa si trattava, ora hanno perso anche questa consapevolezza) sia perché dal punto di vista scientifico assolutamente inapplicabile per definire i fenomeni di resistenza contro la retorica totale e totalizzante dell’odierna ideologia democratica. Come giustamente individua Germinario, il vero significato dell’opzione “populista” di Trump è “Il timore […] che il nascere di una alternativa politica fondata sul riconoscimento delle forze in campo internazionali e sul recupero di una economia più equilibrata in una situazione interna così fragile porti alla sconfessione di una intera classe dirigente e al crollo del sistema di relazioni illustrato”. E prosegue così concludendo il ragionamento: “Non ha senso per noi schierarci nella solita inutile tifoseria senza alcuna influenza; piuttosto dovremo valutare le opportunità che potranno sorgere da questa situazione se non addirittura da una sia pur remota eventuale vittoria di Trump. Ma sono appunto opportunità che si vuole e si deve voler cogliere con la costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia”. Dal punto di vista di una corretta ed efficace prassi politica che non può non sostanziarsi in una integrale visione dialettica (si ripete, ad nauseam, il dialettico concetto ma di questi tempi …) come non ha senso schierarsi per quanto riguarda le elezioni americane con il “populista” Trump (consideriamo farlo per il suo avversario un’opzione, si passi il termine, addirittura contronatura), così a casa nostra non ha alcun senso schierarsi, in occasione del referendum costituzionale, per le vecchie oligarchie o per il nuovo “populismo” al governo (populismo, fra l’altro, che suona anche assai falso visto che si sta attualmente sviluppando in occasione delle mancate performance, soprattutto dal punto di vista dell’ecomomia, della politica dell’attuale mai eletto premier). Bisogna, piuttosto, valutando “le opportunità che potranno sorgere da questa situazione”, internazionale – dice Germinario – ed interna – dico io ma non credo proprio di tradire il pensiero di Germinario – schierarsi per la “costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia”. Gramsci nei Quaderni del Carcere ci dice del machiavellismo degli Stenterelli (“Stenterello è molto più furbo di Machiavelli […]”: Quaderno 9 (XIV) § 25 ). Se ci sapremo sbarazzare di questo deteriore machiavellismo, allora si potrà avviare una prassi politica all’altezza di coloro come Machiavelli, Mazzini, Marx, Lenin e Gramsci intesero la politica come una cosa terribilmente seria (ed anche terribilmente bella). Se invece ci atterremo alla prassi di Stenterello, allora teniamoci pure la Clinton, il “populista” Trump e, a casa nostra, i vecchi oligarchi e quelli nuovi figli dei vecchi (non i vecchi o i nuovi, troppo bello: i vecchi assieme ai nuovi). L’articolo di Germinario, apparentemente solo rivolto alle elezioni USA, può così essere visto – ad una più attenta ma non certo esegeticamente particolarmente complessa lettura – come un invito ed una precisa indicazione per la vita interna del nostro paese, giusto l’oraziano e marxiano ammonimento “de te fabula narratur”.

Massimo Morigi – 2 novembre 2016

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

I momenti in cui il velo della dissimulazione, il fair play sbiadiscono sino a rivelare la spietatezza dello scontro politico sono piuttosto rari.
Di solito può avvenire nei momenti in cui la forza dominante ritiene di avere il potere e controllo assoluto della situazione, ma si tratta di una illusione, spesso di un delirio di onnipotenza, destinata ad infrangersi rapidamente.
Più spesso avviene nelle fasi di scontro aperto tra centri con opzioni politiche antitetiche la prevalenza di una delle quali comporta la soppressione o la irrilevanza della parte avversa. È il momento in cui, nelle cosiddette democrazie, la cosiddetta divisione dei poteri tesa al reciproco controllo si trasforma apertamente nella collusione dalle modalità sofisticate tra settori di poteri nelle loro diverse funzioni.
Gli Stati Uniti, al pari di altri paesi, hanno conosciuto ciclicamente questi momenti.
Quaranta anni fa fu il Presidente Nixon a farne le spese.
Il casus belli fu la scoperta di un sistema illegale di intercettazione delle conversazioni di avversari politici. Il motivo reale fu l’opposizione di altri centri politici alla politica di apertura alla Cina in qualità di leader di un terzo polo ostile al blocco sovietico propugnata da Nixon e Kissinger.
Uno scontro acceso che quantomeno, però, riuscì a salvaguardare le apparenze della correttezza di rapporti istituzionali; consentì persino alla stampa, nella figura dei giornalisti Woodward e Bernstein, di rafforzare la propria immagine di indipendenza quando in realtà essa fu il veicolo di informazioni pilotate da settori di servizi e apparati tesi a colpire una determinata strategia politica.
Oggi, le elezioni presidenziali americane offrono uno scenario nel quale parecchi di quegli infingimenti sopravvissuti al Watergate sono venuti meno.
• La quasi totalità dei tradizionali mezzi di comunicazione fa aperta campagna elettorale a sostegno della candidata, asseconda gli argomenti e le cadenze scelte da uno dei comitati elettorali, spesso ne anticipa le azioni sostituendosi ad esso secondo una agenda ormai con ogni evidenza concordata.
• Una Agenzia delle Fisco impegnata negli accertamenti in particolare delle attività della fondazione del candidato e pressoché incurante dello stratosferico giro di finanziamenti provenienti anche da quegli ambienti meno commendevoli che i paladini dei diritti umanitari dovrebbero stigmatizzare. Una rete tra l’altro costruita in anni di incarichi pubblici internazionali ricoperti dalla famiglia Clinton.
• Una autorità investigativa impegnata ad indagare personaggi di primo livello dello staff di Trump su filoni nei quali risulta implicata la candidata Clinton e il suo staff, spesso e volentieri colti praticamente con le mani nel sacco dei brogli elettorali e quant’altro, ma ancora apparentemente indenne da indagini.
• L’aperta ostilità e la dichiarata intenzione di disobbedienza di numerosi vertici dello Stato e funzionari, in particolare delle Forze Armate e dei dipartimenti di sicurezza ed esteri nell’eventualità di vittoria di Trump.

Gli esempi potrebbero arricchirsi sino a comprendere la cadenza programmata e presumibilmente sempre più incalzante delle defezioni degli esponenti neoconservatori repubblicani a sostegno ormai più o meno esplicito della candidata democratica.
Quanto esposto mi pare però più che sufficiente ad intuire intanto la radicalità dello scontro e soprattutto la inconciliabilità fattuale di opzioni strategiche; una intuizione però non suffragata ad arte da un aperto dibattito sviato piuttosto dalla campagna denigratoria sui comportamenti privati di qualche decennio fa di Trump innescata dalle austere testate del NYT e del WPJ e dall’allusione insistita di connivenza con il nemico ufficiosamente dichiarato di nome Putin.
Una radicalità paradossalmente del tutto assente ai tempi della elezione di Obama, non ostante i fiumi di retorica sull’arrivo de “l’uomo nuovo e della nuova era dei diritti”.
Anche quella elezione di otto anni fa sancì una svolta ormai per altro già in atto dall’anno precedente. Sul piano internazionale si passò da una politica di intervento massiccio diretto ma necessariamente più delimitato sulla base del quale costruire sul posto nuove alleanze ad una politica di intervento “coperto” più discreto ma molto più capillare e diffuso teso ad utilizzare e fomentare le divisioni sugli innumerevoli fronti aperti. Si trattò in pratica di una opzione diversa, più radicale e flessibile, all’interno di una stessa strategia tesa al conseguimento di un controllo unipolare. Il prezzo politico pagato dalla fazione perdente si risolse infatti in qualche umiliazione pubblica come incorse al malcapitato Presidente Bush in occasione del conflitto georgiano del 2008. Sul piano interno si risolse con il gigantesco salvataggio del sistema finanziario, con il contenimento del processo di deindustrializzazione nei settori complementari ed il potenziamento di quelli strategici, con l’estensione del diritto all’assicurazione sanitaria mantenendo il regime privatistico.

I PRESUPPOSTI DELLA SVOLTA DI GATES-OBAMA

Il perseguimento dell’obbiettivo di monopolio egemonico sotto nuove spoglie aveva bisogno di essere sostenuto da diverse gambe e da motivazioni ideologiche più complesse di quelle in dotazione nell’armamentario neoconservatore americano più che altro ridotto al concetto di introduzione forzata della “democrazia” e di libertà “supportata” negli affari.
Il concetto di diritto individuale inteso come soddisfazione di bisogni personali e di gruppi particolaristici che sovrasta e prescinde dai contesti sociali e politici, proprio del radicalismo democratico, assurge al rango di ideologia dominante e motivante. La stessa ambizione al benessere tende ad essere ridotta al diritto a un reddito e a un sostentamento, ad una mera redistribuzione di risorse.
Il sodalizio che è maturato nell’ultimo trentennio tra questi ambienti e il complesso militare-industriale, propugnato dai democratici americani ma ormai ben accetto dagli ambienti neocon, ha fornito l’energia sufficiente all’interventismo “discreto”, al sostegno dei particolarismi identitari e della ulteriore frammentazione politica del pianeta secondo le proprie esigenze strategiche. Lo abbiamo riscontrato in Europa, nel Nord-Africa e soprattutto in Medio-Oriente dove l’ambizione alla nazione araba comprensiva di laici e cristiani è stata ridotta ormai al particolarismo arabo-sunnita dalle mille fazioni. Lo stesso perseguimento dell’autonomia energetica sembrava un ulteriore fattore in grado di minimizzare i contraccolpi della libertà di intervento.
È un sodalizio che per perdurare ha bisogno però di controllare ed indirizzare i due processi reticolari che determinano le relazioni su scala mondiale apparentemente in grado di autoregolarsi nella loro maturità:
• la globalizzazione, intesa come rete inestricabile di relazioni soprattutto economiche e comunicative di tipo molecolare tendenzialmente scevro da alleanze e sodalizi consolidati. Nella sua versione utopica, propria del periodo clintoniano degli anni ‘90 e del primo Bush, mirava ad impedire alleanze stabili e sodalizi economici tra stati e paesi e a ricondurre le relazioni sotto il controllo e la normazione di organismi internazionali apparentemente autonomi, in realtà strettamente controllati da parte americana. Nella versione pragmatica odierna, propria della gestione Obama, arriva a riconoscere la presenza di diverse aree di influenza e di relazioni privilegiate normate però secondo la visione e gli interessi fondamentali di una unica potenza che funge da anello di congiunzione tra le stesse.
È la logica che sta spingendo alla costruzione dei trattati TTP e TTIP. La gestazione faticosa e secondo me altamente problematica e lontana dagli obbiettivi originari della dirigenza americana lascia intuire che il diaframma che separa questa concezione universalistica dalla presa d’atto finale della formazione di zone di influenza in attrito tra loro è ormai sottile
• il multilateralismo, accezione diversa dal policentrismo, attraverso il quale si cerca di inibire la formazione di diverse aree politiche di influenza e tanto meno di sistemi di alleanze potenzialmente in conflitto tra di essi attraverso la regolazione di rapporti occasionali tra singoli stati entro la supervisione di organismi internazionali a controllo americano

COSTI E BENEFICI DELLA GLOBALIZZAZIONE E DEL MULTILATERALISMO

Per quanto di successo, non esistono politiche che comportino solo benefici ad agenti e centri vittoriosi, tanto meno ai restanti
Per quanto conservatrice e reazionaria, la politica è movimento, determina e si inserisce in dinamiche, implica inevitabilmente amici e nemici, alleati e avversari, decisione ed obbedienza entro i vari campi di azione pubblica spesso al di là delle intenzioni e delle capacità di previsione degli agenti politici e in sistemi di relazione mutevoli e cangianti.

Così la necessità di indirizzare e regolare i due processi comporta l’obbligo di sostenere i costi di una supremazia politico-militare e tecnologica soverchiante.

La supremazia politico-militare è garantita da un sistema di alleanze (NATO,ect) congegnato in modo da impedire l’autonomia operativa efficiente delle strutture militari e dei complessi industriali collegati dei paesi satelliti riducendo di conseguenza il loro spazio di iniziativa politica autonoma; in modo tale altresì da poter pescare dall’ampio cortile i volenterosi disponibili a partecipare di volta in volta alle avventure militari. Un sistema che comporta un onere preponderante da parte degli Stati Uniti solo in piccola parte direttamente compensato dalla partecipazione diretta degli alleati alle spese.
Un onere reso ancora sostenibile dalla straordinaria capacità ancora pressoché unica da parte degli Stati Uniti di riuscire a convertire ed utilizzare le scoperte e le tecnologie di origine militare nell’industria civile proponendo prodotti e sistemi di servizi innovativi dei quali riesce a detenere gelosamente il controllo.
Riescono in pratica a costruire e detenere, grazie alla loro politica, il MERCATO.

Sino a quando, in pratica sino agli anni ‘80, le dimensioni geografiche del cuore della propria area di influenza si limitavano all’Europa, al Giappone, alla Corea del Sud e all’Australia il ciclo rimaneva virtuoso; consentiva di costruire negli USA una formazione sociale sufficientemente coesa ed equilibrata nella quale accanto alle attività di punta permanevano in buona misura tutta una serie di attività complementari che consentivano piena occupazione e una costruzione di ceti medi di servizio e produttivi ricca di funzioni e gratificati economicamente.
Con l’implosione del blocco sovietico e l’emergere delle ambizioni di nuovi grandi paesi il circuito si è notevolmente complicato così come i fattori da combinare. In interi settori economici la ricerca scientifica, la progettazione dei prodotti, il marketing si separano dalla diretta attività di produzione ed pezzi interi di settori industriali migrano praticamente dagli USA per finire in gran parte in Cina, ma anche in altri paesi. Agli inevitabili squilibri e polarizzazioni innescati nella formazione sociale americana corrispondono nei nuovi paesi nuove capacità indispensabili a fornire le risorse necessarie ad una politica di potenza ma lungi ancora da essere conseguite stabilmente ed autonomamente.
Sino ad ora questa dinamica è stata compensata dal controllo ferreo del sistema finanziario e monetario con il quale è praticabile quell’enorme ritorno di risorse che consente ancora la supremazia politico-militare, lo sviluppo tecnologico ed il mantenimento di una struttura assistenziale e di integrazione tale da impedire l’implosione sociale in una formazione però ormai pesantemente squilibrata; anche questa compensazione però inizia a presentare limiti e crepe e soprattutto tende a mascherare piuttosto che a compensare gli squilibri della formazione sociale americana.
La stessa pratica del multilateralismo, d’altro canto, comporta una crescente dispersione delle energie politiche ed una progressiva caduta di credibilità legata alla posizione di arbitro-giocatore nei conflitti e alla mutevolezza opportunistica delle alleanze più o meno dichiarate. Una dinamica che sta erodendo inesorabilmente l’efficacia del richiamo al rispetto dei cosiddetti diritti umani.

LA POSTA IN PALIO

La reale posta in palio dello scontro tra Trump e Clinton si gioca in questi ambiti e sta assumendo sempre più i connotati di uno scontro tra diverse opzioni strategiche. Da una parte la prosecuzione dell’attuale politica in termini ancora più virulenti e avventuristici nel tentativo di mantenere ed accrescere il predominio, dall’altra l’intenzione di prendere atto dell’emersione di nuove forze in campo e soprattutto di riconoscerle.
Sottolineo il termine “intenzione” giacché si tratta dell’espressione di un nucleo dirigente abbastanza limitato, ancorché combattivo, del quale non si conoscono le modalità operative, i fondamenti di analisi, la capacità di presa nei settori fondamentali dell’amministrazione il cui controllo è fondamentale per concretizzare le intenzioni politiche.
Sappiamo bene che alle intenzioni raramente corrispondono esattamente comportamenti politici coerenti e soprattutto risultati coerenti; addirittura spesso le nobili intenzioni e gli enunciati più magnanimi si trasformano in strumenti per le politiche più subdole. L’ideologia dirittoumanitarista ne è l’esempio preclaro.
Tutto sommato però non devono trattarsi di sprovveduti, a giudicare da alcune biografie presenti nello staff; nemmeno si devono considerare così isolati dai centri di potere a giudicare dal lavorio costante della talpa di WikiLeaks.
Si tratta, è bene precisare, di uno scontro che non nasce dal nulla; affonda radici profonde nella storia americana; presenta però alcuni significativi elementi di novità

L’ANATRA ZOPPA

Sin dalle primarie Hillary Clinton ha rivelato i suoi innegabili punti di forza e i suoi importanti punti di debolezza, già intravisti nel confronto delle primarie delle 2008 con Obama.
Una straordinaria capacità di raccogliere e fornire sostegno alle più variegate e potenti élites interne e alla pletora di classi dirigenti straniere, comprese quelle europee, ancora più risolute nel loro oltranzismo perché devono la propria sopravvivenza alla prosecuzione della attuale politica americana piuttosto che alla loro capacità di radicamento nei propri paesi.
Un lavorio in questi ultimi anni teso a garantire, in condominio con il Presidente uscente, il controllo dei vertici della macchina amministrativa, comprese le forze armate e l’intelligence
L’imponente macchina organizzativa e l’entità dei finanziamenti sono lì a dimostrare la potenza di fuoco.
Non ostante i mezzi e gli strumenti di influenza disponibili non è riuscita a carpire quel consenso politico e sociale minimo così necessario alla sopravvivenza di un politico di scena.
Sanders, il suo rivale nelle primarie, è riuscito a strappare consensi in fette consistenti di elettorato giovanile specie studentesco, di ceto medio borghese e del residuo ceto operaio rimasto nelle fila del Partito Democratico (PD) solo grazie a critiche pesantissime, radicali alla sua rivale marginalmente sulla politica estera, ma puntuali sulla politica economica. Alla fine ha concesso il sostegno finale a Clinton in cambio di posti significativi nel partito e nei futuri incarichi pubblici trangugiando anche la polpetta avvelenata dei brogli elettorali subiti nelle primarie. Il segno di future prossime battaglie in seno al PD, ma anche della perdita di credibilità del personaggio e di una caduta di entusiasmo nell’attività di militanza.
Gli appelli alla fedeltà di partito e l’esorcizzazione dell’avversario qualificato dei peggiori epiteti dal punto di vista politicamente corretto sono il segno di una debolezza di argomenti non sostenibile nei tempi lunghi; la vittoria risicata nelle primarie e la conseguente estensione della platea di mecenati dai quali ottenere il sostegno ne indebolirà la coerenza politica; se aggiungiamo l’incredibile pletora di agenti con i quali garantirsi l’omertà e il sostegno mediatico, si comprenderà l’estrema ricattabilità ed il condizionamento di un simile personaggio.
Le rimangono il sostegno significativo nei settori di punta della società e dell’economia e nella fazione dei radicalisti dei diritti umani secondo opportunità; permane con qualche difficoltà il richiamo alle minoranze sempre più consistenti ed ai settori assistiti ed assistenziali. Aspetto tutt’altro che trascurabile ma attenuato dal fatto che oggi gli Stati Uniti sono sempre più un paese di minoranze chiuse in se stesse piuttosto che in relazione feconda e integrate.

LA VECCHIA TALPA

Non mi dilungo vista l’ampia letteratura riservata al personaggio e alle forze che rappresenta.
Ho già sottolineato il repertorio limitato quanto astioso di critiche riservato all’avversario Trump.
Si riconduce alle accuse di razzismo, di fondamentalismo, di faziosità così ben conosciute anche dalle nostre parti.
Si tratta tuttavia di anatemi che poggiano su stereotipi validi per vicende del passato recente e remoto del conservatorismo e del “populismo” americano utili a serrare le fila delle componenti più ottuse del PD americano ma atte a suscitare ulteriore diffidenza nell’elettorato più mobile.

La candidatura di Trump ha dato voce diretta ad una fetta di elettorato conservatore sino ad ora strumentalizzata da altre componenti, in particolare dai neoconservatori.

Viene tacciata di scarsa “compassione” per essere contraria a qualsiasi forma di stato sociale.
Si tratta in realtà di una componente “produttivista” che sostiene l’esistenza del welfare ma in una ottica di produttività piuttosto che di assistenzialismo; inteso, quindi, come intervento nei momenti critici della vita delle persone e di reintegrazione nella vita produttiva piuttosto che di interventi cronici puramente distributivi e assistenzialistici.
Negli anni ‘30 in effetti tali posizioni avevano connotati razzisti perché le rivendicazioni di tutela erano riservate e furono ottenute per i lavoratori di razza bianca; attualmente tali connotati sono inesistenti o del tutto marginali. In realtà in questi anni il “produttivismo” non ha trovato una compiuta espressione politica, tuttalpiù si è concentrata in circoli di opinione (tea party) ma è stata strumentalizzata dai neocon favorevoli alla globalizzazione indiscriminata e alla soppressione dello stato sociale, per altro più proclamata che messa in pratica. L’ultimo tentativo di prevaricazione è avvenuto nelle primarie repubblicane con la candidatura di Rubio, naufragata ingloriosamente; dopo quel naufragio gran parte dei neoconservatori sono andati a rinforzare apertamente le fila dei globalisti e degli interventisti della Clinton. Del resto la divisione in ceti e strati della formazione sociale americana non corrisponde più esattamente alla sua divisione in razze e gruppi etnici, privando di senso ogni politica fondata sulla discriminazione razziale.

Viene tacciata di isolazionismo perché identifica l’attivismo nelle reti civiche locali e legate alla gestione delle comunità locali con la richiesta di riduzione drastica delle competenze dello stato centrale e di ritiro da qualsiasi iniziativa di politica estera che non comportasse la fine di una minaccia diretta al paese presente in alcune sue frange per altro espresse dal quarto candidato alla presidenza attualmente in corsa

Viene tacciata di integralismo ipocrita, ma anche questa critica viene smontata dalla fine ingloriosa della candidatura di Ted Cruz alle primarie, il reale rappresentante di questa componente.

Trump viene spacciato per un repubblicano oltranzista quando in realtà è un personaggio che ha sfruttato la crisi di quel partito, in parte indotta dagli stessi democratici, per infiltrarsi e mettere a nudo le affinità e le connivenze della vecchia dirigenza con la politica dei democratici.

Pur con tutti i limiti, anche caratteriali, del personaggio la proposta politica di Trump pare in realtà molto più equilibrata di quanto ce la diano a bere i sistemi di informazione.

Parla di compiti precisi dello stato centrale anche nel welfare (la sanità), punta ad una politica estera fondata sul riconoscimento degli stati nazionali, sottolinea la necessità di un riequilibrio dei vari settori dell’economia e di un processo di reindustrializzazione attraverso anche una rinegoziazione dei trattati commerciali.
Critica l’interventismo militare dispersivo, concentrato in zone non vitali per l’interesse del paese; chiede la ridefinizione del sistema di alleanze militari con l’attribuzione degli oneri di difesa ai paesi direttamente implicati nelle aree di attrito.

Tutte posizioni dalle profonde implicazioni sul sistema di relazioni internazionali, sulla organizzazione dello stato, in particolare delle forze armate, sulla formazione sociale americana.
Lascia presagire un confronto più serrato con la Cina e meno ostile con la Russia.

Come ho sottolineato, siamo ancora alle enunciazioni generali da parte di un gruppo dirigente formatosi solo recentemente perché ha individuato l’umore profondo di settori del paese e le debolezze nascoste dell’avversario. Non conosciamo la praticabilità di quelle intenzioni né le capacità tattiche del gruppo né le capacità di opposizione, neutralizzazione ed inclusione dell’attuale assetto di potere. Si deve constatare che gran parte del confronto e del successo iniziale di Trump è avvenuto con la gran cassa mediatica. Nel confronto decisivo il sistema informativo gli si è rivoltato contro.
Un primo aspetto che l’attuale dirigenza sta cercando di affrontare nel prossimo futuro.
Per il resto si dovrà attendere quantomeno l’esito della competizione elettorale.

CONCLUSIONI

Lo scontro ha evidenziato l’imponenza di un apparato ma anche la capacità di erosione del terreno su cui poggia della vecchia talpa. La ripresa delle indagini a carico di esponenti dello staff della Clinton sulla base delle nuove email apparse sono un segno di questa azione erosiva.
Sono dinamiche però che richiedono tempi diversi.
Difficilmente modificheranno l’esito elettorale se non nel differenziale di voti e ancor meno nel numero dei grandi elettori; certamente lasceranno sulla graticola l’eventuale vincitrice lasciando intravedere quella della Clinton ormai come una presidenza di transizione.
Le avvisaglie della durezza dello scontro erano apparse già con la esplicita e pubblica sconfessione da parte del Congresso Americano di due atti fondamentali della politica estera democratica: l’accordo sull’Iran e i rapporti con Israele. Adesso sono arrivati ai tentativi di annichilimento di una possibile nuova classe dirigente e alle minacce di galera.
Il timore è che il nascere di una alternativa politica fondata sul riconoscimento delle forze in campo internazionali e sul recupero di una economia più equilibrata in una situazione interna così fragile porti alla sconfessione di una intera classe dirigente e al crollo del sistema di relazioni illustrato.
Non ha senso per noi schierarci nella solita inutile tifoseria senza alcuna influenza; piuttosto dovremo valutare le opportunità che potranno sorgere da questa situazione se non addirittura da una sia pur remota eventuale vittoria di Trump. Ma sono appunto opportunità che si vuole e si deve voler cogliere con la costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia.

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