Ecologia o delirio ?_di Davide Gionco

Ecologia o delirio ?
Le politiche ambientali dell’Unione Europea, l’idealità totalmente slegata dalla realtà.

di Davide Gionco

L’UE e gli ecologisti monotematici
L’Unione Europea è governata da ecologisti. Almeno in teoria.
Nulla fanno per evitare la diffusione delle microplastiche nell’ambiente e di altri composti chimici che portano effetti avversi gravi sulla salute umana: glifosato, PFAS, grafene, sostanze nanotecnologiche, radioattività, ecc..
Nulla fanno per evitare la diffusione di armi che uccidono molto più dell’effetto serra, anzi, fanno di tutto per aumentarne la produzione, così come per diffondere la mentalità di guerra.
Ma ci difendono dall’unico grave pericolo preso in considerazione dalla narrativa dei mass media: le emissioni di CO2 che portano al cambiamento climatico.
Da questa ideologia scaturiscono le proposte del piano “Fit for 55”.

Naturalmente non si propongono limitazioni all’importazione di prodotti commerciali contenenti energia fossile consumata in altri continenti, che causano emissioni di CO2 esattamente come se lo facessimo in Europa. Le limitazioni al consumo di energia vengono imposte unicamente in Europa, così che il risultato, alla fine, sarà comunque insufficiente rispetto all’obiettivo prefissato, dato che gli altri, fuori dall’Europa, avranno continuato ad inquinare, anche grazie agli acquisti di merci estere da parte dei paesi dell’UE.

In realtà l’unico motivo sicuro per cui l’UE dovrebbe affrancarsi dalle energie fossili è che si libererebbe dai condizionamenti da parte dei paesi fornitori di gas e di petrolio. L’autosufficienza energetica è qualcosa che può offrire ad un governo molti margini di azione nella politica internazionale e garantire una maggiore stabilità dei prezzi per famiglie ed imprese.

Chiudiamo qui la discussione sulla opportunità o meno di perseguire l’obiettivo primario di perseguire la riduzione delle emissioni di CO2. Assumiamo che si tratti dell’obiettivo giusto da perseguire e valutiamo la razionalità e l’efficacia delle soluzioni proposte.
La sensazione è che da parte della Commissione Europea e dei mezzi di informazione (che sanno solo fungere da amplificatore) è che vi sia una idealità totalmente slegata dalla realtà.
Un conto è che una singola persona, una singola famiglia, una singola impresa passi dall’auto a benzina all’auto elettrica o che installi una pompa di calore o che metta l’isolamento termico ad un edificio. Un altro conto è che a farlo siano centinaia di milioni di persone in tutta Europa o 60 milioni di persone in tutta Italia.

Ci sono dei problemi di fattore scala, come si dice fra noi ingegneri. Infatti è prima necessario verificare che filiere produttive dispongano di quanto necessario (materie prime, manodopera, capitali) per fare fronte all’aumento della domanda del mercato.

 

Il caso delle auto elettriche
Se un cliente si presenta da un autorivenditore per acquistare un’auto elettrica, questi non avrà problemi a vendergli una singola auto elettrica. Né la rete elettrica avrà, successivamente, problemi a rendere disponibile la necessaria energia elettrica per il funzionamento di una singola auto elettrica. Né ci saranno problemi, quando sarà ora di smaltire la batteria dell’auto, a trovare un modo sostenibile per farlo,
Ma ben diverso è che si presentino da tutti gli autorivenditori in Italia 20 milioni di italiani, ciascuno ordinando un’auto elettrica. In quel caso per rispondere all’ordinativo sarà necessario fare i conti con la capacità del sistema di produrre nel tempo richiesto tempi brevi una tale quantità di automobili. E’ evidente che i produttori non sarebbero pronti per passare da 100 mila auto vendute elettriche vendute in Italia nel 2022 a 1,3 milioni l’anno (totale delle auto vendute in Italia nel 2022), 13 volte tanto.
Per fare fronte a questa nuova domanda, infatti, sarà necessario reperire in sufficiente quantità le materie prime per i nuovi motori elettrici e per le batterie, le quali non sono prodotte scrivendo numeri sul computer, come si fa quando si scrive una norma, ma sono estratte dal pianeta terra, con implicazioni ambientali, sociali, geopolitiche, con il rischio di guerre per il controllo delle risorse.
Oltre a questo sarà anche necessario organizzarsi per smaltire, in modo ecologicamente sostenibile, le batterie elettriche esauste, per quantitativi 13 volte superiori a quelli attuali.

E si dovrebbe anche fare i conti con la disponibilità di energia elettrica, che dovrebbe aumentare considerevolmente rispetto all’attuale produzione.
Dove la prendiamo? Che cosa significa aumentare a tali livelli di disponibilità di energia elettrica?
Nel 2020 l’Italia aveva un consumo di energia elettrica di 319 TWh, di cui solo 273 TWh prodotti in Italia (e 46 TWh importati) e di cui 182 TWh provenienti da fonti non rinnovabili e solo 91 TWh da fonti rinnovabili.
A questo si andrebbero aggiungere altri 65 TWh l’anno per sostituire l’energia fossile delle auto termiche con energia elettrica da fonti rinnovabili.
L’Unione Europea ha proposto che dal 2035 vi sia il divieto di produrre auto termiche in Europa, per evitare di emettere CO2 con i motori termici. Ma questo significherà anche organizzarsi per aumentare la produzione elettrica da fonti rinnovabili di 182 + 65 = 247 TWh/anno rispetto ai 91 TWh/anno attuali, con un incremento pari a 2,7 volte. Oltre al fatto che dovremmo assicurarci che anche i 46 TWh/anno che importiamo provengano da fonti rinnovabili-
A chi parla di costruire nuove centrali nucleari risponderei che, dal momento della decisione, ci vogliono 14-15 anni prima di mettere in servizio una centrale nucleare (quindi saremmo già in ritardo per il 2035). E, anche in questo caso, dovremmo fare i conti con la disponibilità di ingegneri e di personale tecnico per progettarle e realizzarle, considerando che questo avverrebbe simultaneamente in tutta Europa.

In sostanza stiamo parlando di ideologia pura, di cifre teoriche scritte sulla carta, senza tenere conto della fattibilità concreta di quanto proposto.

Non a caso lo scorso mese di dicembre 2022 il CEO della Toyota, primo produttore al mondo di automobili (qualcosa ne sanno) ha detto chiaramente che al momento non siamo ancora pronti, sia per il fatto di non disporre di sufficiente energia elettrica per tutte queste auto. Se, infatti, l’energia elettrica necessaria fosse prodotta da fonti fossili, i rendimenti sarebbero peggiori di quelli attuali e inquineremmo ancora di più.

Oltre alla sostanziale impossibilità e non convenienza tecnica è anche necessario affrontare il discorso economico: quante famiglie sono in grado di permettersi di acquistare un’auto elettrica nuova da 30-40 mila euro nei prossimi anni a venire? Dove trovare tutti questi soldi, se non sommergendo di debiti le famiglie, a solo vantaggio degli istituti di credito finanziario?

Il caso delle case ecologiche
Il discorso si fa ancora più insostenibile nel caso dell’obbligo imposto dalla UE di portare tutti gli edifici almeno in classe energetica E entro il 01.01.2030 ed entro la classe D entro il 01.01.2033.
Sarebbe certamente una cosa utile. Anche per chi non fosse convinto dell’utilità ambientale, sarebbe certamente utile per il portafoglio che abitassimo tutti in case energeticamente efficienti, perché questo ci consentirebbe di ridurre il peso delle bollette per il riscaldamento e la nostra dipendenza estera da fonti energetiche fossili.

Quello che pare una emerita assurdità è pretendere che tutti i proprietari (compreso lo Stato) di edifici di classe energetica inferiore alla E riescano a realizzare i necessari interventi di ristrutturazione edilizia da qui al 31.12.2029. E poi, in soli 2 anni, fare lo stesso per gli edifici in classe E, a portare almeno in classe D.

Secondo i dati forniti dall’ENEA, i lavori di ristrutturazione energetica degli edifici trainati dal Superbonus 110% hanno portato in 3 anni di lavori a ristrutturare 360’000 edifici, saturando di lavoro il settore dell’edilizia.
Quindi, lavorando a pieno regime, il settore è in grado di ristrutturare al massimo 120’000 edifici ogni anno.
Considerando che gli edifici in Italia di classe energetica inferiore alla E sono 8,8 milioni, questo significa che, disponendo dell’attuale forza lavoro, servirebbero 73 anni per completare i lavori richiesti (entro fine 2029, meno di 7 anni) dalla UE. Oppure, in alternativa, servirebbe moltiplicare almeno di 10 volte la forza lavoro nel settore delle ristrutturazioni energetiche. Considerando che oggi l’edilizia occupa 2 milioni di persone, dovremmo istantaneamente passare a 20 milioni di lavoratori nel settore (ovviamente da formare e a cui fornire le necessarie attrezzature), sapendo che attualmente in Italia siamo in tutto 18-19 milioni di lavoratori.
Ovvero dovrebbe tutti lavorare nell’edilizia (compresi i disoccupati), tralasciando tutte le altre attività lavorative.

Ci sarebbe da ridere, se non fosse che, addirittura, sarebbero previsto, per chi non si adegua, il divieto di affittare o di vendere tali immobili.
Se anche il governo non avesse affossato il Superbonus 110%, non tanto riducendo la quota di detrazioni all’80%, ma soprattutto vietando la cedibilità dei crediti fiscali, il che taglierà fuori dal beneficio la grande maggioranza dei proprietari, fiscalmente incapienti, con l’attuale forza lavoro si potrebbero mettere a norma solo 840’000 edifici nei tempi imposti dalla UE, lasciando quasi 8 milioni di edifici fuori norma, sui 12 milioni esistenti in tutta Italia. Ovvero 2 edifici su 3 non sarebbero più né affittabili, né vendibili.
Si tratta, quindi, non solo di una disposizione impossibile, ma delirante.
E’ solo il caso di far notare che nessuno dei geni che ci governano, né dei geni che fanno finta di fare opposizione, se ne sia accorto. Quantomeno non si è sentito nessuno che abbia denunciato l’impossibilità delle richieste della UE, con la proposta di rispedirle al mittente.

Conclusioni
La prima conclusione da tratte è che in Europa e in Italia non siamo governati da ecologisti, ma da persone in preda ad un delirio ideologico.
Infatti concentrano tutte le attenzioni ad un solo aspetto, forse neppure il più urgente, delle questioni ambientali, senza occuparsi di tutti gli altri aspetti.
In secondo luogo vogliono imporre ai cittadini europei ed al mondo produttivo delle misure fattivamente impossibili da realizzare e con conseguenze catastrofiche certe sull’economia.
Se dobbiamo impegnarsi a salvaguardare il pianeta, lo dobbiamo fare per il nostro benessere e dei nostri discendenti.
Se le misure proposte portano inevitabilmente a sommergere di debiti cittadini e imprese, a devastare l’ambiente in altre zone del pianeta, a bloccare il mercato immobiliare, impedendo alla gente di cambiare casa o di vendere un immobile, a doversi privare dei mezzi di trasporto…
E tutto questo senza incidere più di tanto sull’effetto serra, dato che il resto del mondo continuerà ad inquinare come e più di oggi.

Nel frattempo gli stessi che ci governano trascurano, per ossequio alle varie lobbies industriali, tante altre questioni che riguardano la qualità di vita della gente, come la diffusione di altre sostanze inquinanti nell’ambiente, nei cibi, nei farmaci. Come la crescita della produzione e vendita di armi, che porta inevitabilmente all’aumento di morti ed al maggior potere dei produttori di armi nei confronti dei decisori politici. Ricordiamoci che “L’Italia ripudia la guerra”. Non lo abbiamo scritto a caso nella Costituzione.

Vorrei chiedere ai nostri politici ed ai giornalisti che fanno informazione di liberarsi da questi folli condizionamenti ideologici, perché la storia ci insegna quanti morti sono arrivati dalle derive ideologiche nei decisori politici.
Chiediamoci se l’attuale modello economico, che punta a trasformare tutto in business, incurante degli “effetti collaterali” (sulle persone, sull’ambiente), sia davvero un modello economico adeguato pert gli obiettivi che ci prefissiamo.
Va bene usare le ideologie per pensare ad un mondo migliore, ma impariamo a fare sempre i conti con la realtà. Diversamente rischiamo di raggiungere risultati molto diversi da quelli sognati.

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IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 1 di 7], di Daniele Lanza

Vista la gravità dell’episodio di questi giorni a Berlino (più ci si pensa più ne diventa nitida la gravità estrema), ripubblico una vecchia serie di riflessioni in merito all’identità dello stato tedesco nell’ultimo secolo, che scrissi svariati anni fa in coincidenza dei festeggiamenti per la fine del conflitto mondiale :”IL CICLO DEI VINTI” in 7 parti.
Dato che la crisi dell’ultimo anno ha costituito una prova del 9, gettando luce sulle identità e sulle fedeltà di ognuno di noi e di ogni stato (i periodi di crisi hanno questo effetto) e in generale sull’ASSENZA di una comunità europea realmente indipendente ed efficace……..suggerisco di ripassarne i fondamentali iniziando proprio dal suo tassello più importante che è la GERMANIA contemporanea.
Buona (ri)lettura.
IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 1 di 7]
Identità, ieri e oggi (riflessioni sparse sul caso tedesco. Da leggere ma senza impegno)
Antichissimo buon senso orientale ci ricorda che ad ogni evento che determini un guadagno da una parte, sempre ed inevitabilmente corrisponde una perdita di analoga entità da un’altra : quest’ultima, la perdente, può essere più vicina a noi e quindi immediatamente percepibile, oppure – al contrario – meno prossima o addirittura remota, tanto da sfuggirci e darci l’illusoria impressione che il nostro successo si sia verificato senza danno, senza vittime. Di pia illusione si tratta naturalmente…..poichè per legge empirica (diciamo), ad un surplus aritmeticamente quantificabile in un determinato luogo, DEVE corrispondere un deficit altrove : possiamo infischiarcene di questo “altrove” certamente, concludere sulla base dei nostri valori e priorità che non ci riguardi (è a tutti gli effetti un diritto), ma decidere che non esista e far finta di nulla…..è una comodità che qualsiasi rigore intellettuale non consente (per dire : un governante può anche lavarsi le mani del fatto che milioni di suoi sudditi siano scalzi o soffrano carestie, ma NON può difendersi affermando di ignorare la situazione. Nel caso che veramente la ignori, mal gliene incolga – ogni riferimento all’ultimo tsar non è casuale).
La letteratura moderna ribadisce il concetto con la “teoria della somma zero” di Marx.
Mi duole prendere le cose troppo alla lontana, ma quanto avete appena letto costituisce la premessa filosofica, il senso di fondo, di quanto cercherò di esprimere in quanti capitoli sgorgheranno dalla mia tastiera da qui in avanti…….è a questo incipit che mi riallaccerò al momento dell’epilogo, chiudendo il cerchio.
Dunque…la storia – nella sua totalità – non si ferma mai, nel senso che laddove una storyline finisce, ipso facto ne nasce un’altra che prosegue (semplicemente si sostituiscono gli attori) : è la dinamica convenzionale considerando che tutto è correlato e che molto spesso una vicenda nasce dalle ceneri o dall’esaurimento di una ad essa anteriore. Orbene, questo perenne passaggio di testimone dalle alterne fortune genera naturalmente memorie differenti : tutto ciò che simboleggia gaudio e stimolo per la parte vincente in entrata -una data ad esempio – corrisponde, all’inverso, a triste epilogo per quella che soccombe, in uscita (elementare questione di prospettiva). Nel nostro caso si parla della GERMANIA, intesa come stato nazionale tanto per andare al punto senza tirarla avanti con altri fronzoli.
Il 9 maggio tutti cannoni – virtuali – di Russia (mio secondo paese), nonché di un’altra mezza dozzina di paesi del suo “commonwealth” culturale post-sovietico, sparano in commemorazione delle 75 estati trascorse dal momento in cui le forze armate germaniche firmano la capitolazione davanti al comando sovietico, concludendo il conflitto mondiale in Europa.
Il 9 maggio NESSUN cannone spara in Germania e mai lo farà. Indifferenza, un giorno come qualsiasi altro….anche in questo la tragedia del vinto : a prescindere dal tributo di sangue versato o dal valore dimostrato, lo attende l’oblio. In quanto sconfitto, diventa “male” secondo il metro di giustizia del nuovo contesto plasmato dai suoi vincitori, al punto che l’opzione più conveniente è la dimenticanza per l’appunto.
Da generazioni ogni 9 maggio milioni di adolescenti di Mosca, Leningrado, Ekaterinburg dilagano per le strade e i corsi principali contribuendo all’oceanico pubblico che segue la parata in un turbine variopinto di drappi, bandiere, striscioni, nastri, fiocchi medaglie, e qualsiasi cosa possa luccicare sotto il sole della tarda primavera, in ricordo di nonni e bisnonni.
Nel medesimo giorno i loro coetanei di Francoforte, Berlino e Amburgo sono a casa dopo un normale giorno di lezioni tra i banchi : loro nemmeno SANNO (non tutti) cosa sia stato o cosa abbia fatto il nonno o il bisnonno. E’ quasi come se non li avessero o almeno non li hanno per quanto concerne quella capsula temporale che segue l’anno 1933 e precede il 1945…pazienza per quanti di questi nonni e bis. sopravvissero e si costruirono un’esistenza nella generazione a venire, ma per coloro che ebbero sventura di cadere sul campo di battaglia la faccenda si fa problematica dato che la finestra temporale 33-45 come si è detto è zona morta.
Ecco, siamo di fronte a un triangolo delle Bermuda della memoria collettiva tedesca (come ben si sa), un buco nero che inghiotte e dissolve visi e voci, dissolvendoli riducendoli a un nebbioso e remoto mare di sagome che emette un lamento confuso : zona morta anche per i morti – scusate il gioco di parole – dove non muoiono esattamente, ma piuttosto vengono discretamente rimossi dalla linea temporale. Sì perché una morte eroica fa frastuono, attira l’attenzione pubblica…. è problematica ! L’autorità tedesca post-bellica NON poteva parlar bene dei propri uomini in uniforme, ma nemmeno male (perché aldilà del bene o del male, l’atto stesso del parlare, tiene in vita la cosa) ragion per cui si opta per la soluzione meno compromettente ed efficace : miniaturizzazione, compressione, vaporizzazione (passatemi qualche verbo originale) del soggetto tabù.
E allora ?? Quel golia chiamato “Wehrmacht” ha ancora da lamentarsi ?! Un conflitto convenzionale non demolisce demograficamente mezza dozzina di nazionalità diverse al passare di un singolo esercito ! Dire che si è passato il segno è limitativo, imbarazzante. Una dirigenza politica come quella del reich e coloro che maggiormente la sostennero (tra cui le forze armate) lanciatasi in un progetto di ambizione e incognite fuori scala, deve accettare le leggi dell’azzardo il che prevede ritrovarsi obliterati dal tavolo da gioco se qualcosa va male, le scuse non esistono nemmeno se si vede il gioco dal loro stesso punto di vista (…).
Il nodo – alla base del dibattito sull’identità tedesca dal dopoguerra in avanti – è questo, la posta in gioco : ci si è giocati integralmente il proprio paese come in una partita e quando questo accade, non soltanto la frazione più direttamente responsabile, ma tutto e tutti ne subiranno il peso…sarà la patria nella sua totalità – il concetto di essa – a pagare un tributo. La Germania non è solo nel novero dei paesi sconfitti dalla guerra, ma in quello dei paesi SCOMPARSI a seguito della guerra dal momento che le statualità post-conflitto non saranno la continuazione del paese “tradizionale” nato nel XIX° secolo : in questo senso è proprio la Germania tradizionale ad essere la prima vittima del nazionalsocialismo.
Il 9 maggio si aprono le porte al sorgere della “patria – superpotenza” diretta da Mosca, mentre conversamente, il medesimo giorno muore la “vecchia patria” in Germania.
(CONTINUA…)

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Verso il tripolarismo: Il golden billion, l’intesa sino-russa e il Sud globale _ di Andrew Korybko

Verso il tripolarismo: Il golden billion, l’intesa sino-russa e il Sud globale

Andrew Korybko
14 ore fa

L’imminente evoluzione della transizione sistemica globale verso il tri-multipolarismo potrebbe vedere il Miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti, l’Intesa sino-russa e il Sud globale di fatto guidato dall’India diventare i poli più importanti delle relazioni internazionali, al di sotto dei quali si troverebbero le potenze in ascesa e i gruppi regionali. Tutti gli attori si bilancerebbero l’un l’altro, allineandosi all’interno e tra i rispettivi livelli, il che potrebbe portare a stabilizzare gli affari globali molto più di quanto abbiano fatto i precedenti ordini unipolari e bimultipolari.

Le relazioni internazionali stanno correndo verso la tripolarità a un ritmo sorprendente, come risultato dei drammatici eventi che si sono verificati nell’ultimo anno e soprattutto nell’ultimo mese. I lettori che non hanno seguito da vicino questo megatrend potrebbero essere colti di sorpresa da questa valutazione, per cui è necessario che esaminino le seguenti analisi che collocheranno tutto nel contesto appropriato. Dopo averle elencate, verranno riassunte per comodità prima di spiegare cosa accadrà prossimamente:

Briefing di base

* 7 ottobre 2021: “Verso il bimultipolarismo”.

* 16 dicembre 2021: “Il Neo-NAM: dalla visione alla realtà”

* 15 marzo 2022: “Perché gli Stati Uniti hanno dato priorità al contenimento della Russia rispetto alla Cina?”

* 26 marzo 2022: “La Russia sta conducendo una lotta esistenziale in difesa della sua indipendenza e sovranità”.

* 22 maggio 2022: “Russia, Iran e India stanno creando un terzo polo di influenza nelle relazioni internazionali”.

* 6 giugno 2022: “L’India è l’insostituibile forza di equilibrio nella transizione sistemica globale”.

* 20 giugno 2022: “Verso la doppia tripolarità: Una grande strategia indiana per l’era della complessità”.

* 5 agosto 2022: “Il Ministero degli Esteri russo ha spiegato in modo esauriente la transizione sistemica globale”.

* 1 ottobre 2022: “Il conflitto ucraino potrebbe aver già fatto deragliare la traiettoria della superpotenza cinese”.

* 29 ottobre 2022: “L’importanza di inquadrare correttamente la nuova guerra fredda”.

* 19 novembre 2022: “Analizzare l’interazione tra Stati Uniti, Cina, Russia e India nella transizione sistemica globale”.

* 29 novembre 2022: “L’evoluzione delle percezioni dei principali attori nel corso del conflitto ucraino”.

* 14 dicembre 2022: “La neutralità di principio dell’India produce grandi benefici strategici”.

* 28 dicembre 2022: “I cinque modi in cui gli Stati Uniti hanno riaffermato con successo la loro egemonia sull’Europa nel 2022”.

* 1 gennaio 2023: “Il New York Times ha cercato di gettare ombra sull’ascesa globale dell’India”.

* 7 gennaio 2023: “Il vertice indiano sul Sud globale è l’evento multilaterale più importante degli ultimi decenni”.

* 11 gennaio 2023: “Smascherare l’agenda narrativa dei media occidentali nel distorcere la nuova distensione sino-americana”.

* 4 febbraio 2023: “L’incidente del palloncino cinese potrebbe spostare in modo decisivo le dinamiche dello ‘Stato profondo’ di Cina e Stati Uniti”.

* 14 febbraio 2023: “L’autodichiarazione della NATO sulla ‘corsa alla logistica’ conferma la crisi militare-industriale del blocco”.

* 26 febbraio 2023: “La Cina sembra stia ricalibrando il suo approccio alla guerra per procura tra NATO e Russia”.

* 28 febbraio 2023: “Quanto cambierebbe drasticamente il mondo se la Cina armasse la Russia?”.

* 1 marzo 2023: “I forum globali come l’ONU e il G20 stanno gradualmente perdendo la loro importanza”.

* 1 marzo 2023: “La Germania mente: Le spedizioni di armi cinesi alla Russia non violerebbero il diritto internazionale”.

La “nuova distensione

Per semplificare eccessivamente la confluenza di queste complesse tendenze, gli Stati Uniti hanno dato priorità al contenimento della Russia per facilitare il contenimento della Cina, ergo l’ultima fase del conflitto ucraino che hanno provocato attraverso l’operazione speciale di Mosca in corso in quel paese. Nel corso della guerra per procura tra NATO e Russia che ne è seguita, gli Stati Uniti hanno riaffermato con successo la loro egemonia unipolare sull’UE, destabilizzando al contempo il sistema globalizzato da cui dipende la grande strategia della Cina, che ha così ottenuto un vantaggio su Pechino.

Ciò ha a sua volta spinto il presidente Xi a lanciare un tentativo di “nuova distensione” durante il vertice del G20 di Bali di metà novembre, durante il quale sperava che Cina e Stati Uniti potessero raggiungere una serie di compromessi reciproci volti a stabilire una “nuova normalità” nei loro legami. Lo scopo era quello di ritardare la fine dell’ordine mondiale bimultipolare, all’interno del quale queste due superpotenze esercitavano la massima influenza sulle relazioni internazionali, messa in discussione dall’ascesa dell’India nell’ultimo anno.

L’influenza dell’India che cambia le carte in tavola

Lo Stato dell’Asia meridionale è diventato in questo periodo una Grande Potenza di rilevanza globale grazie al suo magistrale gioco di equilibri tra il miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti e il Sud globale guidato dai BRICS e dalla SCO, di cui fa parte. Il suo ruolo di kingmaker nella nuova guerra fredda tra i due Paesi per la direzione della transizione sistemica globale ha permesso al resto del Sud globale di crescere sulla scia dell’India, rivoluzionando così le relazioni internazionali e accelerando l’emergere del tri-multipolarismo.

La suddetta sequenza di eventi ha conferito alla “Nuova distensione” sino-americana un senso di urgenza, poiché entrambe le superpotenze avevano motivi di interesse personale per riprendere il controllo congiunto di questi processi, sebbene il loro tentativo di riavvicinamento sia stato inaspettatamente deragliato dall’incidente del palloncino. La rinnovata influenza delle fazioni della linea dura sulla definizione delle politiche, che si è verificata all’indomani di quell’incidente, ha interrotto bruscamente i loro incipienti colloqui e li ha posti sulla traiettoria di un’intensa rivalità.

I grandi ricalcoli strategici della Cina

Parallelamente a questo sviluppo, la NATO ha dichiarato di essere in una cosiddetta “gara logistica”/”guerra di logoramento” con la Russia, il che implica che raddoppierà il suo sostegno militare a Kiev anche a spese del soddisfacimento delle esigenze minime di sicurezza nazionale dei suoi membri. Se questo blocco dovesse riuscire a fare breccia lungo la Linea di Controllo (LOC), potrebbe catalizzare lo scenario peggiore della “balcanizzazione” della Russia se queste dinamiche strategico-militari svantaggiose dovessero andare fuori controllo.

Sia il Presidente Putin che il suo predecessore Medvedev hanno recentemente messo in guardia da questa possibilità, che per ora rimane improbabile ma non può essere scartata, contribuendo così alla graduale ricalibrazione dell’approccio cinese alla guerra per procura tra NATO e Russia, in concomitanza con la fine della “Nuova distensione”. Ciò ha portato la Repubblica Popolare a considerare seriamente l’invio di aiuti letali al suo partner strategico per compensare lo scenario peggiore, provocando così le minacce di sanzioni da parte dell’Occidente.

“La grande triforcazione

Nel caso in cui la Cina si senta costretta dalla NATO ad aiutare la Russia in questo modo e il Miliardo d’Oro imponga sanzioni contro di essa in risposta, si prevede che potrebbe seguire un “decoupling” cino-europeo avviato dagli Stati Uniti sulla falsariga del precedente russo-europeo avviato dagli Stati Uniti. Il rapporto esclusivo di Reuters di mercoledì, che citava quattro funzionari statunitensi senza nome e altre fonti, ha ampliato il credito allo scenario precedente, rivelando che il “Golden Billion” sta effettivamente discutendo di sanzioni multilaterali.

Se questi due sviluppi dovessero verificarsi – la Cina che arma la Russia e poi viene sanzionata dal Miliardo d’Oro in modo tale da provocare il loro “disaccoppiamento” (graduale o istantaneo) – allora le relazioni internazionali entrerebbero in un periodo di tri-multipolarità caratterizzato dalla prominenza di tre poli che esercitano la maggiore influenza sugli affari globali, ma la cui influenza non sarebbe tuttavia assoluta, poiché sarà tenuta in qualche modo sotto controllo dalle potenze in ascesa e dai gruppi regionali.

L’ordine mondiale trimultipolare

I tre poli previsti sono il Miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti, l’Intesa sino-russa e il Sud globale di fatto guidato dall’India, che probabilmente continuerà a riunirsi informalmente in un nuovo Movimento dei non allineati (“Neo-NAM”). All’interno di quest’ultimo risiederanno potenze in ascesa come il Brasile, l’Iran, il Sudafrica e la Turchia, oltre a gruppi regionali come l’Unione Africana (UA), l’ASEAN e la Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (CELAC).

Ciascuna di queste tre categorie di attori – i tre poli, le potenze in ascesa e i gruppi regionali che si collocano al di sotto dei primi in questa gerarchia internazionale informale – dovrebbe bilanciarsi a vicenda attraverso un allineamento multiplo all’interno e tra i rispettivi livelli. Il ruolo dell’India sarà il più importante di tutti, poiché è in grado di facilitare il commercio tra il Miliardo d’oro e l’Intesa sino-russa nel caso in cui il loro potenziale “disaccoppiamento” venga portato all’estremo, cosa che non si può escludere.

Il ruolo di kingmaker dell’India

Inoltre, il fatto che l’India abbia ospitato virtualmente il vertice Voice Of Global South ha posizionato questo Stato-civiltà come centro di gravità per i suoi colleghi in via di sviluppo, il che rafforza la probabilità che il Neo-NAM continui a riunirsi informalmente attorno ad esso. Da lì, l’India può promuovere le proprie piattaforme finanziarie, tecnologiche e di altro tipo per fornire agli Stati del Sud globale una terza scelta neutrale tra il Miliardo d’oro e l’Intesa sino-russa nella nuova guerra fredda.

Anche le potenze in ascesa e i gruppi regionali che partecipano al Neo-NAM, non ufficialmente guidato dall’India, potrebbero sviluppare le proprie piattaforme, ma quella indiana potrebbe diventare lo standard per facilitare l’impegno tra loro nelle fasi iniziali. Parallelamente, i forum globali come l’ONU e il G20 non avranno più molto significato se non quello di fungere da club di discussione, mentre i gruppi regionali e guidati da interessi sostituiranno il loro ruolo precedente nel promuovere una cooperazione tangibile tra i Paesi.

Riflessioni conclusive

L’imminente evoluzione della transizione sistemica globale verso la tripolarità potrebbe vedere il Miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti, l’Intesa sino-russa e il Sud globale di fatto guidato dall’India diventare i poli più importanti delle relazioni internazionali, al di sotto dei quali si troverebbero le potenze in ascesa e i gruppi regionali. Tutti gli attori si bilancerebbero l’un l’altro, allineandosi all’interno e tra i rispettivi livelli, il che potrebbe portare a stabilizzare gli affari globali molto più di quanto abbiano fatto i precedenti ordini unipolari e bimultipolari.

https://korybko.substack.com/p/towards-tri-multipolarity-the-golden

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Voi e l’esercito di chi?_di Aurelien

Voi e l’esercito di chi?

La NATO farebbe bene a rimanere fuori dall’Ucraina.

di Aurelien

https://aurelien2022.substack.com/p/you-and-whose-army

 

I will do such things –
What they are yet I know not, but they shall be
The terrors of the Earth! – 
Shakespeare, King Lear.

 

Politici ignoranti e opinionisti confusi hanno fatto rumore di recente, minacciando, o addirittura fantasticando, su una sorta di intervento formale della NATO in Ucraina. In generale, non hanno idea di cosa stiano parlando e di quali sarebbero le implicazioni pratiche di un intervento. Ecco alcuni esempi del perché è un’idea stupida.

 

Nel gennaio del 1990, mi trovavo nel quartier generale della NATO a Bruxelles per una riunione di routine. Era una di quelle giornate fredde e umide in cui il Belgio è specializzato, ma c’era molto di più dietro l’atmosfera gelida e da mausoleo dei corridoi deserti. Negli ultimi mesi, il terreno si era continuamente mosso sotto i piedi della NATO e, non molto prima di Natale, la Romania, l’ultimo rimasuglio del Patto di Varsavia, era andata in fiamme. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo la settimana successiva, per non parlare del mese successivo, e la NATO cominciava ad assomigliare a un manifestante con un cartello per una causa già superata. Le capitali nazionali facevano fatica a tenere il passo con ciò che stava accadendo. Ho chiesto a un collega appena tornato da Washington cosa dicevano i falchi dell’Amministrazione Bush. La risposta è stata: “Sono sotto shock”.

 

Il fatto che la NATO esista ancora quasi trentacinque anni dopo, e che ora abbia il doppio dei membri di allora, ha incoraggiato alcune persone che non hanno prestato attenzione a credere che la NATO sia ancora la stessa potente organizzazione militare che era nel 1989, e che quindi basti minacciare un suo coinvolgimento formale in Ucraina, e i russi si allontaneranno. Non potrebbero essere più pericolosamente in errore.

Il fatto che la NATO sia sopravvissuta dopo il 1989 è stata una sorpresa per alcuni. Ma, come ho sottolineato, l’Alleanza aveva in realtà una serie di scopi utili per gli Stati europei e, in ogni caso, il mondo stava cambiando così rapidamente che non solo era impossibile trovare un accordo intorno a con che cosa sostituirla, ma era anche impossibile sapere che tipo di compiti avrebbe dovuto svolgere una futura organizzazione. Le organizzazioni non si chiudono all’improvviso e, in ogni caso, la NATO aveva ancora molto da fare. Quel giorno del gennaio 1990, la NATO era ancora profondamente coinvolta nei negoziati per il controllo degli armamenti a Vienna, che avevano finalmente dato una degna sepoltura alla Guerra Fredda, e continuava ad avere molto da fare, mentre i partner negoziali dall’altra parte del tavolo iniziavano ad avere quelli che si potrebbero definire problemi di coordinamento, e uno di loro si avvicinava al nostro lato del tavolo. Quando quella saga e le relative complicazioni furono finalmente risolte, la NATO si ritrovò in Bosnia, poi ad accogliere nuovi membri in un modo che non era stato previsto, poi in Kosovo, poi in Afghanistan. Tutto questo è stato essenzialmente improvvisato: non c’era un piano generale, se non un consenso pervasivo sul fatto che la NATO era più utile che no, e che era necessario trovarle cose da fare per mantenerla in vita.

 

Ma dietro le quinte stavano cambiando molte cose. La struttura militare della NATO, creata in preda al panico dopo la guerra di Corea e sempre pronta a mobilitarsi con breve preavviso, non serviva più a nulla. All’inizio lentamente, poi sempre più rapidamente, i contingenti nazionali che avevano costituito le sue forze permanenti cominciarono a sciogliersi. Una dopo l’altra, le nazioni europee abbandonarono il servizio di leva nazionale, ridussero radicalmente le dimensioni delle loro forze militari e sospesero le procedure di mobilitazione. Le forze statunitensi tornarono progressivamente a casa. La generazione di equipaggiamenti militari che stava entrando in servizio all’epoca è stata infine dispiegata, in numero ridotto, e per la maggior parte è ancora in servizio. I carri armati e gli aerei che la NATO intende inviare in Ucraina (il Challenger II, il Leopard II, l’F-16) sono essenzialmente progetti degli anni ’70, anche se molto aggiornati.

 

Il riconoscimento che la capacità della NATO di condurre una guerra seria è l’ombra di ciò che era un tempo sta lentamente iniziando a diffondersi nella comunità strategica, che non vi ha prestato attenzione nell’ultima generazione o giù di lì, perché aveva lo sguardo fisso sull’Afghanistan e sull’Iraq. Ma in realtà la situazione è molto peggiore, e come spesso accade i veri problemi sono nascosti nelle complessità tecniche. Ne tratterò brevemente alcuni, per spiegare perché l’intervento della NATO in Ucraina non è realmente possibile, se fosse possibile non sarebbe auspicabile, e anche se fosse auspicabile sarebbe totalmente inefficace, e persino pericoloso. Poiché non ho una formazione militare, lascerò questa parte agli esperti e mi concentrerò sulle questioni più ampie.

 

Dato che di recente i britannici hanno emesso alcuni dei rumori più bellicosi, analizziamo cosa è cambiato in quel paese dai tempi della Guerra Fredda. Nel 1989, l’esercito britannico del Reno poteva schierare un corpo d’armata completo di quattro divisioni, circa 55.000 soldati, pronti a essere rinforzati in guerra da quasi altrettanti riservisti e unità regolari provenienti dal Regno Unito. (C’era anche una potente componente aerea. Durante la cosiddetta fase di transizione verso la guerra, la mobilitazione sarebbe avvenuta con poteri bellici d’emergenza, togliendo le persone dai posti di lavoro e requisendo le risorse logistiche e di trasporto per trasferire decine di migliaia di combattenti in Europa, mentre le famiglie venivano evacuate nella direzione opposta. Il governo normale sarebbe stato sostituito e il Parlamento si sarebbe, di fatto, dissolto. Decine di migliaia di altre truppe sarebbero state mobilitate per la difesa interna. Si sarebbero introdotte misure di difesa civile per far fronte ai bombardamenti e alle operazioni di sabotaggio previsti. Il governo stesso sarebbe stato disperso e i ministri avrebbero operato come commissari regionali.

Anche sul continente, naturalmente, si stavano prendendo disposizioni simili. Milioni di riservisti sarebbero stati richiamati, inviati alle loro unità e, in alcuni casi, trasferiti a centinaia di chilometri nelle loro sedi di guerra. La vita ordinaria si sarebbe di fatto fermata, perché la mobilitazione avrebbe richiesto tutte le risorse delle nazioni coinvolte. Questo è il significato della “guerra” moderna: perché i russi dovrebbero accettare ora un accordo che ci causa meno problemi? Perché dovrebbero accettare una sorta di “guerra light”, limitata solo all’Ucraina?

 

C’è quindi da chiedersi se le nullità che parlano di “guerra” con la Russia abbiano una qualche idea di cosa significhi, e se capiscano come al giorno d’oggi non esistano nemmeno i meccanismi più elementari per renderla possibile. Tanto per cominciare, la guerra non è solo qualcosa che facciamo agli altri. Non si tratta di salutare i ragazzi che salpano per andare a combattere in un paese straniero, ma di combattere deliberatamente con qualcuno che può farci molto più male di quanto noi possiamo farne a lui. Le implicazioni pratiche sono molteplici: vediamo solo alcune delle più importanti.

 

Oggi nessuno “dichiara guerra”. Dopo il processo di Norimberga e la Carta delle Nazioni Unite, in cui le nazioni si impegnano ad astenersi dall’uso della forza, non è più possibile iniziare proattivamente uno stato di guerra con un’altra nazione. Dire, come alcuni hanno fatto, “siamo in guerra con la Russia” non ha quindi alcun senso, se non come slogan politico. Non ha alcuna forza legale. L’unico organo in grado di “dichiarare guerra” è il Consiglio di Sicurezza, e questo non accadrà in questo caso. Poiché i russi si sono guardati bene dall’attaccare il territorio della NATO o dall’impegnare deliberatamente le forze della NATO, non si può parlare di “stato di guerra” con le nazioni della NATO.  Esiste invece uno stato di “conflitto armato”, che ha una sua definizione: essenzialmente violenza armata prolungata tra Stati o tra Stati e altri gruppi armati. Ma il “conflitto armato” è appunto uno stato di cose, non un processo o una dichiarazione, ed esiste o non esiste come questione di fatto e di diritto. Quindi, se è ovvio che esiste un conflitto armato in Ucraina, è altrettanto ovvio che gli Stati occidentali non ne sono parte. È quindi difficile capire come le fantasie dei politici bellicosi possano effettivamente realizzarsi.

 

L’unico modo in cui ciò potrebbe potenzialmente avvenire sarebbe se l’Ucraina facesse una richiesta formale di assistenza militare agli Stati occidentali. È così che i russi hanno giustificato le loro operazioni in Ucraina, sostenendo che stanno assistendo le repubbliche secessioniste nell’esercizio del loro diritto di autodifesa, che è preservato (anche se ovviamente non è stato stabilito) dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ma non è chiaro cosa significherebbe in pratica e fino a che punto le forze occidentali potrebbero effettivamente spingersi. Attacchi diretti al territorio russo, ad esempio, sarebbero probabilmente esclusi se si utilizzasse questo argomento.

Ma mettiamo che in qualche modo questi problemi possano essere superati e che si annunci con gioia che le nazioni della NATO entreranno nel conflitto come belligeranti a tutti gli effetti. Questo farebbe tremare i russi, non è vero? In realtà no. Vedete, se siamo in stato di guerra con un altro Paese e siamo liberi di attaccarlo, allora anche lui è libero di attaccarci. Non c’è modo di circoscrivere un simile conflitto all’Ucraina e non c’è motivo per cui i russi dovrebbero volerlo fare. Quindi la prima conseguenza è che le nazioni della NATO, le forze della NATO e gli obiettivi della NATO sarebbero esposti all’attacco immediato della Russia, in un momento in cui i sottocomitati stanno ancora lavorando a Bruxelles per cercare di generare forze. Cosa farebbero quindi i russi?

 

In uno stato di guerra, qualsiasi “obiettivo militare” può essere attaccato. In pratica, oggi questo significa unità militari, quartieri generali militari, la catena decisionale politica per la guerra e le infrastrutture di trasporto, energia, industria ecc. necessarie per sostenerla. Ora non sappiamo, e i russi ovviamente non ce lo diranno, quali siano le loro capacità di attacco a lungo raggio con armi convenzionali. Non sappiamo, ad esempio, di quali capacità dispongano per bombardare gli Stati Uniti con munizioni convenzionali da navi e sottomarini e se intendano usarle, ma non sarebbe saggio escludere questa possibilità. Ma dobbiamo presumere, anche solo a fini di pianificazione, che abbiano modo di colpire obiettivi importanti nella maggior parte o in tutti i Paesi occidentali, con missili lanciati da aerei, navi o sottomarini. Se limitiamo in modo molto prudente le capacità russe all’attacco di venticinque obiettivi principali, cosa potrebbero fare, tenendo presente che la NATO non ha una difesa efficace contro tali attacchi? Alcuni obiettivi sono ovvi: il Pentagono e la Casa Bianca, ad esempio, o le sedi della CIA e della NSA. Il quartier generale della NATO a Bruxelles non resisterebbe a lungo, così come il suo quartier generale militare a Mons. Anche i ministeri della Difesa, i quartieri generali militari e le cancellerie delle principali potenze europee possono essere considerati obiettivi probabili.

 

Ma ovviamente i russi non sono obbligati a consegnare una lista di obiettivi e quindi, in pratica, gli Stati occidentali dovrebbero considerare centinaia di siti come potenziali bersagli, a seconda delle scorte di missili di cui i russi dispongono e di come decidono di usarli. Ovviamente, tutti gli aeroporti militari sarebbero potenziali obiettivi. Ma mentre si concentrano le forze di terra in un momento di tensione, si disperdono le forze aeree. Durante la Guerra Fredda, molti Paesi tenevano in stand-by campi d’aviazione di riserva: mi stupirei se ce ne fossero molti oggi. In pratica, gli aerei dovrebbero essere dispersi in aeroporti civili, che diventerebbero obiettivi militari e dovrebbero essere chiusi ai voli civili. Tutte le basi militari, le guarnigioni militari, i quartieri generali, le strutture di stoccaggio delle munizioni, i depositi di riparazione, le basi navali, i porti civili in cui le navi militari potrebbero essere disperse, le strutture di raccolta dell’intelligence e i principali snodi di trasporto, tra le altre cose, dovrebbero essere considerati obiettivi potenziali.

 

Tutto questo è importante per due motivi. In primo luogo, nessun governo oggi ha preso provvedimenti seri per continuare a gestire il Paese durante una guerra convenzionale, con il rischio di attacchi aerei e missilistici. All’inizio della Guerra Fredda, i governi avevano previsto di nascondersi in rifugi speciali durante la fase convenzionale di una guerra, alcuni dei quali esistono ancora. Ma verso la fine, le armi nucleari erano diventate così precise e potenti che si riteneva molto improbabile che una di queste strutture potesse sopravvivere a un successivo attacco nucleare, e quindi tendevano a cadere in disuso. Quindi, di fatto, i Paesi della NATO non solo non sono in grado di difendersi da un attacco missilistico convenzionale, ma non hanno nemmeno i mezzi per proteggere la cosiddetta “continuità di governo” da tali attacchi. Quindi un missile sul Palazzo dell’Eliseo, uno sul Ministero della Difesa e uno sul Quartier Generale delle Forze di Terra a Lille, e questo sarebbe tutto per la Francia, ad esempio.

 

In secondo luogo, sebbene la nuova generazione di missili russi sia presumibilmente piuttosto precisa, dobbiamo ricordare che la precisione è relativa e non può essere garantita. La precisione viene normalmente espressa in base a una misura nota come Errore Circolare Probabile, o CEP. Si tratta del raggio dal bersaglio entro il quale si prevede che il cinquanta per cento dei missili cadrà. Non vengono fornite garanzie su dove atterrerà il restante cinquanta per cento. Quindi, se un missile ha un CEP di 200 metri, il cinquanta per cento delle volte si prevede che atterri entro un cerchio di 400 metri di diametro, il cui epicentro è il bersaglio previsto. Alla luce di ciò, del raggio d’azione delle esplosioni e della tendenza di alcuni missili a perdersi, si può affermare che chiunque o qualsiasi edificio si trovi nel raggio di un chilometro da un potenziale obiettivo di alto valore è potenzialmente a rischio. In tutto il mondo occidentale, centinaia di migliaia di persone vivono spesso vicino ad aeroporti, porti marittimi e sedi centrali. (Il quartier generale permanente del Regno Unito si trova in un tranquillo sobborgo di Londra).

In molte città europee, le strutture governative e militari sono raggruppate nel centro della capitale. Ciò significa che gran parte del centro stesso della città sarebbe a rischio. Nella maggior parte dei Paesi non è affatto chiaro dove il governo potrebbe trasferirsi, in caso di crisi, per continuare a operare. Anche se fosse possibile evacuare le figure di spicco del governo in un luogo nominalmente più sicuro, sarebbe necessario chiudere completamente al pubblico almeno il centro di alcune città (poiché alcuni servizi governativi dovrebbero rimanere e quindi essere obiettivi) e non ci sarebbe modo di prevenire l’evacuazione spontanea di decine o centinaia di migliaia di residenti comuni. In effetti, con i moderni livelli di possesso di automobili, le autostrade sarebbero presto intasate di persone in fuga da siti che si prevede, o si dice, siano sulla lista degli obiettivi russi. Nessun governo moderno ha piani per l’evacuazione e l’alloggio di un gran numero di rifugiati, al giorno d’oggi, e nemmeno per gestire un esodo popolare spontaneo. Tutto questo, ovviamente, comincerebbe ad accadere prima che il primo missile russo venga lanciato, ammesso che ne venga lanciato uno. Il fatto che i governi occidentali debbano spiegare che non esiste una difesa efficace contro tali missili, e che non ci sono piani né strutture per proteggere la popolazione civile da essi, non aiuterebbe nemmeno a calmare il clima politico. Nessun governo occidentale ha le forze o i piani disponibili per contenere il panico e la confusione che probabilmente ne deriverebbero.

 

Ma sicuramente, direte voi, l’opinione pubblica occidentale sarà confortata dal pensiero che le proprie forze stanno eseguendo una punizione contro la Russia? Non è detto. Semplicemente, le nazioni occidentali hanno visto una scarsa necessità di missili convenzionali a lungo raggio e non si sono impegnate molto per svilupparli. I più noti sono i missili da crociera subsonici della famiglia Tomahawk, con gittate che si aggirano per lo più intorno ai 1000-1500 km e con una testata di circa 500 kg (più o meno equivalente a una singola bomba sganciata da un bombardiere tedesco nel 1940). Queste armi possono essere efficaci, ma vengono lanciate da navi e sottomarini e quindi i bersagli devono essere abbastanza vicini al mare. A questo punto è utile prendere una mappa.

 

La prima cosa che colpisce è che la Russia è un posto grande. La seconda è che Mosca è molto lontana. I missili Tomahawk lanciati dal Baltico o dal Mediterraneo orientale potrebbero avere la gittata necessaria per raggiungere Mosca, almeno in teoria. D’altra parte, come la stessa opinionista ricorda di aver detto, la Russia ha ereditato dall’Unione Sovietica il sistema di difesa aerea più completo del mondo. Quale sia la sua efficacia contro i missili da crociera subsonici ma a bassa quota, non lo sanno nemmeno gli esperti. Detto questo, la NATO non può rappresentare per la Russia la stessa minaccia che i nuovi missili russi possono rappresentare per i Paesi della NATO, e si deve presumere che i russi sarebbero in grado di individuare e colpire il sistema di lancio della NATO stessa. Gli aerei con equipaggio che tentano di sganciare bombe convenzionali su Mosca da basi in Europa, anche se ne avessero il raggio d’azione, potrebbero subire perdite tali che nessun governo ne riterrebbe utile l’uso.

 

Ma supponiamo che le città e le aree bersaglio possano essere evacuate in sicurezza e che i governi e le economie occidentali possano essere messi in condizioni di guerra. La potenza aerea e i missili saranno inefficaci, quindi l’unica vera opzione è quella di formare e dispiegare una forza multinazionale meccanizzata di qualche tipo, presumibilmente per aiutare gli ucraini a recuperare il territorio che rivendicano come proprio.

 

Ebbene, fermiamoci qui. Le nazioni occidentali non sanno più come fare queste cose. Sto parlando della dottrina militare: l’insieme dei principi che indicano ai comandanti come combattere. La NATO non ne ha per le operazioni offensive meccanizzate lontano dal territorio nazionale, e non ne ha mai avute. Durante la Guerra Fredda l’orientamento della NATO, e quindi la sua dottrina, era difensivo. Il presupposto era che le sue forze avrebbero affrontato un attacco da parte di un nemico più grande e più potente, e che avrebbero condotto una ritirata combattiva, sperando di fermare l’incursione nemica il più vicino possibile al confine con la Germania interna. In ogni momento, quindi, le forze della NATO avrebbero ripiegato sulle proprie linee di rifornimento, verso le proprie riserve e i propri depositi di manutenzione e rifornimento, mentre le forze nemiche si sarebbero progressivamente allontanate dalle loro.

 

Per quanto ne so, i comandanti della NATO non si sono mai addestrati o esercitati per una guerra meccanizzata aggressiva a lunga distanza, e non esiste una dottrina al riguardo, il che significa che nessuno sa come farla, né tanto meno come integrare le forze di terra con quelle aeree e con altri mezzi. In Bosnia, la NATO era un esercito di occupazione, che non combatteva. Dopo la campagna aerea contro la Serbia, la situazione in Kosovo era simile. In Afghanistan, la NATO in quanto tale si è schierata solo dopo la sconfitta del regime talebano e la maggior parte delle sue attività sono state di controinsurrezione su piccola scala. L’equivalente più vicino al tipo di operazione che sarebbe necessaria in Ucraina (anche se allora con forze soverchianti e completa superiorità aerea) è stato l’Iraq del 2003, ma i comandanti anziani di quell’epoca sono andati in pensione da tempo e la conoscenza istituzionale è andata perduta.

Inoltre, sebbene negli eserciti occidentali esistano ancora unità a dimensione di brigata, si tratta sempre più di formazioni amministrative, che raramente o mai si addestrano insieme. Qualsiasi forza occidentale dovrebbe passare settimane o mesi ad addestrarsi insieme, con tanto di riservisti mobilitati, prima di poter essere considerata pronta a schierarsi. Poi, naturalmente, dovrebbe addestrarsi con brigate di altre nazioni, il tutto in assenza di una dottrina militare coerente e concordata. Poiché a quel punto la NATO avrebbe inevitabilmente dovuto ammettere di essere in stato di guerra con la Russia, si può solo sperare che i russi, sportivamente, non prendano di mira le unità mentre si addestrano.

 

E soprattutto, quale sarebbe l’obiettivo? “Uccidere russi” non è un obiettivo militare. Quando il Comandante supremo delle Forze Alleate in Europa si presenta al Consiglio Nord Atlantico dopo tutti questi preparativi e dice “cosa volete che faccia?”, sarà meglio che riceva una risposta. Ma non c’è, o per essere precisi non c’è nemmeno una risposta che risponda al clamore politico. Con notevoli difficoltà (vedi sotto) alcune unità militari occidentali potrebbero essere trasportate nell’Ucraina occidentale, dove potrebbero formare un presidio improvvisato intorno ad alcune delle principali città ucraine. Questo potrebbe essere politicamente efficace nel breve termine, ma le forze stesse sarebbero completamente esposte, poiché potrebbero essere attaccate dai russi senza essere in grado di rispondere. E non è certo quanto a lungo le opinioni pubbliche occidentali accetterebbero di avere i loro interi eserciti utilizzabili legati in una posizione statica in Ucraina. Inoltre, molte unità da combattimento europee dipendono pesantemente dai riservisti: l’unica unità da combattimento seria dell’esercito olandese, ad esempio, la 43esima brigata meccanizzata con la sua manciata di carri armati, conta sui riservisti per circa un quarto della sua forza operativa: per quanto tempo è possibile tenerli lontani dal loro lavoro e dalle loro famiglie?

 

Ma ovviamente, per cominciare, bisogna portarli fino a quel punto. Nella Guerra Fredda, le truppe della NATO (e anche quelle sovietiche) si trovavano essenzialmente nelle posizioni in cui avevano combattuto nel 1945. In entrambi i casi, hanno occupato strutture esistenti della Wehrmacht. Nel corso dei decenni, nuove unità e nuove attrezzature sono state costruite a poco a poco, sono stati edificati alloggi e così via. Questo tipo di infrastruttura dovrebbe essere riprodotta in Ucraina e, anche se venissero utilizzate le strutture dell’UAF, ci sarebbe comunque un massiccio programma di dispiegamento e di costruzione di infrastrutture che richiederebbe anni.

 

E in ogni caso, i combattimenti non sono lì. Si svolgono a circa mille chilometri a est, quindi le truppe della NATO dovrebbero spostarsi di nuovo, a una distanza pari all’incirca a quella che separa Parigi da Monaco, solo per raggiungere il luogo dei combattimenti. Non credo ci siano precedenti nella storia per questo tipo di movimento di attrezzature pesanti e di uomini su una tale distanza, sotto attacco aereo e missilistico, e a contatto con forze superiori.

 

I carri armati occidentali della Guerra Fredda, come il Leopard, il Challenger e l’M1, sono stati costruiti per combattere una guerra difensiva. Sebbene alcuni modelli fossero più leggeri di altri, tutti dovevano utilizzare le eccellenti infrastrutture, i solidi ponti e i sistemi ferroviari dell’Europa occidentale e iniziare la guerra non molto lontano dal luogo in cui erano stanziati. Il solo fatto di portarli in prima linea, con i loro veicoli per il recupero e i pezzi di ricambio, ecc. sarebbe stata una sfida. Ma ovviamente c’è di più. Anche i veicoli cingolati corazzati “leggeri” non possono facilmente muoversi lungo alcune strade senza danneggiarle, o attraversare tutti i ponti. Per avere un’idea di cosa comporterebbe lo spostamento di una brigata, anche su terreni permissivi, date un’occhiata a questo diagramma di una tipica brigata di fanteria corazzata britannica. Vedrete che ha circa 500 veicoli da combattimento, di cui circa il dieci per cento sono carri armati principali, che a loro volta richiederebbero grandi e pesanti trasportatori per spostarli a qualsiasi distanza. A questi vanno aggiunti i veicoli di recupero, i veicoli per le riparazioni, i veicoli per i meccanici, i veicoli medici e tutta una serie di veicoli di trasporto e di rifornimento. Tutto questo potrebbe facilmente portare a una colonna lunga una decina di chilometri, che deve viaggiare lungo percorsi autorizzati e protetti attraverso la maggior parte dell’Europa. (Per tacere dell’attraversamento del Canale della Manica). Una volta in posizione, la Brigata dovrebbe essere rifornita, fornita di nafta, olio e lubrificanti, ricambi e materiali di consumo, officine e un piccolo ospedale. Se dovesse entrare in azione, le vittime dovrebbero essere evacuate, i rinforzi dispiegati e le attrezzature danneggiate riparate, se possibile, poiché è improbabile che possano essere sostituite. E questa è solo una Brigata di un Paese.

 

Quante brigate di questo tipo la NATO potrebbe effettivamente schierare? Nessuno lo sa, ma la stima migliore sembra essere tra le sei e le dieci, tenendo presente che, se siamo in guerra con la Russia, potrebbe essere utile avere anche qualche truppa in patria. Lascio agli esperti militari giudicare il valore di una forza meccanizzata leggera di queste dimensioni, ma onestamente dubito che Mosca sia troppo preoccupata.

 

E questo è il problema. L’Occidente è così inebriato dalla percezione della propria potenza che presume che anche gli altri lo siano. Dopo tutto, gli Stati Uniti spendono per la difesa molto più della Russia, quindi dovrebbero essere molto più potenti, no? Ebbene, in alcuni settori, come i gruppi tattici di portaerei, lo sono. Ma i russi non vogliono giocare a questo gioco: vogliono giocare alla guerra terrestre/ aerea ad alta intensità in Europa, un gioco a cui l’Occidente ha sostanzialmente rinunciato una generazione fa e che può giocare solo per una o due settimane al massimo prima di esaurire le munizioni. L’altra illusione è che l’Occidente sia intoccabile. Non oserebbero mai lanciare un missile sul quartier generale della NATO, vero? Voglio dire, se lo facessero, noi… noi… beh, cosa faremmo? Le minacce nucleari sono riconosciute come pericolose, inutili e irrilevanti. Come Re Lear nella citazione all’inizio di questo saggio, la NATO farà… qualcosa, quando capirà cosa. Ma se fossi nei russi sarei scettico: dopo tutto, ricordate cosa è successo a Lear.

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DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE E DOTTRINA DELLO STATO BORGHESE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE

E DOTTRINA DELLO STATO BORGHESE

  1. E’ tradizionale nella dottrina del diritto francese, di uno Stato formato da otto secoli di monarchia, iniziare la trattazione dei poteri pubblici dalla giustificazione teologica del potere stesso[1]. A cui si fa seguire l’esposizione della teoria del diritto divino e la distinzione tra “doctrine du droit divin surnaturel” e “doctrine du droit divin providentiel” attribuendo l’affermazione della prima ai Re di Francia (Barthélemy – Duez) e particolarmente a Luigi XIV e Luigi XV, ovvero a Bossuet (Hauriou); mentre per la seconda l’attribuzione è concorde a de Maistre e de Bonald[2]. La distinzione tra le due concezioni è così esposta da Hauriou: “La dottrina teologica ha avuto due forme successive in Francia: 1) la dottrina del diritto divino soprannaturale (Bossuet) che consiste nel sostenere che Dio stesso sceglie i governanti e l’investe dei loro poteri: questa concezione è compatibile solo con la monarchia assoluta; 2) La dottrina del diritto divino provvidenziale (de Maistre e de Bonald) secondo cui il potere, nel suo principio fondamentale fa parte dell’ordine provvidenziale del mondo, ma è a disposizione dei governanti mediante mezzi umani; questa dottrina permette altrettanto adeguatamente sia la giustificazione del potere minoritario, esercitato da un’élite, che del potere maggioritario, esercitato dalla maggioranza del popolo (vox populi vox Dei)” e prosegue sottolineando i vantaggi di questa seconda teoria: 1) di significare che l’istinto del potere è nella natura umana, e in tal senso, pre-sociale; 2) di collocare l’origine del potere al di sopra sia della collettività sociale, sia del diritto dei governanti, sia di chiunque: ossia di non portare a nessun assolutismo; è la più propizia alla libertà; 3) provenendo da Dio il potere è per natura orientato verso la ragione, la giustizia ed il bene comune.

E soprattutto come appare dal contesto sistematico di tali considerazioni, permette di ricollegare pouvoir de fait e pouvoir de droit, di “aprire” cioè il diritto ai mutamenti della storia. In un senso più specifico, di fondare il potere costituente (umano) al di sopra della stessa costituzione. Barthélemy e Duez sostengono, del pari, che la dottrina del diritto divino provvidenziale non è necessariamente aristocratica o monarchica, perché ogni uomo o classe può essere scelto dalla Provvidenza per eseguire i propri disegni: quindi non è contraria alla democrazia[3]. Sia Barthélemy che Carré de Malberg considerano la dottrina del diritto divino provvidenziale come già formulata da S. Tommaso e seguita dalla maggior parte dei teologi cattolici[4].

Tale concezione tuttavia non è considerata da tutti i giuristi un “antecedente” della democrazia moderna. Jellinek, nello scrivere della democrazia – e delle repubbliche – moderne le ricollega alle concezioni della Riforma, in particolare a quelle calviniste[5]. Otto Von Gierke ritiene che fu “la Riforma a far rivivere con nuova energia il pensiero teocratico. Attraverso tutte le differenze delle loro concezioni, Lutero, Melantone, Zwinglio e Calvino concordano nell’insistere sulla funzione cristiana e quindi sul diritto divino dei governanti. Anzi, dato che per un verso sottomettono più o meno decisamente allo Stato il dominio della Chiesa e per l’altro legittimano l’esistenza dello Stato in base all’adempimento dei suoi doveri religiosi, essi conferiscono al principio di S. Paolo omnis potestas a Deo una portata fino allora sconosciuta”. Tuttavia non trascura la dottrina della Seconda Scolastica, e scrive che i più accaniti avversari della Riforma, “particolarmente i  Domenicani ed i Gesuiti impugnarono tutte le loro armi spirituali a favore di una costruzione puramente temporale dello Stato e del diritto di sovranità” (anche per sostenere la tesi della potestas indirecta implicante una limitata subordinazione dello Stato alla Chiesa) “Lasciando però fuori causa i rapporti con la Chiesa, essi svilupparono in effetti una dottrina dello Stato scevra di qualsiasi presupposto dogmatico, su fondamenti puramente filosofici: Questo vale non soltanto per gli autentici monarcomachi di questo gruppo: Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[6]

Carl Schmitt sostiene  “Secondo la concezione medievale solo Dio ha una potestas constituens, per quanto di questa si possa parlare: La frase:” Ogni potere (o autorità) viene da Dio” (Non est enim potestas nisi a Deo, Rom. 13,1) significa  il potere costituente di Dio. Anche la letteratura politica dell’epoca della Riforma si attiene a ciò, soprattutto la teoria dei monarcomachi calvinisti” e continua che, con la dottrina del pouvoir constituant di Sieyés, è la nazione il soggetto del potere costituente, malgrado lo sviluppo dell’assolutismo  “Nel XVII secolo il principe assoluto non è ancora definito come soggetto del potere costituente, ma solo perché l’idea di una libera decisione totale, presa dagli uomini, sulla forma e la specie della propria esistenza politica assai lentamente poteva svilupparsi in azione politica: Le conseguenze delle concezioni teologiche-cristiane del potere costituente di Dio nel XVIII secolo,nonostante l’illuminismo, erano ancora troppo forti e vitali”.[7]

  1. Resta da vedere in che misura la teoria del pouvoir constituant – e di riflesso della sovranità nazionale – sia il risultato non solo dell’Illuminismo, delle concezioni di Rousseau e dei giacobini, ma della teologia politica cristiana e più specificamente, della teoria del diritto divino “provvidenziale”.

Che la concezione di Sieyés fosse la secolarizzazione della teologia politica, con la Nazione onnipotente al posto del Dio Onnipotente è chiaro; meno è se tale concezione fosse tributaria delle riflessioni dei filosofi del XVII secolo – in particolare Hobbes e Spinoza (e, poi, Rousseau) – o della teologia cattolica e riformata, in particolare del XVI e XVII secolo [8], ovvero dei giuristi   teorici   del diritto naturale. In effetti i connotati di tale concezione, che valgono a distinguerla, sono, oltre a quelli indicati da Hauriou, altri, presenti nel pensiero dell’abate rivoluzionario.

Sieyés sostiene che la “La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto: La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa: Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale” e prosegue “ In ogni sua parte la Costituzione non è opera del potere costituito, ma del potere costituente: Nessun tipo di potere delegato può cambiare alcunchè delle condizioni della propria delega. E’ in tal senso e non in altro che le leggi costituzionali sono fondamentali. Le prime, quelle costitutive del potere legislativo, vengono fondate dalla volontà nazionale prima di qualunque Costituzione, Esse ne formano il primo gradino”[9]. Insiste ripetutamente sul concetto di volontà, “che è al di fuori di ogni forma” e che “ una Nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”; per cui “ Quand’anche le fosse concesso, una Nazione non deve insabbiarsi nelle pastoie di una forma positiva: equivarrebbe a rischiare di perdere irrevocabilmente la propria libertà, perché sarebbe sufficiente una sola occasione favorevole alla tirannia, per legare i popoli, con il pretesto della Costituzione, ad una forma che impedirebbe loro di esprimere liberamente la propria volontà, e di liberarsi dunque dalle catene del dispotismo”; è chiaro che in tal modo, viene  fondato il “diritto” della comunità a darsi la forma istituzionale che preferisce senza che la volontà morfopoietica  della Nazione possa essere sottoposta ad alcun vincolo giuridico.

In effetti tale concezione di Sieyés significa che non esiste un diritto al potere di chicchessia per investitura divina, ma solo la potestas della comunità di darsi la forma che preferisce: la modellazione della forma, e quindi il diritto e la scelta di chi esercita il potere è rimesso alla volontà e all’opera umana. In qualche misura “aggiorna” il pensiero della teologia cristiana, e tomista in particolare, sulla tirannide, basato sul principio che “tota respublica superior est rege[10].

Parimenti in Sieyés è naturale la tendenza umana ad associarsi: l’uomo è un animale politico, come sempre ripetuto dalla teologia cristiana, per cui è naturalmente portato ad associarsi: l’istinto politico – dell’ordine e del potere –  è quindi naturale e, addirittura, pre-sociale, come sostiene Hauriou. E i teologi in vario modo avevano argomentato sia il carattere di legge naturale che la ragionevolezza dell’ aggregazione degli uomini in società; per lo più spiegandolo con la debolezza umana, non avendo l’uomo armi naturali come zanne, artigli e dovendo difendersi dalle fiere[11], nonchè  dagli altri uomini; da ciò la necessità  di costituire un potere comune e far rispettare la legge[12]. Non dissimile dalle rappresentazioni dei teologi è quanto scriveva Sieyés: “Esiste, a dire il vero, una grande ineguaglianza di mezzi fra gli uomini. La natura li crea forti o deboli; ad alcuni concede un’intelligenza, mentre ad altri la rifiuta. Ne consegue che vi sarà fra essi ineguaglianza di lavoro, ineguaglianza di risultati, ineguaglianza di consumo o di godimento; ma non ne consegue che possa esservi ineguaglianza di diritti”, per cui “il diritto del debole sul forte è lo stesso di quello del forte sul debole. Quando il forte riesce ad opprimere il debole, produce un effetto senza produrre un obbligo. Lungi dall’imporre un nuovo dovere al debole, rianima in esso il dovere naturale ed imperituro di resistere all’oppressore” e “Dunque una società fondata sulla reciproca utilità è in sintonia con i mezzi naturali che si offrono all’uomo per raggiungere il proprio fine; in tal senso questa unione è un bene, e non un sacrificio e l’ordine sociale diviene un’estensione, un complemento dell’ordine naturale……”[13]; la associazione in  società è ragionevole perché lo stato sociale non tende a degradare, ad avvilire gli uomini,ma, al contrario, a nobilitarli, a perfezionarli. Dunque “la società non indebolisce, non riduce i mezzi particolari che ogni individuo apporta all’associazione per sua personale  utilità; al contrario, li accresce;; li moltiplica, sviluppando le facoltà morali e fisiche; li accresce ancora attraverso il fondamentale concorso dei lavori e dei pubblici soccorsi” e “L’uomo, entrando in società, non sacrifica dunque una parte della sua libertà: anche quando non esisteva il vincolo sociale, nessuno aveva il diritto di nuocere  ad un altro” e “Lungi dal limitare la libertà individuale, lo stato sociale ne amplifica e ne assicura il godimento; esso allontana una moltitudine di ostacoli e di pericoli ai quali era esposta, quando era garantita unicamente dalla forza privata, e la affida al controllo onnipotente dell’intera associazione. Così, poiché nello stato sociale l’uomo accresce i suoi mezzi morali e fisici, sottraendosi nello stesso tempo all’inquietudine che ne accompagna l’uso, non è errato affermare che la libertà è più completa e assoluta nell’ordine sociale di quanto non possa esserlo nello stato detto di natura”. Diversamente da quanto affermava Rousseau, quindi il giudizio sullo stato sociale è positivo, come sempre sostenuto dalla teologia cristiana. Non c’è nulla dell’accorato inizio del Contrat social : “L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene”, né della spiegazione che Rousseau da dello stato sociale nel  Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes , come soluzione che favorisce i più ricchi, che assicurano  col potere pubblico le proprie posizioni.[14]

  1. D’altra parte la concezione di Sieyés si distingue da quella del diritto divino soprannaturale, comune a Bossuet, come a Lutero e Calvino.

Lutero ritiene che la ribellione ai poteri costituiti sia contraria alle Sacre Scritture e che il cristiano, anche se vessato da un potere malvagio , deve sottomettersi e rimettersi alla volontà (e diritto) divino[15], perché farsi giustizia da soli significa abusare di un diritto che appartiene solo a Dio. Calvino contesta la tesi degli anabatttisti che non sia  lecito  al cristiano essere magistrato o  sovrano[16], perché è “manifestamente contrario alla Scrittura che non ci debba essere più alcuna forma di governo”[17]; i governanti “ricevono la loro autorità da (Dio), e ne rappresentano la persona essendo in qualche  modo i suoi vicari;” condanna rivolte e sollevazioni popolari[18], poiché si deve essere sempre sottomessi alla volontà di Dio che ha    costituito dei re sui regni.[19]

Bossuet spiega il noto passo dell’Epistola ai Romani di S. Paolo così: i principi agiscono come ministri di Dio e suoi luogotenenti in terra; il loro trono non è quello di un uomo,ma quello di Dio stesso; la persona del Re è sacra, anche se non cristiano come Ciro  , perché  rappresenta sempre la maestà Divina[20]. L’autorità è ad immagine di Dio: il principe è l’immagine materiale della (di Dio) immortale autorità. Nel principe l’uomo può morire ma l’autorità non muore mai[21]; il solo principio che possa assicurare              la stabilità degli Stati è che ogni suddito deve rispettare l’esercizio dei poteri  e dei giudizi pubblici[22] . D’altra parte, secondo Bossuet solo al principe appartiene il potere di comandare legittimamente e a lui solo l’esercizio della coazione. Se così non fosse lo Stato (la comunità) ricadrebbe nell’anarchia[23]; da cui è uscita proprio perché si è costituita (è divenuta) popolo sotto un sovrano.[24]

  1. In effetti, come si può notare, la concezione del pouvoir constituant presenta una stretta affinità con la concezione del diritto divino provvidenziale con la quale condivide i principali punti di contatto: Che poi la teoria sia in se, come cennato, la secolarizzazione della teologia cristiana, con la Nazione cui vengono attribuiti i connotati di Dio è ancor più evidente: l’assenza di limiti (giuridici) – l’onnipotenza della volontà della nazione; la sua capacità di “creazione” dell’ordine, donando con la costituzione da un lato un ordinamento (una forma) che “supera” il caos, e dall’altro la stessa capacità di azione (ed esistenza) politica; la risoluzione della distinzione/antitesi tra essere e dover-essere[25]:

Ma non è men vero che, nella sua difesa della “bontà” dell’associazione degli uomini Sieyés riprendeva quanto sempre sostenuto dalla teologia cristiana: in effetti già S.Agostino legava ordine, pace, e civitas[26], sottolineando la concordia, che, nelle cose “temporali” vi era tra la città terrena e quella celeste[27]. D’altra parte la concezione del diritto divino provvidenziale è stata esposta sotto altri profili, più articolati di quelli fin qui ricordati, da S. Roberto Bellarmino. Questi, nel confutare anch’egli le tesi degli anabattisti, adduce cinque prove, tre delle quali “logiche” (deduttivo-razionali) e due “storiche”. Di particolare interesse è la distinzione tra autorità (voluta da Dio è quindi buona in se, facendo parte dell’ordine della creazione) e chi la esercita, cioè il governante (che, quale essere umano è sempre soggetto al peccato ed all’errore): “A quanto dicono in contrario gli Anabattisti affermo innanzi tutto non essere vero che i re e i principi siano generalmente malvagi: non si tratta infatti qui di uno Stato particolare, ma del potere politico in generale, e in questo senso fu re e principe anche Abramo.” E prosegue: “gli esempi dei re malvagi non provano che il potere politico sia malvagio in se stesso; spesso infatti i cattivi si servono di cose buone; gli esempi invece dei re buoni provano che il potere politico è buono, perché i buoni non si servono di cose cattive. Di più: i principi cattivi sono spesso più di giovamento che di danno, come fu di Saul, Salomone e altri. Del resto è ancora più utile per uno Stato avere un principe cattivo che non averne nessuno; dove infatti non ce n’è alcuno, lo Stato non può conservarsi a lungo: Salomone stesso lo disse, Prov., c. 11: Dove non c’è un principe, il popolo va in rovina; invece dove c’è, anche se cattivo, viene almeno conservata l’unità del popolo[28]. Meglio un cattivo governante che l’anarchia del non-governo.

Sul potere politico “A questo proposito però son da farsi alcune osservazioni. La prima è questa: il potere politico in generale, cioè non considerato nelle sue forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, viene immediatamente soltanto da Dio, poiché è una conseguenza necessaria della natura dell’uomo”; ed in origine risiede nella moltitudine “Essendo infatti questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualche uomo particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine.” E “lo stesso diritto naturale trasferisce il potere politico dalla moltitudine a uno o a più individui. La moltitudine infatti non può esercitare essa stessa questo potere, e perciò è obbligata a trasferirlo a uno o ad alcuni pochi individui. Pertanto il potere dei principi, considerato in generale, è esso pure di diritto naturale e divino, e il genere umano, anche se tutti gli uomini in ciò s’accordassero, non potrebbe stabilire il contrario, che cioè non vi fossero principi e capi.”; tuttavia “le forme particolari di regime politico sono “de jure gentium” e non di diritto naturale, poiché è chiaro che dipende dalla libera volontà della moltitudine stabilire che governi un re o alcuni consoli o altri magistrati; e, se v’è una legittima causa, la moltitudine può mutare un regime monarchico in aristocratico o democratico e viceversa, come sappiamo che è avvenuto a Roma”. La conclusione è “da quanto è stato detto segue che il potere politico, considerato in particolare, viene certamente da Dio, mediante però una deliberazione e un’elezione umana, come tutto ciò che è “de jure gentium”. Questo “jus gentium” è come una conseguenza dedotta dal diritto naturale mediante un intervento umano. In tali tesi di Bellarmino sono chiari i presupposti di altrettanti capisaldi del pensiero politico e costituzionalistico moderno; la distinzione tra l’autorità (buona e necessaria perché ordinata da Dio) e chi la esercita (uomo e quindi peccatore, come coloro che sono governati)[29]. Questo è il fondamento della concezione sviluppata nello Stato borghese per cui, proprio perché i governanti non sono degli angeli, occorrono dei controlli su di essi, come scritto nel Federalista[30]. Il che ha portato all’incremento eccezionale nell’organizzazione delle democrazie liberali, del sistema giuridico (e politico) dei “freni e contrappesi”; e, parimenti, alla impossibilità di controlli giuridici sul sovrano (soggetto solo a limitazioni di carattere etico, religioso ed ontologico cioè di “diritto naturale” non di diritto positivo, comunque non suscettibili di coazione). Conferma ad un tempo la necessità del potere politico (di diritto divino) e l’accidentalità delle forme in cui è ordinato e dei soggetti scelti ad esercitarlo. Ribadisce la distinzione tra “titolarità” del potere politico a tutta la moltitudine, obbligata a trasferirla a uno o più, per “diritto naturale” (cioè per necessità oggettiva) e così afferma il carattere necessario della rappresentanza; mentre le forme in cui si organizza, che non sono di diritto naturale (v. sopra) dipendono dalla libera volontà della moltitudine che può sempre cambiarle proprio perché non di diritto naturale ma de jure gentium. E il tutto può avvenire per decisione (con un “atto”) il che anticipa anche la concezione del moderno costituzionalismo che vede la costituzione (per lo più) come deliberazione del potere costituente.

  1. Anche tali ultime tesi sono transitate nel diritto e, ancor più, nella dottrina (politica e) giuridica dello Stato democratico liberale. A volerne ricordare una, la più importante: nella Dichiarazione dei diritti dell’uno e del cittadino, all’art. 3 così si proclama “Le principe de toute souveraineté réside essentiellement dans la nation. Nul corps, nul individu, ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément». Questa dichiarazione in cui alla “moltitudine” si sostituisce la Nazione, sempre contrapposta ai pouvoirs constituées, fu ripetuta in forme simili in tutte le successive  costituzioni francesi (tranne, ovviamente in quella del  1814)[31].

Hauriou sostiene che il diritto non sfugge alla regola che, dietro ogni fisica,        c’è una metafisica. La quale normalmente,non si manifesta, anzi è occultata accuratamente da uno strato di diritto, e così rimane, se ci si ferma all’apparenza (come è normale in una situazione normale, cioè quasi sempre). Ma “ quando il rivestimento giuridico viene a mancare, come nel potere di fatto, si ricade sul fondo metafisico o teologico”[32].  Il che succede quando si produce un cambiamento rivoluzionario radicale. Per la Francia moderna questo si è ripetuto – scrive Hauriou nel 1929 – almeno quattro volte dopo la rivoluzione del 1789. Il potere di fatto tende a diventare – e per lo più vi riesce – un potere di diritto: ma per far questo una legge è completamente inutile “Un gouvernement provisoire n’a jamais fait voter une loi pour déclarer qu’il devenait légitime”.[33] In tali vicende la régle de droit non trova impiego, anzi spesso è convalidata dalla giurisprudenza gran parte del diritto creato da tali governi, anche se non ratificato: questo perché, scrive Hauriou, il  governo è necessario, un governo di fatto è meglio che nessun governo, e il potere è una cosa naturale e d’origine divina. E conclude “Tel est l’enseignement de la morale théologique; tel est celui de la sagesse et telle est la pratique”.[34]

C’è da chiedersi per quale ragione la concezione del diritto divino provvidenziale sia presente così vistosamente nella teoria del diritto e nello Stato borghese. Le risposte potrebbero essere diverse e concorrenti: che in effetti la filosofia moderna, specie quella del XVII e XVIII secolo è largamente tributaria del diritto naturale e della teologia della Seconda Scolastica e che attraverso questa “secolarizzazione” sia arrivata ai costituenti francesi e di qui al costituzionalismo europeo; o perché a far la rivoluzione è stata una nazione cattolica come la Francia, e in essa vi avuto grande importanza un sacerdote come l’abbé Sieyès[35], educato dai Gesuiti; ma l’argomento che pare più importante – e preferibile- è che tale concezione, come ben visto da Hauriou permette di spiegare in modo a un tempo realistico e razionale il rapporto tra fatto e diritto, essere e dover essere, potere ed ordine, trasformazione e conservazione, libertà e necessità. In effetti la diversa concezione del diritto divino soprannaturale porta in se difetti analoghi a quelli che Hauriou individuava nelle teorie del diritto, ad esso contemporanee, di Duguit e di Kelsen, che accomunava come sistemi statici. Tali sistemi “si presentano volentieri come oggettivi, e lo sono effettivamente perché eliminano l’opera dell’uomo che è la sorgente del soggettivo; ma sono soprattutto statici per la loro concezione erronea dell’ordine sociale, e sotto questo aspetto statico li esamineremo perché rende manifesta la loro incompatibilità con la vita”[36]. Nel sistema di Kelsen l’ordine giuridico e statale è considerato l’espressione di un imperativo categorico della ragion pratica; peraltro è un “monismo idealistico”, dove Stato e diritto si confondono[37]. E in effetti è il profilo statico che prevale su quello dinamico[38]. Per cui se tale teoria riesce ad evitare la concezione del potere di dominio, non evita il dominio di un imperativo categorico che comporta un ordine sociale necessitante[39]. Ma il giogo di una filosofia del genere “serait pour le droit pire que celui de la théologie. La théologie catholique pose le primat de la liberté humaine: l’ordre divin se propose à l’homme par la grace ». Invece nel sistema di Kelsen l’ ordine del “panteismo idealista” s’impone come necessità costrittiva. Per cui conclude che in Francia non avrà fortuna “parce que ses tendances sont inconciliables avec celles du droit. Seule une philosophie de la liberté créatrice est compatible avec lui. ». Quanto al sistema di Duguit, questo prende come punto di partenza « la notion positiviste d’un ordre des choses sociales conçu comme le prolongement de l’ordre des choses physiques. De cet ordre des choses découlent des normes. » ; la sua grande preoccupazione è sopprimere il potere come fonte del diritto. Ma questo comporta la staticità del sistema, per la negazione « du pouvoir subjectif de création du droit, le mouvement juridique, qui résulte surtout des forces subjectives, est arreté ». E, tranne i casi di eccezioni nel sistema « le droit ne peut se développer que dans la mesure des normes établies ou par l’établissement de nouvelles normes, mais c’est là une formation coutumière d’une extreme lenteur. Le système tend donc vers l’immobilité coutumière ». E ne conclude che il sistema di Duguit è, come quello di Kelsen “impropre à la vie”.

In effetti, ad analizzare le conseguenze della dottrina del diritto divino soprannaturale, si vede che, ovviamente per ragioni diverse, presenta gli stessi inconvenienti di quelle di Kelsen e di Duguit. In primo luogo d’essere statica, poiché cristallizza i rapporti di potere e le regole per accedervi: chi ha il potere, ha diritto al comando e a pretendere l’obbedienza che gli si deve; ogni innovazione è, non provenendo da chi detiene il potere, contro il diritto divino. In secondo luogo di mettere il diritto davanti al fatto, che è proprio il contrario di quanto succede, ad esempio in diritto internazionale, dove è il fatto del controllo di uno Stato (della popolazione e del territorio), e non la legalità dell’insediamento, a fare d’un governo rivoluzionario un interlocutore internazionale. Se così non fosse, se ci si dovesse basare sul criterio di “diritto divino soprannaturale” (o di una pura valutazione “normativa”), l’Italia  dovrebbe essere rappresentata da un Savoia[40], la Germania da un Hohenzollern e la Russia da un Romanov. Con l’effetto di porre in contrapposizione il diritto con la realtà (e la vita); e di rendere (anche) inidoneo quello a indirizzare questa. C’è inoltre un’antitesi radicale tra la distinzione di Bellarmino tra autorità e governante (peccatore) e quel “vous étes des dieux” rivolto da Bossuet ai monarchi: che giustamente Hauriou ritiene compatibile solo con la monarchia assoluta.

Ma la fortuna della concezione del diritto divino provvidenziale non è solo di essere “dinamica”, e cioè realistica, ma anche di spiegare il rapporto tra forza e diritto, sempre in termini realistici. Ritenendo necessario il vivere in società e sotto un governo ma non le relative forme, è aperta all’innovazione e al carattere nomogenetico della forza, finalizzata a garantire l’esistenza comunitaria Il tasso d’innovazione che questo introduce serve a garantirne l’adattamento alle mutevoli condizioni della storia, cioè la vitalità. Il realismo della concezione in esame è dato  essenzialmente dal rapporto delineato tra legge naturale e jus gentium; in altri termini tra necessità e libertà umana.

Riconoscendo che tra le leggi di natura v’è quella di associarsi sotto un governo politico, la teologia cristiana aveva individuato una delle “costanti”, definite da Miglio come le regolarità della politica[41]; in quanto tali immodificabili dalla volontà umana. Che, di converso, le utopie “assolute”[42], ritengono di poter modificare, credendo di aver trovato “la soluzione dell’enigma della Storia”, come scriveva il giovane Marx[43]; dalla storia puntualmente smentita, col crollo pressochè contemporaneo di quasi tutti i regimi del socialismo reale, che di quella visione utopistica erano le realizzazioni.

Ma la credenza di poter modificare le “regolarità”, che si rivela particolarmente chiara nel caso, come il comunismo, di utopie realizzate – e confinate sollecitamente nell’archivio della storia – non è esclusiva di quelle, essendo presente sia pure in misura più limitata in altre concezioni ideologiche, da certi tipi di pacifismo a frange liberali (non al liberalismo, che mantiene un’impostazione realistica, com’è evidente dalla concezione “problematica” dell’uomo, derivata sia dalla teologia cristiana che dal pensiero politico).

A questa immutabilità delle “costanti” si contrappone- e la integra – la mutevolezza delle forme politiche, rimesse al potere-e quindi alla libertà- delle comunità umane: tale concezione fonda la libertà politica nel senso primario della libera “conformazione” dell’ordinamento sociale e politico: in ciò è la specificazione, all’interno della comunità della definizione di S. Tommaso “Liber est qui sui causa est”: non esser limitati se non dalla legge divina (e naturale), della quale nessuno è dispensato[44]. Di tal guisa questa concezione riconosce alle comunità umane tutta la libertà possibile, senza alcun vincolo giuridico se non auto-impostosi dalle stesse.

Inoltre ritornando sul carattere della dinamicità, è il caso di ricordare che Hauriou, come altri grandi giuristi, non ricollega il concetto di ordine sociale alla “conformità” tra norme e comportamenti, cioè a qualcosa di statico, ma a tutt’altro ovvero al movimento “lento e uniforme” della comunità umana. Su questo concetto ritorna più volte specificando che è il movimento “d’un insieme ordinato, è il risultato di una organizzazione e risulta da ciò che l’ordine è essenzialmente organizzazione”; e per chiarire il concetto ricorre a un paragone biologico. Come gli organismi viventi conservano la forma (che cambia, ma lentamente), pur soggetti a un ricambio di cellule e tessuti estremamente rapido, così i gruppi sociali si comportano come organismi viventi, a condizione d’essere organizzati, e durano secoli conservando una forma simile, pur essendo del tutto mutate le “cellule”, cioè gli uomini[45]. E per tali ragioni, cioè (anche) per la capacità di adattarsi alla vita politica e sociale, giudicava che la dottrina del diritto divino provvidenziale, ponendo l’origine del potere al di sopra della collettività sociale e di chiunque altro, non conduce ad alcun assolutismo, ed è quindi la più propizia alla libertà. Non solo alle individuali, ma anche a quella della comunità di darsi la forma che preferisce.

  1. Avevamo iniziato col chiederci il perché nella dottrina francese a cavallo tra XIX e XX secolo sono considerate attentamente le dottrine del diritto divino, e in particolare quella “provvidenziale”. Nei limiti del presente scritto ne abbiamo individuata qualche ragione, per lo più tra quelle già indicate dallo stesso Hauriou, relative all’essenza dell’ordinamento e del rapporto) sociale e politico.

C’è anche un’altra ragione, implicita nel pensiero del doyen: è che Hauriou era un convinto sostenitore della civiltà (e del pensiero) occidentale, cui dedica alcune delle pagine più interessanti, anche per chi le legge oggigiorno. La civiltà occidentale – scrive – per la sua forza, la sua attività e per le sue idee, domina il mondo, ma non lo ha completamente assimilato. Nello stesso tempo sta subendo una delle sue crisi interne[46]; molti dubitano del valore dei suoi caposaldi. Anche se la civiltà sedentaria probabilmente sopravvivrà in forme parzialmente diverse, i popoli europei rischiano di sparire in una tormenta, dopo molte sofferenze. In questo frangente non è il nemico esterno, ma quello interno il più pericoloso[47]; perciò – continua Hauriou – non si deve dubitare della civiltà occidentale, poiché quanto da essa realizzato “en fait d’oeuvres de beauté et de vérité intellectuelle, est devenu classique, c’est-à-dire a réalisé l’idéal humain[48]. Lo stesso comunismo, allora da poco realizzato in Russia, gli appare incompatibile con la società sedentaria ed individualista, e, piuttosto che una fase “estrema” della modernità, gli pare un ritorno alle forme giuridiche tipiche delle società nomadi[49]. Di questa civiltà occidentale fanno parte tanto la libertà che la proprietà; il diritto romano e la teologia cristiana; la scienza come l’arte. La dottrina del diritto divino provvidenziale esprime alcune delle idee base su cui si può modellare l’organizzazione sociale dell’ “ordre individualiste”.

Contrariamente all’attenzione che la dottrina francese rivolge alla concezione in esame è raro leggere analoghe considerazioni altrove, soprattutto in Italia. Ad esempio a consultare la voce “Democrazia” del classico “Dizionario di politica” si può leggere di tutto, da Erodoto a Rousseau, dalle democrazie degli antichi a quelle socialiste (ed oltre): manca tuttavia qualsiasi cenno a questa, che probabilmente ha influenzato la forma dello Stato contemporaneo non meno delle altre[50] e le cui tracce sono (largamente) presenti nella nostra Carta Costituzionale; e, il che è parimenti rilevante, le conseguenze di questa sono, oggi più che ieri, e malgrado tutti gli sforzi contrari, common sense.

[1] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929 p. 29 ss. ; J. Barthélemy e Paul Duez Traité de droit constitutionnel Paris 1929 p. 67 ss. ; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie generale de l’État Paris 1929, Tome 2° p. 149 ss.., v. Anche (meno diffusamente) A. Esmein Eléments de droit constitutionnel français et comparé. Paris 1914 p. 281 e 283 ; L. Duguit L’État, le droit objectif et la loi positive, Paris 1901

[2] Ovviamente sintetizziamo, perché in effetti deriva da S. Tommaso, come Barthélemy , Duez  (e Carrè de Malberg ricordano).

[3] « La doctrine du droit divin providentiel ne répugne donc pas nécessairement à la démocratie par la volonté de Dieu, donc divine », Op. cit. p. 68

[4] Barthélemy-Duez op. cit. « Si enfin Saint Paul a dit : « Omnis potestas a Deo », les théologiens ont indiqué le sens de cette parole en ajoutant : « per popolum ». Le pouvoir, qui est de droit divin, appartient au peuple : c’est la thèse de Sain Thomas, de Bellarmin, de Suarez; Carré de Malberg scrive : La parole de saint Paul «omnis potestas a Deo » ne signifie que les Gouvernements ou leurs chefs soient directement créés désignés par Dieu (doctrine du droit divin surnaturel) ; elle ne signifie pas davantage qu’ils soient indirectement  par la façon dont la Providence divine dirige le coirs des éveneméts (droit divin providentiel). Mais, le principe de l’origine divine du pouvoir doit  etre entendu seulement en ce sens, précisé par saint Thomas d’Aquin (Somme théologique, 2° partie,I, question 96, art. 4), que Dieu, ayant créé l’homme sociable, a aussi voulu le pouvoir social, attendu qu’il n’est pas de société qui puisse subsister sans une autorité supérieure douée de la puissance de commander  à chacun en vue du bien de tous. Ainsi, le pouvoir, envisagé en soi, procéde de Dieu ;  il est, en son essence, d’origine divine, en ce que sa nécessité découle des lois memes qui conditionnent l’ordre social, lois dont Dieu est l’auter ;  mais il n’e demeure  pas moins certain que, dans les domaine des réalités positives, le pouvoir ne peut etre organise que par des moyens humains. En d’autres termes, c’est aux hommes qu’il appartit de régler ses formes et ses conditions d’exercice, comme aussi de déterminer ses titulaires ». Op. cit. p. 151

[5] “Questa esigenza si afferma per la prima volta in conseguenza delle dottrine politiche, che si vennero maturando nelle lotte della Riforma. Già altrove fu spiegato come la dottrina calvinistica, che della comunità fa il titolare del reggimento della Chiesa, si sia sviluppata nella Scozia, nell’Olanda ed in Inghilterra in una teoria, la quale rappresenta anche l’ordinamento laico come un prodotto della volontà comune ed eleva la pretesa che al popolo, unificato nello Stato mediante un contratto, debba competere durevolmente il potere supremo nello Stato e che da esso debba anche essere esercitato” G. Jellinek La dottrina generale del diritto dello Stato, trad. it. di M. Petrozziello, Milano 1949, p. 254

[6] v. Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien (i corsivi sono nostri) , trad. it. Torino 1974 pp. 69-71; e così prosegue “ Questa dottrina si presenta nella sua completezza soprattutto presso il geniale e profondo Suarez: Questi fa derivare direttamente e necessariamente il potere sovrano dal “corpo politico e mistico” che gli uomini singoli costituiscono per un atto di unione assolutamente libero, sebbene corrispondente alla ragione naturale e quindi alla volontà divina. Non sono però i singoli che con la loro volontà stabiliscono la sovranità della collettività sopra i propri membri : essi infatti non possiedono inizialmente alcuno dei diritti sorti con la collettività stessa (per es. il diritto di vita e di morte e il vincolo di coscienza), né, volendo l’associazione, possono impedire che divenga sovrana. Ma nemmeno è Dio ad attribuire, con un atto particolare alla collettività (come al Papa), la sovranità, pur essendo, in qualità di “primus auctor”, la fonte di ogni potere. Il potere sovrano spetta piuttosto ad essa “ex vi rationis naturalis”, e Dio lo concede come “ proprietas consequens naturam” , “ medio dictamine rationis naturalis ostendentis, Deum sufficienter providisse hunano generi et consequenter illi dedisse potestatem ad suam conservationem et convenienter gubernationem necessariam”.

[7]  Verfassungslehore, trad. it. di A. Caracciolo,   Milano 1984 p. 112

[8]  Si tenga presente che appare evidente l’ influsso del pensiero teologico su Hobbes, ed ancora più su Spinoza e sui  giusnaturalisti  “giuristi”  come Grozio e Vattel

[9] Qu’est-ce-que le Tièrs état, trad. it. in Opere, tomo I°, Milano 1993, p. 255.

[10] V. F. Suarez De charitate  Disp. 13 De bello sectio VIII° ; v. Anche Juan De Mariana De rege et regis institutione, trad. it., Napoli 1996, Lib. I, cap. VI°, p. 54. S. Tommaso d’Aquino, De regimine principum, Lib. I°, cap. VI°; v. anche F. Suarez Defensio fidei catholicae et apostolicae…, Lib. III, 3 (sulla attribuzione solo alla comunità perfetta del supremo potere civile).

[11]“ Quello che è stato detto è sufficiente a dimostrare che l’uomo ha bisogno delle forze e dell’aiuto altrui, dal momento che da solo non è capace di procurarsi tutti gli aiuti per vivere, nemmeno la più piccola parte di quelli. Si aggiunga a tutto questo la debolezza del suo corpo per respingere le forze esterne ed evitare gli attentati alla sua persona: La vita degli uomini, infatti, non era sicura dalle numerose bestie feroci, quando ancora la terra non era stata coltivata e le erbacce estirpate e distrutte.” v. Juan de Mariana op. cit. p. 18, S. Tommaso op. cit. Cap. I°, “Naturale autem est homini ut sit animal sociale et politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat. Aliis enim animalibus natura praeparavit cibum, tegumenta pilorum defensionem, ut dentes, cornua, unguens, vel saltem velocitament ad fugam. Homo autem institutus est nullo horum sibi a  natura praeparato, sed loco omnium data est ei ratio, per quam sibi haec omnia officio manuum posset praeparare, ad quae omnia praeparanda unus homo non sufficit. Nam unus homo per se sufficienter vitam transigere non posset”; v. anche il Compendio di dottrina sociale della Chiesa dove la tesi è ribadita “ La Chiesa si è confrontata con diverse concezioni dell’autorità, avendo sempre cura di difenderne e di proporne un modello fondato sulla natura sociale delle persone:”Iddio, infatti, ha creato gli esseri umani sociali per natura” e poiché non vi può essere “società che si sostenga, se non c’è chi sovrasti gli altri, muovendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l’autorità che la regga; la quale, non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio”” L’autorità politica  è pertanto necessaria a motivo dei compiti che le sono attribuiti e deve essere una componente positiva ed insostituibile della convivenza civile”” (prgf. 393) (Roma, 2004)

[12] E gli stessi uomini, confidando ciascuno sommamente nelle proprie forze, alla stregua di una bestia feroce e solitaria, che alcuni atterrisce ed altri teme, si appropriarono, senza che nessuno potesse proibirlo, dei beni e della vita dei più deboli, specialmente quando, formata una certa società con altri, le mani di molti irrompevano nei campi, tra le greggi e le case, saccheggiando e rubando ogni cosa, con pericolo anche della vita di chi tentasse resistere loro: Aspetto miserabile della vicenda! Ovunque ladrocini, scorrerie e stragi si esercitavano impunemente senza lasciare alcun riparo all’innocenza ed alla debolezza altrui. Così, poiché la vita di ognuno era esposta ai mali esterni, e neppure i consanguinei tra loro e i congiunti si astenevano da mutue violenze, quanti erano oppressi dai più forti, cominciarono a stringersi con altri in un mutuo accordo di società e a rivolgersi ad uno solo che primeggiasse in giustizia e lealtà, con l’aiuto del quale fossero impediti i soprusi interni ed esterni; dovendo instaurare la giustizia, tutti, dai superiori agli inferiori, furono sottomessi ad una stessa legge. Da qui sorsero per la prima volta l’aggregazione urbana e la regia potestà, che a quel tempo non si ottenevano con ricchezze e intrighi, ma con moderazione, onore e provata virtù ” vJuan de Mariana op. loc. cit.

[13] Reconnaissance et exposition raisonée…..in  Sieyés Opere  cit. p 383 ss.

[14] Così Rousseau vi descrive l’origine della società civile “Questa fu e dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuova forza al ricco, distrussero irrimediabilmente la libertà naturale, stabilirono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, di un’abile usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e per il profitto di alcuni ambiziosi assoggettarono per sempre il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” in R. Parenti “Il pensiero liberale e democratico nei secoli XVII e XVIII°”, Napoli 1973 p. 117.

[15] V. ad es. Esortazione della pace… in Oevreus tomo IV Ginevra p. 157 v. anche “I soldati possono essere in stato di graziaop. cit. p. 243

[16] v. “Pertanto, noi dobbiamo considerare se essere cristiano ed essere magistrato, oppure sovrano di uno Stato,siano cose incompatibili al punto che per essere l’uno, un uomo sia costretto a rinunciare ad essere l’altro. Pongo una prima domanda: se esercitare l’ufficio di magistrato oppure di sovrano di uno Stato è una condizione che contrasta con la vocazione dei credenti, come mai se ne sono valsi i giudici dell’Antico testamento, e così pure i re giusti – come Davide, Ezechia, Iosia – e anche alcuni profeti come Daniele?” Calvino Opere scelte, tomo II, Torino 2006

[17] op. cit. p. 205

[18]Mais si ceux qui, par la volonté de Dieu, vivent sous des princes, et sont leurs sujets naturels, transférent cela a eux, pour etre tentés de faire quelque révolte ou changement, ce sera non seulement une folle et inutile spéculation, mais aussi méchante et pernicieuseL’institution chrétienne, tomoIV Lib.  IV   Cap. XX

[19] “ Car si c’est  son plasir de constituer des rois sur les royaumes, et sur les peuples libres d’autres supérieures quelconques, c’eest à nous de nous rendre sujets et obèissant aux supèrieurs quels qu’ils soient qui domineront au lieu où nous vivrons »  op. ult. cit.

[20]  Politique de Bossuet (Raccolta di brani di Bossuet) Paris, p. 80 – 81

[21] “N’importe, vous etes des dieux, encore que vous mouriez, et votre autorité ne meurt pas; cet esprit de royauté passe tout entier à vos  successeur, et imprime partout la meme crainte, le meme respect, la meme vénération; L’homme meurt, il est vrai; mais le Roi, disons-nous, ne meurt jamais: l’image de Dieu est immortelle” op. cit. P.82

[22] Op. cit. p. 91

[23] Op. cit. p. 111

[24] Op. cit. p. 84

[25] Com’è palese dalla frase (v. sopra). “La nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa”.

[26] v. De Civitate Dei, lib. XIX, cap. XII-XVIII

[27] Op. cit., lib. XIX, cap. XVIII

[28] in Scritti politici, Bologna, 1950, p. 231

[29] E’ bene precisare che anche secondo la concezione del diritto divino soprannaturale, il governante, essendo uomo, è peccatore e comunque soggetto ad errore. La differenza (essenziale) consiste nel quis judicabit?. Infatti secondo la prima è solo Dio che può giudicare il sovrano (v. sopra, in particolare Lutero, che ritiene usurpazione del potere divino da parte dell’uomo giudicare – e ribellarsi – al sovrano); mentre per i teologi – giuristi ricordati il re può essere giudicato – e detronizzato – dalla comunità. Analoghe considerazioni si trovano nelle pagine di Thomas Müntzer “i prìncipi non sono i signori ma i servitori della spada; essi non devono fare ciò che gli aggrada (Deuteroniomio 17:18-20), ma ciò che è giusto. Perciò bisogna, secondo l’antica e buona consuetudine, che il popolo sia presente quando si giudica secondo la legge di Dio (Numeri 15:35). E perché? Qualora le autorità intendessero pervertire il giudizio, allora i cristiani che le stanno intorno devono impedirlo e non tollerarlo, poiché si dovrà rendere conto a Dio del sangue innocente” (Salmo 79:10). V. Scritti politici, Torino 1972, pp. 192-193.

[30] Federalist papers n. 10, trad. It, p. 96; è noto che la tematica del potenziale conflitto d’interessi tra governati e governanti attraverso tutto il pensiero politico e giurispubblicistico, a partire dalla filosofia greca e medievale fino ai giorni nostri, con gli elitisti e la scuola di “public choice”. Per più dettagliati riferimenti ci sia consentito rimandare al nostro scritto “Interesse generale ed espropriazione”  Consiglio di Stato, p. II aprile 1982.

[31] Carré de Malberg op. cit. Tome II p. 167

[32]  Op. cit. p. 29

[33] Op. cit p. 31 In effetti una legge del genere sarebbe oltreché inutile, anche un frutto d’umorismo involontario

[34]  Op. cit. p. 33

[35] V. G. Troisi Spagnoli Vita di Sieyès in Opere, cit. p. 31 (e seguenti)

[36] op. cit. p. 8

[37]Mais notre auteur n’est pas seulement kantiste, il est aussi, il le déclare lui-meme, panthéiste idéaliste et par conséquent moniste. Son monisme va se traduire immédiatement par un second postulat, à savoir que, dans le plan statique, l’Etat et le Droit se confondent.”, op. Cit.  p. 9; e poco dopo “Dans ce système exclusivement idéaliste, les êtres réels disparaissent, n’étant tous représentés que par des ordonnancements de règles.”

[38]N’oublions pas que, pour lui, le plan dynamique reste dominé par le plan statique et que, par suite, les sources du droit positif resteront dominées et limitées par le droit transcendant.” Op. cit. p. 10

[39]Le primat de la liberté est remplacé par celui de l’ordre et de l’autorité. La maxime fondamentale n’est plus: “Tout ce qui n’est pas défendu est permis jusqu’à la limite”, elle est: “Tout ce qui n’est pas conforme à la constitution hypothétique est sans valeur juridique.”, op. cit. p. 11

[40] Almeno a voler considerare gli eventi del 1944 e 1946, e particolarmente il referendum del 2 giugno 1946 come inidoneo e/o illegittimo.

[41] V. Presentazione a «Le categorie del politico” p. 13, Bologna 1972.

[42] Intendiamo come tali quelle che si possono ricondurre all’assunto di poter modificare la natura (umana) come il marxismo o (talune eresie chialiastiche); v. sul punto Behemoth n. 40 (recensione a Gnerre) p. 68.

[43] E’ il caso di ricordare il periodo nei Manoscritti economico filosofici del 1844, di cui quella frase è la conclusione “il comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione”.

[44] Sulle varie accezioni del diritto naturale e sulle forme di giusnaturalismo (per volontà divina, quale legge naturale e quale dottrina della ragione) v. G. Fassò “Giusnaturalismo” in Dizionario di politica, cit. vol. II, p. 94.

[45]On verra dès lors, des organismes sociaux traverser des siècles, alors que leur matière humaine et une grande partie des situations sociales qu’ils contiennent auront été renouvelées, parce qu’ils ont un gouvernement et parce que leurs équilibres essentiels ayant été maintenus, les formes auront survécu”, op. cit. p. 71

[46]Au XIX siècle, l’esprit critique l’avaint emporté sur l’esprit de foi créatrice. Il en est résulté que beaucoup d’Occidentaux se sont pris eux-memes à douter de la valeur de leurs directives. Cette défalillance passagère serait sans importance, si elle ne coincidait pas avec l’esprit de résistance qui se marque chez les populations moins évoluées qui nous entourent. », op. cit. P.55.

[47] Op. cit. p. 56

[48] Op. loc. cit.

[49] « Il est possible que des sociétés nomades, avec leur faible population et leurs habitudes de subsistance à base de produits spontanés, aient vécu sous des régimes communistes; il n’y avait point d’obstacle majeur, puisqu’il n’y avait pas à assurer la production”. Op. cit. p. 43. v.

[50] Fanno eccezione i cenni nella voce “Assolutismo” di  R. De Mattei in Edd, vol. III pp. 917-923, e nella voce “Democrazia” di G. Fassò in Noviss. Digesto it. vol. V p. 442 ss.

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DALLA NOVOROSSYA AL DANUBIO. (1/2), di Daniele Lanza

DALLA NOVOROSSYA AL DANUBIO. (1/2)
(prologo alle note storiche su Moldavia e Romania, ripubb. 2018*)
Illustrando senza impegno qualcosa sulle origini di Odessa ho menzionato Iași (o Jassy) : temo che circa la metà del mio pur colto pubblico ignori cosa sia (tra il pubblico generale il 99,9% credo, quindi su col morale), ma non c’è dramma si rimedia in un attimo : si tratta di una modesta cittadina ad est dei Carpazi, entro i confini dell’attuale Romania.
In tal luogo, dopo un lustro di conflitto tra russi ed ottomani, viene firmato un trattato di pace che determina la cessione da parte turca della regione costiera tra il DNEPR e il DNESTR (primo fiume di Ucraina e primo fiume di Moldavia, rispettivamente) : tale territorio, chiamato “Yedisan” sotto amministrazione ottomana, è pertanto annesso all’impero di Russia dal 1792 e nella nuova compagine è ribattezzato “Херсонская губерния” (governatorato di Xerson).
Questo nuovo governatorato non si intende essere una qualsiasi unità amministrativa risultato di un temporaneo successo militare, ma si colloca a sua volta nel più ambizioso progetto di colonizzazione voluto dall’imperatrice Caterina II in persona (la Novorossiya, per l’appunto….che poi, ancora a sua volta, è un primo grande tassello di un gioco geopolitico e culturale smisurato come il piano di “rinascita greca” vagheggiato dalla nostra visionaria monarca, finalizzato al riaffermarsi di Costantinopoli) : in tale contesto sorgono nuovi centri abitati il più importante dei quali sarà Odessa, fondata appena 2 anni dopo il trattato di pace (1794). Una marcia lunga, mitologica (!) non solo in senso geografico, quanto morale, spirituale, quella sognata dall’imperatrice dal palazzo d’inverno, verso le porte di Bisanzio. Di tutto questo abbiamo già accennato.
A questo punto occorre scrutare l’intero scacchiere geografico da una prospettiva più globale al fine di ottenere una visione di insieme che consenta di gestire quel groviglio di fatti e relazioni alla base degli eventi che seguiranno (prestar attenzione pertanto).
Il 18° secolo volge al termine, consegnando a quello che segue un quadro denso di incognite, tanto ad occidente quanto a oriente : se ad un capo del continente osserviamo le macerie di una Francia rivoluzionaria prossima alla rinascita sotto le ali di una piccola fenice che sorge dalla Corsica (…), dall’altro si assiste all’atto di morte del regno lituano-polacco, il cui annullamento porta via con sé anche il fondamentale punto di equilibrio tra potenze vigente nell’Europa centro-orientale da quasi 400 anni.
Di questa disintegrazione definitiva si avvantaggiano le “tre aquile” (Prussia, Austria, Russia) : queste si contendono con bel garbo, pianificatamente, le spoglie polacche : per quanto concerne la Russia imperiale significa un generale spostamento dei confini verso occidente……
Questo è il punto : il tramonto della tarda età moderna vede il continente zarista più prossimo che in passato ai gangli vitali d’Europa, oramai a stretto contatto con i principali attori che regolano l’esistenza del vecchio mondo. Non si tratta più di assorbire o annettere vaste aree disabitate dell’Asia boreale o centrale e sottometterne le popolazioni (sovente allo stadio tribale), bensì di mirare regioni comparativamente minuscole ma DENSAMENTE abitate, anticamente civilizzate e già possesso di potenze militari più moderne che la Russia stessa. Le facili conquiste NON riguardavano certo il vecchio continente, dove conquistare una provincia richiedeva assai più risorse che non annettere una regione 20 volte più estesa in SIBERIA o in estremo oriente (per fare un confronto).
Ora, l’esito della guerra russo-turca prima accennata (1787-92) che si conclude con la creazione del governatorato di Kherson e la fondazione di Odessa, si inserisce a suo modo nel trend globale appena accennato : i successori di Caterina II avranno a che fare (sul mar Nero) con un confine maggiormente esteso sì, ma ora anche a distanza ravvicinata coi possedimenti ottomani sul continente : in pratica l’impero russo ora confina direttamente con i BALCANI sotto dominio del Sultano, punto troppo nevralgico per non causare problemi futuri (e così sarà).
Visualizziamo questo per iniziare : alla vigilia della collisione russo-turca, la porzione più nord-orientale dei domini ottomani nei Balcani (in realtà già fuori di essi) comprende 2 principalità, ossia territori autonomi , ma formalmente ancora sotto l’egida del sultano : MOLDAVIA e VALACCHIA……..
(continua)
PARLAMENTO MOLDAVO DICHIARA IL ROMENO LINGUA UFFICIALE.
(lettura consigliata*) = Passa in prima lettura il disegno di legge per modificare la costituzione della Moldavia in merito all’idioma nazionale, designandolo come “rumeno” anzichè “moldavo”: l’iniziativa è presa dal principale partito filoeuropeo, mentre immediata è la reazione del blocco social-comunista filorusso dall’altra sponda (…).
D’accordo, inutile girarci attorno: il moldavo e il rumeno sono la STESSA lingua, lo si sa da sempre.
Il problema è che la volontà di aggiornare la costituzione moldava proprio ora ha a che fare con la politica e non con la linguistica e il suo iter svela più una strada di compromessi e doppi standard che non genuini intenti.
La Moldavia in quanto stato, emerge dalla grande casa sovietica nel 1991, sull’onda del grido “Libertà ai popoli” (se si considera l’URSS un “impero”, come la vedeva Washington, e sorvolando sul fatto che al referendum autonomo sul mantenimento dell’unione quel medesimo anno, una buona parte di moldavi si espresse per il mantenimento della Cccp).
Nasce dunque come stato nazionale (ossia per principio di indipendenza propria) e non come “regione irredenta” della vicina Romania (ossia non in funzione dell’unificazione ad un altro stato), riunificazione alla quale non viene presa in considerazione dal nuovo governo moldavo e nemmeno sostenuta dall’occidente per i molti anni a seguire (per due ragioni in essenza: in primo luogo la non necessità dato che l’area in sè sullo scacchiere bellico contava molto poco……venendo quindi semplicemente dimenticata. Il fatto stesso che la crisi della Transnistria sia stata snobbata per decenni ne è un segnale). In secondo luogo, dato che la Romania all’epoca ancora non era nell’Alleanza atlantica e non sarebbe stato saggio promuovere un espansionismo rumeno verso est senza prima aver garanzia assoluta di fedeltà.
Adesso, sull’onda degli eventi, lo scacchiere moldavo (dimenticato per 30 anni letteralmente), acquisisce un valore, proprio per la questione Transnistria e degli armamenti che racchiude a Tiraspol: conviene quindi che stato moldavo diventi parte dello scudo atlantico contro il Cremlino è chiarissimo. DEVE essere così. Ma come fare ? L’Ucraina non può semplicemente invadere la Transinistria: sarebbe una mossa imbarazzante che metterebbe in discussione lo status di “vittima pacifica” di cui Kiev si serve da un anno con ottimo successo.
Allora si rispolvera il piano B (!): in fondo Moldavia e Romania sarebbero sorelle su un piano etno-linguistico…non ci sarebbe quindi nulla di male se VOLONTARIAMENTE lo stato moldavo volesse ricongiungersi a quello rumeno. La volontà dei popoli non si può negare ! Sarebbe democratico ! E così assorbendo la Moldavia nella Romania si ottiene di farne entrare il territorio automaticamente nell’ombrello Nato, senza nemmeno dover passare traverso un iter burocratico (la Romania è già membro infatti). I confini dell’Alleanza atlantica si ritroverebbero così ulteriormente espansi verso oriente, in pieno spirito democratico (come in tutti gli altri casi dell’est Europa, fino ad oggi).
Viva gli irredentismi dunque ?
Solo, di che genere di irredentismi parliamo ? Storico/culturale o culturale/politico ?
La Moldavia era sotto l’ombrello russo da molto prima che l’Unione Sovietica: lo era sin dai tempi dell’impero zarista, da quasi un secolo, quando fu strappata all’impero ottomano. Un’area che acquisisce una sua modernizzazione entro le maglie dello stato russo/sovietico in seguito (entra nella contemporaneità in simbiosi ad esso). La Moldavia esiste per via di questo sviluppo separato rispetto alla vicina Romania: un percorso divergente in un’era cruciale per lo svilupparsi delle identità nazionali. La Moldavia non sarà Russia (benchè il 90% delle persone sa esprimersi in quella lingua), ma non è nemmeno più Romania, questo è il problema non compreso.
Ora, si vuole TAGLIARE nettamente con tutto questo, ignorare tali considerazioni e dare prevalenza al fattore etno-linguistico ?
Allora……perchè non anche l’Austria e la Germania ? Parlano la medesima lingua.
E perchè non Russia e Ucraina ? Sono state in simbiosi per 500 anni (non come colonia).
Signori……….gli irredentismi valgono per tutti alle stesse regole, altrimenti approviamo pericolosi doppi standard.

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EUTANASIA DI UNA RIVOLUZIONE?_di Teodoro Klitsche de la Grange

EUTANASIA DI UNA RIVOLUZIONE?

Sono fioccati abbondantemente i commenti all’elezione di Elly Schlein a segretaria del PD. Molti lieti, altri perplessi, altri ancora (meno) per lo più profetizzanti un compito in salita per l’esordiente leader.

Qualche mese fa scrivevo, sull’insuccesso di Letta, che questo, più che alle proposte (ed alla “immagine”) del medesimo, era causato dal “ciclo” storico-politico. Per cui tra Repubblica “nata dalla resistenza” (ma con l’utero in affitto a Yalta) e comunismo (imploso nel 1989-1991) cioè padre e madre del PCI e, in genere, parenti stretti della sinistra italiana il PD si trovava con il secondo morto, ma anche la prima stava tutt’altro che bene.

Per cui, nuotando controcorrente, era molto difficile trovare un capo con le qualità personali volte a invertire un andamento (generale) consolidato.

E il tutto va confermato per la Schlein; anzi, l’ “immagine” della stessa può accelerare il destino del PD. Vediamo perché.

Ne Il suicidio della Rivoluzione, Del Noce scriveva che “l’esito dell’eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata”. Profezia avverata perché oggi il postmarxismo è quel “partito radicale di massa” che riceve il sostegno della grande finanza internazionale; la conseguenza è che il vecchio PCI sarebbe finito “nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali”.

A distanza di quasi cinquant’anni occorre riconoscere che la profezia di Del Noce si è realizzata, e la scelta della segretaria ne è l’ennesima conferma. Anzi l’incarnazione perché riassume in sé  tutti i connotati dell’ “ideologia” del PD: si dice sia LGBT, è sicuramente di buona famiglia borghese, ha tre passaporti, ha compiuto parte degli studi all’estero. Partecipa quale primo atto alla manifestazione antifascista. È inutile ricordare quanto scriveva Del Noce sull’antifascismo, citando Bordiga: che Gramsci “sostituendo” all’opposizione capitale/proletariato quella fascismo/antifascismo  aveva dato “vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici”. E questa borghesia che Gramsci credeva di arruolare (e invece ha arruolato il PD) non è quella di Marx e neppure di altri pensatori, ma è quella in cui lo spirito borghese si manifesta finalmente allo stato puro; “in cui realizza pienamente quel che già aveva fatto per la natura, abolendo il mistero e la qualità, e sostituendoli con dati misurabili, quantitativi. L’ideologia spontanea della borghesia è il materialismo puro, il positivismo attento unicamente ai nudi fatti”; e il cui dominio  si esercita in una forma totalitaria che agisce più col condizionamento/indottrinamento culturale (l’egemonia) che con la coazione (anche se dissimulata, ma non del tutto assente).

In secondo luogo la Schlein, come ogni segretaria che il PD avesse scelto, dovrebbe far dimenticare il fallimento di tanti anni di potere (e di governo) della Seconda Repubblica, così deludenti in particolare per i ceti medi e popolari. Ma nulla dell’immagine della Schlein induce a suggerire un’identificazione dei suddetti ceti con la leader. È così difficile perché – e questo è il terzo aspetto – negli ultimi 8 anni si è concretizzato in Italia un blocco sociale tra ceti medi e popolari che è largamente maggioritario e anche coeso. La coesione dipende prevalentemente dal fatto di percepire come avversari coloro che costituiscono il blocco “globalista”.

L’unica speranza è, come normale in politica, dissolvere il blocco avverso, applicare il divide et impera (cioè la riduzione del numero e della potenza dell’avversario).

Ma questa è la manovra più difficile, perché la sostituzione dell’opposizione amico/nemico è cosa che attiene più al zeitgeist che alle manovre di palazzo. In queste il PD e il sui personale politico era (ed è) maestro: in quella non c’è un Principe che la possa fare.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Guerra russo-ucraina: l’offensiva di Schrödinger, di Big Serge

Guerra russo-ucraina: l’offensiva di Schrödinger

Una divagazione sulla struttura delle forze, sulla Moldavia e su una fortezza nella steppa

di Big Serge

https://bigserge.substack.com/p/russo-ukrainian-war-Schrödingers

1 Guerra invernale nella steppa

 

Dov’è la grande offensiva russa? Questa è, al momento, la domanda da un milione di dollari che inevitabilmente si intromette in qualsiasi discussione sull’attuale corso della guerra. Probabilmente non è sorprendente (almeno per coloro che conoscono la natura umana) che questa domanda diventi un test di Rorschach in cui ognuno legge le sue proprie ipotesi sull’esercito russo.

 

Le risposte a questa domanda sono in effetti molto diverse. Da un lato, c’è chi crede che centinaia di migliaia di truppe russe siano pronte a lanciare un’enorme offensiva, una “grande freccia sulla mappa” in qualsiasi momento. Lo dicono sia commentatori come il colonnello statunitense in pensione Douglas MacGregor sia alcune fonti ucraine, che probabilmente cercano di fomentare un senso di urgenza per ottenere maggiori aiuti dall’Occidente. All’estremo opposto, c’è chi sostiene che le forze armate russe sono talmente esaurite che non ci sarà alcuna offensiva. Ci sono anche alcuni esponenti dell’intellighenzia occidentale del Ministero dell’Illuminazione Pubblica e della Propaganda del Reich, come l’Istituto Nuland per lo Studio della Guerra o Michael Koffman, che sostengono che l’offensiva sia già iniziata, ma che sia così debole e zoppa che nessuno se n’è accorto.

Ok. Quindi, o un’offensiva gigantesca avverrà da un momento all’altro (potrebbe essere appena iniziata mentre scrivo), o non avverrà mai, o è già avvenuta, o forse è in uno stato di sovrapposizione quantistica in cui è sia riuscita che fallita, almeno finché non apriamo la scatola.

 

Una questione davvero spinosa. Al momento si stanno svolgendo molti combattimenti importanti e intensi in diversi settori del fronte – ma che relazione hanno queste operazioni con qualsiasi azione da “grandi frecce sulla mappa” da parte dei russi? Si tratta di un antipasto o di un’entrée poco soddisfacente?

 

Vorrei suggerire un’alternativa a tutte queste teorie, perché ciò di cui il mondo ha più bisogno in questo momento sono più opinioni.

 

Al momento, la Russia ha l’iniziativa su tutto il fronte. Le riserve dell’Ucraina sono in uno stato precario (soprattutto in considerazione del mandato politicamente imposto di cercare di accumulare forze per un’offensiva contro il ponte di terra verso la Crimea) e la Russia sta conducendo combattimenti ad alta intensità in settori importanti.

 

Queste operazioni, a mio avviso, servono contemporaneamente a tre scopi diversi. In primo luogo, sono operazioni di modellamento del campo di battaglia di per sé preziose, che hanno importanti implicazioni per il lancio di operazioni future. In secondo luogo, funzionano essenzialmente come attacchi di disturbo, in quanto mantengono alto il tasso di combustione al fronte e degradano la capacità dell’Ucraina di formare riserve. Come in una sorta di metafora, già si vocifera che alcuni dei nuovi carri armati Leopard ucraini saranno inviati in combattimento intorno a Bakhmut piuttosto che tenuti in riserva per una futura offensiva. Che la voce sui Leopard sia vera o meno, in termini di uomini l’Ucraina continua a pompare unità a Bakhmut, in uno spreco di uomini inconcepibile. In terzo e ultimo luogo, tutti i combattimenti a est si svolgono sotto un ombrello in cui le linee di rifornimento e l’ISR della Russia sono robusti, creando condizioni in cui l’Ucraina continua a operare con un rapporto di perdite abissale, rispetto ai russi.

 

La sintesi di tutti questi punti è che la Russia sta attualmente conducendo il logoramento dell’esercito ucraino e negando all’Ucraina qualsiasi possibilità di riguadagnare l’iniziativa operativa, perseguendo allo stesso tempo importanti obiettivi di modellamento del campo di battaglia. Ritengo che ciò avvenga sullo sfondo di un moderato, ma non catastrofico, disordine organizzativo e di una ristrutturazione delle forze armate russe, che stanno ritardando la disponibilità russa a lanciare un’offensiva su larga scala. In altre parole, l’attuale ritmo delle operazioni russe ottiene il logoramento generale delle truppe ucraine e implica che non sia necessario affrettare un’operazione ambiziosa fino a quando i problemi organizzativi non saranno risolti.

 

Nel resto di questo spazio, vorrei esaminare quali sono queste considerazioni organizzative ed esaminare due delle operazioni russe in corso (sugli assi Ugledar e Kreminna), esaminandole su una scala abbastanza ravvicinata. Accenneremo anche brevemente alle bizzarre voci di un imminente allargamento della guerra verso la Moldavia.

 

Mi scuso per il tempo che a volte trascorre tra un articolo e l’altro, ma come vedrete la mia scrittura spesso va in metastasi e queste voci diventano molto più lunghe di quanto inizialmente previsto, e potrebbero tecnicamente qualificarsi come novelle, in base al numero di parole. In ogni caso, spero che il volume e la qualità dei contenuti possano compensare l’intervallo, e in caso contrario la sezione dei commenti è aperta per esprimere il vostro disappunto e le vostre polemiche anti-Serge.

 

Organizzare un esercito

Per i giovani uomini, il fascino della guerra attraversa fasi distinte. Nella maggior parte dei casi inizia con l’equipaggiamento e la visione delle battaglie con “grandi frecce sul campo di battaglia”. Le dimensioni dei cannoni dei carri armati della Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, rivestono probabilmente un interesse sproporzionato, tra i ragazzi di 8-16 anni. Loro vogliono soprattutto sapere delle grandi battaglie, dei grandi schemi di movimento e dei grandi cannoni.

 

Col tempo, però, si arriva alla conclusione ineluttabile che gli eserciti hanno una spina dorsale intensamente burocratica e che fattori apparentemente banali come la composizione delle unità, la logistica delle retrovie e gli organigrammi hanno enormi implicazioni sul campo di battaglia. È qui che entrano in gioco le temute tabelle dell’ordine di battaglia e i diagrammi delle unità, e inevitabilmente si deve iniziare a memorizzare il significato di quella miriade di piccoli simboli. Alla fine ci si rende conto che la costruzione delle unità e altri fattori organizzativi sono, entro i limiti del ragionevole, molto più importanti delle minuzie dell’equipaggiamento e degli armamenti, e che avreste dovuto contemplare gli aspetti burocratici per tutto il tempo, e che (tragicamente) la dimensione del cannone del carro armato Sherman Firefly non è stata in realtà un fattore particolarmente decisivo nella storia del mondo.

 

Per la cronaca, è ancora bello.

 

La Russia sta attualmente risolvendo i problemi organizzativi creati dal modello unico di servizio misto del Paese (che mescola soldati a contratto e soldati di leva), e in particolare il logorante Gruppo Tattico di Battaglione (BTG).

 

Ho parlato a lungo del Gruppo tattico di battaglione in un precedente articolo, ma ricapitoliamo brevemente. L’esercito russo utilizza un modello misto di soldati professionisti a contratto e di leva, e questi due tipi di personale hanno un’importante differenziazione legale. I soldati di leva non possono essere impiegati in combattimento al di fuori della Russia senza una dichiarazione di guerra. Ciò significa che una data unità russa (usiamo una brigata come esempio standard) ha una forza completa (“sulla carta”) composta da personale misto e un nucleo di soldati a contratto che può essere schierato all’estero. La questione per la leadership russa diventa quindi come progettare queste unità per combattere senza i loro soldati di leva. La risposta a questo problema è stata il Gruppo tattico di battaglione, una formazione derivata che si stacca (se vogliamo) dalla brigata. La progettazione di queste unità ha naturalmente altre considerazioni, ma la preoccupazione di base che ha spinto alla creazione del BTG è stata la necessità di creare una forza che potesse combattere senza i suoi coscritti.

 

Il BTG, come è stato notato, è pesante in termini di potenza di fuoco, con un forte complemento organico di pezzi d’artiglieria e veicoli corazzati, ma eccezionalmente leggero in termini di fanteria. Questo ha implicazioni sia per le operazioni offensive che per quelle difensive, come abbiamo visto molto chiaramente nei primi nove mesi di guerra in Ucraina.

 

In difesa, il BTG (essendo povero di fanteria) deve combattere da dietro un sottile schermo e infliggere sconfitte al nemico con il suo fuoco a distanza. Non si tratta di un’unità in grado di combattere con tenacia per mantenere le posizioni avanzate, ma di un’unità costruita per sbriciolare l’attaccante. Più in generale, tuttavia, i BTG sono unità fragili, nel senso che perdite relativamente basse di fanteria o carri armati li rendono inadatti a ulteriori compiti di combattimento. Questo rende l’unità una specie di cannone di vetro: capace di erogare una potenza di fuoco enorme, ma non in grado di sostenere le operazioni dopo perdite moderate. Essendo un’unità fondamentalmente “dimagrita”, fatica a sostenere e recuperare la capacità di combattimento senza ruotare nelle retrovie per ricevere rimpiazzi o cannibalizzare altre unità.

 

In un certo senso, questo è ciò che ci si aspetterebbe dati i vincoli del modello di coscrizione e contratto, che per sua stessa natura ha costretto i russi a progettare un’unità ridotta e leggera dal punto di vista degli effettivi rispetto alle loro brigate a piena forza. Questo è il motivo per cui la Russia aveva una generale scarsità di truppe che ha iniziato a compromettere la sua efficacia operativa complessiva nell’estate del 2022, quando la mobilitazione ucraina e gli aiuti occidentali hanno portato a un enorme vantaggio numerico dell’esercito ucraino. All’apice, la prima fase della guerra ha visto probabilmente non più di 80.000 effettivi russi regolari in Ucraina, e anche con la DNR, la LNR e il gruppo Wagner che fornivano un cuscinetto di fanteria, la forza russa totale era in inferiorità numerica di almeno 3 a 1. Il BTG poteva ancora infliggere danni enormi, ma la strutturazione delle forze in Ucraina era semplicemente insufficiente per l’ampiezza del teatro d’operazioni, il che portò a svuotare un’enorme sezione del fronte a Kharkov. Da qui la mobilitazione.

2Il BTG si è rivelato un’unità potente ma fragile.

È qui che cominciano ad apparire i segni di problemi organizzativi. Era giunto il momento, con la mobilitazione che finalmente forniva alla Russia le truppe schierabili di cui aveva bisogno, di abbandonare i BTG poveri di fanteria e iniziare a condurre operazioni con grandi unità, ma è chiaro che il processo organizzativo per incorporare il personale mobilitato nell’esercito e assemblare grandi unità (brigate e superiori) non è stato efficiente. I mobilitati sembrano essere stati inizialmente utilizzati in vari modi. Alcuni sono stati inviati alle unità esistenti nella zona di operazioni come rimpiazzi, altri sono stati inseriti in nuove unità composte interamente da personale mobilitato. Il risultato è un’accozzaglia di unità variegate che devono ancora essere organizzate in grandi unità per le operazioni offensive.

 

Probabilmente c’era da aspettarsi un po’ di caos, dato che nessuno oggi in vita ha esperienza nel condurre una mobilitazione generale per una guerra continentale, e l’intero processo per la Russia è un po’ complicato a causa delle molte classi diverse di personale e della barriera legale all’utilizzo dei coscritti. In generale, tuttavia, sembra chiaro che il processo di ritorno dall’esercito di spedizione con BTG ridotti a formazioni madri più grandi è stato inefficiente, e che la Russia sta ancora attraversando la fase di formazione di grandi unità. Inoltre, permane un certo ritardo nella consegna di veicoli da combattimento di fanteria aggiornati (soprattutto BMP) alle unità di fucilieri motorizzati in formazione.

 

In questo contesto, il Ministro della Difesa russo Sergei Shoygu ha annunciato un nuovo programma di riorganizzazione militare. Forse il punto più significativo della lista dei cambiamenti è la decisione di iniziare a convertire le brigate esistenti in divisioni. Può sembrare una vanità burocratica, ma non è così. Discutiamone.

 

Alla fine della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica disponeva dell’esercito più grande e potente del mondo, in grado di schierare milioni di uomini, armati fino ai denti e con scorte ineguagliabili di ogni tipo di equipaggiamento pesante. Il fatto che questo potente apparato militare non abbia visto praticamente nessun ammutinamento o rottura alla fine, e che non sia stato impiegato per preservare il sistema comunista, è una delle grandi curiosità della storia moderna, ma questa è una storia per un’altra volta.

 

In ogni caso, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia ha ereditato la maggior parte dell’eredità militare sovietica, ma tra le turbolenze economiche e il disagio generale della società, non poteva permettersi di mantenere attiva questa forza massiccia (né aveva gli uomini, avendo perso l’accesso a gran parte del bacino di reclutamento sovietico). Questo portò Mosca a convertire gran parte dell’esercito sovietico in quelle che sono note come “formazioni di quadri”: in sostanza, una particolare divisione sarebbe stata ridotta a uno scheletro di personale (poche centinaia di persone, per lo più ufficiali e sottufficiali) che avrebbe costituito il nucleo attorno al quale la divisione sarebbe stata riportata alla forza di combattimento. In questo modo, le enormi divisioni sovietiche potevano essere ridotte a magazzini pieni di equipaggiamento e a un piccolo gruppo di quadri, mettendo più o meno in ibernazione la divisione per un uso futuro.

 

Nel 2008, la Russia ha intrapreso un’importante ristrutturazione militare sotto la guida dell’ex ministro della Difesa Anatoly Serdyukov. Le riforme del 2008 sono state un tentativo tardivo di abbandonare l’esercito sovietico. Gli elementi della riorganizzazione comprendevano l’eliminazione delle divisioni di quadri e la conversione di tutte le divisioni esistenti in brigate. In questo modo la Russia si allontanò dalla struttura delle divisioni sovietiche per passare a un modello di brigata più occidentale.

 

Il duplice effetto dell’eliminazione delle formazioni di quadri e del ridimensionamento delle divisioni in brigate fu quello di snellire un corpo ufficiali troppo gonfio e di creare una forza più snella. Sebbene siano state mantenute alcune divisioni, queste erano l’eccezione piuttosto che la regola. In generale, una brigata russa è grande forse il 40-50% di una divisione di tipo equivalente: ad esempio, una divisione di fucilieri motorizzati può essere forte di 8.500 uomini, ma una brigata di fucilierimotorizzati può essere di circa 3.500-4.000 uomini.

 

Il ridimensionamento delle divisioni in brigate è stato vantaggioso in tempo di pace, in quanto ha ridotto i costi di un corpo ufficiali gonfio e sovraccarico, e in generale ha sostenuto il regime di austerità della Russia. Gli eserciti, tuttavia, sono costruiti per la guerra.

 

La leadership russa ha chiaramente concluso che l’esercito ridotto, con pochi uomini, non è adeguato per una guerra ad alta intensità. Ciò corrisponde alla lezione generale appresa da tutte le parti coinvolte: la guerra è ancora un’impresa industriale e il successo richiede la massa – grandi unità che sparano molti proiettili. Pertanto, l’ammissione da parte della NATO che la spesa per le munizioni supera di gran lunga la loro capacità produttiva e la decisione della Russia di espandere l’esercito sono due facce della stessa medaglia.

3 Sergej Shoigu, MInistro della Difesa della Federazione Russa

Questo ci riporta all’annuncio di Shoigu che le brigate esistenti saranno riconvertite in divisioni, annullando di fatto un elemento chiave delle riforme del 2008. L’esperienza russa in Ucraina ha dimostrato che le unità ridotte non sono abbastanza robuste (soprattutto in termini di uomini) per sostenersi adeguatamente in combattimento.

 

Il quadro che emerge è quello di un esercito russo che cerca di gestire tre diverse transizioni contemporaneamente. Vale a dire: (1) l’ingresso di un gran numero di personale mobilitato che deve essere organizzato in grandi unità capaci di operazioni offensive, (2) un’espansione complessiva e la riorganizzazione dell’esercito in una struttura divisionale, e (3) una massiccia espansione della produzione di armamenti, con il complesso militare-industriale russo che si riattrezza per produrre un mix di sistemi basati sull’esperienza di combattimento in Ucraina.

 

Sembra che il verdetto più probabile sia che, al momento, queste sfide organizzative non siano completamente risolte, limitando l’attività immediata russa alle operazioni di modellamento del campo di battaglia e al mantenimento di battaglie d’attrito in fosse della morte (come Bakhmut) sotto la copertura dell’ombrello ISR e della potenza di fuoco della Russia a est. Questo continuerà fino a quando le unità regolari di fucilieri e carri armati non saranno pronte per le operazioni di attacco.

 

Per questo motivo, al momento, gran parte dei compiti offensivi della Russia sono gestiti da unità che si trovano all’estremità alta e bassa dello spettro delle unità, ovvero unità d’élite come i VDV (aviotrasportati) e i Marines, o unità irregolari come i Wagner e la DNR/LNR. Il gradino intermedio della scala – le unità regolari di fucilieri motorizzati – sono per lo più visibili in posizioni difensive.

 

Questo non vuol dire che la mobilitazione non abbia già avuto un effetto importante sul campo di battaglia. Le condizioni che hanno permesso l’offensiva ucraina nell’oblast di Kharkov lo scorso autunno sono state corrette. Non ci sono più sezioni di fronte assottigliate e le posizioni della Russia sono ora adeguatamente presidiate. A tutt’oggi l’Ucraina non è ancora riuscita a sfondare una posizione russa fortemente presidiata, e la mobilitazione ha permesso alla Russia di presidiare finalmente in modo adeguato l’enorme fronte. Tuttavia, non ha portato a un aumento visibile della generazione di forze offensive, e sembra che ciò sia dovuto in larga misura al caos organizzativo associato al ritorno dai BTG alle brigate e alle divisioni.

 

Dal punto di vista russo, questa è la cattiva notizia. La buona notizia è che, anche se gran parte dell’esercito mobilitato è ancora in uno stato di flusso organizzativo, la forza di combattimento russa è più che sufficiente per sostenere i combattimenti sugli assi esistenti, interrompendo i tentativi dell’Ucraina di accumulare riserve e di perseguire importanti obiettivi di formazione.

 

Persi nei boschi

Mentre il mondo discute all’infinito sull’offensiva di Schrödinger, qualcosa di significativo si sta perdendo. A prescindere dall’assenza, ora o in futuro, di “grandi frecce” che facciano bella figura su una mappa, i combattimenti in corso nel Donbass sono molto importanti dal punto di vista operativo. Restringiamo il campo d’azione e guardiamo a un piccolo tratto di fronte poco amato e pensiamo a ciò che sta accadendo in quel momento. In particolare, vorrei esaminare l’asse di Kreminna.

 

Kreminna è una piccola città di non più di 20.000 abitanti (prima della guerra) con una posizione alquanto fortunata. Si trova vicino al confine tra gli oblast di Lugansk e Donetsk, e in particolare occupa il punto in cui una linea ferroviaria critica si avvicina all’elemento geografico dominante della zona, che è il fiume Donets (alternativamente chiamato fiume Severodonetsk).

 

I fiumi sono sempre importanti, ma il Donets lo è in modo particolare, perché le sue sponde – in particolare quella settentrionale – sono sede di una fitta cintura forestale (in parte naturale, ma in gran parte costituita da piantagioni). Questa foresta è diventata un elemento critico dei combattimenti in questo settore.

4 Foresta di Donets

Nell’estate del 2022, zone boschive come questa sono diventate uno dei primi segnali della necessità per la Russia di aumentare il proprio dispiegamento di forze in Ucraina. Sia in questa fascia lungo il Donets che in una zona forestale simile intorno a Izyum, le forze russe hanno avuto difficoltà a sigillare completamente il fronte e a mettere in sicurezza le foreste. Ciò è dovuto in gran parte a due fattori. In primo luogo, le foreste fitte indeboliscono necessariamente l’ISR (Intelligence, Surveillance, & Reconnaissance) russo oscurando la visibilità. Il secondo fattore (strettamente correlato) era la scarsità di fanteria della Russia. Poiché le forze russe iniziali erano decisamente sotto organico per quanto riguarda la fanteria, l’esercito russo preferiva combattere con uno schermo leggero di fanteria dietro il quale si poteva dirigere il fuoco a distanza – uno schema generale che si rompe nei boschi, dove l’ISR è debole e non ci sono fanterie sufficienti per presidiare linee continue.

 

Tutto questo per dire che nell’estate del 2022 queste fasce boschive erano un ambiente problematico per le forze russe. Ora, però, hanno posto rimedio alle loro carenze di uomini e si trovano in una posizione in cui la sicurezza della cintura forestale del Donets è un’alta priorità operativa. Questo perché la fascia corre orizzontalmente (cioè in direzione est-ovest) sotto l’asse di avanzata della Russia verso Lyman.

 

Kreminna è diventato un settore di combattimenti ad alta intensità negli ultimi mesi, essendo forse l’unico asse in cui l’Ucraina aveva qualche prospettiva realistica di ottenere un risultato decisivo dal punto di vista operativo, con la linea ferroviaria per Lysychansk apparentemente a portata di mano. Questo ha fatto precipitare una serie di attacchi ucraini falliti sulla stessa Kreminna, che sono crollati con pesanti perdite di vite umane, prima che la Russia iniziasse a spingersi verso ovest sull’asse di ritorno verso Lyman.

 

La foresta, tuttavia, complica le cose. L’Ucraina ha libero accesso all’attraversamento della foresta perché controlla la riva meridionale del fiume Donets. Potendo rinforzare e sostenere i gruppi di combattimento nella fascia di foresta, l’Ucraina è in grado di fare pressione sul fianco di qualsiasi attacco russo prolungato verso ovest, in direzione di Lyman. È per questo che nelle ultime settimane gli sforzi russi verso ovest si sono affievoliti a favore di attacchi verso sud, nei boschi stessi.

 

È chiaro che sigillare questa foresta è un compito critico che deve essere raggiunto prima di poter continuare l’offensiva verso Lyman (a sua volta un obiettivo operativo intermedio cruciale prima dell’assalto alla linea di Slavyansk). Fortunatamente per la Russia, essa ha un modo per raggiungere questo obiettivo che sarà più facile di una lotta prolungata nei boschi. Il sostegno ucraino nella cintura forestale si basa sul controllo della riva meridionale del fiume Donets, ma le linee russe sono attualmente a soli cinque chilometri di distanza a Zolotarivka.

L’intero fronte diventa una lezione istruttiva sull’interconnessione di tali operazioni e sulla natura cruciale di queste battaglie, che spesso vengono liquidate come semplici “operazioni di modellamento”, combattute per obiettivi piccoli e insignificanti.

Un attacco russo su direttrice nord-occidentale verso la riva meridionale del fiume Donets punterebbe a piccoli insediamenti dai nomi dimenticabili come Serebryanka e Grygorivka. Di certo, la cattura di tali villaggi difficilmente incuterà il timore di Dio nei Jake Sullivan e nelle Victoria Nuland del mondo – temo che nulla di terreno possa farlo. Tuttavia, una spinta russa verso la sponda meridionale del fiume interromperà le rotte utilizzate per sostenere le forze ucraine nella fascia forestale sulla sponda *nord* del fiume. Questo, a sua volta, permetterebbe alle forze russe uscite da Kreminna di mettere in sicurezza la fascia forestale e di neutralizzare la minaccia sul loro fianco sinistro, mentre riprendono le azioni di attacco a ovest verso Lyman. Non hanno nemmeno bisogno di catturare Lyman stessa nel breve termine, perché raggiungere il villaggio di Yampil sarebbe sufficiente per tagliare l’ultima arteria di rifornimento rimasta a Siversk (le vie meridionali sono state interrotte dalle forze russe intorno a Bakhmut) e creare le condizioni per la Russia di liquidare l’intero saliente di Siversk.

 

In breve, questa zona forestale e il corridoio da Kreminna a Lyman fungono da cerniera tra i fronti di Lugansk e Donetsk, e ancora più specificamente questa fascia forestale direttamente lungo il fiume Donets funge da cerniera tra Kreminna e Siversk. Nel 2022, questo era il tipo di terreno che l’Ucraina riusciva a sfruttare grazie alla composizione della fanteria leggera russa. Ora che questo problema è stato risolto, la Russia ha le forze per proteggere adeguatamente queste foreste e può accelerare questo processo interrompendo i passaggi fluviali su cui l’Ucraina fa affidamento per sostenere le sue unità nella fascia forestale.

Ugledar: Anatomia di una battaglia

Al momento, il fronte in Ucraina è attivo in molti punti, con misurati avanzamenti russi sulla linea fluviale del fiume Oskil, una costante serie di pesanti combattimenti nella zona forestale tra Lyman e Kreminna e, naturalmente, il pozzo della morte wagneriano di Bakhmut. Si tratta di aree di combattimento importanti e ad alta intensità, ma al momento non si sta sviluppando nulla che possa essere razionalmente definito una “grande freccia”.

 

Alla luce di questa situazione generale, ho pensato che questa potesse essere una buona occasione per esaminare una particolare sezione del fronte e riflettere sulla battaglia in corso in alta risoluzione. Più specificamente, voglio esaminare da vicino la battaglia in corso nel settore di Ugledar – discutiamo non solo perché è importante, ma vediamo anche i dettagli ravvicinati dell’assalto russo, le contromisure ucraine e i potenziali progressi futuri.

 

Ugledar (alcune mappe possono usare la formulazione ucraina “Vuhledar”) è una cittadina piuttosto curiosa, con una popolazione che prima della guerra probabilmente non ha mai superato i 15.000 abitanti. La città stessa è un denso agglomerato di condomini in cemento che si affacciano su una distesa di steppa notevolmente piatta – piatta anche per gli standard ucraini.

5 Ugledar e i suoi dintorni

Ugledar ha un’importanza operativa fuori scala per l’Ucraina, sia per scopi offensivi che difensivi. L’attuale linea del fronte vede le forze ucraine tenere un rigonfiamento, o saliente, a sud-ovest della città di Donetsk. Questo rigonfiamento è caratteristico in quanto è la posizione ucraina più vicina alla linea ferroviaria principale che collega Donetsk a Mariupol e al ponte terrestre per la Crimea (e quindi rappresenta la minaccia ucraina più immediata per la logistica russa a sud). I fianchi di questo rigonfiamento sono ancorati da Ugledar e Marinka – e dietro Ugledar, in particolare, non ci sono buoni posti per l’Ucraina per ancorare la difesa del saliente.

6 Ugledar e il saliente di Donetsk (Mappa di Military Land)

Finché gli ucraini terranno Ugledar, terranno questo saliente e avranno una posizione da cui minacciare il traffico ferroviario russo. Se perdono Ugledar, l’arrotolamento dell’intero saliente sarà una conclusione scontata. È quindi banalmente ovvio perché questa posizione è una priorità sia per la Russia che per l’Ucraina.

 

Questo ci porta a Ugledar stessa e alla battaglia in corso per il suo controllo. È immediatamente evidente perché la città sarebbe difficile da conquistare. È caratterizzata da blocchi di appartamenti in cemento, densamente stipati ed estremamente robusti, e la piattezza del terreno in avvicinamento offre ai difensori ucraini un campo visivo pulito. Si tratta di una posizione fisicamente resistente con una vista dominante sull’area circostante.

7 Vista aerea di Ugledar da nordovest

Lo spazio di battaglia qui è piccolo e facile da parametrare. Ugledar è a circa un miglio di distanza dalle città di Pavlivka e Mykils’ke, in mano ai russi. Il campo in avvicinamento è estremamente piatto, il che rende l’attraversamento allo scoperto un pericolo estremo. La linea di avvicinamento più praticabile è invece verso la caratteristica nota colloquialmente come “dacia” – un gruppo di case sul bordo sud-orientale di Ugledar vera e propria.

 

Le dacie sono un elemento importante per due motivi. In primo luogo, offrono l’unico vero riparo alla periferia di Ugledar stessa, diventando così l’unico vero punto di sosta o di appoggio al di fuori della città. In secondo luogo, sono la destinazione naturale per chiunque cerchi di avanzare in modo intelligente, cioè attraverso le linee degli alberi. I campi di questa zona sono separati l’uno dall’altro da linee di alberi molto sottili e molto dritte. Questi costituiscono l’unica copertura all’avvicinamento e sono quindi un terreno caldo. Le forze ucraine scavano abitualmente le loro trincee proprio sotto questo tipo di linee di alberi, che creano le vie di avanzata anche per le forze russe. Nel caso di Ugledar, seguire le linee di alberi porta direttamente alle dacie, che diventano quindi il punto focale naturale di qualsiasi tentativo di avanzata su Ugledar stesso.

 

L’altra caratteristica molto rilevante è una grande miniera di carbone situata a circa un miglio e mezzo a nord-est di Ugledar, lungo la strada. Questa miniera di carbone (anche se non è il pozzo in sé, quanto il complesso di edifici industriali che la circondano) è una posizione ucraina sussidiaria con una propria guarnigione ed elementi logistici.

Così, otteniamo uno spazio di battaglia che si presenta in questo modo:

Con questa comprensione degli aspetti spaziali e geografici, possiamo esaminare la battaglia in corso per Ugledar. Il 25 gennaio, le forze russe sono uscite da Pavlivka e Mykils’ke e hanno preso d’assalto Ugledar, raggiungendo rapidamente le dacie e sgomberandole in gran parte. A questo punto sono stati confermati i combattimenti all’interno di Ugledar stessa, anche se è probabile che l’intenzione russa non fosse quella di assaltare la città blocco per blocco, ma piuttosto di tagliarla fuori (ci sono in realtà solo due strade che portano a Ugledar sotto il controllo ucraino) e costringere gli UA a ritirarsi attraverso un rapido avvolgimento.

 

Questa ondata iniziale russa sembra aver colto di sorpresa gli ucraini, vista la velocità con cui sono riusciti a liberare le dacie e ad avanzare fino alla periferia orientale di Ugledar. Un ufficiale del 105° Reggimento DNR, che ha partecipato a questo primo assalto, ha dichiarato ai corrispondenti russi di ritenere che il gruppo ucraino a Ugledar potesse essere terminato con una forte spinta durante la notte e che sarebbe stato lanciato un ultimatum alla resa (indicando che prevedevano di avvolgere la città).

A questo punto gli ucraini hanno risposto rapidamente e con grande forza. Qui sono entrati in gioco alcuni fattori. In primo luogo, il comando ucraino considera Ugledar una posizione prioritaria e ha inviato quasi immediatamente riserve nella città (fonti ucraine affermano che le riserve destinate all’asse di Kreminna sono state reindirizzate).

 

In secondo luogo, l’Ucraina beneficia di batterie di artiglieria a Kurakhove, una quindicina di chilometri a nord. Questo spinge all’estremo le gittate di alcuni sistemi, ma Kurakhove è una posizione di tiro forte perché permette all’Ucraina di coprire sia il settore di Ugledar che quello di Marinka. Se ricordate il rigonfiamento della linea che abbiamo notato in precedenza, Kurakhove è una sorta di punto di fuoco girevole che consente all’artiglieria ucraina di raggiungere il perimetro del rigonfiamento.

 

Infine, e forse la cosa più importante, la forza d’assalto russa ha trascurato di attaccare o almeno sopprimere la miniera di carbone a nord-est di Ugledar. Le forze ucraine sono state in grado di organizzare un rapido contrattacco, che è arrivato con un angolo obliquo verso le dacie. Una volta che le riserve arrivarono a Ugledar e contrattaccarono anch’esse, le truppe russe furono costrette a combattere per la loro posizione nelle dacie.

Il rapido contrattacco dell’Ucraina, la copertura dell’artiglieria da Kurakhove e l’arrivo delle riserve hanno messo fine alla possibilità della Russia di sopraffare Ugledar nella prima ondata, e la battaglia si è ora trasformata in un affare molto più grande, con più forze impegnate da entrambe le parti. La lotta si è concentrata in gran parte sulle dacie e, naturalmente, sulle linee di alberi che costituiscono le vie di avanzamento per entrambe le parti. Le immagini satellitari mostrano che i bombardamenti si sono concentrati lungo queste linee di alberi.

8 Immagini satellitari Maxar degli impatti del bombardamento

Ancora più incisivi, forse, sono stati gli sforzi intensivi degli ucraini per minare gli avvicinamenti, anche con mine posate a distanza (in sostanza, i proiettili di artiglieria vuoti vengono riempiti con una pila di mine e spargono le piccole bestiole dappertutto). Data la difficoltà di avvicinarsi a Ugledar in campo aperto, anche in assenza di mine, e la natura limitata e lineare dei percorsi di avvicinamento, un assalto diretto a Ugledar è a questo punto una follia, e sembra che la Russia non ci stia più provando.

 

La battaglia sembra subire un netto cambiamento. Due elementi in particolare spiccano: in primo luogo, le forze ucraine non solo sono avanzate attraverso le dacie, ma sono persino riuscite ad attraversare il campo verso Pavilvka e Mykils’ke, tenute dai russi. In secondo luogo, però, le forze russe stanno mantenendo le posizioni e si stanno spingendo verso il margine orientale delle dacie e hanno portato rinforzi attraverso Mykils’ke.

 

Ciò suggerisce il seguente schema, a grandi linee. Gli sforzi russi sembrano ora spostarsi da Ugledar verso la miniera di carbone. Questo isolerebbe ulteriormente la guarnigione di Ugledar e posizionerebbe le forze russe per avvolgerla da est. Contemporaneamente, però, le forze russe sembrano aver rinunciato all’avvicinamento a Ugledar, permettendo agli ucraini di uscire.

 

Qualche giorno fa, alcune fonti ucraine affermavano trionfalmente di aver raggiunto il fiume Kashlahach. Questo mi ha sorpreso immensamente: avanzare così tanto è una pessima idea per gli ucraini. È estremamente improbabile che l’Ucraina possa attaccare con successo in questa direzione: Pavlivka e Mykils’ke sono entrambe sotto il controllo consolidato dei russi e, cosa forse più importante, l’autostrada principale che rifornisce queste città è dietro il fiume. Se l’Ucraina sceglie di attaccare, tutte le difficoltà del terreno sopra menzionate giocano a favore dei russi, e saranno gli ucraini a tentare di proiettare una forza attraverso il campo lungo quelle strette linee di alberi, senza modo di schermare o tagliare.

Inoltre, la via di accesso per gli ucraini si trova tra le due città tenute dai russi. Qualsiasi attacco ucraino di successo richiederebbe quindi di forzare un fiume sotto la minaccia di essere avvolti. In definitiva, la decisione migliore per gli ucraini sarebbe quella di non andare oltre le dacie e di rimanere al sicuro all’ombra di Ugledar. Ma se vogliono uscire dal campo in una zona di morte, sospetto che i russi siano felici di lasciarli fare mentre preparano i lavori alla miniera di carbone.

 

Ugledar si è presentata finora come una battaglia affascinante e ferocemente combattuta. L’ondata iniziale russa verso la città non è stata caratteristica di un esercito russo che ha dimostrato di preferire un movimento metodico e lento. Allo stesso tempo, non si può negare che l’Ucraina abbia contestato l’attacco russo in modo deciso e intelligente. I media e la propaganda hanno cercato di dipingere la battaglia come la scena di orribili perdite russe. È stato affermato, ad esempio, che l’intera 155a Brigata dei Marines è stata distrutta. Questo, inutile dirlo, è un po’ difficile da credere, dato che la 155a Brigata dei Marines sta ancora combattendo attivamente in questo settore e continuano a emergere filmati di combattimento. Curiosamente, anche questa brigata sarebbe stata distrutta a novembre in un presunto tentativo fallito di catturare Pavlivka, ma alla fine né la distruzione della brigata né il fallimento dell’attacco si sono rivelati veri. Oh, bene.

 

Detto questo, le perdite russe sono reali – probabilmente dell’ordine di 300-400 uomini e qualche decina di veicoli assortiti, ma questa è semplicemente la realtà di un combattimento ad alta intensità. Le perdite ucraine in questo settore sono altrettanto intense, e il successo della stabilizzazione del fronte ha costretto il comando ucraino a distrarre le proprie riserve da altri settori critici del fronte. Forse ancora più importante, l’afflusso di forze ucraine in questo settore ha cambiato completamente il calcolo della battaglia, con la Russia che ha portato più armi pesanti e ha creato un’altra fossa della morte.

 

Il futuro di Ugledar rimane nebuloso. Questa mattina (24 febbraio) sono stati diffusi nuovi filmati che mostrano gli attacchi aerei russi sulle posizioni ucraine intorno alla miniera di carbone, suggerendo che potrebbero effettivamente procedere con un tentativo di assalto alla miniera e di avvolgere Ugledar da est. È anche possibile che Ugledar diventi l’ennesima battaglia posizionale, che potrebbe essere annullata per gli ucraini da un’avanzata russa altrove. Se, ad esempio, i russi rompono la linea ucraina a Marinka e avanzano per minacciare Kurakhove, Ugledar potrebbe perdere il vitale ombrello di artiglieria che ha reso possibile il successo della difesa.

 

Per ora, questa battaglia è affascinante perché riduce l’intero dramma della guerra a una scala molto piccola. Decine di migliaia di uomini si sono sfidati coraggiosamente in un’arena di non più di quindici miglia quadrate, e in molti casi la vita e la morte sono state decise dal controllo di uno stretto sentiero sterrato sotto una fila di alberi.

 

In mezzo alle dichiarazioni altisonanti della leadership politica e all’infinito agitarsi per le grandi frecce disegnate sulla mappa, ci fa bene ricordare che il destino del mondo è costruito sugli sforzi individuali accumulati da questi coraggiosi soldati. Indifferenti alle infinite chiacchiere sugli obiettivi di guerra e alle inani chiacchiere sull'”ordine internazionale basato sulle regole”, sul multipolarismo e sui banali interessi geopolitici, gli eventi sul campo sono portati avanti da uomini i cui obiettivi di guerra sono davvero molto semplici. Nelle steppe pontiche innevate intorno a Ugledar, ciò che il guerriero desidera più di ogni altra cosa è non essere colpito.

Cicatrici dell’Impero: Moldavia e Transnistria

Forse uno degli sviluppi più notevoli delle ultime settimane è stato l’emergere simultaneo di due presunti complotti per allargare il conflitto. Il 21 febbraio, il governo ucraino ha affermato di essere in possesso di informazioni di intelligence secondo le quali la Russia avrebbe pianificato di perpetrare un “colpo di Stato” in Moldavia sequestrando l’aeroporto della capitale Chișinău e inserendovi truppe tramite un ponte aereo. Nel giro di 24 ore, la Russia ha replicato affermando che l’Ucraina si stava preparando a invadere il territorio interstiziale e giuridicamente ambiguo noto come Transnistria.

 

Probabilmente tutto questo è molto confuso per gli osservatori occasionali. Se la storia e/o la politica dell’Europa orientale non sono la vostra tazza di tè, allora probabilmente avrete sentito parlare della Moldavia solo di sfuggita e forse non avrete mai sentito parlare della Transnistria, quindi potrebbe essere utile una breve incursione nel contesto storico.

9 Un nido russo di detriti imperiali

La Moldavia è uno di quei piccoli Stati predestinati a essere una scheggia geopolitica. I moldavi stessi (come ethnos o popolo) sono in realtà un derivato dei rumeni – la supermaggioranza del Paese parla rumeno e la religione dominante è l’ortodossia orientale in rumeno liturgico. Dal punto di vista genetico, i moldavi sembrano avere più ascendenze slave dei romeni propriamente detti, ma questo forse esula dallo scopo di questo piccolo saggio.

 

In ogni caso, la domanda che sorge spontanea è: perché la Moldavia è una cosa, invece di essere semplicemente una bella provincia costiera della Romania? La risposta, in breve, è che lo Stato si trova contemporaneamente in due importanti punti di convergenza, uno politico e uno geografico.

 

Dal punto di vista politico (cioè storico), la Moldavia si trovava in una sorta di tessuto connettivo in cui tre grandi imperi si fronteggiavano: l’impero russo, quello ottomano e quello austriaco. In particolare, per gran parte della storia moderna il territorio dell’attuale Moldavia si trovava direttamente al confine tra l’Impero russo e quello ottomano ed era quindi molto ambito. L’appetibilità di questa piccola regione litosferica era ulteriormente rafforzata dalle sue qualità geografiche. Molto semplicemente, la Moldavia occupa un territorio storico noto come Bessarabia, che comprendeva il divario facilmente attraversabile tra i Carpazi e il Mar Nero.

 

La Bessarabia (la futura Moldavia) è stata oggetto di continue brame e passaggi di mano, con le potenze russa e ottomana che desideravano controllare quel corridoio cruciale tra le montagne e il mare. L’emergere di uno Stato rumeno indipendente nell’Ottocento complicò ulteriormente le cose, con un’altra parte che desiderava questo appezzamento strategico. Alla fine, la Seconda guerra mondiale pose fine alla controversia, con l’Unione Sovietica vittoriosa che piantò la falce e il martello sul Varco di Bessarabia con la creazione della Repubblica Socialista Sovietica Moldava. La questione moldava era risolta… per un certo periodo.

 

Il muro di Berlino cadde. L’Unione Sovietica cominciò a dissolversi e il futuro politico della Moldavia divenne di nuovo una questione aperta. Nel giugno 1990, la Repubblica moldava divenne una delle tante a voler lasciare l’Unione, ma non tutti erano d’accordo. I lealisti sovietici e i russi etnici che vivevano in Moldavia si ribellarono al pensiero di lasciare l’Unione e di essere lasciati soli in uno Stato a maggioranza rumena, e in risposta dichiararono la formazione della Repubblica Socialista Sovietica Moldava Pridnestroviana, che presto sarebbe stata meglio conosciuta come Transnistria.

 

Il nome Transnistria è in realtà molto utile e descrittivo. Derivato da “Trans-Dniester”, si riferisce letteralmente a una striscia di terra tra il fiume Dniester e il confine moldavo, che si è staccata dalla Moldavia nel 1990 e ha dichiarato un impegno costante nei confronti dell’URSS. Sorge quindi una domanda piuttosto singolare: la Transnistria è un’entità lealista o separatista? Dal punto di vista di Mosca, le autorità della Transnistria sono lealisti che hanno rifiutato di aderire all’uscita della Moldavia dall’URSS. Per i moldavi, ovviamente, i transnistriani sono separatisti. Il modo in cui saranno considerati dalla storia sarà quasi certamente determinato da chi vincerà o perderà la lotta per il potere nell’Europa orientale.

 

Tutto questo per dire che ora ci sono due staterelli sul litorale del Mar Nero che rappresentano dei detriti imperiali. La Moldavia è uno Stato di etnia rumena che occupa la maggior parte dello spazio tra i Carpazi e il Mar Nero, mentre la Transnistria è uno pseudo-Stato filo-russo che si è staccato dalla Moldavia durante il crollo sovietico. Ora, nel febbraio 2023, l’Ucraina e la Russia si accusano a vicenda di complottare per invadere questi piccoli lembi di schegge geopolitiche.

 

Cominciamo con la questione della Transnistria. Due sono le domande più importanti: perché l’Ucraina vorrebbe invadere la Transnistria e se tale tentativo avrebbe successo.

 

Il motivo dell’invasione della Transnistria da parte dell’Ucraina è alquanto confuso. Molti hanno suggerito che l’Ucraina potrebbe essere motivata a impadronirsi del contenuto del deposito di munizioni Cobasna della Transnistria – un tempo supporto logistico per la 14a Armata della Guardia sovietica che era di stanza nella regione. Oggi, il deposito di Cobasna è una delle più grandi discariche di munizioni in Europa, con fino a 20.000 tonnellate di munizioni di epoca sovietica ancora presenti. Poiché è stato riferito che l’Ucraina è disperatamente a corto di munizioni, la struttura di Cobasna è forse un bersaglio sufficientemente attraente da solleticare lo stato maggiore ucraino, anche se è improbabile che l’intero contenuto del deposito sia utilizzabile. Molte delle munizioni sono probabilmente obsolete a causa dell’età e dell’incuria, ma è probabile che ci sia ancora una scorta significativa di ordigni utilizzabili. Il fatto che il deposito di munizioni si trovi a meno di tre miglia dal confine ucraino fa salire il fascino a livelli forse irresistibili.

10 L’impianto di Cobasna

La Transnistria, ovviamente, non è esattamente indifesa. Essendo più o meno uno staterello formatosi attorno ai resti dell’Armata Rossa, è molto più militarizzata di quanto ci si aspetterebbe da una regione con meno di mezzo milione di abitanti. In effetti, la Transnistria ha più equipaggiamento pesante della Moldavia e può schierare una manciata di brigate di fanteria motorizzata passabili. In Transnistria è presente anche una guarnigione di soldati russi, anche se questi sono relativamente poco equipaggiati e sono stati dispiegati soprattutto come forza di interdizione in tempo di pace.

 

Il verdetto sulla Transnistria è che è combatte di sopra della sua categoria di peso, e probabilmente è una noce molto più difficile da rompere di quanto si possa pensare inizialmente, ma è isolata e non sarebbe in grado di resistere a un attacco ucraino determinato in circostanze normali, anche se a questo punto non è chiaro che tipo di risorse Kiev potrebbe dedicare a quello che equivarrebbe a un raid armato per rubare munizioni.

11 Le gloriose e invincibili armate della Transnistria

Detto questo, dobbiamo ricordare che il deposito di munizioni di Cobasna si trova molto vicino al confine ucraino e la sua messa in sicurezza non richiederebbe la pacificazione di tutta la Transnistria. L’esercito ucraino dovrebbe semplicemente proteggere un saliente a pochi chilometri di profondità e schermare il deposito dalla vicina città di Ribnita mentre trasferisce il suo contenuto in Ucraina. Sarebbe difficile per le forze della Transnistria contestare un obiettivo così vicino al confine ucraino, ed è quindi molto probabile che siano già state prese misure per distruggere il deposito di munizioni in caso di incursione ucraina – un atto che potrebbe produrre un’esplosione delle dimensioni della bomba atomica di Hiroshima, anche se senza le fastidiose radiazioni.

 

Questo suggerisce un paradosso. Il deposito di Cobasna è così vulnerabile a un’incursione ucraina che cessa di diventare un obiettivo realistico, poiché verrebbe semplicemente fatto esplodere nel momento in cui gli ucraini vi si avvicinano. L’Ucraina si troverebbe quindi ad affrontare un nuovo inutile fronte nelle sue retrovie, che quasi certamente richiederebbe unità regolari ucraine (non solo di difesa territoriale) per essere pacificato.

 

Questo ci riporta alla Moldavia. La questione della Transnistria è delicata per la Moldavia, che vede il piccolo staterello transnistriano come una provincia separatista moldava e tende a considerarla come un meccanismo russo per dispiegare truppe in avanti e fare pressione sul governo moldavo. Non è del tutto corretto considerare la Transnistria come una sorta di complotto russo, semplicemente perché la creazione della Transnistria è stata il risultato di un’azione spontanea nella regione stessa e non diretta centralmente da Mosca, ma è senza dubbio un punto dolente per la Moldavia.

 

Per questo motivo l’Ucraina ha costantemente inquadrato la questione della Transnistria come “di competenza della Moldova”. In altre parole, l’Ucraina probabilmente esiterà a muoversi in Transnistria nel nudo tentativo di rubare le scorte di Cobasna – vorrebbe invece dipingere il suo intervento come una richiesta del governo moldavo – “questa è terra della Moldova, e noi interveniamo su loro richiesta per aiutarli a riprendersela“. Questo è probabilmente il motivo per cui l’Ucraina ha affermato che esiste un presunto piano russo per rovesciare il governo moldavo – vorrebbero creare un ambiente politico in cui la Moldavia dia il via libera a un intervento in Transnistria e partecipi con le proprie forze.

 

Facciamo il punto della situazione e cerchiamo di capire cosa sta succedendo con queste voci. L’allargamento della guerra alla Moldavia e alla Transnistria non risponde agli interessi russi. Qualsiasi operazione che avvenga sull’asse della Transnistria sarebbe molto difficile da gestire per la Russia, poiché dovrebbe essere sostenuta interamente da trasporti aerei, e ancora più specificamente da sorvoli del territorio ucraino o moldavo.

 

Nel frattempo, la Moldavia vuole quasi certamente mantenere la sua neutralità (che è codificata nella costituzione del Paese ed è il motivo per cui il Paese non è membro della NATO) ed è quindi altamente improbabile che dia il via libera a una mossa ucraina in Transnistria in assenza di una qualche precedente provocazione russa.

 

In definitiva, l’unica parte che sembrerebbe trarre vantaggio dall’allargamento del conflitto allo spazio moldavo sarebbe l’Ucraina, sia perché brama il deposito di Cobasna, sia perché l’allargamento del conflitto è generalmente un obiettivo ucraino – nel loro calcolo grossolano, qualsiasi escalation che aumenti la probabilità di un intervento occidentale diretto è vantaggiosa. La Moldavia, ovviamente, non è un membro della NATO, ma senza dubbio l’Ucraina vorrebbe innescare un’espansione a spirale del teatro e vedere se, ad esempio, la Romania può essere trascinata in guerra. Detto questo, Kiev dovrebbe probabilmente aspettarsi che il deposito di Cobasna venga semplicemente fatto esplodere nel momento in cui si muove su di esso, rendendo l’intero progetto uno spreco di risorse mal concepito.

 

Nel complesso, sono scettico che si verifichi qualcosa su questo fronte. Il puntare contemporaneamente il dito da parte di Mosca e Kiev ricorda molto il periodo dell’anno scorso in cui entrambe le parti hanno iniziato ad accusare simultaneamente l’altra di complottare per far esplodere una bomba sporca. L’Ucraina cerca di fabbricare una crisi per aumentare l’urgenza in Occidente e fomentare il panico e la distrazione in Russia, e la Russia risponde con controaccuse e gestione dell’escalation. Soprattutto, questo ci ricorda che per l’Ucraina – che dipende interamente dai suoi benefattori occidentali per sostenere la sua attività bellica – questa guerra si combatte davanti a un pubblico.

 

Sono stato abbastanza coerente fin dall’inizio nel dire che mi aspetto che la guerra in Ucraina venga combattuta fino alla sua conclusione e che rimanga un conflitto convenzionale contenuto – vale a dire, non mi aspetto né l’uso di armi nucleari né l’entrata in guerra di altri belligeranti, siano essi la Bielorussia, la Polonia, la Moldavia o la NATO vera e propria. Credo che abbiamo già visto l’entità qualitativa del coinvolgimento esterno nella guerra – la NATO che fornisce addestramento, ISR, armi, manutenzione e supporto, la Bielorussia che viene utilizzata per gli schieramenti russi e gli alleati russi come la Cina e l’Iran che forniscono principalmente armi di distanza. Per ora, nessuno degli sviluppi intorno alla Transnistria sembra sconvolgere in modo credibile questo calcolo. Per ora, aspettiamo di vedere se la carenza di munizioni degli ucraini diventerà così grave che non potranno fare a meno di fare un salto al deposito Cobasna.

Sommario: La vita nella fossa della morte

Per chi siede al sicuro nella propria casa lontano dal Donbass, è facile banalizzare i combattimenti in corso come poco importanti, semplicemente perché luoghi come Ugledar, Bakhmut e la fascia forestale a sud di Kreminna non sembrano particolarmente importanti. Questo, ovviamente, è piuttosto sciocco. Ciò che rende importante un luogo, in quel contesto unico e nell’ambito della nuova logica strategica della guerra, è il fatto che due corpi ostili di uomini armati vi si scontrano. La storia è piena di ricordi di questo tipo: Gettysburg, Stalingrado e Điện Biên Phủ non erano particolarmente importanti di per sé, ma hanno assunto un’importanza spropositata perché lì si trovava il nemico.

 

La vittoria in Ucraina sarà conquistata quando l’uno o l’altro esercito avrà perso la capacità di opporre resistenza armata – a causa della rottura della volontà politica, della distruzione di equipaggiamenti pesanti, della distruzione dei mezzi di sostentamento o delle perdite di uomini. La parola “logoramento” è diventata piuttosto comune e viene abitualmente usata in riferimento all’attuale approccio russo, ma pochi vogliono contemplare cosa significhi veramente – perché implica, soprattutto, l’uccisione di un gran numero di soldati ucraini, la caccia e la distruzione di sistemi critici come l’artiglieria e la difesa aerea, e la messa fuori uso delle retrovie ucraine. Dove combattere meglio che a Bakhmut, dove la fanteria ucraina sopravvive per poche ore in prima linea?

 

Il comando russo potrebbe forse parafrasare il tenente colonnello americano Hal Moore, che notoriamente disse del Vietnam: “Per Dio, ci hanno mandato qui per uccidere i comunisti ed è quello che stiamo facendo”.

 

Una delle grandi peculiarità di questa guerra è il grado di dipendenza di Kiev dall’aiuto occidentale per sostenere la sua azione bellica. Questo è per certi versi sia un vantaggio che uno svantaggio per la Russia. Gli svantaggi sono evidenti, in quanto mettono la maggior parte dell’ISR, della produzione di armamenti e del sostegno dell’Ucraina al di fuori della portata della Russia. Mosca non può certo iniziare ad abbattere gli aerei AWAC americani o a bombardare le strutture della Lockheed Martin, quindi da questo punto di vista la dinamica della guerra conferisce all’Ucraina una resilienza strategica unica. Ma il rovescio della medaglia è che l’Ucraina non è veramente sovrana, come lo è la Russia con la sua produzione bellica interamente interna.

 

Poiché l’Ucraina dipende dall’assistenza straniera per continuare la sua guerra, deve essere costantemente in una modalità performativa e sotto pressione per ottenere successi visibili. Per questo si prevede che l’Ucraina utilizzerà i veicoli attualmente in consegna per lanciare una controffensiva contro il ponte di terra verso la Crimea. Non ha davvero scelta. Al contrario, la Russia non è sottoposta ad alcuna pressione temporale intensa, se non quella che si impone da sola, e questa libertà d’azione le consente il lusso (fintanto che gli eventi sul campo di battaglia non la interrompono) di mettere a punto una revisione organizzativa e di resistere alla tentazione di muoversi prematuramente.

 

Naturalmente sarebbe molto meglio non avere problemi organizzativi, ma il discernimento rimane la parte migliore del valore. E per ora non c’è molta fretta, perché l’intero fronte è diventato una fossa della morte che assorbe uomini ed equipaggiamento ucraino, e priva gli ucraini di riserve e di iniziativa.

 

Il mondo vano che abitiamo in Occidente viene messo a nudo dalla realtà della vera potenza. Dopo l’ennesimo impotente voto di condanna alle Nazioni Unite e la visita a Kiev del gerontocrate preferito dagli americani, l’interesse dei chierici occidentali per la guerra d’Ucraina non mostra segni di cedimento, ma forse stanno gradualmente prendendo coscienza che si tratta di un piano dell’esistenza che non possono comprendere, né tanto meno influenzare. Possono solo osservare.

 

Nella foresta intorno al Donets, nella steppa di Ugledar e nella trappola mortale di Bakhmut, le parole contano poco. In effetti, il potere distruttivo ora all’opera è così grande che anche le azioni dei singoli possono fare ben poco per modificare il corso della battaglia – eppure, da entrambe le parti, uomini di volontà superiore continuano a eseguire i loro compiti, dimostrando disciplina e coraggio al cospetto della costante possibilità di morire. Questi uomini di ferro sono forse al di là della comprensione delle culture postmoderne, ma sono loro che determineranno il destino dell’Ucraina e della Russia.

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StElly nel paese dei balocchi, di Giuseppe Germinario

Così Elly Schlein, a sorpresa, almeno per chi ama farsi sorprendere, è la nuova segretaria del Partito Democratico.

Niente di originale. Una clonazione, un pollo da batteria come tanti altri, tutti identici, che avrebbero potuto emergere dal brodo di coltura sorosiano ormai coltivato da anni in quegli ambienti progressisti e nella sua città di adozione. Elly avrebbe potuto assurgere indifferentemente a Primo Ministro in Finlandia e Moldova, Ministro degli Esteri in Germania; le è capitato invece di conquistare il posto di segretario di partito in una fase a dir poco avventurosa di quella realtà politica.

Un possibile trampolino di lancio per lei a futura gloria e soddisfazione; molto probabilmente, il contestuale de profundis di un partito dalle lontane radici gloriose ormai disperse.

Una nemesi amara per il vecchio gruppo dirigente dalle lontane origini approssimativamente comuniste, in realtà in buona parte socialdemocratiche, impersonate per ultimo dal buon Stefano Bonaccini.

Agli “illuminati sulla via di Damasco” l’elettorato più o meno interessato, non si sa bene se alla resurrezione o alla dipartita, delle primarie ha preferito le certezze dell’originale, mi si perdoni l’ossimoro, clonato nel laboratorio filantropico di grandi propositi e inconfessabili misfatti.

In tempi così incerti e smarriti, l’alea del buon governo non è evidentemente più sufficiente a conservare e nemmeno a rimanere aggrappati alle leve.

Ad una lettura anche superficiale delle mozioni congressuali, gli argomenti del documento del neosegretario sono i più conformi allo spirito della carta dei valori del partito da poco resa pubblica. Ne pare di fatto una scopiazzatura più estesa della quale si tratterà a margine a parte una anticipazione irrefrenabile di tre amenità difficili da concettualizzare pur con ogni buona volontà:

  • la nozione di “giustizia climatica” se non associandola a quella biblica di “diluvio universale”

  • l’asserzione del nesso causale diretto e univoco tra la crisi climatica e la disuguaglianza sociale, quando in realtà, se proprio si vuol sottilizzare, è da una concezione elitaria e di ceto della crisi climatica, confusa per altro con quella ambientale, che si dipana il nesso causale diretto con le disuguaglianze

  • l’asserzione della formazione sociale italiana retta da un regime patriarcale.

L’aspetto dirimente di questa fase politica di quel partito è un altro.

Elly Schlein è stata eletta segretario in piena fase costituente del partito.

L’avvio di una fase “costituente” o “ricostituente” dovrebbe quantomeno prevedere una analisi rigorosa, se non proprio una revisione impietosa dell’approccio culturale, delle scelte politiche fondamentali adottate a partire almeno dagli anni ‘90 e delle ragioni della attuale condizione del paese e della nazione.

Nella carta e nelle mozioni congressuali non c’è niente di tutto questo se non qualche rara riga di adesione fideistica alla Unione Europea, di sostegno a scatola chiusa alla resistenza ucraina, di rappresentazione dello scontro geopolitico tra una democrazia assediata e un autoritarismo prevalente, di auspicio di un ritorno ad un multilateralismo a trazione statunitense.

Una rigidità dogmatica e una superficialità che fa apparire le prese di posizione dell’attuale leadership statunitense un esempio di flessibilità.

Sarebbe improprio pretendere dal Partito Democratico un ripensamento radicale o un ribaltamento delle sue ragioni costitutive. Trasformerebbe la lenta e soporifera agonia che sta percorrendo in un trauma esistenziale esiziale.

Un atto di lucidità ed onestà compatibile con le ragioni fondative del partito sarebbe però una carta dei valori che tracciasse degli orientamenti di fondo e ponesse degli interrogativi da offrire alle mozioni come traccia per risposte che giustificassero le diverse candidature.

  • La Carta avrebbe dovuto quindi contenere una riflessione critica sulla narrazione agiografica del processo di globalizzazione, sull’interpretazione del ruolo degli stati nazionali in esso, sulla funzione di collante delle dinamiche esercitata dalla condizione egemonica emersa con l’implosione del blocco sovietico e indurre quindi i candidati, con le rispettive mozioni di tentare almeno di tracciare quantomeno obbiettivi e comportamenti autonomi ed attivi, sia pure in una logica “entrista” propria della natura di quel partito. Del resto l’azione di classi dirigenti di un numero sempre maggiore di paesi, a cominciare dalla Turchia e dall’Ungheria, ma anche a modo loro della Polonia, ha evidenziato l’agibilità all’interno delle logiche di schieramento. Cosa è, del resto, alla fine, il perseguimento di obbiettivi politici interni alla Unione Europea, più ancora che nella NATO, se non una continua contrattazione e un continuo aspro confronto e conflitto tra centri decisori nazionali e statuali in una dinamica di asservimento alla forza egemone! Se sono reali l’intenzione e l’obbiettivo politico, ammesso e non concesso che sia realizzabile, di una politica estera e di difesa europea autonome, le mozioni dovrebbero essere indotte a delimitare quantomeno i livelli massimi compatibili di integrazione degli eserciti della NATO e dei complessi militari-industriali.

  • A scalare la Carta avrebbe dovuto spingere a riflettere sul trentennio di politica interna a cominciare dalle privatizzazioni e dismissioni o quantomeno nelle loro modalità di esecuzione, per poi risalire alla atavica incapacità del capitale privato di sostenere il peso politico ed organizzativo di una grande industria ed impresa strategica e sul ruolo conseguente del capitale pubblico, magari a gestione privatistica nelle sue varie modalità e possibilità; come pure a giustificare e, quindi, porre rimedio al fatto che l’ancora importante saldo attivo del risparmio nazionale non riesca ad essere reinvestito in gran parte nel territorio e a tutela e sviluppo dell’industria e delle attività nazionali. Potrebbe finalmente emergere qualche seria considerazione sulla necessità di ripristino di una serie di agenzie di supporto tecnico allo sviluppo di attività di produzione ed infrastrutturali completamente distrutto in quei decenni fatali e della cui mancanza si sente persino nella attuazione del cavallo di battaglia, di nome PNRR, del fronte più ottusamente europeista. In pratica la Carta dei Valori avrebbe dovuto porre il quesito fondamentale sui motivi del progressivo stallo e degrado del paese e della nazione negli ultimi quarant’anni, coincisi con la trasformazione del PCI e della DC e la fondazione del PD.

  • Ci sarebbe da sindacare sulla adeguatezza della Carta ad avviare una seria fase costituente su altri temi: la gestione manipolatoria ed arru(a)ffona della crisi pandemica come pure la tematica fondativa legata al cosiddetto transumanesimo. Quest’ultima introdotta in ritardo ed in forma puramente imitativa e parodistica, ma con la possibilità di arrecare altrettanti, se non peggio, danni di quanto indotti negli Stati Uniti. Un culto della singolarità, del determinismo culturale rispetto alle leggi della natura, della tecnocrazia scientifica che meriterebbero assoluta attenzione e precauzione, ma che si vedono introdotte di soppiatto nella Carta e nelle mozioni, probabilmente anche in maniera scontata ed inconsapevole. Sarebbe, forse, pretendere troppo ad una classe dirigente di questo livello.

La sorprendente incapacità di impostare correttamente, quantomeno, un percorso congressuale non è, quindi, un mero incidente in un partito dalle gloriose tradizioni organizzative.

È la conseguenza della cieca miseria intellettuale di una intera classe dirigente; della sua autoreferenzialità e della sua incapacità a porsi a rappresentare un qualsiasi modello di blocco sociale in grado di garantira una minima coesione ed una minima capacità di pesare nelle dinamiche geopolitiche per quanto deleterie e limitative.

Più che una fase costituente, si sta rivelando sempre più una sua parodia, destinata rapidamente a spegnersi nella continuità e nell’esaurimento di un processo iniziato almeno quaranta anni fa, ma dall’esito allora non interamente segnato.

Non è un caso che gli aneliti di rinnovamento e di allargamento della platea dai quali attingere i futuri gruppi dirigenti si riducano alla fine, leggendo attentamente le mozioni, ad attingere al serbatoio degli amministratori locali.

Una parodia dall’esito scontato ma attraverso un processo che richiederà, paradossalmente, il sacrificio della componente più pragmatica, ma culturalmente del tutto omologata o passiva, la quale ha saputo, nelle proprie esperienze di gestione amministrativa, almeno approfittare di qualche margine di azione consentito da questo appiattimento ed allineamento.

La sconfitta di Bonaccini rappresenta esattamente questo.

Non sarà l’unico fìo da pagare e nemmeno il più pesante.

La mozione di Elly, più delle altre, è soprattutto l’appello che con più fervore urla alla riduzione e al superamento delle disuguaglianze, al raggiungimento dell’equità fiscale, alla rivendicazione dei diritti.

Una enfasi che ha indotto gran parte dei commentatori ad attribuirle audacemente una impronta “socialdemocratica” più che “radical chic”.

Nell’economia di questo scritto si deve purtroppo glissare sull’approfondimento sulle varie accezioni attribuibili al termine di lotta alle disuguaglianze e al conseguimento dei diritti; come pur sulla mancata associazione del termine di equità fiscale a quello di vessazione, attraverso il quale il sistema fiscale colpisce indistintamente dipendenti ed autonomi e sulla mancata associazione al problema della tutela dei salari più bassi di quello dell’appiattimento dei livelli salariali normati e del basso livello di quasi tutte le retribuzioni.

Una connotazione socialdemocratica storicamente più attendibile ad un documento e ad una formazione politica dovrebbe avere il carattere specifico di un nesso stretto e inscindibile tra una politica di normazione dei diritti sociali ed il sostegno ad una politica economica in generale, industriale in particolare, fondata sulla impresa, in particolare la grande impresa e sul ruolo pubblico diretto in economia sul quale plasmare la coesione e il dinamismo di una formazione sociale. Un indirizzo, ma con modalità diverse, riconducibile anche alla connotazione comunista di un movimento.

Nelle mozioni congressuali, in particolare in quello della Schlein, non c’è niente di tutto questo, non ostante le crepe all’ortodossia liberista aperti nella fase trumpiana ed anche nel recente documento sulla sicurezza strategica (NSS) varato da Biden e trattato recentemente su questo blog.

Niente se non la caricatura dell’aperto ed acritico sostegno al piano di riconversione ecologica ed energetica e digitale che si risolve in realtà, nel suo dogmatismo e catastrofismo, in un vero e proprio programma di destrutturazione ed indebolimento non solo del residuo apparato industriale e tecnologico avanzato europeo, ma anche di altri ambiti strategici come l’agricoltura.

Tutta l’enfasi che ammanta le parole d’ordine della redistribuzione, del lavoro sicuro, dell’equità fiscale non porteranno a niente di buono; nel migliore e improbabile dei casi a qualche successo temporaneo, tipico del rivendicazionismo sindacale radicale o sedicente tale.

Si potranno regolare più rigidamente i contratti individuali di lavoro, stabilire per legge i livelli minimi salariali e magari gli standard sanitari, rendere ancora più draconiane, sulla lettera, le normative e le sanzioni fiscali, ma le dinamiche socio-economiche, la struttura economico-industriale e dei servizi, il sistema politico-amministrativo troveranno innumerevoli e fantasiose nuove vie per perpetuare una condizione di sottosalario, di basso reddito e di mercato nero, magari in una condizione di apparente legalità. Potrei citarne io stesso decine di modalità.

Rimarrà l’enorme implicazione politica di una simile impostazione. In mancanza di una questione nazionale e, soprattutto, di una politica di difesa di interesse nazionale unificante, nel migliore dei casi non farà che spingere singoli settori alla autotutela in una visione potenzialmente corporativa e intaccare ulteriormente il già precario tasso di interconfederalità delle politiche sindacali magari sotto la nobile veste di un radicalismo del quale abbiamo conosciuto già, assieme al collaborazionismo, gli esisti sterili e nefasti.

La dirigenza sindacale, con tutto il peggio di cui è capace, navigata com’è e desiderosa di non disperdere l’attuale principale legittimazione legata al riconoscimento reciproco con Confindustria, è in grado di cogliere il pericolo, ma non di contrastare efficacemente l’inerzia innescata da questi indirizzi; un ulteriore passo verso un sindacato compassionevole è ormai maturo.

L’unico aspetto positivo è che la gestione piddina della Schlein, dovesse durare, metterà a nudo l’imbroglio politico che è stato e si è rivelato il M5S (Movimento Cinque Stelle); al prezzo di portarsi, però, la serpe in casa, ma con minori infingimenti.

L’unico fattore che potrebbe prolungarne indefinitamente l’agonia, è il processo accellerato di omologazione del centrodestra ed il suo pericolosissimo avvicinamento politico e diplomatico all’ordine statunitense e all’avventurismo ottuso delle classi dirigenti polacche e baltiche.

Peggio dell’azzardo cialtrone della “buonanima”, ottanta anni fa.

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Ucraina, il conflitto 29a puntata. Guerra e terrorismo_ con Stefano Orsi e Max Bonelli

Il regime di Kiev, per la verità i suoi mentori, si sta rivelando un vero maestro nella narrazione mediatica e nella coltivazione degli strumenti, anche i più ibridi, di guerra. Gli episodi di arbitrio verso i prigionieri, l’utilizzo di armi proibite, l’indifferenza e l’utilizzo della popolazione civile come strumento di guerra fanno ormai parte dell’armamentario utilizzato. Questa volta, però, la soglia dell’esplicito attacco terroristico è stata oltrepassata ampiamente con l’incursione in due villaggi russi al confine e la deliberata uccisione di civili. Elementi idonei a trascinare la giunta e i comandi ucraino verso quel tribunale di guerra che gli occidentali vorrebbero costruire su misura su Putin. Il regime di Kiev è ormai alle strette e solo l’incapacità e l’impossibilità statunitense di poter uscire dal vicolo cieco in cui l’amministrazione di Biden si è cacciata, se non a rischio di un confronto diretto su larga scala, sta impedendo la mala sorte per personaggi tragicomici ed aguzzini senza scrupoli. La novità è che piuttosto che scompaginare l’area dissidente o indifferente all’esorcismo russofobo, l’oltranzismo atlantista sta polarizzando sempre più le dinamiche geopolitiche in schieramenti sempre più delineati. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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