LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

IL GIORNO DEL RINGRAZIAMENTO, di Giuseppe Germinario

Un epilogo beffardo!
Appena sette settimane fa Renzi era accolto a tavola del Presidente degli Stati Uniti d’America, uscente ma pur sempre il Presidente.
Trattandosi dell’Ultima Cena, non risulta alcun gesto scaramantico da parte di Renzi al suo ingresso a tavola.
Il suo futuro del resto si prospettava fulgido e pregno di aspettative. Uno dei suoi mentori principali presiedeva lo staff elettorale della pressoché certa nuova Presidente statunitense e da quegli ambienti aveva attinto buona parte dei propri consiglieri; con l’uscita, al momento proclamata, della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’Italia si accingeva a sostituirla nel ruolo primario di contraddittorio dell’asse franco-tedesco e di portavoce diretto dell’alleato d’oltreatlantico in sede europea.
Un Capo di Governo che deve la propria fortuna soprattutto all’investitura esterna più che al radicamento negli interessi forti e diffusi del proprio paese, non poteva del resto che costringere le proprie sorti principalmente alle vicende d’oltre confine.
L’elezione di Trump ha rappresentato la rottura della faglia principale su cui era costruito il castello delle aspettative. La sua politica estera e la sua politica economica, almeno nei proclami e nelle intenzioni, sono antitetiche rispetto al progetto e ai legami esibiti sin troppo spavaldamente dal nostro indomito.
La vittoria di Fillon alle primarie repubblicane francesi prefigura una particolare interpretazione della svolta trumpiana fondata su un asse tattico franco-russo-americano potenzialmente antitedesco e, in una prospettiva più larga, anticinese.
La ricandidatura di Angela Merkel, lo sponsor più controproducente da esibire, rappresenta invece il probabile tentativo di conservare la preminenza del sodalizio tedesco-americano in Europa fondato sulla permanenza esplicita o surrettizia del vecchio establishment americano e sulla sconfitta o neutralizzazione della svolta trumpiana.
Sono le due faglie secondarie destinate a rendere ancora più precaria la condizione del paese e la posizione del Matteo dimissionario. Meriteranno assieme alla prima senz’altro un articolo a parte.
Si tratta comunque di uno sciame sismico che ha dissestato le fondamenta e messo a nudo la precarietà dell’edificio renziano.
Un edificio che aveva come tetto una riorganizzazione istituzionale e amministrativa che tendeva correttamente ad una centralizzazione, ad un riordino e ad una semplificazione delle competenze e delle funzioni ma le cui pareti erano costituite da una politica economica e sociale del paese disastrosa non solo per le ripercussioni, la disgregazione, i corporativismi che stanno innescando nella formazione sociale ma soprattutto perché porta a perdere il controllo della produzione di quelle risorse necessarie a garantire l’autonomia politica, la riorganizzazione istituzionale, la coesione della formazione sociale e la prospettiva del nostro paese.
Il risultato è stato una riforma pasticciata della quale si è assunto il patrocinio Renzi ma della quale sono responsabili tutti i partiti; un tentativo di centralizzazione di stampo oligarchico perché incapace di dare una prospettiva di sviluppo e di autorevolezza politica, frutto quindi di un compromesso precario estorto a quelle stesse forze che avrebbe dovuto sconfiggere ed emarginare.
Il piano di implementazione dell’industria 4.0, presentato dal serissimo ministro Calenda, rappresenta l’emblema di quella politica economica. Un piano fondato su incentivi generalizzati ed investimenti di ricerca tesi a digitalizzare, informatizzare ed integrare i processi industriali assecondando però il processo di periferizzazione della merceologia e della tecnologia di prodotto. Una politica antitetica rispetto a quei paesi emergenti tesi a competere con gli Stati Uniti, ma soprattutto del tutto disallineata rispetto alla politica economica tracciata da Donald Trump in America.
Una vittoria non troppo schiacciante del sì probabilmente avrebbe segnato il destino delle due componenti, accorciato una loro agonia comunque in corso e reso più trasparente il sistema politico.
Sta di fatto che l’esito del referendum ha riportato in campo almeno temporaneamente e più saldamente Silvio Berlusconi e la componente minoritaria del PD. Assisteremo al tentativo di ricostituire il gioco destra-sinistra e con questo puntare ad ingabbiare la Lega e Fratelli d’Italia nel centrodestra e rinsaldare una sinistra progressista comunque minoritaria. Alla bisogna si troveranno le forme di collusione necessarie a neutralizzare l’ascesa del Movimento Cinque Stelle (M5S). La Lega, dal canto suo, sino a quando non si emanciperà dal proprio peccato originale di forza localistica ed autonomistica difficilmente potrà resistere a lungo alle sirene dei vecchi schieramenti. Non si conoscono però ancora casi di emancipazione dal peccato originale se non rinnegando la religione che lo inculca.
Il risultato, però, ha anche confermato l’esistenza di tante talpe capaci di rendere instabile il terreno ma ancora cieche ed incapaci di individuare la via di uscita in superficie. Una luce fioca ma esposta attualmente alla disgrazia di avere, quelle stesse talpe, delle guide le quali piuttosto che indirizzarle e tracciare loro la strada pretendono direttive precise da loro stesse.
È appunto la retorica della democrazia dal basso e dell’annichilimento dei poteri forti, tanto cara alle forze politiche proclamatesi alternative, in particolare il M5S, tanto loquaci quanto in realtà inconcludenti; è questo l’aspetto oscuro e paralizzante del cosiddetto populismo. Il paese, al contrario, ha disperatamente bisogno di un ceto politico deciso ed autorevole, di poteri forti capaci di aggregare la pletora di interessi in cui è frammentato il paese in un progetto di emancipazione politica.
L’elezione di Trump da questo punto di vista rappresenta un vero e proprio caso di studio.
Il declino drammatico del nostro paese è passato d’altro canto proprio attraverso l’annichilimento e la subordinazione di questi poteri piuttosto che dal loro rafforzamento.
All’inizio ho parlato di epilogo. Forse è una affermazione troppo drastica.
Renzi è stato colpito e probabilmente si metterà da parte per qualche tempo. La personalizzazione dello scontro non è stato solo un calcolo sbagliato del protagonista, ma era intrinseca al fatto che il suo governo è nato per fare le riforme istituzionali. Il suo destino sarebbe stato comunque legato all’esito del referendum. Se riuscirà a conservare la carica di Segretario avrà ancora diverse carte da giocare anche nell’immediato; dovesse perdere anche quella, dovrà altrimenti attendere le eventuali invocazioni dei ribelli che lo hanno scalzato ma che si sono dispersi nella palude. A quel punto il suo progetto di Partito della Nazione circondato da satelliti assumerebbe un significato del tutto diverso e più integrato nella logica degli schieramenti classici.
Con un Trump però forte e soprattutto coerente con se stesso difficilmente potrà assurgere ad un ruolo di primo piano.
Piuttosto cresceranno spazi per un Berlusconi quasi esanime o qualcuno dei suoi eventuali eredi, ma con scarsi benefici per il paese; oppure, ma è solo una speranza poco corroborata, qualcosa di realmente nuovo potrebbe sorgere dalle macerie delle forze di opposizione e mettere in condizione di trattare su basi più dignitose e paritarie la nostra collocazione estera e le nostre condizioni di sviluppo.
Dipenderà ancora una volta soprattutto dal comportamento dei nostri vicini di casa.

ps_ per una ricostruzione storica del Governo Renzi consiglio la seguente lettura http://italiaeilmondo.com/2016/12/05/%CE%BC%CE%B1%CE%B8%CE%B8%CE%B1%CE%B9o%CE%BD-matteo-dono-di-dio-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-apparso-il-12-novembre-2014-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/

ΜΑΘΘΑΙOΝ (MATTEO), “DONO DI DIO” (2A PARTE) DI GIUSEPPE GERMINARIO, già apparso il 12 novembre 2014 sul sito www.conflittiestrategie.it

Ripubblico due miei articoli su Matteo Renzi apparsi nel novembre 2014 sul sito www.conflittiestrategie.it
per leggere la prima parte, ecco il link http://www.conflittiestrategie.it/%ce%bc%ce%b1%ce%b8%ce%b8%ce%b1%ce%b9o%ce%bd-matteo-dono-di-dio-1a-parte-di-giuseppe-germinario

Nei pochi momenti riservati nei quali può concedersi il lusso di gettare la maschera dell’ottimismo ad oltranza, Matteo Renzi confida di aver legato il proprio destino all’esito del confronto in Europa.

Probabilmente si è trattato di un balon d’essai in vista di quello che potrà succedere nell’Unione Europea dalla prossima primavera; probabilmente Matteo Renzi è uno degli ami cui è attaccata l’esca che dovrà catturare i tedeschi, piuttosto che il rugoso pescatore che brandisce la canna. Non si può dire che abbia sortito l’effetto desiderato. Le sue richieste hanno assunto inizialmente l’aspetto di un atto d’imperio di un capo di governo, di uno statista; un impeto volitivo cui i nostri statisti negli ultimi trent’anni ci avevano del tutto disabituato.

In verità già il contenuto del contenzioso era assai modesto: il mantenimento del deficit sostanzialmente al 3% piuttosto che l’approssimarsi allo zero, l’abbattimento dello stock del debito di uno 0,1%, piuttosto che di uno 0,5, l’estrapolazione degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit nella speranza di un prossimo varo del piano di 300 miliardi di investimenti europei.

I possibili compagni di strada, i francesi compagni di partito, si sono ovviamente dileguati ed hanno preferito negoziare e mendicare per proprio conto, direttamente con la Cancelliera tedesca, le garanzie per le loro trasgressioni; lungo il percorso ne ha trovato un altro, l’inglese Cameron, la qual cosa lascia sospettare la reale finalità di quel test e i suoi possibili sponsor dalla “manina discreta d’oltreoceano”.

Il parto ha generato poco meno di un topolino con l’abbattimento dello stock ad uno 0,3% nominale e 0,4 effettivo rispetto allo 0,5 % preventivato dalla CE ed il mantenimento del deficit al 3%; la differenza tra la prosopopea e l’accondiscendenza sarà coperta dai fondi per gli investimenti degli enti locali, dal fondo per l’abbassamento delle imposte dirette e con il drenaggio di qualche ennesimo balzello; la quota di deficit da destinare alla domanda si riduce quindi drasticamente. Il carattere espansivo della manovra, già viziato, come vedremo, da una larga presunzione, subisce ahimè un ulteriore serio contraccolpo, sino ad invertirne gli effetti.

Rimane l’aspettativa recondita sui trecento miliardi aggiuntivi, così recita, almeno, il comunicato dell’ultimo Consiglio Europeo, da rimediare in parte dalle contribuzioni degli stati europei, in parte da finanziamenti privati; i primi proverranno comunque da fondi dei vari stati nazionali, quindi sotto forma di contribuzioni oppure dal dirottamento dei fondi strutturali inutilizzati; i secondi verranno elargiti con le necessarie garanzie sugli interessi oppure sulla possibilità di riscossione di rendite legate ad eventuali concessioni di sfruttamento. Dal punto di vista macroeconomico, l’eventuale carattere espansivo dipende dalla differenza tra contribuzione, rendite ed investimento e dalla capacità produttiva dei singoli paesi. L’eventuale saldo positivo per l’Italia dipenderà dalla capacità del Governo di ribaltare la posizione di contribuente europeo attivo, di riorientare i flussi destinati, anche per evidenti ragioni geopolitiche, in Europa Orientale a beneficio indiretto prevalente di Germania e Stati Uniti, di proporre ed utilizzare con efficienza gli investimenti eventuali. Un bel salto di autorevolezza che farebbe impallidire l’impulso volitivo manifestato da Matteo come poc’anzi descritto, ma con scarso costrutto. La sostanza, purtroppo, non pare molto diversa dalle aspettative illusorie manifestate da Bersani tempo fa in campagna elettorale.

L’analisi qualitativa dell’intervento di investimento dell’Unione Europea richiede, per di più, ancora ulteriore cautela nelle aspettative e nei giudizi. E’ indubbio che l’avvio di appalti e l’organizzazione di servizi innescano un incremento immediato ma temporaneo di redditi e domanda; rimane problematica l’analisi sugli effetti strutturali di questi interventi.

Esiste ormai una ampia letteratura, anche la più europeista, la quale esprime perplessità sugli effetti strutturali di questi investimenti. La conclusione più accettata e benevola, in quegli stessi ambienti, propende ormai per una ambivalenza degli effetti. Gli interventi sulle infrastrutture, sulle reti, sulla formazione comportano generalmente un miglioramento della qualità di vita, ma non innescano di per sé un processo di sviluppo ed innovazione diffusa; in mancanza di una politica industriale generatrice di attività e capacità autoctone possono al contrario acuire la polarizzazione e innescare una progressiva regressione. Occorre infatti contribuire a tessere tutta una trama di relazioni tra ricerca fondamentale, ricerca applicata, piattaforme industriali, commercializzazione, formazione professionale ed incentivazioni tali da innescare un processo endogeno di sviluppo e di formazione imprenditoriale. Una trama dall’esito incerto che può raggiungere vari livelli di complessità e di successo. In nome del libero mercato interno comunitario, della necessità di non penalizzare il libero gioco tra le imprese, ma anche della incapacità di gestire le rivalità tra gli stati nazionali, le politiche comunitarie si fermano alla fase propedeutica ed impediscono e ostacolano di norma e di fatto il più delle volte la formazione sia di nuova imprenditoria nei settori innovativi e nelle aree depresse, sia la formazione di aziende dalle dimensioni necessarie a sostenere la competizione internazionale anche oltre i confini della comunità europea.

Occorre, quindi, una politica nazionale di intervento parallela ed autonoma dalle direttive comunitarie che poggi su finanziamenti svincolati da tali direttive, sull’istituzione di agenzie dedicate capaci di coordinare i vari ambiti, sulla partecipazione delle grandi aziende strategiche superstiti e sul sostegno e il controllo di un sistema finanziario in grado di raccogliere il risparmio nazionale e orientarlo agli investimenti industriali; una politica consapevole dei limiti operativi della stessa grande imprenditoria privata, tutt’altro che propensa, il più delle volte, a superare determinate basse soglie di rischio non ostante l’epica dei capitani d’industria tuttora in auge. Lo hanno compreso da tempo al centro dell’impero; in Italia siamo ancora suggestionati dalle favole, salvo i pochi ben introdotti ai banchetti già imbanditi.

Dalla metà degli anni ’80, i governi del nostro paese hanno seguito una strada opposta: hanno liquidato e ceduto gran parte delle grandi imprese senza particolari riguardi alle loro prospettive; innescato processi di privatizzazione e di riorganizzazione in gran parte di tipo estorsivo e speculativo e riduttivi rispetto alle potenzialità di sviluppo; soppresso le agenzie dedicate, a cominciare dalla Cassa per il Mezzogiorno, dilapidando capacità professionali e trasferendo competenze a strutture decentrate inadeguate per massa critica e formazione necessaria; parallelamente alla drastica riduzione dei fondi europei destinati all’Italia, hanno ridotto progressivamente quelli nazionali e hanno convogliato quelli residui verso forme generiche e diffuse di agevolazioni dirette alle aziende sopprimendo contestualmente la defiscalizzazione dei salari nelle industrie meridionali; ridotto progressivamente e sterilizzato negli effetti applicativi gli investimenti in ricerca e trascurato ogni indirizzo nei pochi punti di forza del sistema economico come i distretti industriali.

Un processo scellerato che non si è ancora compiuto e promette ulteriori sviluppi nefasti; il ministero di Matteo, non ostante il petto gonfio, l’impeto patriottardo e il proposito rottamatorio, prosegue esattamente in questo solco: la politica di deficit, per quanto ampiamente ridimensionata dalle ingiunzioni comunitarie, rischia di essere velleitaria e controproducente in mancanza di un controllo e di un orientamento verso gli investimenti di lunga durata dei flussi finanziari e della moneta; gli investimenti nel solco delle attuali politiche comunitarie rischiano di assecondare, in cambio di benefici immediati fatui, processi di periferizzazione ormai innescati da alcuni anni.

Il risultato è l’impressione immediata di leggerezza, contraddittorietà e scarsa credibilità dei propositi governativi e soprattutto l’errore strategico dovuto all’incomprensione più o meno beata dei motivi dell’attuale politica di austerità a trazione tedesca; non solo di penalizzazione e soggezione della periferia e dei rivali economici europei, in primo luogo mediterranei, ma soprattutto di resistenza passiva ad una più accentuata dipendenza e soggezione alla potenza americana senza l’ambizione di rimettere in discussione le attuali gerarchie.

La conseguenza è una gestione dirompente e tendenzialmente antagonistica, ma incoerente delle contraddizioni tra i paesi europei e la tentazione sempre più irresistibile di dare ascolto alle sirene americane e di cercarne il sostegno in funzione antitedesca. Una tentazione ricorrente coltivata soprattutto nei momenti peggiori della storia repubblicana.

Ulisse conosceva gli appetiti delle sirene; Renzi, in qualità di traghettatore, probabilmente ritiene di avere una particolare immunità da quegli appetiti; una condotta dal probabile esito da sposo “mazziato e cornuto”; oppure, molto più verosimilmente, conta di offrire in sacrificio prede sufficienti a saziare il dio crudele e a risparmiare i sacerdoti del tempio.

IL VANGELO SECONDO MATTEO

I detrattori più sanguigni e superficiali tendono ad attribuire a Renzi l’assenza di pensiero e una contestuale sfrenata ambizione fine a se stessa; un errore madornale che induce alla sottovalutazione sistematica degli avversari politici e alla ricerca di una comoda posizione di testimonianza, predisposizione comune ormai ad intere generazioni di contestatori.

Nella fattispecie un equivoco nato anche dall’assenza di una esposizione sistematica della sua visione in prima persona.

L’apostolo Matteo, anche per l’innegabile arretratezza tecnologica dell’epoca fatta tutt’al più di tavolette piuttosto che di “tablet”, ma soprattutto per il suo fervore religioso, non ha esitato a mettere a repentaglio la propria vita pur di esporre la propria verità profonda.

Il Matteo contemporaneo fa invece il misterioso; si può dire che nasca già più “scafato”; affida al vate l’esposizione del pensiero profondo, riservando a se stesso la ben più divertente opera di divulgazione.

Il più accreditato in questa funzione è l’economista-matematico Gutgeld dal cui libro “più uguali, più ricchi” traggo alcune considerazioni utili a comprendere le linee di condotta e le contraddizioni del ministero renziano.

Vediamo di riassumere il pensiero in poche righe. Si parte dall’assunto della necessità di superare la contrapposizione tra la sinistra impegnata a garantire l’uguaglianza con l’aumento della tassazione e la destra intenzionata a stimolare l’iniziativa privata e la promozione individuale con la riduzione della tassazione, specie nella sua modalità progressiva, attraverso il taglio della spesa pubblica e il ridimensionamento dei servizi pubblici. Si tratta invece di passare dal principio di uguaglianza, reo di appiattire indistintamente il riconoscimento delle competenze e di impedire lo sviluppo, al principio di equità, in grado di garantire il merito e di estendere le occasioni di opportunità a prescindere dallo status sociale degli individui, capace di innescare sviluppo economico ma anche il più delle volte diseguaglianza. L’attuale condizione dell’Italia consente di sfuggire da questa dinamica; con l’eccezione della pubblica amministrazione, l’applicazione del criterio di equità riuscirebbe a garantire sia sviluppo che maggiore eguaglianza. Lungo la strada obbligata dell’integrazione europea, la chiave dello sviluppo si trova nella riorganizzazione radicale dell’amministrazione pubblica e dei servizi a parità di prestazioni, nell’abbattimento della spesa e dei livelli di tassazione e nella conseguente liberazione di risorse nel settore privato di per sé efficiente, meritocratico e fautore di sviluppo. Una gestione manageriale e l’adozione di criteri meritocratici sono gli strumenti necessari imprescindibili di questa riorganizzazione dello Stato. Si tratta, in questo contesto, di garantire servizi essenziali, in primo luogo scuola e sanità, di passare da una politica di monetizzazione del disagio ad una di offerta di servizi pagati secondo la capacità di reddito e di trasferire reddito da ambiti privilegiati, ad esempio i pensionati a sistema retributivo di fascia medio-alta, alle fasce più basse.

Tutto deve, quindi, concorrere alla liberazione della intraprendenza e della energia della società civile, garantendo comunque soglie minime di reddito .

COME LA GERMANIA, COME L’AMERICA

Indicata la bussola, a questo punto non resta che individuare meglio la rotta che Renzi intende intraprendere e i modelli di riferimento.

Da anni è invalsa l’abitudine, da parte dei responsabili politici, di aggrapparsi alle esperienze degli altri paesi pur di sostenere proposte evidentemente non in grado di affermarsi per forza intrinseca e per l’autorevolezza dei fautori.

Renzi non è da meno.

Il “jobs act” e la riduzione degli oneri fiscali societari (IRAP) sono i vessilli scelti dall’attuale nostro condottiero. In realtà sono una rappresentazione caricaturale delle politiche ben più organiche e radicali di quei due paesi.

Il “jobs act” statunitense è, in realtà, un insieme complesso di provvedimenti che riguarda del tutto marginalmente la regolazione giuridica del rapporto di lavoro dipendente; riguarda al contrario, tra i vari aspetti, una politica di investimenti che spazia da interventi keynesiani minimalisti al limite di un mero assistenzialismo ad investimenti importanti nei settori strategici ed innovativi; di modularizzazione e riorganizzazione del sistema di funzionamento della ricerca scientifica e dell’innovazione tali da integrare e fondere ulteriormente la ricerca scientifica militare e quella civile, quindi in grado di coordinare la ricerca fondamentale, quella applicata, la trasformazione in prodotti commerciabili attraverso piattaforme industriali adeguate per il tramite di una cooperazione e competizione dei vari soggetti pubblici e privati laddove le agenzie pubbliche, in particolare la DARPA, assumono un ruolo sempre più preminente. Il tutto supportato da una politica monetaria e finanziaria controllata e confortato dal peso della potenza di quella formazione sociale. Una politica che meriterebbe un’analisi adeguata, specie se comparata con le politiche europee e delle potenze rivali, la quale permetterebbe di valutare con più realismo i rapporti di forza attuali. Qualcosa di ben più complesso e paradossale rispetto alle favolette che ci propinano sui miracoli esclusivi dell’imprenditoria privata e alle prodezze mirabolanti degli imprenditori sorti dal nulla in quel paese delle quali si nutrono le stesse infatuazioni del nostro apostolo contemporaneo.

Il trasferimento fiscale dall’imposizione diretta, in particolare delle imprese, a quella indiretta sui consumatori e il dualismo nel mercato del lavoro introdotti più di dieci anni fa in Germania, sono anch’essi una piccola parte di una serie di provvedimenti e politiche; questi spaziavano da un controllo ferreo ed un intervento attivo del sistema finanziario centrale e delle banche locali, queste ultime rimaste fuori dai controlli comunitari, ad una integrazione pubblica dei redditi intaccati dal precariato, ad un sostegno importante alla ricerca scientifica anche se del tutto inadeguato rispetto a quello americano ed ora anche cinese, ad una politica di svalutazione, con l’introduzione dell’euro, rispetto alla rivalutazione di altri paesi europei in grado di favorire i volumi produttivi a scapito però, nel lungo periodo, della profittabilità e degli investimenti strategici. Sono politiche che possono poggiare sul punto di forza determinante di quel paese: la forza, il ruolo e la partecipazione pervasiva delle associazioni, specie professionali (sindacato, associazioni imprenditoriali e professionali) e dei partiti ed una struttura istituzionale sufficientemente coesa e molto più ordinata nelle gerarchie e nelle competenze rispetto a quella italiana

I MERITI, LE CONTRADDIZIONI E LE MILLANTERIE DI RENZI

Una analisi statica dell’azione di governo del nostro protagonista rischia tuttavia di portare ad una sottovalutazione della sua capacità di cambiamento e di dominio dell’onda giusta, spesso al di là delle sue stesse intenzioni; di dar torto ai “meriti storici”, probabilmente involontari che i posteri gli dovranno, forse a denti stretti.

Il modo con il quale Matteo Renzi sta gestendo i rapporti con l’Unione Europea e i suoi Stati più importanti sta sancendo definitivamente, grazie anche all’affermazione parallela dell’euroscetticismo, il declino della retorica europeista universalistica della quale in Italia Letta e Bersani sono stati gli ultimi malinconici e rassegnati epigoni; sta evidenziando che l’ambito europeista non è altro che un campo di azione particolare entro cui si esercita, dal dopoguerra, l’attività degli stati nazionali europei, più o meno indeboliti, e di quello statunitense attraverso i suoi vari centri di potere. L’esito delle prime esplicite scaramucce, accennate all’inizio di questo scritto, lascia però intravedere rapidamente il velleitarismo e la mistificazione della sua particolare conduzione del confronto; lascia presagire anche l’amaro destino cui rischia di andare incontro un paese esposto agli appetiti dei contendenti.

Ha saputo rappresentare con enfasi la necessità inderogabile di una riorganizzazione e di una gerarchizzazione dei vari livelli della struttura statale e degli organi istituzionali e probabilmente riuscirà a portare a termine l’incipit di quest’ultimo programma pur con tutti i limiti evidenziati nella prima parte dell’articolo.

L’aspetto costruttivo del suo dinamismo mi pare che si stia tuttavia arrestando qui.

Sulle conseguenze della sua politica europea mi soffermerò nella terza parte di questo scritto.

Sul secondo aspetto, già affrontato precedentemente, mi pare che il suo livore antiburocraticistico, giustificato dall’attuale conformazione degli ordinamenti amministrativi e delle loro funzioni, sottenda in realtà un’avversione a qualsivoglia modello operativo burocratico, quando proprio questa modalità operativa sta compenetrando, in forme più flessibili, sia la gestione pubblica che quella privata delle grandi imprese e delle grandi unità amministrative delle formazioni sociali dominanti in un processo avviato già negli anni del “new deal” americano. La spinta modernista rischia quindi di trasformarsi in una riproposizione retriva della contrapposizione tra l’immobilismo del burocratismo pubblico e la virtù della libera iniziativa individualistica in un paese che ha proprio nelle dimensioni ridotte delle aziende, nella loro gestione familistica e nella pletoricità e parassitismo di buona parte del ceto medio stesso, uno dei punti di debolezza più drammatici. Gli stessi propositi di trasferimento di risorse dai ceti cosiddetti privilegiati, titolari ad esempio della pensione retributiva a quelli più umili, titolari ad esempio delle pensioni sociali, non fa che accentuare significativamente quell’appiattimento verso il basso dei redditi a prescindere dal contributo professionale che le singole persone sono state e sono in grado di offrire, già innescato dai mutamenti tecnologici, dai modelli organizzativi adottati dalle aziende specie in una economia declinante come quella italiana. Una tendenza che, stando all’enfasi meritocratica strombazzata, dovrebbe essere contrastata vivacemente a favore di un dirottamento verso gli investimenti di risorse altrimenti immobilizzate in rendite, tesaurizzazioni o disperse fuori del paese.

E’ il momento quindi di passare alle contraddizioni stridenti e alle manifestazioni di ottimismo oltranzistico che caratterizzano sempre più gli atti di un politico stretto tra i proclami modernisti e le rappresentazioni bellicose dei propri comportamenti e la realtà di uno spazio di intervento circoscritto innanzitutto dalla sua collocazione politica e dai limiti che si è definito, quindi dalla precarietà e ambiguità delle forze disposte a sostenerlo, da una parte ed il contenuto reale, decisamente conformisti, di gran parte dei compromessi in via di maturazione sino a spingere il nostro a rifugiarsi progressivamente nelle proprie debolezze e a cedere alla propria indole di giocoliere.

Tralascio i giochini sulla realtà delle cifre riguardanti il taglio dell’IRAP e la restituzione degli ottanta euro. Sono somme al lordo di compensazioni o che comprendono conferme di agevolazioni degli anni precedenti

Più grave la rappresentazione della gestione delle vertenze riguardante aziende in crisi; sono regolarmente presentate come soluzioni positive semplici rinvii di liquidazioni e chiusure comunque in atto. Lo abbiamo visto, tra i tantissimi casi, con l’Elettrolux, con l’AST; tanto sotto traccia viene mantenuto il dibattito sulla quantità impressionante di aziende in via di chiusura e sulla sparizione di interi settori produttivi, compresa l’industria di base, quanto è incalzante la adulazione “dell’Italia che ce la fa”. La perdita di controllo di interi settori anche complementari è celebrata come un inno alla libertà imprenditoriale. Nessuna analisi qualitativa delle trasformazioni in corso nell’apparato produttivo del paese e soprattutto una spessa coltre omertosa a coprire la disastrosa continuità tra la liquidazione e destrutturazione del patrimonio industriale avvenute con le cessioni negli anni ’90 e l’attuale politica di privatizzazione e depotenziamento del residuo patrimonio industriale strategico e di base.

I suoi atti, spesso sono azzardi, come le defiscalizzazioni, giustificati anche come azioni propedeutiche alle contestuali riduzioni di spesa e riorganizzazioni delle strutture amministrative; con ciò ignorano bellamente la discrasia di tempi evidente tra i due processi.

Si sbandierano come alleggerimenti fiscali una politica di mero trasferimento dall’imposizione diretta a quella indiretta e tributaria senza riuscire a dirottare e concentrare le risorse verso quei settori in grado di far invertire l’inesorabile tendenza al degrado.

In nome della fruibilità immediata, si cerca di concentrare la spesa in interventi diffusi (edilizia scolastica), in grado forse di alleviare la crisi edilizia e riavviare il volano, in contrapposizione alle grandi opere; una presa d’atto, in pratica, della scarsa capacità di gestione di interventi più complessi, ma più incisivi nella prospettiva.

L’urgenza del consenso spinge, non ostante le nobili intenzioni, verso la scorciatoia facile della monetizzazione piuttosto che lungo la strada complessa dell’organizzazione dei servizi, come celebrato nelle pie intenzioni iniziali.

Più che la spinta dell’ottimismo, mi pare che a muovere le anime sia sempre più la frenesia e la fibrillazione dettate dal senso di claustrofobia.

Una frenesia condita di una retorica che lo sta rendendo sempre più prigioniero di ambiti ristretti della società, ma rappresentativi della direzione tutt’altro che attraente che sta prendendo il paese, almeno nella sua grande maggioranza.

Lo vedremo meglio nella terza parte dello scritto.

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

I momenti in cui il velo della dissimulazione, il fair play sbiadiscono sino a rivelare la spietatezza dello scontro politico sono piuttosto rari.
Di solito può avvenire nei momenti in cui la forza dominante ritiene di avere il potere e controllo assoluto della situazione, ma si tratta di una illusione, spesso di un delirio di onnipotenza, destinata ad infrangersi rapidamente.
Più spesso avviene nelle fasi di scontro aperto tra centri con opzioni politiche antitetiche la prevalenza di una delle quali comporta la soppressione o la irrilevanza della parte avversa. È il momento in cui, nelle cosiddette democrazie, la cosiddetta divisione dei poteri tesa al reciproco controllo si trasforma apertamente nella collusione dalle modalità sofisticate tra settori di poteri nelle loro diverse funzioni.
Gli Stati Uniti, al pari di altri paesi, hanno conosciuto ciclicamente questi momenti.
Quaranta anni fa fu il Presidente Nixon a farne le spese.
Il casus belli fu la scoperta di un sistema illegale di intercettazione delle conversazioni di avversari politici. Il motivo reale fu l’opposizione di altri centri politici alla politica di apertura alla Cina in qualità di leader di un terzo polo ostile al blocco sovietico propugnata da Nixon e Kissinger.
Uno scontro acceso che quantomeno, però, riuscì a salvaguardare le apparenze della correttezza di rapporti istituzionali; consentì persino alla stampa, nella figura dei giornalisti Woodward e Bernstein, di rafforzare la propria immagine di indipendenza quando in realtà essa fu il veicolo di informazioni pilotate da settori di servizi e apparati tesi a colpire una determinata strategia politica.
Oggi, le elezioni presidenziali americane offrono uno scenario nel quale parecchi di quegli infingimenti sopravvissuti al Watergate sono venuti meno.
• La quasi totalità dei tradizionali mezzi di comunicazione fa aperta campagna elettorale a sostegno della candidata, asseconda gli argomenti e le cadenze scelte da uno dei comitati elettorali, spesso ne anticipa le azioni sostituendosi ad esso secondo una agenda ormai con ogni evidenza concordata.
• Una Agenzia delle Fisco impegnata negli accertamenti in particolare delle attività della fondazione del candidato e pressoché incurante dello stratosferico giro di finanziamenti provenienti anche da quegli ambienti meno commendevoli che i paladini dei diritti umanitari dovrebbero stigmatizzare. Una rete tra l’altro costruita in anni di incarichi pubblici internazionali ricoperti dalla famiglia Clinton.
• Una autorità investigativa impegnata ad indagare personaggi di primo livello dello staff di Trump su filoni nei quali risulta implicata la candidata Clinton e il suo staff, spesso e volentieri colti praticamente con le mani nel sacco dei brogli elettorali e quant’altro, ma ancora apparentemente indenne da indagini.
• L’aperta ostilità e la dichiarata intenzione di disobbedienza di numerosi vertici dello Stato e funzionari, in particolare delle Forze Armate e dei dipartimenti di sicurezza ed esteri nell’eventualità di vittoria di Trump.

Gli esempi potrebbero arricchirsi sino a comprendere la cadenza programmata e presumibilmente sempre più incalzante delle defezioni degli esponenti neoconservatori repubblicani a sostegno ormai più o meno esplicito della candidata democratica.
Quanto esposto mi pare però più che sufficiente ad intuire intanto la radicalità dello scontro e soprattutto la inconciliabilità fattuale di opzioni strategiche; una intuizione però non suffragata ad arte da un aperto dibattito sviato piuttosto dalla campagna denigratoria sui comportamenti privati di qualche decennio fa di Trump innescata dalle austere testate del NYT e del WPJ e dall’allusione insistita di connivenza con il nemico ufficiosamente dichiarato di nome Putin.
Una radicalità paradossalmente del tutto assente ai tempi della elezione di Obama, non ostante i fiumi di retorica sull’arrivo de “l’uomo nuovo e della nuova era dei diritti”.
Anche quella elezione di otto anni fa sancì una svolta ormai per altro già in atto dall’anno precedente. Sul piano internazionale si passò da una politica di intervento massiccio diretto ma necessariamente più delimitato sulla base del quale costruire sul posto nuove alleanze ad una politica di intervento “coperto” più discreto ma molto più capillare e diffuso teso ad utilizzare e fomentare le divisioni sugli innumerevoli fronti aperti. Si trattò in pratica di una opzione diversa, più radicale e flessibile, all’interno di una stessa strategia tesa al conseguimento di un controllo unipolare. Il prezzo politico pagato dalla fazione perdente si risolse infatti in qualche umiliazione pubblica come incorse al malcapitato Presidente Bush in occasione del conflitto georgiano del 2008. Sul piano interno si risolse con il gigantesco salvataggio del sistema finanziario, con il contenimento del processo di deindustrializzazione nei settori complementari ed il potenziamento di quelli strategici, con l’estensione del diritto all’assicurazione sanitaria mantenendo il regime privatistico.

I PRESUPPOSTI DELLA SVOLTA DI GATES-OBAMA

Il perseguimento dell’obbiettivo di monopolio egemonico sotto nuove spoglie aveva bisogno di essere sostenuto da diverse gambe e da motivazioni ideologiche più complesse di quelle in dotazione nell’armamentario neoconservatore americano più che altro ridotto al concetto di introduzione forzata della “democrazia” e di libertà “supportata” negli affari.
Il concetto di diritto individuale inteso come soddisfazione di bisogni personali e di gruppi particolaristici che sovrasta e prescinde dai contesti sociali e politici, proprio del radicalismo democratico, assurge al rango di ideologia dominante e motivante. La stessa ambizione al benessere tende ad essere ridotta al diritto a un reddito e a un sostentamento, ad una mera redistribuzione di risorse.
Il sodalizio che è maturato nell’ultimo trentennio tra questi ambienti e il complesso militare-industriale, propugnato dai democratici americani ma ormai ben accetto dagli ambienti neocon, ha fornito l’energia sufficiente all’interventismo “discreto”, al sostegno dei particolarismi identitari e della ulteriore frammentazione politica del pianeta secondo le proprie esigenze strategiche. Lo abbiamo riscontrato in Europa, nel Nord-Africa e soprattutto in Medio-Oriente dove l’ambizione alla nazione araba comprensiva di laici e cristiani è stata ridotta ormai al particolarismo arabo-sunnita dalle mille fazioni. Lo stesso perseguimento dell’autonomia energetica sembrava un ulteriore fattore in grado di minimizzare i contraccolpi della libertà di intervento.
È un sodalizio che per perdurare ha bisogno però di controllare ed indirizzare i due processi reticolari che determinano le relazioni su scala mondiale apparentemente in grado di autoregolarsi nella loro maturità:
• la globalizzazione, intesa come rete inestricabile di relazioni soprattutto economiche e comunicative di tipo molecolare tendenzialmente scevro da alleanze e sodalizi consolidati. Nella sua versione utopica, propria del periodo clintoniano degli anni ‘90 e del primo Bush, mirava ad impedire alleanze stabili e sodalizi economici tra stati e paesi e a ricondurre le relazioni sotto il controllo e la normazione di organismi internazionali apparentemente autonomi, in realtà strettamente controllati da parte americana. Nella versione pragmatica odierna, propria della gestione Obama, arriva a riconoscere la presenza di diverse aree di influenza e di relazioni privilegiate normate però secondo la visione e gli interessi fondamentali di una unica potenza che funge da anello di congiunzione tra le stesse.
È la logica che sta spingendo alla costruzione dei trattati TTP e TTIP. La gestazione faticosa e secondo me altamente problematica e lontana dagli obbiettivi originari della dirigenza americana lascia intuire che il diaframma che separa questa concezione universalistica dalla presa d’atto finale della formazione di zone di influenza in attrito tra loro è ormai sottile
• il multilateralismo, accezione diversa dal policentrismo, attraverso il quale si cerca di inibire la formazione di diverse aree politiche di influenza e tanto meno di sistemi di alleanze potenzialmente in conflitto tra di essi attraverso la regolazione di rapporti occasionali tra singoli stati entro la supervisione di organismi internazionali a controllo americano

COSTI E BENEFICI DELLA GLOBALIZZAZIONE E DEL MULTILATERALISMO

Per quanto di successo, non esistono politiche che comportino solo benefici ad agenti e centri vittoriosi, tanto meno ai restanti
Per quanto conservatrice e reazionaria, la politica è movimento, determina e si inserisce in dinamiche, implica inevitabilmente amici e nemici, alleati e avversari, decisione ed obbedienza entro i vari campi di azione pubblica spesso al di là delle intenzioni e delle capacità di previsione degli agenti politici e in sistemi di relazione mutevoli e cangianti.

Così la necessità di indirizzare e regolare i due processi comporta l’obbligo di sostenere i costi di una supremazia politico-militare e tecnologica soverchiante.

La supremazia politico-militare è garantita da un sistema di alleanze (NATO,ect) congegnato in modo da impedire l’autonomia operativa efficiente delle strutture militari e dei complessi industriali collegati dei paesi satelliti riducendo di conseguenza il loro spazio di iniziativa politica autonoma; in modo tale altresì da poter pescare dall’ampio cortile i volenterosi disponibili a partecipare di volta in volta alle avventure militari. Un sistema che comporta un onere preponderante da parte degli Stati Uniti solo in piccola parte direttamente compensato dalla partecipazione diretta degli alleati alle spese.
Un onere reso ancora sostenibile dalla straordinaria capacità ancora pressoché unica da parte degli Stati Uniti di riuscire a convertire ed utilizzare le scoperte e le tecnologie di origine militare nell’industria civile proponendo prodotti e sistemi di servizi innovativi dei quali riesce a detenere gelosamente il controllo.
Riescono in pratica a costruire e detenere, grazie alla loro politica, il MERCATO.

Sino a quando, in pratica sino agli anni ‘80, le dimensioni geografiche del cuore della propria area di influenza si limitavano all’Europa, al Giappone, alla Corea del Sud e all’Australia il ciclo rimaneva virtuoso; consentiva di costruire negli USA una formazione sociale sufficientemente coesa ed equilibrata nella quale accanto alle attività di punta permanevano in buona misura tutta una serie di attività complementari che consentivano piena occupazione e una costruzione di ceti medi di servizio e produttivi ricca di funzioni e gratificati economicamente.
Con l’implosione del blocco sovietico e l’emergere delle ambizioni di nuovi grandi paesi il circuito si è notevolmente complicato così come i fattori da combinare. In interi settori economici la ricerca scientifica, la progettazione dei prodotti, il marketing si separano dalla diretta attività di produzione ed pezzi interi di settori industriali migrano praticamente dagli USA per finire in gran parte in Cina, ma anche in altri paesi. Agli inevitabili squilibri e polarizzazioni innescati nella formazione sociale americana corrispondono nei nuovi paesi nuove capacità indispensabili a fornire le risorse necessarie ad una politica di potenza ma lungi ancora da essere conseguite stabilmente ed autonomamente.
Sino ad ora questa dinamica è stata compensata dal controllo ferreo del sistema finanziario e monetario con il quale è praticabile quell’enorme ritorno di risorse che consente ancora la supremazia politico-militare, lo sviluppo tecnologico ed il mantenimento di una struttura assistenziale e di integrazione tale da impedire l’implosione sociale in una formazione però ormai pesantemente squilibrata; anche questa compensazione però inizia a presentare limiti e crepe e soprattutto tende a mascherare piuttosto che a compensare gli squilibri della formazione sociale americana.
La stessa pratica del multilateralismo, d’altro canto, comporta una crescente dispersione delle energie politiche ed una progressiva caduta di credibilità legata alla posizione di arbitro-giocatore nei conflitti e alla mutevolezza opportunistica delle alleanze più o meno dichiarate. Una dinamica che sta erodendo inesorabilmente l’efficacia del richiamo al rispetto dei cosiddetti diritti umani.

LA POSTA IN PALIO

La reale posta in palio dello scontro tra Trump e Clinton si gioca in questi ambiti e sta assumendo sempre più i connotati di uno scontro tra diverse opzioni strategiche. Da una parte la prosecuzione dell’attuale politica in termini ancora più virulenti e avventuristici nel tentativo di mantenere ed accrescere il predominio, dall’altra l’intenzione di prendere atto dell’emersione di nuove forze in campo e soprattutto di riconoscerle.
Sottolineo il termine “intenzione” giacché si tratta dell’espressione di un nucleo dirigente abbastanza limitato, ancorché combattivo, del quale non si conoscono le modalità operative, i fondamenti di analisi, la capacità di presa nei settori fondamentali dell’amministrazione il cui controllo è fondamentale per concretizzare le intenzioni politiche.
Sappiamo bene che alle intenzioni raramente corrispondono esattamente comportamenti politici coerenti e soprattutto risultati coerenti; addirittura spesso le nobili intenzioni e gli enunciati più magnanimi si trasformano in strumenti per le politiche più subdole. L’ideologia dirittoumanitarista ne è l’esempio preclaro.
Tutto sommato però non devono trattarsi di sprovveduti, a giudicare da alcune biografie presenti nello staff; nemmeno si devono considerare così isolati dai centri di potere a giudicare dal lavorio costante della talpa di WikiLeaks.
Si tratta, è bene precisare, di uno scontro che non nasce dal nulla; affonda radici profonde nella storia americana; presenta però alcuni significativi elementi di novità

L’ANATRA ZOPPA

Sin dalle primarie Hillary Clinton ha rivelato i suoi innegabili punti di forza e i suoi importanti punti di debolezza, già intravisti nel confronto delle primarie delle 2008 con Obama.
Una straordinaria capacità di raccogliere e fornire sostegno alle più variegate e potenti élites interne e alla pletora di classi dirigenti straniere, comprese quelle europee, ancora più risolute nel loro oltranzismo perché devono la propria sopravvivenza alla prosecuzione della attuale politica americana piuttosto che alla loro capacità di radicamento nei propri paesi.
Un lavorio in questi ultimi anni teso a garantire, in condominio con il Presidente uscente, il controllo dei vertici della macchina amministrativa, comprese le forze armate e l’intelligence
L’imponente macchina organizzativa e l’entità dei finanziamenti sono lì a dimostrare la potenza di fuoco.
Non ostante i mezzi e gli strumenti di influenza disponibili non è riuscita a carpire quel consenso politico e sociale minimo così necessario alla sopravvivenza di un politico di scena.
Sanders, il suo rivale nelle primarie, è riuscito a strappare consensi in fette consistenti di elettorato giovanile specie studentesco, di ceto medio borghese e del residuo ceto operaio rimasto nelle fila del Partito Democratico (PD) solo grazie a critiche pesantissime, radicali alla sua rivale marginalmente sulla politica estera, ma puntuali sulla politica economica. Alla fine ha concesso il sostegno finale a Clinton in cambio di posti significativi nel partito e nei futuri incarichi pubblici trangugiando anche la polpetta avvelenata dei brogli elettorali subiti nelle primarie. Il segno di future prossime battaglie in seno al PD, ma anche della perdita di credibilità del personaggio e di una caduta di entusiasmo nell’attività di militanza.
Gli appelli alla fedeltà di partito e l’esorcizzazione dell’avversario qualificato dei peggiori epiteti dal punto di vista politicamente corretto sono il segno di una debolezza di argomenti non sostenibile nei tempi lunghi; la vittoria risicata nelle primarie e la conseguente estensione della platea di mecenati dai quali ottenere il sostegno ne indebolirà la coerenza politica; se aggiungiamo l’incredibile pletora di agenti con i quali garantirsi l’omertà e il sostegno mediatico, si comprenderà l’estrema ricattabilità ed il condizionamento di un simile personaggio.
Le rimangono il sostegno significativo nei settori di punta della società e dell’economia e nella fazione dei radicalisti dei diritti umani secondo opportunità; permane con qualche difficoltà il richiamo alle minoranze sempre più consistenti ed ai settori assistiti ed assistenziali. Aspetto tutt’altro che trascurabile ma attenuato dal fatto che oggi gli Stati Uniti sono sempre più un paese di minoranze chiuse in se stesse piuttosto che in relazione feconda e integrate.

LA VECCHIA TALPA

Non mi dilungo vista l’ampia letteratura riservata al personaggio e alle forze che rappresenta.
Ho già sottolineato il repertorio limitato quanto astioso di critiche riservato all’avversario Trump.
Si riconduce alle accuse di razzismo, di fondamentalismo, di faziosità così ben conosciute anche dalle nostre parti.
Si tratta tuttavia di anatemi che poggiano su stereotipi validi per vicende del passato recente e remoto del conservatorismo e del “populismo” americano utili a serrare le fila delle componenti più ottuse del PD americano ma atte a suscitare ulteriore diffidenza nell’elettorato più mobile.

La candidatura di Trump ha dato voce diretta ad una fetta di elettorato conservatore sino ad ora strumentalizzata da altre componenti, in particolare dai neoconservatori.

Viene tacciata di scarsa “compassione” per essere contraria a qualsiasi forma di stato sociale.
Si tratta in realtà di una componente “produttivista” che sostiene l’esistenza del welfare ma in una ottica di produttività piuttosto che di assistenzialismo; inteso, quindi, come intervento nei momenti critici della vita delle persone e di reintegrazione nella vita produttiva piuttosto che di interventi cronici puramente distributivi e assistenzialistici.
Negli anni ‘30 in effetti tali posizioni avevano connotati razzisti perché le rivendicazioni di tutela erano riservate e furono ottenute per i lavoratori di razza bianca; attualmente tali connotati sono inesistenti o del tutto marginali. In realtà in questi anni il “produttivismo” non ha trovato una compiuta espressione politica, tuttalpiù si è concentrata in circoli di opinione (tea party) ma è stata strumentalizzata dai neocon favorevoli alla globalizzazione indiscriminata e alla soppressione dello stato sociale, per altro più proclamata che messa in pratica. L’ultimo tentativo di prevaricazione è avvenuto nelle primarie repubblicane con la candidatura di Rubio, naufragata ingloriosamente; dopo quel naufragio gran parte dei neoconservatori sono andati a rinforzare apertamente le fila dei globalisti e degli interventisti della Clinton. Del resto la divisione in ceti e strati della formazione sociale americana non corrisponde più esattamente alla sua divisione in razze e gruppi etnici, privando di senso ogni politica fondata sulla discriminazione razziale.

Viene tacciata di isolazionismo perché identifica l’attivismo nelle reti civiche locali e legate alla gestione delle comunità locali con la richiesta di riduzione drastica delle competenze dello stato centrale e di ritiro da qualsiasi iniziativa di politica estera che non comportasse la fine di una minaccia diretta al paese presente in alcune sue frange per altro espresse dal quarto candidato alla presidenza attualmente in corsa

Viene tacciata di integralismo ipocrita, ma anche questa critica viene smontata dalla fine ingloriosa della candidatura di Ted Cruz alle primarie, il reale rappresentante di questa componente.

Trump viene spacciato per un repubblicano oltranzista quando in realtà è un personaggio che ha sfruttato la crisi di quel partito, in parte indotta dagli stessi democratici, per infiltrarsi e mettere a nudo le affinità e le connivenze della vecchia dirigenza con la politica dei democratici.

Pur con tutti i limiti, anche caratteriali, del personaggio la proposta politica di Trump pare in realtà molto più equilibrata di quanto ce la diano a bere i sistemi di informazione.

Parla di compiti precisi dello stato centrale anche nel welfare (la sanità), punta ad una politica estera fondata sul riconoscimento degli stati nazionali, sottolinea la necessità di un riequilibrio dei vari settori dell’economia e di un processo di reindustrializzazione attraverso anche una rinegoziazione dei trattati commerciali.
Critica l’interventismo militare dispersivo, concentrato in zone non vitali per l’interesse del paese; chiede la ridefinizione del sistema di alleanze militari con l’attribuzione degli oneri di difesa ai paesi direttamente implicati nelle aree di attrito.

Tutte posizioni dalle profonde implicazioni sul sistema di relazioni internazionali, sulla organizzazione dello stato, in particolare delle forze armate, sulla formazione sociale americana.
Lascia presagire un confronto più serrato con la Cina e meno ostile con la Russia.

Come ho sottolineato, siamo ancora alle enunciazioni generali da parte di un gruppo dirigente formatosi solo recentemente perché ha individuato l’umore profondo di settori del paese e le debolezze nascoste dell’avversario. Non conosciamo la praticabilità di quelle intenzioni né le capacità tattiche del gruppo né le capacità di opposizione, neutralizzazione ed inclusione dell’attuale assetto di potere. Si deve constatare che gran parte del confronto e del successo iniziale di Trump è avvenuto con la gran cassa mediatica. Nel confronto decisivo il sistema informativo gli si è rivoltato contro.
Un primo aspetto che l’attuale dirigenza sta cercando di affrontare nel prossimo futuro.
Per il resto si dovrà attendere quantomeno l’esito della competizione elettorale.

CONCLUSIONI

Lo scontro ha evidenziato l’imponenza di un apparato ma anche la capacità di erosione del terreno su cui poggia della vecchia talpa. La ripresa delle indagini a carico di esponenti dello staff della Clinton sulla base delle nuove email apparse sono un segno di questa azione erosiva.
Sono dinamiche però che richiedono tempi diversi.
Difficilmente modificheranno l’esito elettorale se non nel differenziale di voti e ancor meno nel numero dei grandi elettori; certamente lasceranno sulla graticola l’eventuale vincitrice lasciando intravedere quella della Clinton ormai come una presidenza di transizione.
Le avvisaglie della durezza dello scontro erano apparse già con la esplicita e pubblica sconfessione da parte del Congresso Americano di due atti fondamentali della politica estera democratica: l’accordo sull’Iran e i rapporti con Israele. Adesso sono arrivati ai tentativi di annichilimento di una possibile nuova classe dirigente e alle minacce di galera.
Il timore è che il nascere di una alternativa politica fondata sul riconoscimento delle forze in campo internazionali e sul recupero di una economia più equilibrata in una situazione interna così fragile porti alla sconfessione di una intera classe dirigente e al crollo del sistema di relazioni illustrato.
Non ha senso per noi schierarci nella solita inutile tifoseria senza alcuna influenza; piuttosto dovremo valutare le opportunità che potranno sorgere da questa situazione se non addirittura da una sia pur remota eventuale vittoria di Trump. Ma sono appunto opportunità che si vuole e si deve voler cogliere con la costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia.

I PARADOSSI DEL REFERENDUM, di Giuseppe Germinario

I PARADOSSI DEL REFERENDUM, di Giuseppe Germinario
Il referendum sulle riforme istituzionali sta diventando il catalizzatore degli equivoci, dei trasformismi e delle debolezze che caratterizzano il dibattito tra le forze politiche in Italia.
Una confusione in una certa misura creata ad arte; dovuta soprattutto alla estrema difficoltà di emersione di una nuova classe dirigente capace di indirizzare il paese verso scelte che quantomeno allentino l’attuale stato di subordinazione e supina accondiscendenza non solo alle strategie di fondo dell’Alleanza Atlantica ma anche a quelle mediazioni tra la potenza egemone, gli Stati Uniti e le potenze intermedie in Europa, Germania e Francia che consentono il mantenimento del sodalizio eleggendo a vittime sacrificali designate i paesi nel bacino mediterraneo praticamente ridotti a teste di ponte delle avventure destabilizzatrici nell’intera area.
Scelte, è bene ribadirlo, che non intaccano ormai soltanto la dignità di un paese e della sua classe dirigente ma che compromettono pesantemente la condizione economica nonché l’equilibrio e l’equità della formazione sociale. Una novità di rilievo rispetto al compromesso raggiunto ai tempi della Guerra Fredda.
Il referendum, non ostante il giudizio di valore apparentemente oscillante del nostro premier, rappresenta un momento cruciale, ma non decisivo, della battaglia politica perché sancirà l’epilogo più o meno vittorioso su due dei quattro punti fondativi di questo Governo e ne determinerà le modalità future di sviluppo: la ricostituzione della verticale di potere tra Stato Centrale e Regioni, il ribilanciamento dei rapporti tra Governo e Parlamento a favore del primo; gli altri due punti essendo la riforma elettorale e la riforma della Pubblica Amministrazione, compresa quella dell’ordinamento giudiziario.
Tralascio, in questo articolo, la politica economica; un corollario nell’attività dell’attuale governo utile a garantire un minimo di coesione politica e sociale anche se fondamentale, con l’attuale indirizzo, nel compromettere le potenzialità strategiche di azione del paese.

LA FORZA DEL Sì

La forza della ragione del sì risiede nella necessità intrinseca delle due riforme sottoposte a giudizio.
L’attuale assetto delle Regioni, le loro funzioni e competenze, la loro frammentazione hanno portato ad un incremento esponenziale del contenzioso con lo Stato Centrale dovuto alla condivisione di competenze.
Non è questo però il principale aspetto negativo.
Ha portato alla dispersione del patrimonio di competenze tecniche e finanziarie presenti nelle grandi agenzie nazionali liquidate assieme a gran parte della grande industria pubblica entro la metà degli anni ’90, riducendo drasticamente la possibilità e la capacità di progettare e porre in opera attività ed infrastrutture strategiche.
Ha portato ad una frammentazione e ad una dispersione della spesa pubblica, in particolare quella di investimento e di ricostituzione e sviluppo del patrimonio produttivo ed infrastrutturale.
Ha consentito l’azione diretta degli apparati dell’Unione Europea sulle realtà regionali aggirando le competenze e le capacità di controllo di quegli stati nazionali, tra i quali l’Italia, dalle strutture amministrative più deboli, con l’obbiettivo dichiarato, nella sua opzione funzionalista, di procedere al processo unitario attraverso l’indebolimento surrettizio di quegli apparati.
Ha concentrato la maggior parte delle risorse finanziarie ed amministrative delle Regioni in settori di servizio, in particolare sanità e formazione, fortemente connotati da intenti distributivi ed assistenziali piuttosto che da investimento.
Le Regioni e gli enti locali sono diventati di conseguenza sempre più il principale luogo di formazione e radicamento di ceti politici segnati da localismo e limitata capacità strategica e gestionale dai quali però hanno attinto sempre più, in mancanza di alternative, le formazioni politiche nazionali o extraregionali.
La ridefinizione dei rapporti tra Governo e Parlamento e delle competenze e della rappresentatività all’interno di quest’ultimo è l’altro punto importante.
Il conflitto politico generale (strategico) è un aspetto che pervade tutti gli ambiti della società; per potersi esprimere e poter esprimere la propria forza ha bisogno di simboli, strutture ed istituzioni che in qualche maniera lo inquadrano, gli danno forma, determinano le modalità di emersione, formazione e successo di alcune élites rispetto ad altre.
Il conflitto politico nelle istituzioni pubbliche, un particolare ambito di quello generale, è ulteriormente costretto da questa dinamica. La loro inadeguatezza conduce a forzature e distorsioni interne che alla lunga influiscono sull’esito, sui risultati e sulla formazione stessa di nuovi centri decisionali. L’uso dei decreti legge, il ricorso alla fiducia, i governi di emergenza, il trasformismo politico sono alcune delle modalità e degli strumenti di adeguamento surrettizio delle istituzioni pubbliche governative e rappresentative. Nelle fasi di svolta, quando le istituzioni preposte si rivelano inadeguate soprattutto rispetto al contesto internazionale, spesso il conflitto cruciale si sposta in e vede prevalere altri ambiti istituzionali con ulteriori distorsioni negli esiti.
Il ruolo dei magistrati inquirenti nell’Italia dell’ultimo quasi trentennio, sono un esempio lampante.
La conferma referendaria dell’accentuazione del ruolo del Governo, della primazia della Camera sul Senato sancisce il tentativo di ricondurre nell’alveo originario questo particolare conflitto politico

LE VACUITA’ DEL Sì

Lo scotto pagato da Renzi è stato però particolarmente pesante e soprattutto lungi dall’essere saldato completamente.
L’eventuale nuova composizione del Senato renderà altamente problematiche la riduzione del numero delle regioni e la definizione delle funzioni di orientamento, di controllo e di subentro del Governo Centrale.
Il rilevante numero di procedure di regolazione dei rapporti tra Camera e Senato lascia presagire il mantenimento di un contenzioso comunque importante rispetto alla situazione attuale anche se si fa finta di ignorare che in una situazione di cambiamento istituzionale è comunque necessaria una fase di transizione e di adeguamento.
Sono solo due delle tante incongruenze evidenziate con certosino accanimento dal Fronte del No.
In realtà la debolezza dell’impianto generale in parte è il frutto di una nuova classe dirigente poco preparata e soprattutto poco avvezza, a differenza dei primi costituenti, alle grandi battaglie politiche; di un errore di valutazione sul presunto carattere effimero, almeno nel breve periodo, del M5S (Movimento 5 Stelle); soprattutto di una complessa operazione di trasformismo politico gestita con l’ancora insostituibile comprimario Silvio Berlusconi tesa a garantire contemporaneamente la permanenza di Matteo Renzi e la definitiva irreversibile trasformazione del PD da una parte e contestualmente a impedire, in una fase di declino governato, l’affermazione nell’area del centrodestra di forze più attente ad una collocazione più autonoma del paese.
In pratica si sta affidando un processo di centralizzazione, di ridefinizione di competenze e procedure decisionali, di riprofilazione dei quadri dirigenti pubblici a forze che in realtà hanno interesse a mantenere il più possibile la propria autonomia e visibilità politica e in tanti casi il proprio riferimento territoriale. Le modifiche in corso d’opera dei testi di legge originari e l’impegno di revisione della legge elettorale sono solo i primi cedimenti rispetto a quello che accadrà nel prossimo futuro comunque sia l’esito referendario e ammesso che si riesca a tenerlo. Passi che daranno spazio a colpi di mano e situazioni di stallo.

berlusconi-renzi-3LE TROPPE RAGIONI DEI NO

Disegnare una mappa degli oppositori è impresa ardua. Più che una mappa aiuta tracciare un itinerario con i diversi piloti succedutisi sino ad ora al volante.
Inizialmente la guida del fronte dei NO è stata assunta dai difensori della Costituzione e dai fautori di un ritorno ad essa. Un proclama, in realtà, ricorrente nella storia della Repubblica Italiana che però sta esaurendo progressivamente la propria forza evocativa man mano che il carattere antifascista è servito progressivamente ad esorcizzare gli avversari politici del momento e a mascherare l’attuale condizione di sudditanza politica e militare con la condanna della occupazione militare tedesca. La novità legata allo scontro sui referendum riguarda il tentativo di alcune forze di legare la difesa della Costituzione al recupero di sovranità nazionale e popolare.
In realtà la parte dei principi costituzionali non è cambiata nel corso di questi settanta anni; a partire dagli anni ’70 sono cambiati alcuni articoli delle parti successive di essa. Mi sembra evidente che il richiamo alle origini si riduca quindi ad un appello strumentale teso a delegittimare avversari che andrebbero combattuti con ben altre e potenti argomentazioni; la sua difesa oltranzistica conduce ad un atteggiamento conservatore che impedisce tra l’altro l’introduzione di quelle modifiche tese a contestare l’insindacabilità di scelte politiche fondamentali riguardanti la politica estera e quella economica e a regolare al meglio il funzionamento dello Stato e della Comunità in funzione degli obbiettivi di fondo.
La debolezza di questa impostazione si è rivelata clamorosamente con l’incapacità di raccogliere le cinquecentomila firme necessarie ad acquisire il diritto di partecipazione agli spazi pubblici di dibattito e propaganda; si era del resto già manifestata affidando la conduzione del dibattito ad intellettuali e costituzionalisti abili a distruggere la costruzione giuridica sottoposta a voto solo sino a quando però hanno potuto evitare il confronto politico con i sostenitori del sì, in particolare con Renzi. La latitanza di veri leader politici ha evidenziato l’assenza o al meglio l’estrema frammentazione ed approssimazione di linee politiche propositive.
Lo stesso argomento del recupero della sovranità popolare, nella sua ambiguità, ha fornito una chiave di ingresso a quei morituri costretti all’angolo da Renzi, destinati a conquistare gli spazi pubblici residui offerti dal sistema mediatico e ad assumere presumibilmente la guida del movimento di opposizione.
In realtà, a proposito di volontà e sovranità popolare, faccio fatica ad individuare in questo mondo una qualsivoglia modalità di governo del popolo, nè riesco ad intravederne una qualche possibilità.
Vedo piuttosto centri decisionali, gruppi dirigenti agire, cooperare e confliggere tra loro in nome di qualcuno e qualcosa i quali per poter operare devono riuscire a coartare le volizioni dei gruppi in un rapporto circolare in cui l’iniziativa parte e torna da questi centri nuovi e vecchi anche in quei regimi come la democrazia dove la volontà popolare viene riconosciuta sovrana. Non significa certamente che la diversità di regime sia un fattore insignificante; semplicemente le loro modalità di conduzione del conflitto politico sono regolate diversamente, con diversa flessibilità ed efficacia secondo le congiunture politiche e diversa modalità di espressione delle pulsioni dal basso.
Il richiamo alla volontà popolare può servire ad un appello solenne in uno scontro politico dirimente; quando diventa un programma politico nasconde di solito la debolezza e l’inconcludenza di un nucleo dirigente.
Sta di fatto che l’argomento è servito alla riemersione temporanea della vecchia classe dirigente, l’attuale sinistra del PD, ormai messa all’angolo e corresponsabile diretta dell’attuale condizione del paese; a ridare forza alle aspirazioni di autonomia e sopravvivenza di piccoli potentati politici rispetto al tentativo di ricondurli nell’alveo di due grosse formazioni, ormai per altro ricondotte a tre; a mantenere nell’equivoco piuttosto che nel Limbo formazioni politiche, in particolare la Lega la quale a fronte di alcune posizioni interessanti in politica estera, non riesce nè può a mio avviso assurgere a forza nazionale, tanto più a forza mirante al recupero delle prerogative nazionali perché ostaggio del proprio vizio di origine localistico e secessionistico e vittima di conseguenza del miraggio di una Italia dei popoli e di risulta delle regioni.
Tutte condizioni che se dovessero affermarsi, riporteranno in auge il vero dominus destinato in qualche maniera a prendere le redini e a pilotare la scuderia variegata del NO e a porsi ancora una volta come reale interlocutore di Renzi. Abbiamo già visto la discesa in campo di Mario Monti e Massimo D’Alema, quest’ultimo saggiamente rimasto nell’ombra in questi tre anni e quindi non compromesso dalle costrizioni del voto parlamentare dei recalcitranti. Manca ancora l’ingresso in zona Cesarini di Silvio Berlusconi, il vero interlocutore e sostenitore del nostro Capo di Governo e destabilizzatore di ogni realtà politica più accettabile. Anche se di mala voglia non mancherà eventualmente all’appuntamento.
Dovrà procrastinare l’agognato pensionamento; in cambio potrà ottenere qualche garanzia in più sul futuro della propria famiglia per meriti sul campo.

LA SAGGEZZA DEL Nì

Per poter scegliere con maggior discernimento, in conclusione occorre a mio avviso porsi due domande esecrabili dal “politicamente corretto” ma decisive secondo l’approccio del “realismo politico”:
• È possibile separare l’obbiettivo dell’efficacia delle riforme istituzionali dall’obbiettivo strategico di una forza politica, in particolare i centri che esprimono e sostengono Matteo Renzi? La mia risposta è no in quanto il successo dell’intento funzionale contribuirebbe al successo della finalità strategica; in particolare il nostro sta contribuendo al pari dei suoi predecessori a peggiorare la condizione di sottomissione politica e di depauperamento economico e nel vano tentativo di resistere alle brame dei propri simili di pari rango in realtà sta consegnando mani e piedi il paese alle mene dell’attuale leadership della potenza di rango superiore, riducendolo così ad un mero campo di azione e predazione. Un argomento che meriterà lo spazio di altri articoli. È lo stesso obbiettivo funzionale in realtà ad essere compromesso significativamente, proprio perché quella strategia deve necessariamente fare a meno e scoraggiare le forze più dinamiche del paese e appoggiarsi, non ostante i proclami e magari concedendo qualcosa alla volontà velleitaria di Renzi, a forze parassitarie e remissive.
• Il conseguimento dell’obbiettivo funzionale delle riforme istituzionali contribuirà in maniera decisiva a concedere a Renzi e alle forze che lo esprimono la forza necessaria ad un assetto stabile? Secondo me, per meglio dire secondo la mia sensazione no perché comunque l’obbiettivo strategico, più o meno consapevole, impedisce comunque la formazione di una base solida e motivata su cui poggiare l’azione politica e contribuisce piuttosto a creare una oligarchia arrogante ma dalla base fragile e da una estensione del potere limitata. Una condizione idonea a continui colpi di mano e fibrillazioni in una palude stagnante. Un minimo di riorganizzazione, d’altro canto, potrebbe agevolare l’azione di future forze politiche sovraniste di là ancora da venire. Ho la sensazione che per maturare nel nostro paese, tale svolta dovrà verificarsi e consolidarsi prima nei nostri vicini di casa. Una affermazione negli attuali termini del no, contribuirebbe ad accentuare la palude e l’immobilismo. Vedremo gli sviluppi delle prossime settimane.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI

Globalizzazione e stati nazionali, di Giuseppe Germinario

globalizzazione

PROLOGO

Questo intervento si prefigge di approfondire due tematiche: di tracciare approssimativamente le basi teoriche ed evidenziare i limiti di analisi e la sterilità dell’azione politica derivata da una di una di esse, la globalizzazione; di evidenziare, al contrario, la persistente vitalità di quello strumento e luogo di azione politica che è lo Stato e più in generale di sottolineare, forse sarebbe più corretto dire tentare di sottolineare alcune delle potenzialità offerte dalla teoria del conflitto tra agenti strategici; una chiave di lettura che consente analisi più complesse ed efficaci dei contesti e potrebbe offrire strumenti idonei a comprendere nei vari ambiti le dinamiche e le logiche di conflitto tra centri strategici e a individuare alcuni dei luoghi e delle modalità di formazione di nuovi agenti

LA GLOBALIZZAZIONE

Il tema della globalizzazione (G) comincia ad affiorare dagli ambienti accademici negli anni ’80. I progressi tecnologici, una vera e propria rivoluzione, sono i fattori scatenanti questa rappresentazione; l’implosione del sistema sovietico, il conseguente crollo del sistema bipolare e la permanenza degli Stati Uniti come unica virtuale superpotenza regolatrice ne sanciscono la primazia nel dibattito e confronto politico e nella analisi teorica. Poggia quindi su un contesto politico inedito per le dimensioni dello scenario e la profondità del processo, anche se, inteso più limitativamente come internazionalizzazione, è una situazione che in realtà si verifica ciclicamente nella storia
Il processo di G implica una azione significativa sulle dimensioni del tempo e dello spazio. Il tempo di azione necessario all’azione tende ad azzerarsi; lo spazio operativo e di influenza degli attori tende invece ad estendersi all’intero pianeta. La detenzione e la capacità politica di sviluppo e utilizzo degli strumenti tecnologici moderni sono la condizione propedeutica indispensabile ad una azione efficace nelle due dimensioni.
Il processo di G consiste in un decisivo incremento delle correlazioni, delle interrelazioni, degli scambi, dei flussi di dati, prestazioni e merci su scala planetaria e tendenzialmente, almeno nelle interpretazioni primigenie senza la limitazione di particolari zone di influenza. Le decisioni politiche strategiche tendono quindi ad avere una valenza planetaria e il multilateralismo rappresenta la modalità di azione ideale a garantire la definitiva affermazione di tale processo. Il processo di G riguarda quindi l’ambito culturale, il sistema informativo e di trasmissioni dati, l’ambito economico, la ricerca scientifica e l’applicazione tecnologica e in maniera più controversa le rappresentazioni ideologiche e l’azione politica
La rappresentazione del processo di G offre due scenari guida principali con numerose varianti e gradazioni al loro interno:
Quello di impronta liberale-liberista. Un sistema reticolare i cui punti sono in grado di connettersi potenzialmente con tutti gli altri attraverso gli snodi senza particolari gerarchie o percorsi obbligati da terzi, specie politici. Il funzionamento ottimale del sistema prevede la presenza debole del sistema politico e dei suoi decisori, limitata per lo più alla regolamentazione esterna dell’insieme; i luoghi e gli strumenti operativi sono gli istituti sovranazionali sotto la supervisione e regolamentazione dei quali i singoli attori, in particolare gli stati, possono interagire tra loro; il criterio operativo diviene appunto il multilateralismo, il quale prevede la possibilità di relazione tra gli stati non strutturati in blocchi, sfere di influenza e alleanze predefinite ma all’interno di strutture e nel rispetto delle linee guida dettate dalle istituzioni internazionali. Parte integrante dello schema liberale, con alterne fortune, attualmente però in declino è la sua variabile progressista, ancora ostinatamente radicata nella sinistra con le seguenti linee guida: il rapporto tra attività politica ed attività economica è efficace e proficuo solo se le dimensioni delle istituzioni politiche corrispondono a quelle del mercato o siano almeno tali da poterne influenzare o regolamentare le dinamiche; attualmente la divaricazione tra il mercato globale e le istituzioni politiche troppo limitate territorialmente impedirebbero il controllo e l’indirizzo dei circuiti economici nonché la formazione di una società civile corrispondente alle dimensioni del mercato in grado di costruire formazioni politiche adeguate. Si assisterebbe quindi al primato assoluto dell’economico sul politico, al meglio ad una sorta di convivenza parallela tra i due ambiti. L’obbiettivo, in realtà l’aspirazione, diventerebbe quindi la “governance” e possibilmente l’istituzione del governo mondiale. Tra gli ispiratori più in auge di tale concezione, ma con un ascendente in declino, troviamo Habermas il quale in particolare individua nella storia una chiara tendenza alla giuridificazione dei rapporti umani e politici tra i paesi a scapito dell’uso diretto della violenza; la detta giuridificazione trae alimento dal riconoscimento di legittimità fondato attraverso la formazione di un “mondo vitale” comune imperniato su un linguaggio, un patrimonio culturale e valori comprensibili e condivisi tendenzialmente da tutti; l’insieme dell’attività degli uomini, con la significativa eccezione di quella economica, categoricamente separata dall’autore, è impregnata da questa prassi discorsiva. In realtà Habermas si rende conto del carattere utopico e larvatamente totalitario, nella fase conclusiva, della propria visione proprio perché tende a ridurre al mero diritto l’intero ambito d’azione del politico e questo all’azione dello Stato. Il rischio consisterebbe nel favorire il predominio per via istituzionale di una cerchia tecnocratica analoga a quella che prevarrebbe grazie all’attuale predominio dell’economico. La “soluzione” individuata da Habermas consiste nella formazione di istituti di governo mondiale laschi fondati sui principi minimi comuni presenti nelle grandi rappresentazioni ideologiche e morali prevalenti, in particolare le religioni.
Quello di impronta sistemica. Anche questo un sistema reticolare, ma diretto ed egemonizzato da un centro di comando particolare (er i puù la grande finanza) oppure da un sistema centralizzato e pervasivo (il capitalismo). La scuola degli Annales, a partire da Braudel per arrivare a Wallerstein e tanti altri, ha inaugurato uno dei filoni originari da cui traggono alimento queste concezioni. Secondo costoro la storia si sviluppa per cicli di varia estensione a loro volta all’interno di cicli di lunga durata (cicli di Kondratief) inframezzati da fasi di transizione; ad ogni ciclo di lunga durata corrisponde l’affermazione di particolari sistemi-mondo, di sistemi interconnessi, dotati di centro e periferia con particolari regole interne di funzionamento in grado di garantire stabilità, efficacia e continuità. In passato i sistemi mondo erano costituiti da imperi e dal predominio del politico e della funzione diretta di comando, di controllo e di esercizio della forza nel conflitto. L’ultimo sistema-mondo caratterizzante l’epoca moderna, è in realtà una economia-mondo; un mercato tendenzialmente globale dominato dal capitalismo all’interno del quale la dimensione politica assume il carattere di una funzione egemonica piuttosto che di esercizio diretto di decisione e comando. La finalità del capitalismo, però, si riduce al profitto e all’accumulazione. Il capitalismo deve la propria esistenza e la propria fortuna al regime di oligopolio sui prodotti di punta coltivati nel centro del sistema e sullo sfruttamento conseguente dei prodotti concorrenziali predominanti invece nella periferia. I centri del sistema si avvicendano seguendo la capacità di detenzione dei prodotti di punta; cercano di contrastare il proprio declino ed il proprio collasso legato alla crescita dei costi di produzione attingendo dal serbatoio delle masse contadine per altro ormai in via di esaurimento e cercando di eludere i costi sociali, infrastrutturali e ambientali delle proprie attività ma con crescente difficoltà. La pretesa prioritaria del “capitalismo” rivolta al Politico è quella di alimentare quella frammentazione degli Stati tale da consentire di sfuggire al loro eventuale stretto controllo; l’impegno subordinato degli Stati consiste nel conquistare la posizione egemonica centrale garantendosi l’allocazione ed il controllo delle produzioni oligopolistiche rispetto alle posizioni periferiche e semiperiferiche, queste ultime le più impegnate nelle posizioni precarie e acute di conflitto. Come in a), anche in b) si ramificano dallo schema originario numerosi varianti (Baumann, Negri, Badie e tanti altri ancora ben inseriti nel mondo accademico anglosassone anche se in funzione ancillare rispetto alla componente ben più autorevole del “realismo politico”) le quali esercitano ancora una potente influenza sui fatui fuochi di opposizione movimentista planetaria che qua e là si accendono improvvisamente.

LE INCONGRUENZE DI QUESTE RAPPRESENTAZIONI

Più volte abbiamo denunciato la sterilità e la inadeguatezza di queste rappresentazioni. Le incongruenze di queste rappresentazioni riguardano rispettivamente il merito del processo di globalizzazione, la sua immagine sacralizzata e assolutizzata che obnubilano le diverse e diseguali dinamiche interne, l’attribuzione di una intelligenza e volontà proprie ai sistemi reticolari e alla relazione piuttosto che agli agenti operanti in quelli; ineriscono in particolare la riduzione al dominio dell’economico o al meglio degli agenti economici sugli altri ambiti delle diverse possibilità di relazione e influenza tra gli ambiti vari dell’attività umana con il ruolo connettivo e dinamico del politico secondo i vari contesti, alla separazione dell’azione politica rispetto agli altri ambiti di attività, la riduzione dell’attività politica stessa all’attività statale e nell’ambito dello stato, il disconoscimento e il travisamento della funzione dei centri strategici e delle dinamiche del conflitto e della cooperazione tra di essi. Tutti ambiti sui quali il professor La Grassa ha offerto spunti e chiavi di interpretazione tali da poter sviluppare proficuamente il lavoro di ricerca teorica ed analisi politica.

Le conseguenze di queste discrasie sono particolarmente pesanti e influiscono negativamente nell’azione politica.

Comincio dalle incongruenze:

La G non è un processo che investe uniformemente tutti gli ambiti. Vi sono settori investiti più pesantemente (parte del finanziario, trasmissione e gestione dei dati), altri con minore intensità; nemmeno investe uniformemente i territori ed i paesi; le limitazioni sono presenti spesso e volentieri anche negli stessi paesi centrali paladini della libera circolazione. La stessa intensità del processo è sovrastimata dalla ulteriore frammentazione politica del pianeta e dal cambiamento di regime economico di gran parte dei paesi del blocco sovietico, fattori che ad esempio hanno trasformato in internazionali gli scambi economici interni ai paesi originari e alle unità produttive stesse. In realtà si parte da un presupposto invece tutto da dimostrare (stati in dissolvimento e/o ridotti a mero strumento del capitale e delle sue esigenze di accumulazione e profitto), si individua l’ambito di maggior evidenza come dominus e regolatore esclusivo del sistema (finanza), capaci di autoalimentare potere e ricchezza addirittura senza rapporto con i poveri e i diseredati nella versione estrema (Baumann). La conseguenza è che il conflitto diventa planetario ma riguarda la semplice redistribuzione tra l’1% della popolazione ed il restante ridotto a plebe nella rappresentazione più estrema, tutt’al più nella versione più “novecentesca” tra capitale e sfruttati questi ultimi a loro volta uniti nella rivendicazione contestuale di diritti sociali classici e dei diritti civili ed individuali (Wallerstein). Il ruolo degli Stati non è più centrale, ridotti come sono a meri esecutori e agenti di repressione e spesso nella condizione di ostaggi del mondo finanziario. In sostanza l’aspetto e il punto di vista economico, in particolare quello distributivo e commerciale, pervadono tutti gli ambiti, da quello politico (denaro corruttore) a quello ideologico-esistenziale (consumismo, l’alienazione). Tutte chiavi di interpretazione che tanto semplificano indubbiamente le analisi quanto distorcono e rendono sterili e subordinati i propositi di opposizione riducendoli spesso a denunce moralistiche e rivendicazioni dogmatiche o fuorvianti.

La rappresentazione reticolare, nel suo aspetto più appariscente, offre una visione di flussi frenetici secondo una logica propria e autonoma, praticamente spontanea, di quella trama; al sistema e alla rete di relazioni vengono attribuite una volontà ed una intelligenza proprie dal sapore spesso deterministico. Tale rappresentazione nasconde in realtà la valenza della gerarchia degli snodi dove i flussi si incrociano, si mischiano e si scontrano e soprattutto l’elemento fondamentale che gli impulsi partono da agenti e da loro gruppi di diverso peso e composizione presenti nella trama in rapporto non univoco tra di essi

L’azione politica anziché essere pervasiva a determinate condizioni dei vari ambiti dell’azione, subisce di conseguenza una sorta di dissociazione e separazione dal contesto. Da una parte, dalle componenti politiche apertamente integrate nel sistema viene relegata negli ambienti e nelle dinamiche istituzionali, per lo più rappresentative o al meglio di solo governo ma svuotate in realtà sempre più di potere e di competenze; dall’altra assume nella sua componente radicale connotati esistenziali che investono la salvaguardia della natura umana oppure la sua mera riduzione ed alienazione ad un unico aspetto (economico, consumistico). In pratica lo scontro politico si riduce al conflitto assoluto tra bene e male, alla salvaguardia o meno dell’integrità della natura umana. I soggetti in opposizione si riducono a pletore e masse indistinte dai bisogni insoddisfatti.

COME DON CHISCIOTTE. UNO SPRECO IMMANE DI ENERGIE

Le rappresentazioni così enunciate inibiscono una comprensione adeguata del contesto, conducono ad una sottovalutazione della complessità dei sistemi, della identità, della natura e della capacità operativa e attrattiva dei decisori dominanti, delle motivazioni complesse della loro azione politica e al contrario ad una sopravvalutazione moralistica della forza degli oppositori e dei centri minori in conflitto e competizione. Con esse si tende ad ignorare la complessità delle stratificazioni sociali e geopolitiche e l’effettiva forza ed omogeneità delle forze interagenti e in contrapposizione.

In particolare:

il dominio occidentale viene assimilato al dominio capitalistico e quest’ultimo surrettiziamente al dominio finanziario. Una rappresentazione resa verosimile dalla attuale fase di approssimativo dominio unipolare pur in degrado, laddove lo strumento militare esercita soprattutto una pressione latente e la gerarchia degli stati e la progressiva disgregazione o assoggettamento di quelli autonomi più deboli può offrire una parvenza di sistema unico nel quale il dominio politico rimane in ombra e sembra concedere a forze più appariscenti, più mobili e liquide (finanza, ect) quel predominio cui contrapporre masse informi o richiedenti al meglio una costellazione di diritti. L’emergere di centri politici alternativi e progressivamente contrapposti al dominante, radicati in alcuni stati emergenti ha infatti disorientato la leadership della contestazione mondialista al dominio mondialista. Da una parte questa li assimila forzatamente ai dominanti storici denunciandone la collusione e la condivisione di interessi e di dominio. Un’altra parte di costoro investe i nuovi arrivati dell’aura di paladini della ricostruzione dell’integrità umana antitetica al nichilismo e materialismo occidentale. Assegnano loro una funzione salvifica e di creazione di un sodalizio strategico millenaristico (lotta tra impero terrestre e potenze marittime, tra spiritualità e gretto materialismo, ect). Tutti ingredienti atti a sostituire una nuova subordinazione alla precedente o a indurre al rifugio verso soluzioni localistiche e comunitaristiche.
il preteso dominio assoluto della finanza impedisce di individuare la complessità della struttura finanziaria, la stessa conflittualità presente tra i centri finanziari stessi, la funzione non solo parassitaria ma positiva ultima di drenaggio, convogliamento e destinazione delle risorse, la caratteristica prevalente di strumento politico-strategico dovuta alla sua facilità e flessibilità di utilizzo; strumento soggetto quindi alle fasi difensive e di attacco delle azioni politiche. Un preteso predominio che impedisce inoltre di vedere la finanza come un ambito particolare e consustanziale del capitalismo, inteso come un sistema di relazioni sociali in ambito economico molto più pervasivo, più potente ma meno volubile e mobile del suo particolare ambito finanziario, certamente più determinante nei tempi lunghi
il capitalismo può definirsi “assoluto” solo perché ormai pervade, come “rapporto sociale di produzione” l’intero pianeta soprattutto per le caratteristiche superiori di organizzazione e di dinamicità grazie alla sua capacità attrattiva, non perché determini in esclusiva ogni aspetto della vita umana. Questo rapporto implica anche e soprattutto il conflitto tra agenti capitalistici; implica comunque, sempre più, caratteristiche intanto di gestione politica strategica delle dinamiche interne delle sue attività; dalla gestione dei gruppi interni alle imprese, ai rapporti tra i vari ambiti e i vari agenti in conflitto e cooperazione, alla creazione e gestione di aree di influenza nella verticale della struttura di produzione e nella competizione orizzontale. Altrettanto, però, comporta dinamiche politiche esterne all’attività economica che riguardano gli altri ambiti delle attività umane nelle loro interazioni ed influenze reciproche. I suoi agenti diventano parte integrante dei centri strategici, partecipano ma sono anche costretti ed indirizzati da logiche politiche di dominio e conflitto che costringono il rapporto capitalistico stesso ad adattarsi e conformarsi dinamicamente alle diverse formazioni sociali e alle strutture politiche. I capitalismi stessi, gli agenti delle varie formazioni, hanno bisogno di essere normati, sostenuti, indirizzati formalmente ed informalmente nei rapporti interni, nella competizione interna e in quella esterna, inseriti in una base sociale sufficientemente solida che le dinamiche capitalistiche stesse contribuiscono continuamente a sconvolgere. Tutti requisiti che svelano finalmente che il conflitto politico, con il capitalismo, pervade la stessa funzione economica. Tali requisiti richiedono inoltre l’esistenza di una struttura particolare deputata ad alcune specifiche e particolari attività politiche le quali, però, hanno uno spettro e finalità di azioni diverse e più ampie e offrono una rappresentazione tendenzialmente organica degli obbiettivi e delle finalità di azione: lo Stato. Gli stessi capitalisti delle varie formazioni dette capitaliste devono tener conto, agire all’interno e il più delle volte obbedire alle indicazioni e alle esigenze dei centri strategici dello Stato anche nelle loro attività internazionali, quelle che apparentemente dovrebbero garantire maggiore autonomia di azione nelle utopie liberali e movimentistiche.

In realtà il processo di globalizzazione non fa che riconfigurare il ruolo di centri e realtà politiche comunque delimitate territorialmente e funzionalmente, accentuando spesso tali caratteristiche piuttosto che annullandole. Tale consapevolezza sembra acquisita ormai nei paesi e nelle formazioni dalla identità politica più forte. L’affermazione, tutt’altro che consolidata però, di Trump negli Stati Uniti e del Front National in Francia, il consolidamento del potere di Putin in Russia sono alcuni esempi significativi. L’annaspamento dell’Italia lo è altrettanto, ma in senso opposto.

IL RITORNO DELLO STATO (DALLA FINESTRA)

Quello che nelle rappresentazioni “creative” si è fatto uscire dalla porta, sta rientrando a volte alla chetichella dalle finestre più spesso di forza dalle entrate principali in quelle stesse rappresentazioni: lo Stato

In realtà pur in una visione economicista, specie nei paesi dominanti sono sempre rimaste bel salde, anche se in ombra sino a pochi anni fa, correnti di economisti che riconoscono un ruolo decisivo dello Stato non solo in termini di regolazione keynesiana dei cicli, ma anche di regolazione normativa, intervento diretto strategico anche nelle relazioni internazionali ma anche l’influsso dei costumi, della cultura e dell’ideologia nelle dinamiche economiche (Rodrick, Stiglitz, Aghion, Krugman, Foglietta).

A maggior ragione le correnti del realismo politico, compresa quella liberale, hanno sempre avuto un peso determinante, predominante anche se discreto, nei centri decisionali delle potenze egemoni. In Europa e nelle regioni periferiche con scarse ambizioni e capacità di autonomia politica hanno prevalso nettamente al contrario le tesi sovranazionali, del declino degli stati, della legittimità e della forza intrinseca della legge senza il corredo della forza, del potere autonomo degli organismi internazionali. Nel paese dominante ed egemone ha prevalso tutt’al più la rappresentazione falsamente egualitaria del multilateralismo tra gli stati all’ombra di organizzazioni internazionali (FMI, BM, UE, ect) senza effettivo potere diretto ma condizionate e orientate dal paese vincitore; quella stessa rappresentazione egualitaria dei ventisette paesi europei dell’ UE propinata dai paesi più eterodiretti, tra i quali ovviamente l’Italia i quali tendono ad attribuire alla Commissione e al Parlamento Europei poteri ben radicati in realtà altrove. Sarebbe sufficiente ripercorrere la genesi storica delle varie istituzione per intuire la reale fonte ed origine del loro potere. L’aura pacificatrice, democratica ed egualitaria del multilateralismo in realtà presuppone l’esistenza e l’affermazione di una potenza regolatrice indiscussa. Un modello di azione teso ad impedire o ritardare la nascita e lo sviluppo di aree di influenza alternative e potenzialmente contrapposte. Tant’è che, al sorgere di queste realtà politiche, l’iniziativa americana ha mutato registro, sta abbandonando progressivamente l’approccio multilaterale e sta concentrando le energie soprattutto alla stipula di trattati di area internazionali (TTP, TTIP, ect) con gli Stati Uniti come cerniera e baricentro tra questi gruppi. Una impresa, per altro, dall’esito non scontato; anch’essa probabilmente destinata a fallire oppure ad essere significativamente ridimensionata.

La condizione di uno Stato dipende dalla capacità di tenuta delle relazioni esterne e dal livello di controllo e dalla capacità di coesione della formazione sociale di appartenenza (Huntington: intensità ed estensione del potere). Uno Stato può quindi sorgere, fallire, rafforzarsi, indebolirsi, estendersi o ridimensionarsi. Esattamente quello che sta avvenendo in questa fase di fine del bipolarismo e di incertezza e volubilità degli schieramenti legata all’incipienza del multipolarismo; situazione che rende i centri strategici decisori di diverse formazioni sociali più esposti agli interventi esterni e più fragili rispetto alle mutazioni delle proprie formazioni sociali.

Al momento lo Stato rimane ancora l’unica istituzione e struttura organizzata in grado di pretendere e garantire in diversa misura quelle prerogative che consentono la tenuta della formazione sociale ed il confronto con e le interrelazioni esterne alla formazione: il controllo territoriale la cui estensione dipende dalle caratteristiche geografiche, dalla sedimentazione storica della popolazione, dalla capacità tecnologica e quindi in particolare dalla capacità dei centri dominanti di gestire i rapporti di cooperazione e conflitto; la pretesa di monopolio dell’uso della forza all’interno e la conseguente fondazione del diritto regolatore dei rapporti tra lo Stato e i cittadini e tra i cittadini nei suoi aspetti anche informali; la rappresentazione del bene comune, in una delle sue accezioni, fatta non solo di rappresentazioni ideologiche ma di composizione degli interessi più o meno mediati dalla dimensione del conflitto e dai retaggi culturali, indispensabile alla tenuta e alla motivazione dei vari componenti e dell’insieme della formazione sociale; aspetto importante per i fautori del conflitto strategico, la delimitazione dell’azione politica esterna allo stato negli aspetti formali ed informali, comprese le trasgressioni rispetto alle prassi e alle regole riconosciute.

Le prerogative, lo spazio e l’intensità degli interventi tendono piuttosto ad estendersi, intensificarsi e complicarsi: l’estensione delle pretese di controllo delle acque, la gestione e la manipolazione del flusso dei dati e degli snodi di transito, la relativamente nuova dimensione dello spazio aereo, la ricerca scientifica, l’integrazione delle piattaforme industriali, l’apparato militare sono tutti fattori tra gli altri che richiedono un utilizzo complesso delle strutture statali e che definiscono le gerarchie e le possibilità di sopravvivenza e autonomia decisionale degli stati. Le stesse organizzazioni internazionali sono il frutto di accordi diplomatici ed agiscono con il supporto fondamentale degli stati e della loro forza; non possono essere equiparate alla funzione degli stati stessi e quindi non si prestano a modello di superamento di essi se non nelle rappresentazioni ingannevoli. Se dovessero sorgere nuove istituzioni, non deriverebbero certamente da queste ultime; piuttosto trarrebbero ispirazione dalla loro forma più flessibile, lo Stato Democratico Rappresentativo o per meglio dire lo Stato Poliarchico (Charles Lindbloem) con la sua capacità superiore, allo stato attuale di regolare il conflitto tra centri strategici interni alla formazione sociale e il rapporto di questi con le varie componenti e i vari gruppi della formazione in continuo mutamento.

ARTICOLAZIONE DELLO STATO E AZIONE DEGLI AGENTI STRATEGICI

Ho già ribadito che una struttura, una rete, una relazione non sono un soggetto. Hanno una dinamica, ma non una volontà. Sono composte, mosse da soggetti che tutt’al più agiscono in nome e per conto.

Sono i soggetti, singoli o in gruppo che si muovono, utilizzano e mobilitano, non lo Stato. Costituiscono, mobilitano utilizzano parti di esso.

Lo Stato, campo e strumento di azione politica per eccellenza, nelle sue varie conformazioni, fondamentali nel delineare le modalità della cooperazione e del conflitto tra agenti strategici e della conformazione dei blocchi sociali, è comunque una struttura su base gerarchica. Una visione riduttiva e deterministica di questa base induce spesso a ridurre la competizione politica tra agenti in conflitto alla mera taumaturgica e semplicistica conquista del vertice e alla defenestrazione o inglobamento dell’avversario.

Non è così in quanto:

Il rapporto gerarchico non implica una semplice relazione univoca dall’alto in basso; trattandosi inoltre di più livelli nella struttura, le figure intermedie svolgono funzioni di comando e di esecuzione. La posizione gerarchica superiore ha bisogno della competenza, della capacità e della disponibilità di quella inferiore, assegnando a questa comunque un potere di azione relativo. Gli stessi ordini hanno bisogno di interpretazione nella loro esecuzione e di rapporti orizzontali ai vari livelli tra le strutture ed i centri decisionali. La biunivocità o “multiunivocità” delle relazioni sono quindi determinate anche dai rapporti informali, dalle competenze, dall’impossibilità di controllo diretto, dall’interpretazione e da tanti altri fattori
Lo Stato moderno ha sviluppato una separazione di poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) che implica una prima divisione di strutture e un rapporto di controllo, conflitto e cooperazione tra di essi; condizioni straordinarie ed eccezionali creano strutture ad hoc difficilmente revocabili le quali una volta sedimentate duplicano e sovrappongono le competenze; la stessa complessità della macchina spinge a rapporti formali ed informali orizzontali tra i livelli tra i vari settori; le strutture diventano di per sé centri relativamente autonomi di potere; con il decentramento spesso si tendono a sovrapporre stessi livelli di competenze e sovranità tra potere centrale e periferico. Nelle situazioni di crisi e di transizione si tende a sopperire alle carenze e al mancato controllo di un settore con l’attribuzione o l’usurpazione di competenze improprie ad altri ambiti (Althusser, Poulantzas) pagando lo scotto di carenze di gestione e situazioni croniche di instabilità, di raggiungimento del tutto parziale e distorto degli obbiettivi politici, di scarso consolidamento dei risultati, di riconfigurazione nefasta dei rapporti tra centri di potere. La vicenda di “mani pulite” in Italia rappresenta un esempio emblematico di tutto ciò. Il processo può essere manipolato direttamente, indirettamente o scaturire da dinamiche incontrollate.
Gli stessi componenti dei centri strategici tendono a creare una cerchia di fedeli, anche esterni ed estranei ai posti di comando formali (“cerchio magico”) come rifugio e consulenza informale e di azione coperta o di ultima istanza nello scontro politico

La rappresentazione della classe dirigente in regnante, governante e dominante (Poulantzas) rende ancora più difficile individuare e stabilizzare le gerarchie di potere per non parlare della funzione del cosiddetto “Stato Profondo” (Chauprade)

Nell’interazione agiscono a pieno titolo importanti centri esterni allo Stato autonomi oppure strettamente collegati a settori di esso. L’azione politica dello Stato e nello Stato assume quindi forme e funzioni particolari ma è solo un aspetto del conflitto strategico tra centri presenti nei vari ambiti delle formazioni sociali (La Grassa)

Sono tutte condizioni che agevolano le trame politiche, gli spazi agibili e la provvisorietà delle situazioni non ostante la parvenza di equilibrio e di definizione dei rapporti di forza.

Condizioni che allargano lo spettro di azione e le condizioni di conflitto. Non solo! Condizioni che moltiplicano le possibilità, le tattiche e le dinamiche del confronto politico e le possibilità di disarticolazione in particolari frangenti degli apparati di potere e soprattutto i luoghi di formazione e consolidamento di potenziali centri strategici e decisionali alternativi ai centri dominanti. Le recenti lotte anticolonialiste, la rifondazione degli stati dell’Europa Orientale seguita al dissolvimento del blocco sovietico sono gli ultimi esempi delle opportunità offerte allo scontro politico da strutture di potere sempre più articolate e complicate.

Quello che si riferisce allo Stato è, per di più, riproponibile con alcune varianti essenziali all’intero spazio del conflitto strategico.

Tutto questo rende molto più problematica e complicata una analisi politica, ma renderà sicuramente l’azione politica degli eventuali centri alternativi più efficace, realistica e meno soggetta alle manipolazioni distorsive.

Purtroppo siamo ancora alla fase propedeutica alla definizione di chiavi interpretative consolidate ed efficaci; tanto più ad una “analisi concreta della situazione concreta” adeguata alle opportunità che l’attuale contingenza politica potrebbe offrire.

Il che dice tanto sull’arretratezza della nostra condizione

 

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