Intervista a Julien Freund nel 1990

Un grande poco conosciuto in Italia. A Cura di Giuseppe Germinario

 

Intervista a Julien Freund

 

L’Europa è in declino, nonostante i suoi successi tecnologici, perché non crede più nei propri valori. Riuscirà a superare questa crisi? Tornerà ai valori tradizionali o ne creerà di nuovi? Manterrà la propria identità o la abdicherà a un globalismo trionfante? Queste sono le domande fondamentali che i popoli europei si pongono e alle quali risponde l’eminente sociologo Julien Freund.

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– I – Lei è l’ex direttore dell’UER per le Scienze Sociali dell’Università di Strasburgo e l’autore, tra l’altro, del famoso Qu’est-ce que la politique? Non crede che tra le cause intellettuali e spirituali della decadenza europea, la prima sia il pluralismo dei valori?

Per sua natura, il valore implica la pluralità. Dove c’è un solo valore, non c’è alcun valore, perché non è possibile il confronto, che è la base di ogni valutazione. Una cosa vale più di un’altra, o meno, o è equivalente ad essa. In altre parole, i valori sono distribuiti su una scala, a seconda che siano superiori o inferiori ad altri o equivalenti. Il rapporto tra superiorità e inferiorità si chiama gerarchia. Chiunque utilizzi il concetto di valore presuppone una gerarchia, almeno implicitamente. L’egualitarismo moderno è un singolare che esclude i valori, poiché essi sono plurali. In questo senso, l’uguaglianza è un valore solo accanto ad altri come la libertà, la carità, la felicità, la virtù, la mediocrità o la malvagità.

Pluralità non significa però pluralismo, così come socialità non significa socialismo o totalità non significa totalitarismo. L’attuale pluralismo dei valori proclama che tutti i valori sono uguali e come tale costituisce una disaggregazione del valore attraverso la disaggregazione di qualsiasi gerarchia. In questo caso, alla fine, l’innocenza non ha più valore della colpa, la rettitudine non più dell’ipocrisia. Ovviamente, in questo caso non c’è più motivo di preferire un parlamentare onesto a uno disonesto, un insegnante consapevole del suo compito a uno pigro. Questo pluralismo di valori è senza dubbio una delle ragioni della decadenza spirituale dell’Europa.

– II – È troppo tardi per un risveglio, per un risveglio?

Non si possono escludere dalla vita e dalla storia situazioni eccezionali ed eventi miracolosi. Se ci riferiamo alle condizioni attuali, la decadenza dell’Europa [*] è irrimediabile. Direi addirittura che l’Europa è in piena decadenza da diversi anni. A questo proposito si possono addurre vari argomenti soggettivi, e quindi discutibili, ma rimane un argomento oggettivo che nessuno può mettere in discussione, se non in malafede. L’Europa è stata finora l’unica civiltà che non era semplicemente localizzata in un territorio di un continente. Non solo era continentale, ma è stata anche l’unica ad acquisire una dimensione globale. Ha infatti riunito popoli che fino ad allora si ignoravano completamente. Un abitante aborigeno ignorava l’Africa quanto un eschimese.

Eppure l’Europa è stata gradualmente presente in tutti i continenti, anche su isole prima disabitate, o scoprendo piccole isole oceaniche che ancora oggi non sono abitate stabilmente. E improvvisamente, all’indomani dell’ultima guerra mondiale, ha abbandonato i suoi territori extraeuropei e si è ritirata all’interno dei suoi confini geografici come subcontinente dell’Asia. Il fatto indiscutibile è che per secoli ha progredito sotto ogni punto di vista, scientifico, artistico, economico e non solo, e improvvisamente, in soli due decenni, è regredita fino a cessare di essere una potenza mondiale a livello politico. Cinquant’anni fa dominava tutti gli oceani, oggi ha tutte le difficoltà del mondo a difendersi efficacemente all’interno dei suoi confini.

– III – Per lei, la decadenza dell’Europa è un fatto irrimediabile?

Non sono né un profeta né un indovino, ma trovo difficile vedere un’inversione della situazione nelle prossime generazioni. L’Europa è in declino, nonostante i suoi successi tecnici. Mi sembra addirittura che l’Europa voglia mettere alla prova la sua debolezza fino in fondo, nonostante tutti gli inviti a rialzarsi, nonostante tutte le buone intenzioni di chi cerca di metterci in guardia dalle inevitabili conseguenze della decadenza. I Romani della decadenza, a parte l’una o l’altra mente lucida (erano rari), non erano affatto consapevoli di vivere in un periodo di decadenza, poiché l’economia non era mai stata così prospera come in quel periodo e ai cittadini venivano offerti tutti i piaceri dei giochi negli stadi e, nei circhi, i giochi più frivoli e assassini. La decadenza è soprattutto morale e politica, non economica o tecnica.

Andate a far capire la prudenza a un maniaco della velocità! Le droghe uccidono, ma il piacere che danno nel presente è il più forte. Tendo a credere che l’economia del tempo libero, oggi predominante al punto da fare della disoccupazione un argomento di retorica politica, contribuirà ad accelerare la decadenza. Lo stesso vale per altri settori, in particolare per l’istruzione. L’ignoranza viene gradualmente elevata a pretesa intellettuale. L’esperienza è resa priva di significato, ogni generazione vive delle conquiste di quelle precedenti, ma allo stesso tempo finge che le conquiste di cui gode siano opera sua. L’educazione moderna consiste soprattutto nell’imparare a mentire a se stessi.

– IV – Orfani, cosa possiamo fare in futuro?

Siamo in presenza di profondi cambiamenti nella mentalità generale che riguardano tutte le menti del mondo. Una mentalità non cambia su comando o raccomandazione, per quanto utile o vantaggiosa possa essere. Il futuro non è però bloccato, perché non esiste una decadenza storicamente assoluta. Anzi, la decadenza è una transizione, che dura diverse generazioni, tra una civiltà esausta e stanca e la nascita di una nuova civiltà consapevole di un nuovo ordine, di nuove forme e norme. Lo sappiamo da tutta la storia conosciuta.

La domanda oggi è se la nuova civiltà che sta nascendo sarà una civiltà globale, non una civiltà che si è globalizzata nel corso del suo sviluppo, come l’Europa, ma una civiltà che è globale nello spirito fin dall’inizio. L’eventualità di questo nuovo tipo può presupporre la comparsa di una nuova autorità, che istituisca una nuova gerarchia riconosciuta come legittima e che riesca a imporsi universalmente. È più che probabile che l’umanità sperimenti quella che definirei una rivolta culturale, in successione più o meno rapida, all’insegna delle rivendicazioni di minoranze etniche o di gruppi radicalizzati incentrati su valori che saranno facilmente scalfiti

Non è affatto detto che ciò che sta accadendo nella Russia sovietica sia una replica di ciò che stiamo vivendo in Europa, perché la discordia che sta lacerando la Russia sovietica può far nascere un altro modo di vedere le cose. Smettiamo di essere schiavi di noi stessi. Le stesse osservazioni possono essere fatte sull’America. La speranza, che è consustanziale alla vita, è l’unico modo per controllare i possibili slittamenti dei travagliati tempi di transizione. Se tutto dovesse diventare certo nel futuro, dovremmo abbandonare ogni speranza, come nell’Inferno di Dante. Chi spera non è mai orfano, perché rimane capace di immaginare e anticipare, alla luce del passato, prospettive che sfuggono alla logica delle teorie. Non cadiamo nella fatuità del Premio Nobel per la Fisica, vittima del suo scientismo, che negli anni Trenta dichiarò che tra sei mesi la fisica sarebbe stata una scienza completamente finita.

– V – Il ritorno della politica condiziona un risveglio del nostro popolo al potere?

Una civiltà non è solo l’espressione di un potere politico perché, per sua stessa essenza, implica altri momenti altrettanto prestigiosi, di natura religiosa, morale, artistica, scientifica, giuridica e altro. In quanto tale, la politica è il potere di regolazione interna delle società per potersi difendere meglio dal nemico esterno; è efficace solo a condizione di riconoscere che questi diversi momenti che compongono una civiltà possono essere conflittuali. Non siamo ciechi: il conflitto è una delle fonti del dinamismo di una società. Una società che vorrebbe essere pacifica fin dall’inizio tra le altre è solo un’utopia destinata al disastro.

Il ritorno alla politica, se concepita come un’entità isolata, potrebbe solo portare a delle illusioni, poiché rimane l’istanza di scelta della gerarchia all’interno di una società. La scelta è inevitabile perché lo sviluppo di una società è caratterizzato dalla pluralità di orientamenti possibili, in funzione di eventi contingenti, ma anche di espressioni e valori concordanti. Una scelta immanente a se stessa è pura necessità che ignora se stessa. La scelta di cui parlo è innanzitutto la fede in una trascendenza che alimenta una speranza il più possibile favorevole per l’umanità a venire.

La speranza è indispensabile, come dimostra il fenomeno dell’emigrazione. La vita implica un gioco di reciprocità tollerabili tra di loro. Altrimenti, diventa una guerra. Quando gli emigranti sono numerosi, introducono inevitabilmente i loro modi di pensare, diventano forze contagiose per la società ospitante. Di conseguenza, introducono altre norme ai popoli non autoctoni. In Europa, siamo all’inizio di un processo di reciprocità che può essere disciplinato solo dalla speranza nella trascendenza dei valori comuni a una nuova storia da costruire. Ci sono nostalgie che sono mortificanti per noi stessi.

– VI – Crede nella fine delle ideologie?

La fine delle ideologie, intese come armi di propaganda e dottrine escatologiche polemiche e secolarizzate, è storicamente un evento innegabile. Le ideologie stanno appassendo, come dimostrano il crollo del marxismo-leninismo e gli antagonismi interni dell’anarchismo in tutti i Paesi. Diciamo che le ideologie filosoficamente qualificate e socialmente bellicose o sterminatrici stanno tutte andando alla deriva, ma hanno lasciato un segno nelle anime. Viviamo inconsapevolmente tra persone ideologizzate (può succedere anche a noi), che non dichiarano più di appartenere a una certa ideologia, ma che hanno integrato il sedimento di ideologie moribonde nei loro comportamenti, nella loro mentalità e nei loro ragionamenti, oltre che nei loro voti.

A destra e a sinistra si sacrifica il terzomondismo, si fanno discorsi lusinghieri sulla pace, sulla giustizia e sulla felicità individuale e collettiva. Le ideologie caratteristiche richiedevano l’adesione volontaria delle menti, l’ideologizzazione, al contrario, è lo svilimento delle anime, distorte dai media. È quello che Max Weber chiamava il paradosso delle conseguenze. In nome delle buone intenzioni, ci prepariamo a un domani infelice. Se la filosofia ha ancora un senso, allora potrebbe riflettere sul divario tra la generosità delle idee e la malvagità degli atti effettivamente compiuti.

– VII – L'”ideologia morbida” non porta con sé il totalitarismo?

È possibile che la “soft ideology” porti al totalitarismo se intesa come terrorismo individuale e collettivo. Forse anche in questo ultimo secolo siamo ossessionati dal totalitarismo che ha caratterizzato la nostra epoca. Non è forse un crepuscolo dal quale dobbiamo uscire? In effetti, ci sono altrettante possibilità, forse anche di più, che la conseguenza non sia più il totalitarismo, ma la decomposizione di tutti i rapporti sociali, purtroppo con il nostro consenso.

Osserviamo semplicemente che l’opinione generale è più o meno consapevolmente ostile all’autorità, alla costrizione, ai divieti e di conseguenza alle regole, all’ordine e al rispetto, al pudore e anche, molto semplicemente, la speranza non è posta di fronte all’alternativa: totalitarismo terroristico o decomposizione della società? Confidando nel trascendente, la speranza è capace di immaginare norme più umane di relazione tra gli uomini, purché riconosca che l’intelligenza è inseparabile dalla memoria e dall’ispirazione. La lotta da condurre è di tipo spirituale: riabilitare la memoria come passato e storia e confidare nella grazia nascosta nel pensiero produttivo, di cui la creatività attualmente in voga non è che una caricatura.

– Professore, la ringraziamo per questa intervista.

 

Intervista di Xavier Cheneseau, Vouloir n°61-62, 1990.

 

Nota aggiuntiva:

 

* In realtà, la problematica deve essere estesa a tutta l’Europa, questo continente all’origine dell’Occidente moderno. L’idea di Europa”, ricorda Julien Freund, “è contemporanea alle grandi esplorazioni dei navigatori che hanno scoperto l’America, l’Africa nera, le Indie, la Cina e l’Oceano Pacifico. Per i popoli che parteciparono a questa immensa impresa fu il mezzo per darsi un’identità di fronte a questi nuovi continenti e per differenziarsi da essi. L’avventura li condusse alla scoperta del mondo intero nella sua finitudine sferica. L’abbandono in meno di due decenni di quasi tutte le terre conquistate nel corso dei secoli e il ritiro dell’Europa nel proprio spazio geografico è un evento decisivo: “L’Europa entra in decadenza non solo in relazione all’impero mondiale che controllava alla vigilia del suo improvviso declino, ma soprattutto in relazione al suo dinamismo interno, all’audacia delle sue imprese e alla vitalità dei suoi abitanti” (La fine del Rinascimento). Dopo aver condotto uno studio complessivo delle diverse teorie e filosofie relative alla caduta degli imperi e delle civiltà in La décadence, Julien Freund torna, in un libro di interviste, alla storia contemporanea dell’Europa. Al di là delle interpretazioni e delle ermeneutiche degli storici, egli mette in evidenza la perdita di controllo sui confini e la scomparsa della base territoriale di un popolo come criterio di decadenza: “C’è un fenomeno oggettivo fondamentale: è la perdita del territorio. La decadenza è finita il giorno in cui si perde il territorio. La decadenza dell’Europa è cominciata il giorno in cui l’Europa si è raccolta sul suo territorio, abbandonando le sue conquiste lontane” (L’avventura della politica). Questo criterio territoriale dei fenomeni di decadenza è eminentemente geopolitico e ci riporta alla situazione attuale dell’Europa. Le nazioni e gli Stati del Vecchio Mondo non sono in grado di difendersi con le proprie forze e di presidiare i confini comuni. L'”Europa dei vecchi parapetti” di Arthur Rimbaud non esiste più e i confini esterni dell’Unione non sono ancora stati stabiliti. La diagnosi della decadenza dell’Europa richiede un’eziologia. Le origini di questo fenomeno sono molteplici e complesse; i fattori esplicativi si influenzano a vicenda e non è facile distinguerli. Va semplicemente sottolineato che ogni grande civiltà si sente superiore alle altre costellazioni socioculturali e si considera universale. In questo modo, pretende di attualizzare al massimo livello le virtualità della specie umana. Un deplorevole etnocentrismo? I gruppi umani, dal più piccolo al più grande, hanno la loro prospettiva e se questa “visione del mondo” non è valida al di fuori dei gruppi che la utilizzano, non può essere confutata all’interno di questi gruppi. Questa è una delle condizioni sine qua non della diversità di culture e civiltà che i “tardo moderni” vogliono rispettare. Certo, la conoscenza permette di superare le particolarità, ma è un’ascesi elitaria. Tesa alla salvezza e alla liberazione, la conoscenza non mira a governare gli uomini e ad assumere le responsabilità del Politico considerato nella sua essenza. (estratto dall’articolo “Penser l’Europe: déclin ou décadence?” di JS Mongrenier)

 

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In memoria di Julien Freund

Il 10 settembre 1993 Julien Freund ci ha lasciato in silenzio. In Europa era uno dei più eminenti filosofi della politica, un riferimento obbligato per tutti coloro che volevano pensare alla politica fuori dagli schemi. La stampa non ha parlato di lui.

Nato a Henridorff, in Alsazia-Lorena, nel 1921, si unì alla resistenza durante la Seconda guerra mondiale. Nell’immediato dopoguerra, prima insegna filosofia a Metz, poi diventa presidente della facoltà di scienze sociali dell’Università di Strasburgo, di cui assicurerà lo sviluppo.

Inizialmente ispirato dal pensiero di Max Weber*, autore all’epoca poco conosciuto in Francia, Freund sviluppò gradualmente una teoria dell’azione politica che formulò, a grandi linee, nel suo capolavoro, L’essenza della politica (Sirey, 1965).

La politica è un’essenza, in un duplice senso: da un lato, è una delle categorie fondamentali, costanti e non eradicabili della natura e dell’esistenza umana e, dall’altro, una realtà che rimane identica a se stessa nonostante le variazioni di potere e di regimi e nonostante il cambiamento dei confini sulla superficie della terra. Per dirla in altri termini: l’uomo non ha inventato la politica, né tanto meno la società, e, d’altra parte, la politica rimarrà sempre ciò che è stata, secondo la stessa logica per cui non potrebbe esistere un’altra scienza, specificamente diversa da quella che abbiamo sempre conosciuto. È infatti assurdo pensare che possano esistere due diverse essenze di scienza, cioè due scienze che abbiano presupposti diametralmente opposti; altrimenti la scienza sarebbe in contraddizione con se stessa.

La politica è un’attività circostanziale, causale e variabile nelle sue forme e nei suoi orientamenti, al servizio di un’organizzazione pratica e della coesione della società […]. La politica, invece, non obbedisce ai desideri e alle fantasie dell’uomo, che non può non fare nulla, perché allora non esisterebbe o sarebbe qualcosa di diverso da ciò che è. Non si può sopprimere il politico – a meno che l’uomo stesso, senza sopprimersi, non diventi un’altra persona.

Sulla base di questa definizione dell’essenza del politico, Freund sottopone a una serrata critica l’interpretazione marxista del politico come mera espressione delle dinamiche economiche in atto nella società. Freund, invece, tiene a sottolineare la sua specificità, una specificità irriducibile a qualsiasi altro criterio. Dal suo punto di vista, la politica è “un’arte della decisione”, basata su tre tipi di relazioniil rapporto tra comando e obbedienza, il rapporto pubblico/privato e, infine, l’opposizione amico/nemico.

Quest’ultima disposizione bipolare costituisce l’essenza stessa della politica: legittima l’uso della forza da parte dello Stato e determina l’esercizio della sovranità. Senza forza, lo Stato non è più sovrano; senza sovranità, lo Stato non è più lo Stato. Ma può uno Stato cessare di essere “politico”? Certamente, risponde Freund:

È impossibile esprimere una volontà veramente politica se si rinuncia in anticipo all’uso dei normali mezzi della politica, che significa potere, coercizione e, in alcuni casi eccezionali, violenza. Agire politicamente significa esercitare l’autorità, manifestare il potere. Altrimenti, si rischia di essere annientati da un potere rivale che vuole agire pienamente in politica. In altre parole, tutta la politica implica il potere. Il potere è uno dei suoi imperativi. Di conseguenza, è contrario alla legge stessa della politica escludere l’esercizio del potere fin dall’inizio, ad esempio facendo di un governo un luogo di discussione o un organo arbitrale come un tribunale civile. La logica stessa del potere è che esso sia davvero potere e non impotenza. In secondo luogo, per il suo stesso modo di esistere, la politica ha bisogno di potere, e qualsiasi politica che vi rinunci per debolezza o per un’osservanza troppo scrupolosa della legge, cessa di essere veramente politica; cessa di svolgere la sua normale funzione per il fatto che diventa incapace di proteggere i membri della comunità di cui è responsabile. Per un Paese, quindi, il problema non è avere una costituzione giuridicamente perfetta o andare alla ricerca di una democrazia ideale, ma darsi un regime capace di affrontare le difficoltà concrete, di mantenere l’ordine, generando un consenso favorevole alle innovazioni in grado di risolvere i conflitti che inevitabilmente sorgono in ogni società.

In questi testi tratti da L’essenza della politica, possiamo notare l’evidente parentela tra la filosofia di J. Freund e il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985).

Particolarmente attento alle dinamiche dei conflitti, amico di Gaston Bouthoul, uno dei principali osservatori mondiali di questi fenomeni, Freund fondò nel 1970, sempre a Strasburgo, il prestigioso Istituto di Polemologia [“Per polemologia”, spiegava, “non intendo la scienza della guerra e della pace, ma la scienza generale del conflitto nel senso del polemos eracliteo”] e, nel 1983, pubblicò, nell’ambito di questa scienza della guerra, un importante saggio: Sociologia del conflitto, un’opera in cui considera i conflitti come processi positivi: “Sono sicuro di poter dire che la politica è per sua natura conflittuale, per il fatto stesso che non c’è politica se non c’è nemico “**.

Così, sulla base di tali elaborazioni concettuali, rivoluzionarie nella loro chiarezza, Freund giunge a una definizione generale di politica, intesa “come l’attività sociale che si propone di assicurare con la forza, generalmente basata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di una determinata unità politica, garantendo l’ordine nonostante le lotte che nascono dalla diversità e dalle divergenze di opinioni e di interessi”.

In un libro in gran parte auto-biografico, pubblicato sotto forma di intervista (L’aventure du politique, Critérion, 1991), Freund esprime il suo pessimismo sul destino dell’Occidente, ormai in preda a una decadenza insanabile, dovuta a cause interne che aveva studiato nelle pagine di un altro suo capolavoro, La décadence (Sirey, 1984). Difensore di un’organizzazione federalista dell’Europa, aveva espresso il suo punto di vista su questa questione cruciale in La fin de la Renaissance (PUF, 1980). Julien Freund è morto prima di aver completato un saggio sull’essenza dell’economia. Il Prof. Dr. Piet Tommissen avrà l’onore di pubblicare la versione definitiva di quest’opera***, certamente fondamentale come tutte le precedenti. Il Prof. Dr. Piet Tommissen sarà anche l’esecutore e il gestore dell’archivio lasciatoci dal grande politologo alsaziano.

► Dott. Alessandra Colla (rivista milanese Orion n°108, settembre 1993).

 

*: Freund ha tradotto Lo studioso e il politico e Saggi sulla teoria della scienza di Max Weber (anch’essi da lui prefati). Cfr. estratti.

** La demonizzazione del nemico è il prezzo da pagare per coloro che ignorano l’opposizione tra amico e nemico. Da qui le guerre di sterminio che, prendendo di mira nemici ridotti a incarnazioni del diavolo, vengono condotte in nome di fini sublimi (pace perpetua, fratellanza universale, ecc.). PA Taguieff, Julien Freund, au cœur du politique, La Table ronde, 2008, p. 54. Il nemico è inteso qui come “polemos” o “hostis”, cioè come nemico pubblico, un’entità che deve essere chiaramente distinta dal nemico privato (“ekhthros” o “inimicus”). Da buon pensatore machiavellico, Julien Freund individua il gioco machiavellico di coloro che rifiutano la nozione di nemico per utilizzare, in cambio, una terminologia moraleggiante che letteralmente evacua il nemico dal genere umano. “Il nemico rientra dalla porta di servizio, ma sotto una veste diabolica”, scrive Taguieff a questo proposito (p. 53).

*** : L’essence de l’économique, Presses univ. de Strasbourg, 1993 [vedi questa intervista]. P. Tommissen ha anche stabilito una bibliografia in appendice a Philosophie et sociologie (Cabay, Louvain-la-Neuve, 1984, p. 415-456: Julien Freund, une esquisse bio-bibliographique).

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Testi aggiuntivi :

Filosofo, sociologo e politologo, Julien Freund ci ha lasciati il 10 settembre 1993, lasciandoci in eredità un ricco e variegato corpus di lavori sul diritto, la politica, l’economia, la religione, l’epistemologia delle scienze sociali, la polemologia, la pedagogia e l’estetica. Tuttavia, era particolarmente interessato a chiarire quelli che Paul Ricœur chiamava i paradossi della politica. Segnato prima della guerra da una concezione idealista della politica, Freund perse le sue illusioni durante gli anni della Resistenza e durante il suo impegno politico e sindacale dopo la Liberazione. Sono state le delusioni causate dalla realtà della pratica politica a spingerlo a studiare cosa sia realmente la politica, cioè a scoprire cosa si nasconde dietro il velo ipocrita di certe concezioni moralistiche. È da questo desiderio di ricercare e descrivere la vera natura della politica, al di là delle contingenze storiche e ideologiche, che nasce L’essence du politique, la sua opera magna pubblicata nel 1965 e riedita nel 2003 da Dalloz con una postfazione di Pierre-André Taguieff.

La grande lezione politica di Julien Freund

Contro la saggezza convenzionale del suo tempo, Julien Freund osò affermare e dimostrare ne L’essenza della politica (1) che la politica ha un peso insormontabile e che è illusorio sperare nella sua scomparsa. Egli sintetizzò questa idea nella formula: “ci sono rivoluzioni politiche, non c’è rivoluzione del politico” (2). Questa affermazione, apparentemente semplice, ha innumerevoli conseguenze filosofiche.

Il pensiero politico di Freund si basa sull’idea che esista un’essenza della politica. Ciò significa, da un lato, che l’uomo è un essere politico e, dall’altro, che la società è un fatto naturale e non una costruzione artificiale dell’uomo (3). Da questo punto di vista, l’autore de L’essenza della politica è in linea con Aristotele e in opposizione alle varie teorie del contratto sociale ereditate da Hobbes. Da ciò deriva una certa concezione del rapporto tra la società e gli individui che la compongono.

La società è intesa come condizione esistenziale dell’uomo: come ogni ambiente, gli impone una limitazione e una finitudine. Spetta cioè all’uomo, attraverso l’attività politica, organizzarla e riorganizzarla costantemente in funzione dell’evoluzione dell’umanità e dello sviluppo delle varie attività umane. Per Freund, la società è quindi “data”, così come l’uomo che, da parte sua, è dotato di una “socievolezza naturale”. L’idea di uno “stato naturale”, che implicherebbe un’umanità asociale, è quindi per lui priva di senso. Può avere senso solo come ipotesi, come “utopia razionale” che permetterebbe di comprendere meglio la società e di mostrare ciò che è convenzionale in essa.

Una visione fondamentalmente conflittuale della società

A causa dell’uso del termine “essenza”, la filosofia di Freund è stata spesso definita essenzialismo, nel senso che rinchiude la politica in un’immobilità estranea alla sua natura. Non è necessario aver letto Freund per pensarlo. La sua intera ambizione teorica era quella di riabilitare la distinzione tra i generi, che si basa sull’idea dell’autonomia delle diverse attività umane, ognuna delle quali ha il proprio scopo e i propri mezzi. Lo scopo della scienza o dell’arte non è lo stesso di quello della politica o della religione. La sua teoria era, tra l’altro, un modo per reagire contro le ideologie o le dottrine sistematiche che cercavano di spiegare tutte le attività umane con un’attività primaria, sia essa l’economia (come nel marxismo), la politica o la religione. Pertanto, quando Freund dice che la politica è un’essenza, significa che è solo un’essenza, cioè un’attività umana tra le altre come la religione, la morale o l’economia. Come sociologo, non vedeva l’esistenza umana solo da una prospettiva politica, ignorando queste altre attività. Non vedeva la politica come un fine in sé, ma come un’attività al servizio di altre aspirazioni umane (estetiche, religiose, metafisiche, ecc.), tornando così alla filosofia aristotelica.

La sua teoria politica si basa su una visione fondamentalmente conflittuale della società, secondo la quale essa è attraversata da tensioni e antagonismi tra le varie attività umane che nessuna razionalizzazione o utopia può superare definitivamente. Come Vilfredo Pareto (4), ritiene che l’ordine sociale si basi su un equilibrio più o meno sensibile tra queste forze antagoniste. Alcune forze tendono a stabilizzare l’ordine sociale, altre a destabilizzarlo e disorganizzarlo per stabilire un ordine migliore. L’equilibrio su cui poggia questo ordine non può mai trovare una soluzione definitiva, ma solo un compromesso; ed è proprio compito della politica mantenerlo, in particolare attraverso la coercizione. Per questo l’ordine politico è in gran parte determinato dall’interazione dialettica tra comando e obbedienza.

Un ostacolo insormontabile per uno Stato universale

Va sottolineato che, come ogni attività, la politica ha dei presupposti, cioè delle condizioni costitutive che la rendono ciò che è, e non qualcos’altro. Per Freund, questi presupposti sono tre: la relazione tra comando e obbedienza, la distinzione tra pubblico e privato e la distinzione tra amico e nemico (5). Tutti e tre questi presupposti riflettono le dinamiche conflittuali in atto nella società.

  1. Il rapporto di comando e obbedienza è il presupposto di base della politica ed è questo che la caratterizza veramente, in quanto introduce il rapporto gerarchico tra governanti e governati. Erede di Max Weber, Freund vede il comando come un fenomeno di potere. È questo potere a plasmare la volontà del gruppo e a garantire l’esistenza del dominio pubblico. Possiamo capire perché la teoria politica di Freund dia alla sovranità la sua piena dimensione politica, presentandola come un fenomeno di potere e di forza e non come un concetto essenzialmente giuridico. Tuttavia, Freund non fa del potere il fine della politica. Per lui, come per Hobbes, potere e protezione vanno di pari passo: il potere è al servizio della protezione della comunità, perché non dobbiamo dimenticare che lo scopo della politica è la sicurezza di fronte al mondo esterno e la concordia all’interno.
  2. La distinzione tra pubblico e privato è il presupposto che permette di delimitare ciò che è di competenza della politica, cioè ciò che riguarda l’ordine pubblico, e ciò che appartiene alla sfera privata e riguarda l’individuo e le relazioni interindividuali. Nella realtà storica, le cose non sono così nette. Inoltre, questo confine non è mai definitivo, poiché dipende dalla volontà politica, che in ultima analisi determina la quota di ciascuna sfera. Ciò che è certo è che la dialettica tra pubblico e privato esiste in ogni società politica. La storia dell’Occidente è caratterizzata da uno sforzo politico per estendere la sfera privata e garantire una serie di libertà fondamentali, mentre il totalitarismo, al contrario, è stato un gigantesco sforzo per cancellare la distinzione tra individuo e pubblico. Eppure il privato è indispensabile quanto il pubblico, nella misura in cui è il luogo delle innovazioni, delle trasformazioni e delle contestazioni. Qui troviamo la dinamica conflittuale che attraversa il lavoro di J. Freund. È la dialettica tra l’ordine pubblico e il ribollire della sfera privata che permette a una società di essere viva e di evolversi costantemente.
  3. Freund ha incorporato il criterio schmittiano della distinzione amico-nemico nella sua teoria politica, rendendolo non il criterio della politica, ma solo uno dei suoi tre presupposti. Questa distinzione non ha la stessa importanza esistenziale o metafisica che aveva per l’autore de La nozione di politica, ma il nemico rimane per Freund il fattore essenziale della politica: nonostante gli idealisti, per lui “non può esserci politica senza un nemico reale o virtuale” (6). Il vantaggio della distinzione amico-nemico è che non è solo simbolica, ma soprattutto concreta ed esistenziale, cioè eminentemente politica. Ciò significa che “la guerra è sempre latente, non perché sia un fine in sé o l’obiettivo della politica, ma come ultimo ricorso in una situazione senza speranza” (7).

Per Freund, la natura conflittuale della natura umana costituisce un ostacolo insormontabile alla costituzione di uno Stato universale. Per questo Freund adotta un approccio realista e sociologico alle relazioni internazionali che deve molto ai suoi maestri, Carl Schmitt e Raymond Aron. Pur ammettendo che le relazioni tra gli Stati si basano anche su scambi amichevoli, Freund osserva che esse si fondano sulla paura e sulla volontà di potenza, piuttosto che su basi giuridiche. Pertanto, a suo avviso, il diritto rimane subordinato agli interessi della politica. Era sospettoso nei confronti dell’atteggiamento moralistico di credere che le guerre potessero essere terminate con mezzi legali, eliminando allo stesso tempo ogni coercizione e violenza. A questo proposito, rimproverava ad alcuni giuristi di negare, in nome di un positivismo troppo stretto, l’esistenza della sovranità o di considerarla un concetto metafisico o filosofico.

In definitiva, se rileggiamo Freund oggi, notiamo che, per la maggior parte, la sua analisi “classica” delle relazioni internazionali non è invecchiata molto, nonostante il forte cambiamento seguito alla scomparsa dell’URSS nel 1991. Come osserva Pierre de Sénarclens, “nonostante lo sviluppo delle istituzioni intergovernative, delle reti di solidarietà transnazionali, dei processi di integrazione regionale e dei regimi di cooperazione settoriale, la politica internazionale mantiene le sue caratteristiche. Continua a svolgersi in un ambiente relativamente anarchico, caratterizzato da Stati di importanza molto diversa, le cui società rimangono culturalmente e politicamente eterogenee” (8). È quindi ancora caratterizzata dall’egemonia delle grandi potenze e dal “ripetersi di crisi e conflitti violenti che le Nazioni Unite o le organizzazioni internazionali non sono in grado di limitare o arbitrare” (9). La “pace di diritto” annunciata dall’Abbé de Saint-Pierre, da Kant [cfr. questo estratto] o da Habermas rimane un’utopia.

Non si può parlare della politica di Freund senza affrontare la questione del diritto, poiché queste due nozioni sono così consustanziali. Freund difende una concezione sociologica del diritto. Infatti, contrariamente ai positivisti, che lo considerano solo per se stesso, nella sua pura positività, Freund pensa che il diritto possa essere compreso solo nella sua relazione con le altre attività umane, e in particolare con la politica e la morale. Questo approccio sociologico lo ha portato a mettere in discussione il normativismo kelseniano, che ritiene che “il diritto sia un ordine di costrizione”, cioè che, in quanto diritto, porti in sé la costrizione. È vero che tale tesi è incompatibile con la nozione di essenza della politica. Se, come pensa Kelsen (10), il diritto è un insieme di norme che contiene in sé la costrizione, la politica è subordinata al giuridico ed è lo Stato che deriva dal diritto e non viceversa. Per l’autore de L’essenza della politica, il diritto è certamente normativo e prescrittivo, ma “non possiede in sé il potere di imporre o far rispettare ciò che prescrive” (11). La legge presuppone un’autorità (politica o gerocratica) che abbia il potere di coercizione e che esegua le sentenze. Non è concepibile senza una costrizione esterna, senza una volontà diversa da quella del giurista.

La volontà politica precede il diritto

Per Freund, il diritto non è quindi un’essenza, un’attività originale e autonoma dell’uomo. È soprattutto una dialettica (nel senso di una mediazione) tra politica e morale, cioè presuppone queste due essenze: la morale e la politica devono essere state date in precedenza perché possa sorgere la relazione giuridica. In altre parole, la politica e la morale sono le condizioni di possibilità della relazione giuridica. In generale, il diritto presuppone una volontà politica preesistente, cioè un’unità politica già formata (da questo punto di vista, è incoerente, ad esempio, parlare di Costituzione europea quando l’unità politica europea non è chiaramente definita). Ma il diritto non è solo un puro effetto della volontà politica. Ha anche un aspetto morale, poiché presuppone che la società riconosca prima “un certo ethos o valori, fini o aspirazioni che determinano la sua particolarità” (12). È la legge che iscrive questi valori e questi fini nell’ordine che regola.

Né la politica né la morale possono quindi fare a meno del diritto, che per sua natura si colloca nell’intervallo che permette alla politica di agire sulla morale e alla morale di agire sulla politica. In cambio, il diritto agisce anche sulla morale e sulla volontà politica; fornisce loro la disciplina, la legittimità delle istituzioni e conferisce durata e unità politica attraverso la sua organizzazione. Senza il diritto, non potrebbe esistere un’organizzazione politica duratura e la politica sarebbe solo una serie di decisioni arbitrarie.

Morale e politica non hanno lo stesso obiettivo

79115110.jpgLa filosofia di J. Freund permette di risolvere il dibattito sempre ricorrente tra morale e politica. Per lui non si tratta di eliminare la politica dal giudizio morale o di isolare queste due attività l’una dall’altra, ma solo di riconoscere che non sono identiche. La morale e la politica non mirano affatto allo stesso obiettivo: “La prima risponde a un’esigenza interiore e riguarda la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere, con l’assunzione da parte di ciascuno della piena responsabilità della propria condotta. La politica, invece, risponde a una necessità della vita sociale, e chi la pratica intende partecipare alla presa in carico del destino di una comunità” (13). Aristotele lo aveva già annunciato distinguendo la virtù morale dell’uomo buono, che mira alla perfezione individuale, dalla virtù civica del cittadino, che è legata alla capacità di comandare e obbedire e mira alla salvezza della comunità (14). Sebbene sia auspicabile che il politico sia un uomo buono, può anche non esserlo, perché è responsabile della comunità politica indipendentemente dalla sua qualità morale.

Secondo Freund, l’identificazione tra morale e politica è addirittura una delle fonti del dispotismo e delle dittature (15). È un segno dell'”imperialismo del politico”, nel senso che il politico può invadere tutti i settori della vita umana, che caratterizza i totalitarismi. Come osserva Myriam Revault d’Allonnes, “tutto è politico”, cioè l’abolizione della distinzione tra ciò che è politico e ciò che non lo è, tra il privato e il pubblico, tra il politico e il sociale, significa che nulla è politico (16). La pluralità umana, condizione per la convivenza, è scomparsa.

Su questo tema, J. Freund ha tratto il meglio da Machiavelli. Egli si definisce un pensatore machiavellico, ma distingue tra i termini machiavellico e machiavellico. Il primo termine corrisponderebbe all’analisi teorica, il secondo alla pratica della politica: “Essere machiavellico significa adottare uno stile di pensiero teorico, senza concessioni alle commedie moraleggianti di alcun potere. Non è essere immorali, ma proprio cercare di determinare con il massimo acume possibile la natura del rapporto tra morale e politica […]; essere machiavellici, invece, è adottare una condotta pratica nel gioco politico concreto, che consiste in ‘generose scelleratezze’, inganni più o meno diabolici e manovre perverse” (17). Per quattro secoli il pensatore fiorentino è stato oggetto di interpretazioni diverse e contraddittorie, che riflettono in ultima analisi l’ambiguità del suo pensiero, che in realtà deriva dall’ambiguità insita nella politica stessa. È, come suggerisce Leo Strauss, un nemico del genere umano in combutta con Satana, o è, come pensa Rousseau, un cittadino buono e onesto che finge di dare lezioni ai re per darne al popolo?

 

La concordia

Senza voler sminuire la dottrina di Machiavelli, ma rifiutando le interpretazioni più machiavelliche, possiamo intendere il suo pensiero politico come un appello alla vigilanza e alla lucidità: una lucidità che sa che non potrà far scomparire la morte, la violenza, la malvagità umana, la divisione sociale e la corruzione delle cose; una vigilanza che richiede la costruzione di solidi baluardi, di un regime e di leggi che evitino gli eccessi. È qui che risiede la morale politica di Machiavelli: mantenere lo Stato, sostenere la forza della legge, prevenire il disordine e la violenza, preservare la pace senza la quale la vita comune è impossibile (18).

L’autore de Il Principe non nega i valori morali, ma si rifiuta di considerarli come l’unico criterio di giudizio per un uomo di Stato. La moralità del principe consiste nell’esercitare il suo ufficio politico al meglio delle sue possibilità. Sarebbe infedele a questa morale se, per preservare la propria integrità morale, permettesse alla sua città di sprofondare nel disordine e al suo popolo nell’angoscia. J. Freund riassume questa posizione dicendo che, per Machiavelli, “non esiste una politica morale, ma una morale della politica” (19). Il pensiero di Freund corrisponde a questa interpretazione. Anch’egli ritiene che “la politica non è il raggiungimento di un fine morale, ma il fine della politica, cioè la pace interiore e la sicurezza interiore, anche se ciò significa fare delle curve nella moralità personale” (20).

 

L’ideologia come sostituto della teologia

La grande lezione di Machiavelli è anche questa ricerca della verità effettuale, questa “verità effettiva della cosa”, che rifiuta di fare politica a partire da repubbliche immaginarie, concepite in sogno e che nessuno ha mai conosciuto. Questa diffidenza verso le utopie, questo attaccamento alla “verità effettiva” riflette anche il desiderio di marcare la distanza tra l’essere e il dover essere, tra l’ideale e ciò che è realizzabile, perché la ricerca dell’ideale a tutti i costi porta politicamente al fallimento e spesso alla violenza. Freund fa anche spesso riferimento al paradosso delle conseguenze di Max Weber, che spiega che in politica non basta avere intenzioni moralmente buone all’inizio, ma che bisogna evitare di fare scelte con conseguenze spiacevoli. Infatti, “è nell’azione che il politico dimostra di essere moralmente all’altezza del compito che gli è stato affidato” (21).

La distinzione di Freund tra politica e morale spiega la sua diffidenza verso le ideologie e le utopie (22). Il suo approccio machiavellico lo porta a considerare l’ideologia in modo paradossale. Da un lato, ne riconosce l’importanza in politica, non solo per il consolidamento del potere, ma anche come promessa e speranza, cioè come motore della politica. In assenza di una fede teologica, solo l’ideologia può permettere di affermare un’opinione in mezzo a molteplici opinioni e quindi di stabilire un ordine politico. L’ideologia avrebbe quindi un ruolo di sostituzione della teologia. Per questo Freund la descrive come una “razionalizzazione intellettuale della volontà politica” (23).

D’altra parte, la sua analisi realistica e scientifica, l’importanza che attribuisce al senso di responsabilità nella politica, incoraggiano la sua diffidenza. La politica ideologica gli appare come una politica “intellettualizzata”, che privilegia idee astratte, presumibilmente generose e umanistiche, ma lontane dalla realtà concreta della politica. Tale politica è pericolosa in quanto permette di giustificare filosoficamente certe violenze in nome di fini escatologici, promesse di pace o di giustizia… È ciò che Camus chiamava “violenza comoda”. L’ideologia pretende di raggiungere i fini ultimi senza preoccuparsi dei mezzi a disposizione. Meglio ancora, usa l’esaltazione di questi fini ultimi per mascherare il cinismo che presiede all’uso dei mezzi. È in questo senso che Freund parla di escatologia secolarizzata, nel senso che l’ideologia ci fa credere che i fini escatologici che la teologia proietta nell’aldilà sarebbero realizzabili qui sotto (24).

Per quanto riguarda le utopie, è il loro stesso spirito che si oppone alla nozione di essenza della politica. Le prime utopie non erano la negazione della politica, poiché, pur portando la speranza di una nuova società, riconoscevano la necessità di un’organizzazione della società. Ma le utopie moderne, soprattutto sotto l’influenza del marxismo, hanno assunto una dimensione antipolitica, allontanandosi dall’esperienza umana in nome di speculazioni immaginarie e fittizie sul futuro e credendo di poter trasformare radicalmente l’uomo attraverso le istituzioni. Tale convinzione implica la negazione della natura umana, e quindi il suo sacrificio. In quanto idea puramente astratta e distaccata dalla realtà, l’utopia è quindi esposta ai deliri dell’eccesso, del dispotismo e della tirannia. Immagina che sia possibile instaurare una società perfetta ed eliminare ogni conflitto eliminando ciò che considera negativo o malvagio. Antipolitica, si basa quindi sulla negazione dell’essenza e dei presupposti della politica, sull’ignoranza o sul rifiuto del “peso della natura umana”.

A questa concezione progressista, razionalista e, va detto, un po’ ingenua della società, J. Freund oppone la sua teoria delle essenze, che si basa sul riconoscimento della natura fondamentalmente conflittuale delle società storiche. Egli incoraggia anche la polemologia, lo studio dei conflitti, ritenendo che la sociologia non debba considerare la vita solo dal punto di vista del desiderio, cioè nei termini di una società immaginaria, ma che si debbano prendere in considerazione anche altre nozioni come la violenza o l’aggressione (25). Seguendo Simmel (26), egli considera il conflitto come un fenomeno sociale normale, nel senso che è un fenomeno consustanziale a qualsiasi società. Naturalmente, questa considerazione del conflitto determina un modo di intendere la società. Presuppone l’accettazione dell’idea (su cui si basa la teoria politica di Freund) che l’uomo viva naturalmente in società. Il conflitto, infatti, diventa sociologicamente intelligibile solo se si concepisce la società come un dato dell’esistenza umana e come un insieme di relazioni in permanente trasformazione, di cui il conflitto è uno dei fattori di modifica.

In conclusione, ci si può chiedere a quale corrente politica appartenga Freund. Se possiamo collocarlo, metodologicamente, nella linea degli autori “machiavellici” (27), possiamo concordare con Pierre-André Taguieff nel classificarlo politicamente (con tutte le precauzioni che questo tipo di classificazione merita) come “un liberale conservatore insoddisfatto” (28), tanto che “Freund accumulava nella sua persona due figure paradossali: quella di un liberale dotato di senso del nemico e quella di un conservatore che rifiuta il conservatorismo gretto dei “conservatori” patentati” (29).

 

► Bernard Quesnay, Elementi n°111, dicembre 2003.

 

♦ NOTE:

  1. Freund, L’essence du politique, Sirey, 1965, ripubblicato da Dalloz, 2003, 868 p., 45 €, postfazione di P.-A. Taguieff. Sebbene insista, a nostro avviso, un po’ troppo sul rapporto tra Schmitt e Freund e sulla nozione di nemico – a scapito di altre nozioni essenziali e di altri pensatori importanti per Freund -, l’importante postfazione di Taguieff presenta in modo esauriente e onesto il pensiero dell’autore, restituendo a quest’ultimo l’importanza che merita, collocandolo tra i grandi “educatori” e “illuminatori” del XX secolo, come Alain, Ricœur, Sorel, Valéry, Camus, Cioran, Péguy, Ellul o Aron…
  2. Freund, op. cit. p. IX.

Ibidem, p. 24.

Pareto, autore di un Trattato di sociologia generale (Droz, Ginevra, 1968), occupa un posto fondamentale nel pensiero di Freund, che gli ha dedicato un libro (Pareto. La théorie de l’équilibre, Seghers, coll. Philosophie, 1974). Oltre alla concezione dell’equilibrio sociale, Freund ereditò dal sociologo italiano l’idea generale che, al di là della forma (la politica), la sostanza (la politica) rimane costante; nonché una certa diffidenza nei confronti dei miti e delle utopie, illuminata dalla distinzione paretiana tra residui e derivazioni. Su Pareto, si veda anche G. Busino, Introduction à une histoire de la sociologie de Pareto; Cahiers V. Pareto, Droz, 1967; G.-H. Bousquet, Pareto, le savant et l’homme, Payot, 1960; Raymond Aron, Les étapes de la pensée sociologique, Gal., 1967).

  1. Freund, op. cit. p. 94.

Ibidem, p. 478.

Ibidem, p. 446.

  1. de Senarclens, Mondialisation, souveraineté et théorie des relations internationales, A. Colin, 1998, p. 202.

Ibidem, p. 202.

Hans Kelsen, Teoria pura del diritto, LGDJ, 1999, p. 64. Kelsen (1881-1973), autore di una Teoria pura del diritto (op. cit.) e della Teoria generale delle norme (PUF, 1996), è all’origine di una delle principali correnti del positivismo giuridico: il normativismo, secondo il quale il diritto è un insieme di norme, ciascuna delle quali deriva da una norma superiore, fino ad arrivare a una misteriosa “norma fondamentale”. Secondo questa teoria pura del diritto, è impossibile definire una norma giuridica in base al suo contenuto, ma solo in base alla sua appartenenza a un sistema di norme. Freund, seguendo Schmitt, si è spesso opposto a questa teoria, che porta a una totale identificazione tra diritto e Stato.

  1. Freund, Le droit aujourd’hui, PUF, 1972, p. 9.
  2. Freund, op. cit. p. 88.
  3. Freund, Qu’est-ce que la politique, prefazione, Seuil, 1968, ripubblicato nel 1978 e nel 1983, p. 6.

Aristotele, Politica, III, 4, 1276-b.

  1. Freund, Che cos’è la politica? op. cit. prefazione, p. 6.

Myriam Revault d’Allonnes, Le dépérissement de la politique. Généalogie d’un lieu commun, Aubier-Flammarion, 1999, p. 239.

L’essence du politique, op. cit. p. 818.

“Stabilire la pace significa riconoscere il diritto delle opinioni e degli interessi che non sono i nostri di esistere e di esprimersi. Se neghiamo loro questo diritto, abbiamo la guerra. La pace non è quindi l’abolizione del nemico, ma un accomodamento con lui; e non è nemmeno una sorta di riconoscimento, ma il riconoscimento del nemico”, sottolinea giustamente J. Freund: “La pace che esclude il nemico si chiama guerra”, in: Le Nouvel Âge. Éléments pour la théorie de la démocratie et de la paix, Marcel Rivière, 1970, p. 219.

  1. Freund, Politique et impolitique, Sirey, 1987, p. 243.

Ibidem, p. 243.

Ibidem, p. 244.

“È forse perché la violenza è profondamente radicata nell’uomo che l’utopismo vi ricorre. La violenza non eliminerà la violenza, nonostante l’utopismo. La natura umana pone un problema insolubile, da cui la perennità della metafisica”, J. Freund, Utopia e violenza, Marcel Rivière, 1978, p. 256.

  1. Freund, “L’idéologie chez Max Weber” in Revue européenne des sciences sociales, 1973, 30, p. 16.
  2. Freund, Politique et impolitique, op. cit. p. 17. Nello stesso senso, Aron ha parlato di “religioni secolari” e Schmitt di “concetti teologici secolarizzati”. Su questo tema si veda Jean-Claude Monod, La querelle de la sécularisation de Hegel à Blumenberg, Vrin, 2002, e Karl Löwith, Histoire et Salut, Gal. 2002 (commentato in Elements n. 108).

Ricordiamo che fondò la Facoltà di Scienze Sociali di Strasburgo e creò con Gaston Bouthoul l’Istituto di Polemologia e il Laboratorio di Sociologia Regionale.

Georg Simmel (1858-1918) è uno dei fondatori della sociologia moderna. È soprattutto colui che ha evidenziato il contributo dei conflitti nella vita sociale. La sociologia di Freund dimostra che per strutturare una società non è necessario eliminare tutti i conflitti, poiché anch’essi contribuiscono all’equilibrio sociale. Il suo lavoro ha ricevuto un rinnovato interesse negli ultimi dieci anni: cfr. Le conflit (Circé Poche). Le conflit (Circé Poche, 1995, pref. di J. Freund), Sociologies, Études sur les formes de socialisation (PUF, 1999), La tragédie de la culture et autres essais (Rivages Poche, 1993); su Simmel, si veda anche François Léger, La pensée de Georg Simmel. Contribution à l’histoire des idées au début du XXe siècle (Kimé, 1989, prefazione di J. Freund).

Il termine “machiavellico” è stato utilizzato a partire dal famoso libro di James Burnham, Les machiavéliens. Defenders of Liberty (Calmann-Lévy, 1949), per designare autori diversi come Machiavelli, Pareto, Weber, Schmitt, Mosca, Michels o anche Aron, che si impegnano in un’analisi “realistica” o “scientifica” della politica e sono sospettosi di qualsiasi idealismo.

Questa nozione di liberalismo conservatore, che rimane vaga, ma la cui idea centrale è quella di erigere uno Stato politico forte e autonomo che preservi le libertà degli individui in una società civile liberale, permette di collocare Freund nella linea di Weber, Schmitt, Pareto e Hayek (cfr. Renato Cristi, Le libéralis. Renato Cristi, Le libéralisme conservateur, Trois essais sur Schmitt, Hayek et Hegel, Kimé, 1993).

P-A Taguieff, postfazione alla riedizione de L’essenza della politica, op. cit.

 

 

Da leggere:

Omaggi a J.F.

  1. Freund (AdB, 2008)

Conversazione con J. Freund (P. Bérard)

Il testo di Freund sulla decisione

La negazione del nemico

elementi editoriali n° 105

3 recensioni (Revue française de science politique)

 

 

***

 

L’opera controversa di Julien Freund fa luce sulla tendenza alla depoliticizzazione delle nostre società

Un filosofo contro l’angelismo

medium13.jpgJulien Freund aveva iniziato la sua tesi su L’essenza della politica (1) con Jean Hyppolite. Dopo qualche tempo, gli inviò le prime cento pagine per la revisione. Jean Hyppolite, preoccupato, gli fissò immediatamente un appuntamento al Balzar. Aveva avuto cura di invitare anche Canguilhem. Si trattava di revocare la tesi: “Sono socialista e pacifista”, disse Hyppolite a Freund. “Non posso dirigere una tesi alla Sorbona in cui si afferma che non c’è politica se non quando c’è un nemico”. Freund, stupito e deluso, scrisse a Raymond Aron per chiedergli di dirigere la tesi che aveva iniziato, e lui accettò. Anni dopo, venne il momento della difesa e Jean Hyppolite era nella giuria. Egli rivolse a Freund un discorso severo: “Sulla questione della categoria di amico-nemico, se lei ha davvero ragione, posso solo andare a coltivare il mio giardino”. Freund si difese con coraggio: “Lei crede, come tutti i pacifisti, che sia lei a designare il nemico. Ma è il nemico che designa voi. Se vuole che tu sia suo nemico, lo sei, e ti impedirà persino di coltivare il tuo giardino”. Hyppolite si alzò sulla sedia: “In questo caso”, disse, “non mi resta che uccidermi”.

Questa storia, autentica fino all’ultimo dettaglio, è significativa per la vita di Julien Freund. È un uomo che viene ostracizzato per idee alle quali i suoi avversari finiranno per arrendersi, ma dopo la sua morte.

La descrizione del rapporto amico-nemico come base irriducibile della politica dell’epoca sembra una provocazione, indigna l’establishment clericale regnante e pone Freund ai margini della società in un modo che sembra definitivo. Sostenendo che non c’è politica senza riconoscimento del nemico, Freund vuole forse la guerra? Questo è sufficiente per definirlo un fascista.

 

Freund è vissuto nell’epoca del trionfo del pensiero marxista. Ma è un figlio di Aristotele. Non crede che gli intellettuali e i politici possano rigenerare l’umanità. Cerca ciò che è: cos’è l’uomo? Che cos’è una società umana? È interessato alla realtà e se ne stupisce, un atteggiamento filosofico. Come è fatto il mondo umano? È una diversità in movimento. Una pluralità di culture. Non potremmo ridurre questa pluralità generatrice di conflitti, sradicarla? Questo è ciò che spera il marxismo. Freund crede in questa possibilità, ma al prezzo della peggiore schiavitù. Allora perché dovremmo accettare la diversità che porta la guerra in mezzo a noi? Perché l’umanità è incapace di rispondere una volta per tutte, e con una sola parola finita, alle domande che la tormentano. Pluralità significa pluralità di interpretazioni. Solo un oppressore può ridurla.

Il conflitto è il correlato della diversità di pensiero e della particolarità di ogni cultura. La politica, nel senso ampio di governo, è l’organizzazione di una società particolare che, attraverso la sua cultura, fornisce risposte specifiche alle domande che tutti gli uomini si pongono, e quindi si scontra con altre risposte diverse e altrettanto specifiche. La politica in senso stretto del governo europeo, inventato dai greci, significa quell’organizzazione che accetta i dibattiti di interpretazione all’interno di una società e di una cultura.

A metà del XX secolo, in un’epoca in cui le ideologie danno per scontato che “tutto è possibile” per quanto riguarda l’uomo, Freund sviluppa una riflessione antropologica e ripercorre le storture della condizione umana, da cui emerge chiaramente che non tutto è possibile impunemente. E impedisce il volo di Icaro verso regioni eteree popolate da angeli e sature di azzurro.

Non ha mai accettato critiche sulla sua ammirazione per il pensiero di Carl Schmitt. I suoi detrattori erano, secondo un’espressione ormai consolidata, antifascisti ma non antitotalitari, e inoltre ritenevano naturale ammirare Heidegger. Queste ipocrisie lo facevano scoppiare in una risata squillante e in una rabbia fulminante. Aveva un innegabile talento pedagogico, una passione per la trasmissione disinteressata: lo studente meno accademico, che portava avanti la sua tesi di laurea al di fuori del percorso ufficiale, lo consigliava con la stessa cura con cui si portava dietro grandi aspettative. Questo talento per l’insegnamento lo portava al pubblico più semplice, e le organizzazioni contadine sapevano che non avrebbe rifiutato alcuna lezione.

 

Come altri, ammiravo in lui un modo di pensare capace di accettare coraggiosamente la realtà umana in un momento in cui tante grandi menti la stavano fuggendo nella folle speranza di diventare dei. La vita di alcune persone sarebbe stata più tranquilla se non lo avessero incontrato, perché questo era ciò che traspariva dal suo modo di affrontare l’ostile mondo delle idee: costi quel che costi, uno spirito libero non si arrende.

Chantal Delsol, Le Figaro (19 febbraio 2004).

(1) Le Edizioni Dalloz stanno ripubblicando questo capolavoro, con una postfazione di P.-A. Taguieff (L’Essence du politique, 867 p. 45 €).

 

***

Morale e politica

In effetti, la morale e la politica non hanno affatto lo stesso obiettivo. La prima risponde a un’esigenza interiore e riguarda la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere, con l’assunzione da parte di ciascuno della piena responsabilità della propria condotta. La politica, invece, risponde a un’esigenza della vita sociale e chi si impegna su questa strada intende partecipare alla gestione del destino globale di una comunità. Già Aristotele distingueva tra la virtù morale dell’uomo buono, che mira alla perfezione individuale, cioè alla realizzazione di sé, e la virtù civica del cittadino, che riguarda la capacità di comandare e obbedire e la salvezza della comunità. (…) In altre parole, la politica si occupa della comunità in quanto tale, indipendentemente dalla qualità morale e dalla vocazione personale dei suoi membri (…) Questa distinzione classica è ancora valida, nonostante le ideologie che cercano di asservire gli individui all’epifania della giustizia e dell’uguaglianza sociale o all’ordine morale che promettono per un futuro indeterminato. L’identificazione tra morale e politica è addirittura una delle fonti del dispotismo e delle dittature.

Julien Freund, Qu’est-ce que la politique? 1965, Points Seuil, prefazione, p. 6.

 

Legge e forza:

In generale, la vita politica è posta sotto il segno della costrizione, che è la manifestazione specifica della forza pubblica senza la quale non solo non esisterebbe l’ordine, ma nemmeno lo Stato. Poiché tutto lo Stato è coercizione, poiché si basa sul presupposto del comando e dell’obbedienza, la forza è inevitabilmente il mezzo essenziale della politica e appartiene alla sua essenza. Ciò non significa, tuttavia, che essa costituisca l’intera unità politica, né che sia l’unico mezzo della sua autorità, perché lo Stato è anche un’organizzazione giuridica, soprattutto oggi che, sotto l’influenza della crescente razionalizzazione della vita in generale, la legalità tende a moderare gli interventi diretti della forza. Tuttavia, per quanto capitalistica possa essere la razionalizzazione legalistica nelle società moderne, quando un conflitto sorge all’interno di un sistema di legalità e gli oppositori rifiutano di scendere a compromessi, non resta che la forza come ultima risorsa. Non che la forza sia fine a se stessa o che lo Stato esista solo per applicare la forza fine a se stessa; essa è al servizio dell’ordine e del rispetto della morale, dei costumi, delle istituzioni, delle norme e delle altre strutture giuridiche. Certamente, non può esserci concordia senza regole, convenzioni o leggi comuni e valide per tutti i membri, e quindi non c’è ordine senza legge (di qualsiasi natura essa sia: consuetudinaria o scritta). Lo Stato appare quindi come lo strumento per la manifestazione del diritto, sia sancendo le consuetudini esistenti sia promulgando nuove leggi. Tuttavia, senza la coercizione e la possibilità di applicare sanzioni a coloro che violano le prescrizioni e le leggi, l’ordine non potrebbe essere mantenuto a lungo.

Julien Freund, Che cos’è la politica, 1965, Points Seuil, pp. 128-129.

 

Il significato della patria

Va bene ironizzare sul concetto di patria e concepire l’umanità in modo anarchico e astratto come composta unicamente da individui isolati che aspirano a un’unica libertà personale, ma la patria è una realtà sociale concreta, che introduce l’omogeneità e il senso di collaborazione tra gli uomini. È addirittura una delle fonti essenziali del dinamismo collettivo, della stabilità e della continuità di un’unità politica nel tempo. Senza di essa, non c’è né potere né grandezza né gloria, ma nemmeno solidarietà tra coloro che vivono sullo stesso territorio. Non possiamo quindi dire con Voltaire, nell’articolo Patrie del suo Dictionnaire philosophique, che “desiderare la grandezza del proprio Paese è augurare il male ai propri vicini”. In effetti, se il patriottismo è un sentimento umano normale come la pietà familiare, qualsiasi uomo ragionevole può facilmente capire che uno straniero può provare lo stesso sentimento. Così come non si può dedurre dalla persistenza dei crimini passionali che l’amore sia inutile, non si possono usare certi abusi di sciovinismo come pretesto per denigrare il patriottismo. È addirittura una forma di giustizia morale. A. Comte vedeva giustamente nella patria la mediazione tra la forma più immediata di raggruppamento, la famiglia, e la forma più universale di comunità, l’umanità. La ragione di ciò è il particolarismo insito nella politica. Nella misura in cui la patria cessa di essere una realtà viva, la società decade, non come alcuni credono a favore della libertà dell’individuo, né come altri credono a favore dell’umanità; una comunità politica che non è più una patria per i suoi membri cessa di essere difesa e cade più o meno rapidamente sotto la dipendenza di un’altra unità politica. Dove non c’è una patria, i mercenari o gli stranieri diventano i padroni. Senza dubbio dobbiamo la nostra patria al caso della nascita, ma è un caso che ci libera da altri.

Julien Freund, L’essenza della politica

http://vouloir.hautetfort.com/archive/2007/05/26/eajf.html?fbclid=IwAR1sMHW_22wUDgESqp8RkTTL7FKRHndgfFYw4Kuea3GIEUE79yavKNQ_TK4

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“NON SIAMO NATI IERI…” GUAI AL DI LÀ DEL CONFINE ed altro_La Redazione

     

“NON SIAMO NATI IERI…” GUAI AL DI LÀ DEL CONFINE

Il reato di cui è accusato l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e che oggi potrebbe costargli l’arresto, è “fabbricato” ad arte per impedirgli di ricandidarsi alla Casa Bianca.” Lo ha detto il presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador (AMLO), definendo, quella che si starebbe costruendo intorno a Trump, una manovra “completamente antidemocratica“. “In questo momento l’ex presidente Trump ha dichiarato che potrebbero arrestarlo. Se così fosse, visto che nessuno è nato ieri, sarebbe per far sì che il suo nome non compaia sulla scheda elettorale”, ha detto AMLO durante la tradizionale conferenza stampa quotidiana. “Lo dico perché anch’io ho sofferto per la fabbricazione di un crimine, quando non volevano che mi candidassi. E questo è completamente antidemocratico, perché non permette al popolo di decidere chi lo governa

AMLO prosegue affermando che l’Amministrazione Biden non ha il diritto di parlare di violenza in Messico poiché avrebbe autorizzato il “sabotaggio” del gasdotto Nord Stream, come sostiene il giornalista Seymour Hersh.

Il presidente AMLO risponde al rapporto statunitense sui diritti umani che attacca il Messico: “Non è vero, stanno mentendo. È pura politica… Non vogliono abbandonare la Dottrina Monroe, né il cosiddetto Destino Manifesto. Non vogliono cambiare, e si credono il governo del mondo. Sono dei bugiardi. Non prendetela male. È come se iniziassimo a valutarli in termini di diritti umani. Perché non liberate Julian Assange? Se parlate di giornalismo e libertà di stampa, perché avete Assange in carcere? Come mai un giornalista pluripremiato ci dice che il governo statunitense ha sabotato il gasdotto tra Russia ed Europa?”.

Le dichiarazioni di AMLO sono arrivate poco prima di incontrare l’inviato di Biden, per il cambiamento climatico, John Kerry; questo rende l’impatto delle sue dichiarazioni ancora più significativo e forte.  AMLO da credibilità a una narrazione che sostiene che lo stesso Biden abbia autorizzato un’azione segreta per bombardare il gasdotto Nord Stream.

Altre volte, in passato, Lopez Obrador si è schierato dalla parte di Trump, Nel gennaio del 2021, Lopez Obrador aveva denunciato, ad esempio, la decisione di Twitter di bloccare il profilo di Trump, per i riferimenti alle proteste in corso al Campidoglio. “Una cosa che non mi è piaciuta è la censura. Non mi piace che qualcuno venga censurato e privato del suo diritto di trasmettere messaggi, su Twitter o su Facebook, non sono d’accordo”, ha sottolineato il presidente Messicano “Dobbiamo tutti garantire la libertà“.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2020 AMLO fu uno degli ultimi leader stranieri a fare visita all’allora presidente americano tessendo le lodi al presidente Trump, ringraziandolo per il rispetto e l’amicizia riconosciuta al Messico e ad AMLO. AMLO fu anche uno degli ultimi leader mondiali (insieme a Putin) a congratularsi con Biden per le sue elezioni da presidente.

 

 

 

NEL CORTILE DI CASA

Dopo l’Argentina, anche il Messico, il 12 marzo scorso, ha ufficializzato, assieme all’Egitto e ad altri stati, la richiesta di adesione al BRICS. Trattandosi della parte del “cortile di casa” adiacente ai propri confini, pur nello smarrimento e nel caos in cui si trova la leadership statunitense, ci sarà da aspettarsi una sua qualche energica reazione. Il canale più diretto e immediato di intervento potrebbero essere i cosidetti “cartelli della droga” messicani, vere e proprie formazioni paramilitari in gran parte provenienti dalle forze speciali dell’esercito messicano.

Non è detto, però, che questa volta si realizzi facilmente.

È vero che i legami con l’entroterra statunitense sono più che solidi; è altrettanto vero che i laboratori di droghe sintetiche di questi cartelli si forniscono in gran parte dei principi attivi di produzione cinese. Una sorta di nemesi della “guerra dell’oppio” di fine ‘800 che presuppone la tessitura di legami altrettanto forti di questi cartelli con ambienti cinesi.

In guerra non si va certo a sottilizzare sull’integrità morale degli “amici”.

https://eurasiamedianetwork.com/mexico-plans-to-join-brics-amid-growing-tensions-with-us/

 

NEL VICINATO DI CASA NOSTRA

Come ben sanno i nostri lettori, uno dei motivi di contrasto e di logoramento dei rapporti tra l’Algeria e la Francia è stato il mancato rispetto, da parte transalpina, degli impegni di investimento nel settore industriale e manifatturiero in territorio algerino. Uno dei fattori che ha aperto ulteriormente la strada alla Russia e alla Cina. Come un “miles gloriosus” da par suo, il Governo Meloni ha rilanciato con toni roboanti una riedizione della antica politica di Enrico Mattei, che tanto lustro e prestigio ha dato all’Italia in quelle lande.

Ora cominciano a delinearsi i contorni reali di questa politica, in paradossale sodalizio con la Francia.

Macron ha appena annunciato il programma di costruzione di uno stabilimento automobilistico in Algeria. Finalmente una prima parziale soddisfazione tra tante promesse inevase.

Cosa dovrebbe produrre questo stabilimento? Ebbene sì, la FIAT 500.

Questo impegno sarebbe parte del pacchetto di accordi bilaterali di collaborazione tra Italia e Algeria, o parte di un triangolo discreto nel quale l’Italia, in cambio di forniture alquanto dubbie di gas e petrolio, funge da paravento, con i propri marchi e con il proprio residuo prestigio nell’area mediterranea, a mere operazioni di recupero per conto terzi. Del resto aziende come Fiat, ma sempre più anche ENI e Leonardo, gravitano sempre più in orbita statunitense e in subordine dei satelliti europei più importanti.

CERCASI BADOGLIO 2.0. TORNA, PIETRO: TUTTO È PERDONATO.

28 settembre 1937, Stadio di Berlino.

Benito Mussolini [in tedesco]: “Il Fascismo ha la sua etica, alla quale intende rimanere fedele, ed è anche la mia personale morale: parlare chiaro e aperto e, quando si è amici, marciare insieme sino in fondo.”

21 marzo 2023, Senato della Repubblica italiana.

Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio: “Continueremo a sostenere l’Ucraina senza badare all’impatto che queste scelte possano avere nel breve periodo sul consenso verso la sottoscritta, il governo, o le forze di maggioranza. Continueremo perché è giusto farlo sul piano dei valori e dell’interesse nazionale”.

 

 

 

Conversazioni sulla Cina, 3a puntata_Con Daniela Caruso

Il gruppo dirigente al potere in Cina, solitamente riservato, in poche settimane ha voluto rendere pubblica la sua visione delle relazioni internazionali: una interpretazione del multilateralismo la cui forza deve dipendere da un equilibrio di forze e dal rispetto del principio di sovranità ed integrità degli stati nazionali piuttosto che dalla capacità egemonica di una potenza. Vi è una ragione prosaica a sostenere questa convinzione: la Cina è stato il paese che, con astuzia e sapienza, ha saputo approfittare delle opportunità di una globalizzazione fondata sulla sicumera di un paese egemone, gli Stati Uniti, convinto di aver consolidato definitivamente la propria condizione di dominio. Vi è, però, una ragione più profonda legata alla mentalità e alla cultura millenaria di un impero il quale, tra tante vicissitudini interne, è però riuscito a mantenere una postura relativamente pacifica anche nelle sue fasi più turbolente. Se le intenzioni sono queste, la realtà al contrario sta spingendo verso un’altra direzione. L’aspro conflitto politico interno agli Stati Uniti e l’incapacità della sua classe dirigente ad accettare l’emersione di nuove potenze e una aspirazione generale alla indipendenza e sovranità di paesi e stati sempre più numerosi sta spingendo progressivamente il confronto geopolitico in una logica di schieramenti sempre più netti e contrapposti. Ogni paese, però, con il proprio retaggio. Non c’è dubbio che quelli occidentali, soprattutto gli Stati Uniti, hanno troppe cose da farsi perdonare per poter contare sulla persuasione e la credibilità, piuttosto che sulla violenza. Un circolo vizioso che non promette niente di buono. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Stati Uniti, conto alla rovescia_con Gianfranco Campa

Trump in attesa di incriminazione e di un probabile arresto; Ron Desantis, il probabile competitore interno al Partito Conservatore in speranzosa attesa, pronto a raccoglierne lo scettro, a compiacere la base di MAGA con slogan e dichiarazioni buone per la campagna elettorale, ma pronte ad essere smentite il giorno dopo le elezioni; una crisi finanziaria ed economica i cui tempi di marcia potranno sconvolgere i disegni dei vari attori politici. Il tentativo di porre fine contemporaneamente alla anomalia di un attore politico estraneo all’establishment dominante e di un presidente in carica improponibile per aprire la strada a leader emergenti del cerchio magico demo-neoconservatore. L’ambizione di trasformare il sentimento di repulsa verso nuove avventure militari prevalente negli Stati Uniti, in una variante bellicista che non fa che spostare l’epicentro di un confronto, nel suo auspicato epilogo bipolare, nell’area dell’Indo-Pacifico. Un quadro nel quale i paesi europei sono destinati a confermare il loro ruolo di passivi capri espiatori senza alcuna velleità di protagonismo. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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APPENDICE

“Non è il critico che conta; non l’uomo che sottolinea come l’uomo forte inciampa, o dove l’esecutore di azioni avrebbe potuto farle meglio. Il merito è dell’uomo che è realmente nell’arena, il cui volto è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue; che si sforza valorosamente; che sbaglia, che viene meno più volte, perché non c’è sforzo senza errori e mancanze; ma che si sforza realmente di compiere le azioni; che conosce i grandi entusiasmi, le grandi devozioni; che si spende per una causa degna; che nel migliore dei casi conosce alla fine il trionfo di un alto risultato, e che nel peggiore, se fallisce, almeno fallisce osando molto, così che il suo posto non sarà mai con quelle anime fredde e timide che non conoscono né la vittoria né la sconfitta. ”

– Theodore Roosevelt

Cutro e la carica degli indignati, con Augusto Sinagra

La strage di migranti sulla spiaggia di Cutro ha vellicato gli impulsi peggiori e più strumentali di reazione e denuncia di un fatto e di una realtà di per sè così drammatica. Tutto per nascondere ed eludere l’incapacità politica e la postura acriticamente remissiva di un ceto politico e di una classe dirigente ampiamente responsabile dell’attuale condizione pietosa ed irrilevante di un paese e di una nazione nell’attuale contesto geopolitico. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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destra, sinistra e il nuovo già vecchio_ Con Roberto Buffagni e Vincenzo Costa

Governo di centrodestra con Giorgia Meloni, congresso costituente del PD con a capo Elly Schlein. Grandi novità che tendono a riprendere e riproporre vecchi schemi interpretativi del tutto inadeguati ad affrontare il nuovo contesto politico-sociale e geopolitico. Una contrapposizione artificiosa, probabilmente artefatta, che con sussulti e forzature non fa che riproporre temi e rivendicazioni in una cornice già fallita. Non è una fase costituente; è il compimento di un processo gia delineato quaranta anni fa. Il risultato è una classe dirigente inadeguata e un ceto politico autoreferenziale. Un guscio che si sta trasformando in una pesante cappa soffocante il paese. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Ucraina, il conflitto 30a puntata. Stessi scenari, nuove star Con Max Bonelli e Stefano Orsi

Non sempre le avanzate clamorose corrispondono a successi duraturi. Quasi sempre il clamore della narrazione insistente nasconde una realtà opposta. La guerra, nella sua tragedia e nella sua energia distruttiva, specie quando contiene le caratteristiche di un conflitto civile, può diventare l’evento in grado di piegare ed annichilire un popolo, quanto di forgiare una nuova classe dirigente. Nel conflitto ucraino stiamo assistendo ad entrambe le dinamiche. Non sono solo i popoli ucraino e russo a sperimentarne le conseguenze, ma tutti gli attori partecipi. Un nuovo mondo sta sorgendo, ma non tutti potranno godere della nuova luce. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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StElly nel paese dei balocchi, di Giuseppe Germinario

Così Elly Schlein, a sorpresa, almeno per chi ama farsi sorprendere, è la nuova segretaria del Partito Democratico.

Niente di originale. Una clonazione, un pollo da batteria come tanti altri, tutti identici, che avrebbero potuto emergere dal brodo di coltura sorosiano ormai coltivato da anni in quegli ambienti progressisti e nella sua città di adozione. Elly avrebbe potuto assurgere indifferentemente a Primo Ministro in Finlandia e Moldova, Ministro degli Esteri in Germania; le è capitato invece di conquistare il posto di segretario di partito in una fase a dir poco avventurosa di quella realtà politica.

Un possibile trampolino di lancio per lei a futura gloria e soddisfazione; molto probabilmente, il contestuale de profundis di un partito dalle lontane radici gloriose ormai disperse.

Una nemesi amara per il vecchio gruppo dirigente dalle lontane origini approssimativamente comuniste, in realtà in buona parte socialdemocratiche, impersonate per ultimo dal buon Stefano Bonaccini.

Agli “illuminati sulla via di Damasco” l’elettorato più o meno interessato, non si sa bene se alla resurrezione o alla dipartita, delle primarie ha preferito le certezze dell’originale, mi si perdoni l’ossimoro, clonato nel laboratorio filantropico di grandi propositi e inconfessabili misfatti.

In tempi così incerti e smarriti, l’alea del buon governo non è evidentemente più sufficiente a conservare e nemmeno a rimanere aggrappati alle leve.

Ad una lettura anche superficiale delle mozioni congressuali, gli argomenti del documento del neosegretario sono i più conformi allo spirito della carta dei valori del partito da poco resa pubblica. Ne pare di fatto una scopiazzatura più estesa della quale si tratterà a margine a parte una anticipazione irrefrenabile di tre amenità difficili da concettualizzare pur con ogni buona volontà:

  • la nozione di “giustizia climatica” se non associandola a quella biblica di “diluvio universale”

  • l’asserzione del nesso causale diretto e univoco tra la crisi climatica e la disuguaglianza sociale, quando in realtà, se proprio si vuol sottilizzare, è da una concezione elitaria e di ceto della crisi climatica, confusa per altro con quella ambientale, che si dipana il nesso causale diretto con le disuguaglianze

  • l’asserzione della formazione sociale italiana retta da un regime patriarcale.

L’aspetto dirimente di questa fase politica di quel partito è un altro.

Elly Schlein è stata eletta segretario in piena fase costituente del partito.

L’avvio di una fase “costituente” o “ricostituente” dovrebbe quantomeno prevedere una analisi rigorosa, se non proprio una revisione impietosa dell’approccio culturale, delle scelte politiche fondamentali adottate a partire almeno dagli anni ‘90 e delle ragioni della attuale condizione del paese e della nazione.

Nella carta e nelle mozioni congressuali non c’è niente di tutto questo se non qualche rara riga di adesione fideistica alla Unione Europea, di sostegno a scatola chiusa alla resistenza ucraina, di rappresentazione dello scontro geopolitico tra una democrazia assediata e un autoritarismo prevalente, di auspicio di un ritorno ad un multilateralismo a trazione statunitense.

Una rigidità dogmatica e una superficialità che fa apparire le prese di posizione dell’attuale leadership statunitense un esempio di flessibilità.

Sarebbe improprio pretendere dal Partito Democratico un ripensamento radicale o un ribaltamento delle sue ragioni costitutive. Trasformerebbe la lenta e soporifera agonia che sta percorrendo in un trauma esistenziale esiziale.

Un atto di lucidità ed onestà compatibile con le ragioni fondative del partito sarebbe però una carta dei valori che tracciasse degli orientamenti di fondo e ponesse degli interrogativi da offrire alle mozioni come traccia per risposte che giustificassero le diverse candidature.

  • La Carta avrebbe dovuto quindi contenere una riflessione critica sulla narrazione agiografica del processo di globalizzazione, sull’interpretazione del ruolo degli stati nazionali in esso, sulla funzione di collante delle dinamiche esercitata dalla condizione egemonica emersa con l’implosione del blocco sovietico e indurre quindi i candidati, con le rispettive mozioni di tentare almeno di tracciare quantomeno obbiettivi e comportamenti autonomi ed attivi, sia pure in una logica “entrista” propria della natura di quel partito. Del resto l’azione di classi dirigenti di un numero sempre maggiore di paesi, a cominciare dalla Turchia e dall’Ungheria, ma anche a modo loro della Polonia, ha evidenziato l’agibilità all’interno delle logiche di schieramento. Cosa è, del resto, alla fine, il perseguimento di obbiettivi politici interni alla Unione Europea, più ancora che nella NATO, se non una continua contrattazione e un continuo aspro confronto e conflitto tra centri decisori nazionali e statuali in una dinamica di asservimento alla forza egemone! Se sono reali l’intenzione e l’obbiettivo politico, ammesso e non concesso che sia realizzabile, di una politica estera e di difesa europea autonome, le mozioni dovrebbero essere indotte a delimitare quantomeno i livelli massimi compatibili di integrazione degli eserciti della NATO e dei complessi militari-industriali.

  • A scalare la Carta avrebbe dovuto spingere a riflettere sul trentennio di politica interna a cominciare dalle privatizzazioni e dismissioni o quantomeno nelle loro modalità di esecuzione, per poi risalire alla atavica incapacità del capitale privato di sostenere il peso politico ed organizzativo di una grande industria ed impresa strategica e sul ruolo conseguente del capitale pubblico, magari a gestione privatistica nelle sue varie modalità e possibilità; come pure a giustificare e, quindi, porre rimedio al fatto che l’ancora importante saldo attivo del risparmio nazionale non riesca ad essere reinvestito in gran parte nel territorio e a tutela e sviluppo dell’industria e delle attività nazionali. Potrebbe finalmente emergere qualche seria considerazione sulla necessità di ripristino di una serie di agenzie di supporto tecnico allo sviluppo di attività di produzione ed infrastrutturali completamente distrutto in quei decenni fatali e della cui mancanza si sente persino nella attuazione del cavallo di battaglia, di nome PNRR, del fronte più ottusamente europeista. In pratica la Carta dei Valori avrebbe dovuto porre il quesito fondamentale sui motivi del progressivo stallo e degrado del paese e della nazione negli ultimi quarant’anni, coincisi con la trasformazione del PCI e della DC e la fondazione del PD.

  • Ci sarebbe da sindacare sulla adeguatezza della Carta ad avviare una seria fase costituente su altri temi: la gestione manipolatoria ed arru(a)ffona della crisi pandemica come pure la tematica fondativa legata al cosiddetto transumanesimo. Quest’ultima introdotta in ritardo ed in forma puramente imitativa e parodistica, ma con la possibilità di arrecare altrettanti, se non peggio, danni di quanto indotti negli Stati Uniti. Un culto della singolarità, del determinismo culturale rispetto alle leggi della natura, della tecnocrazia scientifica che meriterebbero assoluta attenzione e precauzione, ma che si vedono introdotte di soppiatto nella Carta e nelle mozioni, probabilmente anche in maniera scontata ed inconsapevole. Sarebbe, forse, pretendere troppo ad una classe dirigente di questo livello.

La sorprendente incapacità di impostare correttamente, quantomeno, un percorso congressuale non è, quindi, un mero incidente in un partito dalle gloriose tradizioni organizzative.

È la conseguenza della cieca miseria intellettuale di una intera classe dirigente; della sua autoreferenzialità e della sua incapacità a porsi a rappresentare un qualsiasi modello di blocco sociale in grado di garantira una minima coesione ed una minima capacità di pesare nelle dinamiche geopolitiche per quanto deleterie e limitative.

Più che una fase costituente, si sta rivelando sempre più una sua parodia, destinata rapidamente a spegnersi nella continuità e nell’esaurimento di un processo iniziato almeno quaranta anni fa, ma dall’esito allora non interamente segnato.

Non è un caso che gli aneliti di rinnovamento e di allargamento della platea dai quali attingere i futuri gruppi dirigenti si riducano alla fine, leggendo attentamente le mozioni, ad attingere al serbatoio degli amministratori locali.

Una parodia dall’esito scontato ma attraverso un processo che richiederà, paradossalmente, il sacrificio della componente più pragmatica, ma culturalmente del tutto omologata o passiva, la quale ha saputo, nelle proprie esperienze di gestione amministrativa, almeno approfittare di qualche margine di azione consentito da questo appiattimento ed allineamento.

La sconfitta di Bonaccini rappresenta esattamente questo.

Non sarà l’unico fìo da pagare e nemmeno il più pesante.

La mozione di Elly, più delle altre, è soprattutto l’appello che con più fervore urla alla riduzione e al superamento delle disuguaglianze, al raggiungimento dell’equità fiscale, alla rivendicazione dei diritti.

Una enfasi che ha indotto gran parte dei commentatori ad attribuirle audacemente una impronta “socialdemocratica” più che “radical chic”.

Nell’economia di questo scritto si deve purtroppo glissare sull’approfondimento sulle varie accezioni attribuibili al termine di lotta alle disuguaglianze e al conseguimento dei diritti; come pur sulla mancata associazione del termine di equità fiscale a quello di vessazione, attraverso il quale il sistema fiscale colpisce indistintamente dipendenti ed autonomi e sulla mancata associazione al problema della tutela dei salari più bassi di quello dell’appiattimento dei livelli salariali normati e del basso livello di quasi tutte le retribuzioni.

Una connotazione socialdemocratica storicamente più attendibile ad un documento e ad una formazione politica dovrebbe avere il carattere specifico di un nesso stretto e inscindibile tra una politica di normazione dei diritti sociali ed il sostegno ad una politica economica in generale, industriale in particolare, fondata sulla impresa, in particolare la grande impresa e sul ruolo pubblico diretto in economia sul quale plasmare la coesione e il dinamismo di una formazione sociale. Un indirizzo, ma con modalità diverse, riconducibile anche alla connotazione comunista di un movimento.

Nelle mozioni congressuali, in particolare in quello della Schlein, non c’è niente di tutto questo, non ostante le crepe all’ortodossia liberista aperti nella fase trumpiana ed anche nel recente documento sulla sicurezza strategica (NSS) varato da Biden e trattato recentemente su questo blog.

Niente se non la caricatura dell’aperto ed acritico sostegno al piano di riconversione ecologica ed energetica e digitale che si risolve in realtà, nel suo dogmatismo e catastrofismo, in un vero e proprio programma di destrutturazione ed indebolimento non solo del residuo apparato industriale e tecnologico avanzato europeo, ma anche di altri ambiti strategici come l’agricoltura.

Tutta l’enfasi che ammanta le parole d’ordine della redistribuzione, del lavoro sicuro, dell’equità fiscale non porteranno a niente di buono; nel migliore e improbabile dei casi a qualche successo temporaneo, tipico del rivendicazionismo sindacale radicale o sedicente tale.

Si potranno regolare più rigidamente i contratti individuali di lavoro, stabilire per legge i livelli minimi salariali e magari gli standard sanitari, rendere ancora più draconiane, sulla lettera, le normative e le sanzioni fiscali, ma le dinamiche socio-economiche, la struttura economico-industriale e dei servizi, il sistema politico-amministrativo troveranno innumerevoli e fantasiose nuove vie per perpetuare una condizione di sottosalario, di basso reddito e di mercato nero, magari in una condizione di apparente legalità. Potrei citarne io stesso decine di modalità.

Rimarrà l’enorme implicazione politica di una simile impostazione. In mancanza di una questione nazionale e, soprattutto, di una politica di difesa di interesse nazionale unificante, nel migliore dei casi non farà che spingere singoli settori alla autotutela in una visione potenzialmente corporativa e intaccare ulteriormente il già precario tasso di interconfederalità delle politiche sindacali magari sotto la nobile veste di un radicalismo del quale abbiamo conosciuto già, assieme al collaborazionismo, gli esisti sterili e nefasti.

La dirigenza sindacale, con tutto il peggio di cui è capace, navigata com’è e desiderosa di non disperdere l’attuale principale legittimazione legata al riconoscimento reciproco con Confindustria, è in grado di cogliere il pericolo, ma non di contrastare efficacemente l’inerzia innescata da questi indirizzi; un ulteriore passo verso un sindacato compassionevole è ormai maturo.

L’unico aspetto positivo è che la gestione piddina della Schlein, dovesse durare, metterà a nudo l’imbroglio politico che è stato e si è rivelato il M5S (Movimento Cinque Stelle); al prezzo di portarsi, però, la serpe in casa, ma con minori infingimenti.

L’unico fattore che potrebbe prolungarne indefinitamente l’agonia, è il processo accellerato di omologazione del centrodestra ed il suo pericolosissimo avvicinamento politico e diplomatico all’ordine statunitense e all’avventurismo ottuso delle classi dirigenti polacche e baltiche.

Peggio dell’azzardo cialtrone della “buonanima”, ottanta anni fa.

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/Bonaccini_Mozione_A4-1.pdf

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/mozione_schlein_def.pdf

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/PromessaDemocratica-GIANNI-CUPERLO-2023-v8_WEB_paginedoppie.pdf

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Ucraina, il conflitto 29a puntata. Guerra e terrorismo_ con Stefano Orsi e Max Bonelli

Il regime di Kiev, per la verità i suoi mentori, si sta rivelando un vero maestro nella narrazione mediatica e nella coltivazione degli strumenti, anche i più ibridi, di guerra. Gli episodi di arbitrio verso i prigionieri, l’utilizzo di armi proibite, l’indifferenza e l’utilizzo della popolazione civile come strumento di guerra fanno ormai parte dell’armamentario utilizzato. Questa volta, però, la soglia dell’esplicito attacco terroristico è stata oltrepassata ampiamente con l’incursione in due villaggi russi al confine e la deliberata uccisione di civili. Elementi idonei a trascinare la giunta e i comandi ucraino verso quel tribunale di guerra che gli occidentali vorrebbero costruire su misura su Putin. Il regime di Kiev è ormai alle strette e solo l’incapacità e l’impossibilità statunitense di poter uscire dal vicolo cieco in cui l’amministrazione di Biden si è cacciata, se non a rischio di un confronto diretto su larga scala, sta impedendo la mala sorte per personaggi tragicomici ed aguzzini senza scrupoli. La novità è che piuttosto che scompaginare l’area dissidente o indifferente all’esorcismo russofobo, l’oltranzismo atlantista sta polarizzando sempre più le dinamiche geopolitiche in schieramenti sempre più delineati. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v2bhykq-ucraina-il-conflitto-29a-puntata.-guerra-e-terrorismo-con-stefano-orsi-e-ma.html

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Proposte di pace, propositi di guerra_con Antonio de Martini

Il mondo occidentale, patrocinato dagli Stati Uniti, continua a offrire la propria rappresentazione come quella del mondo intero. Il conflitto in Ucraina non fa eccezione. La novità consiste proprio nel fatto che la verità che ci viene offerta in Europa e negli Stati Uniti questa volta è radicalmente diversa da quella accettata nel resto del mondo. L’amministrazione statunitense rivendica a buon diritto la compatezza conseguita, al momento, nel blocco di alleanze costruito nei decenni pur con qualche crepa; glissa nervosamente sulla neutralità e sulla aperta opposizione di un gran numero di stati nazionali e della gran parte della popolazione nel mondo al suo avventurismo. Dopo la Turchia, iniziano ad emergere nuovi attori di primo piano pronti ad esercitare una azione di mediazione. Lo stesso conflitto ucraino da essere l’oggetto univoco delle attenzioni si sta trasformando con il tempo nella leva per ridefinire le relazioni geopolitiche. La proposta impropria di mediazione della Cina assume questo significato. Nelle more, ancora una volta, i soggetti che vedranno restringere il proprio campo di azione saranno i centri politici europei. La direzione obbligata sarà quella dell’Africa. Ma in una condizione di estrema debolezza e con un retaggio coloniale e neocoloniale pesante come un fardello. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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