La Turchia nel Mediterraneo, di Antonio de Martini

Il Mediterraneo sta tornando ad essere un campo di azione strategico nelle dinamiche geopolitiche. Il Mediterraneo non è più da tempo il Mare Nostrum ed è sempre meno il mare di ogni paese rivierasco. L’intervento militare in Libia nel 2011 voleva essere un tassello importante della politica di neutralizzazione di qualsiasi velleità di autonomia politica di un paese arabo e nordafricano, di ghettizzazione e isolamento della Russia di Putin ad opera degli Stati Uniti di Bush e Obama. Una politica del caos che avrebbe dovuto rendere impraticabili ed impervi alle potenze emergenti di Russia e Cina quei territori. Avrebbe dovuto riservare momenti di gloria e quote di bottino a potenze regionali come la Francia, perfettamente allineate al corso obamiano. A distanza di otto anni quell’intervento ha messo invece a nudo i limiti di quella strategia, la velleità e la vanagloria delle ambizioni francesi, la drammatica remissività, la fellonia suicida, l’inconsistenza e crollo di credibilità dell’azione politica dell’Italia. Ha consentito al contrario l’emersione di potenze regionali molto più dinamiche ed efficaci del blocco dei paesi europei, ha accentuato le contraddizioni interne alla NATO, interrotto la fase di arretramento della Russia, stabilizzato la presenza cinese. Un dinamismo che sta spiazzando soprattutto i paesi europei. https://www.nordicmonitor.com/2019/12/full-text-of-new-turkey-libya-sweeping-security-military-cooperation-deal-revealed/?fbclid=IwAR13hKfY9YN7j_lrzd10wIoRTN6qRACPRJPJQ-xFikwLY1m0vfUco8iuwHY Buon ascolto_Giuseppe Germinario

derive in pot pourri, a cura di Antonio de Martini

E SI CHE CE N AVOCATO DE FAMA
Una specificazione molto precisa. Dettagliata. Arcelor Mittal può recedere dal contratto di affitto – preliminare alla vendita – in tutta una serie di ipotesi. Già il contratto d’affitto con obbligo di acquisto di rami d’azienda, siglato il 28 giugno 2017, era abbastanza nitido. Ma l’accordo di modifica del contratto, che risale al 14 settembre 2018, è ancora più chiaro.

Il Sole 24 Ore ha avuto modo di leggere entrambi i documenti. E, a meno che non siano intervenute successive modifiche, dalla loro consultazione evapora ogni ambiguità. L’accordo che modifica il contratto dedica a ogni plausibile declinazione l’articolo 27. Il titolo è esaustivo: “Retrocessione dei rami d’azienda”. Quattro pagine fitte di fattispecie, sei paragrafi che definiscono ogni ipotesi.

«Nel caso in cui – si legge nel documento – con sentenza definitiva o con sentenza esecutiva (sebbene non de o finitiva) non sospesa negli effetti ovvero con decreto del Presidente della Repubblica anch’esso non sospeso negli effetti ovvero con o per effetto di un provvedimento legislativo o amministrativo non derivante da obblighi comunitari, sia disposto l’annullamento integrale del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 adottato ai sensi dell’art. 1, comma 8.1, del D.L. 191/2015, ovvero nel caso in cui ne sia disposto l’annullamento in parte qua tale da rendere impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto (anche in conseguenza dell’impossibilità, a quel momento di adempiere ad una o più prescrizioni da attuare, ovvero della impossibilità di adempiervi nei nuovi termini come risultanti dall’annullamento in parte qua), l’Affittuario ha diritto di recedere dal contratto».

Il linguaggio contrattuale dà forma verbale alla sostanza della questione: cambia il quadro giuridico generale, che rappresenta lo sfondo regolamentare su cui si è svolta l’asta internazionale che ha visto ArcelorMittal prevalere su Jindal, Arvedi, Leonardo Del Vecchio e Cassa Depositi e Prestiti? Viene cancellata la non punibilità per reati compiuti da altri, prima dell’arrivo del nuovo proprietario a Taranto? Arcelor Mittal restituisce le chiavi dello stabilimento. E, questo, con qualunque tipo di misura, di qualunque fonte normativa.

Ma c’è dell’altro. Sempre nell’addendum al contratto siglato il 14 settembre 2018 si legge: «L’affittuario potrà altresì recedere dal contratto qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano Ambientale come approvato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano Industriale».

UN’INCHIESTA A ROMA PER PRESUNTE INTERCETTAZIONI ABUSIVE.
IL COINVOLGIMENTO RUSSIAGATE
DI TRUMP. IL CASO BIJA. LA GUERRA
AI VERTICI PER LE NOMINE. SONO GLI SCANDALI CHE FANNO TREMARE I NOSTRI 007
DI EMILIANO FITTIPALDI
Il grande caos all’italiana di fine 2019 sembra non risparmiare niente e nessuno. Fa traballare il neonato governo giallorosso di Giuseppe Conte, senza ossigeno a soli due mesi dalla nascita. Mo- stra le crepe profonde dell’economia nazionale, caratterizzata da crescita asfittica e crisi industriali che si trascinano insolute verso il burrone. Il disordine investe la maggioranza, i partiti, istituzioni e corpi intermedi e – secondo i pessimisti – rischia di risolversi in un solo modo: elezioni anticipate e vittoria della destra estrema di Matteo Salvini.
Dallo scompiglio non si salva nemmeno uno dei settori più delicati della Repubblica. Quello, cioè, dei nostri servizi segreti e delle autorità preposte alla sicurezza nazionale. Dal Russiagate di Trump alla vicenda dei trafficanti libici in visita nei ministeri, passando per le furiose guerre interne sulle nomine sino al coinvolgimento di pezzi da novanta dei nostri 007 nell’inchiesta su Antonello Montante, agenzie come Dis, Aisi e Aise (le ultime due monitorano rispettivamente la sicurezza interna e le minacce che arrivano dall’esterno) sembrano vivere uno dei momenti più delicati degli ultimi tempi.
«Il nostro core business, sia chiaro, resta solido: vantiamo ancora capacità ed eccellenze invidiate in mezzo mondo», spiega un’accreditata fonte interna. «Il problema è
che una crisi di sistema come quella che stiamo vivendo non può non avere rilessi anche su di noi. È come in uno specchio: siamo organismi che rispondono all’autorità politica. La debolezza dell’amministrazione, l’incapacità di comando e la selezione discutibile della nostra classe dirigente ha generato tensioni e trambusto».
MISTERO EXODUS
La situazione, ora, rischia di deteriorarsi ancora. A causa di alcune inchieste della magistratura. Su tutte, quella della procura di Roma sulla vicenda Exodus, un sistema spyware che una ditta di Catanzaro, la E. Surv, ha venduto anni fa a procure di mezza Italia per efettuare intercettazioni telefoniche attraverso l’inoculazione dei trojan nei cellulari degli indagati. Non solo: Exodus è stato acquistato anche dall’Aisi e dall’Aise.
Lo scorso maggio i pm di Napoli in un’inchiesta parallela hanno arrestato il proprietario della srl calabrese e il creatore della piattaforma informatica. Le accuse sono gravi: aver efettuato intercettazioni illecite su soggetti estranei a qualsiasi indagine penale e aver compiuto una frode in pubbliche forniture. Tutti i dati sensibili captati da Exodus sarebbero infatti finiti non all’interno di server protetti ubicati sul territorio nazionale – come previsto dai contratti con le procure e le authority – ma in un archivio segreto su un cloud Amazon in Oregon,
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Governo / Scontro tra apparati
Usa. Anche Vito Tignanelli e Maria Aquino, titolari della società STM che commer- cializzava Exodus per conto della E.Surv, sono stati indagati.
L’inchiesta dei colleghi di Roma sta invece cercando di capire chi e perché – nelle nostre agenzie di intelligence – ha voluto comprare il malware, e soprattutto se Exodus sia stato usato in modo illecito dai nostri 007 per spiare di nascosto obiettivi sensibili.
L’aggiunto Angelantonio Racanelli, presente il capo dell’ufficio “facente funzioni” Michele Prestipino, qualche settimana fa ha così deciso di sentire Luciano Carta, il generale della Finanza oggi numero uno dell’Aise. Sei mesi fa il capo dell’agenzia aveva già risposto con una lettera ad alcuni quesiti rivoltigli dall’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone andato poi in pensione, chiarendo che – almeno secondo quanto evidenziato dai documenti interni – il software-spia all’Aise non era mai stato utilizzato da nessuno.
Carta, per stilare la lettera, ha dovuto chiedere informazioni agli uomini che si erano occupati del dossier. Exodus, infatti, è stato acquistato tra fine del 2016 e l’inizio del 2017, quando il generale della Finanza era semplice numero due di Alberto Manenti. Le deleghe sui sistemi di sorveglianza interni e sulle intercettazioni preventive erano però in mano a Giuseppe Caputo, allora capo di gabinetto di Manenti e oggi attuale vicedirettore dell’Aise. Fu lui, d’accordo con l’allora direttore, a decidere di comprare Exodus. Anche perché la piattaforma, comprata per circa 350 mila euro con un versamento in contanti, era stata consigliata da Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, che in quel periodo aveva lasciato i Carabinieri per approdare all’Aise.
All’uomo che catturò Totò Riina Manenti e Caputo avevano subito affidato compiti importanti, dalla sicurezza degli accessi della sede romana al tentativo (fortemente sponsorizzato da Marco Minniti, allora sottosegretario a Palazzo Chigi con delega
Gennaro Vecchione, direttore del Dis, l’organismo di coordinamento dei servizi.
Nell’altra pagina: il presidente degli Stati Uniti Donald Trump
ai servizi) di pacificare le tribù del Fezzan per provare a chiudere le rotte subsahariane dei trafficanti di migranti. Ma la mansione primaria di De Caprio e dei suoi uomini (quasi tutti appartenenti al reparto dei carabinieri del Noe) era vigilare sulla sicurezza interna. Dunque guidare il reparto che deve investigare anche sulle possibili talpe che si nascondono tra le nostre barbe finte: Exodus fu preso anche perché i vecchi software forniti da Hacking Team non erano più utilizzabili.
Ora qualcuno in procura – nessuno è stato ancora iscritto nel registro degli indagati – teme che qualcuno dentro l’Aise possa aver efettuato intercettazioni abusive: le domande rivolte da Racanelli a Carta hanno riguardato proprio Exodus, e alla luce di quanto richiesto presto il direttore potrebbe fornire nuova documentazione sull’affaire.
Se le ipotesi investigative fossero fondate, il caso sarebbe ovviamente clamoroso. Fonti dell’intelligence e altre vicinissime all’inchiesta, però, evidenziano non solo che lo spyware Exodus non sarebbe mai stato usato dall’agenzia per la sicurezza esterna. Ma soprattutto che tutte le intercettazioni effettuate (con altri metodi e/o software senza bug) avrebbero tutte le autorizzazioni necessarie. In primis quella della procura generale della Corte d’Appello di Roma, guidata da Giovanni Salvi.
Ma come mai l’agenzia non avrebbe mai utilizzato Exodus per mesi nonostante i denari spesi? «L’Aise non ha mai usato Exodus per una ragione molto semplice: mancavano i prerequisiti tecnici», spiegano fonti qualiicate. Per dirla semplice, nel 2017 gli agenti degli affari interni e quelli dell’E. Surv che da contratto dovevano inoculare il trojan nei telefoni degli obiettivi (una volta innestato il trojan, gli uomini di Ultimo avrebbero dovuto remotizzare le informazioni in server sicuri), dopo aver avuto i decreti autorizzativi non sarebbero riusciti a iniettare Exodus nei dispositivi.
Un’operazione in efetti non semplicissima
IL PM CHE INDAGA SUL SOFTWARE EXODUS È RACANELLI. REGISTRATO DALLA GUARDIA DI FINANZA MENTRE PARLA CON PALAMARA SULL’AFFAIRE CSM
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ma, come dimostrato anche dall’ultima inchiesta sullo scandalo del Csm: il Gico della Guardia di Finanza riuscì ad infettare solo il cellulare di Luca Palamara, mentre gli altri indagati non aprirono l’Sms che nascondeva il virus, restando così immuni dalle intercettazioni ordinate della procura di Perugia.
Se gli accertamenti della procura dovessero confermare quanto già spiegato a suo tempo da Carta, generale stimato da tutto l’arco parlamentare, l’inchiesta sull’uso di Exodus in Aise potrebbe chiudersi presto. In caso contrario, Racanelli potrebbe presto chiamare in procura nuovi testimoni.
La questione resta delicata, e sono molti ad essere interessati allo sviluppo delle investigazioni. Nei servizi, al governo, ma anche dentro l’ufficio giudiziario di Roma, che aspetta ancora il successore di Pignatone. Anche perché il pm Racanelli – secondo qualcuno – rischia di essere in conlitto di interessi, perché suo fratello Paolo, nei mesi in cui Ultimo tentò di usare Exodus per incastrare presunte talpe interne all’agenzia, lavorava proprio nell’Aise.
Si racconta che i rapporti tra il fratello del pm e i suoi superiori, coloro dunque che sembrano essere al centro dell’indagine giudiziaria del congiunto, non fossero eccellenti. Non abbiamo certezze in merito. Ma è un fatto che lo 007 lasciò improvvisamente Forte Braschi nel 2017, per trasferirsi alla sede dell’Aisi di Bari. In Puglia è rimasto quasi due anni: oggi Paolo è tornato a Roma, in una sede del controspionaggio guidato da Mario Parente.
Anche quest’ultimo potrebbe presto es- sere chiamato a dare informazioni utili per chiarire se e come Exodus sia stato usato dai suoi agenti segreti: l’Aisi avrebbe infatti usato il software in dosi massicce. È necessario capire se dati sensibili siano finiti nel cloud in Oregon, e se informazioni chiave per la nostra sicurezza nazionale non siano state bucate da soggetti esterni senza autorizzazioni.
Vedremo. Di sicuro il pm Racanelli da qualche settimana è coadiuvato nell’inchiesta anche dall’aggiunto Paolo Ielo, che Prestipino ha voluto affiancare al titolare dell’indagine per rafforzare il pool. Una scelta non banale: grazie alla lettura di carte inedite risulta all’Espresso che proprio Racanelli a maggio fu ascoltato mentre discuteva con il collega Luca Palamara in merito a un esposto del pm Stefano Fava, che i magistrati di Perugia considerano essere stato scritto per danneggiare proprio Ielo. «Bisogna insistere per avere le carte, e incominciare a muovere le carte», dice Angelantonio a Palamara, furioso con Ielo perché aveva mandato gli atti su una sua presunta corruzione alla procura umbra. «La tua cosa in Prima Commissione (la sezione disci- plinare del Csm, ndr) rimarrà in stand by
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Foto: L. Mistrulli – Ag. Fotogramma, O. Douliery – Getty Images

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finché non si chiude il processo… questo è pacifico perché là non ci sono elementi… quindi secondo me la commissione non fa niente sulla pratica tua» spiega Racanelli (dimessosi a luglio da segretario di Magistratura indipendente subito dopo lo scoppio dello scandalo) all’amico. «Su quell’altra bisogna insistere… incominciare a convocare… perché così segnali…».
PATTO SCELLERATO
L’inchiesta sul malware Exodus non è l’unica che coinvolge i vertici dei nostri servizi. Divorati da guerre intestine per il potere e le nomine, da settimane le nostre barbe finte leggono e rileggono le motivazioni della sentenza con cui i giudici di Caltanissetta hanno condannato a 14 anni di carcere Antonello Montante, l’ex numero uno di Confindustria Sicilia che aveva – secondo il gup Graziella Luparello, «occupato, mediante corruzione sistematica e raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali». La sentenza cita anche due pezzi grossi dell’Aise, Mario Parente e Valerio Blengini, oggi numero uno e due dell’Aisi, che – interrogati dal gup in merito ad alcune fughe di notizie e un presunto tentativo di preservare un colonnello dei servizi (Giuseppe D’Agata considerato vici- nissimo a Montante) dall’inchiesta giudiziaria – avrebbero entrambi detto bugie ai giudici. «Blengini e Parente mentono sapendo di mentire
la carica riunisce quelle di ministro della Giustizia e Procuratore Generale
pendo di mentire», dice la Luparello. Per preservare «un patto scellerato, al quale potrebbe aver aderito, lo si afferma con grande desolazione, anche l’attuale direttore generale Mario Parente». Il gup è talmente convinta che i vertici del servizio interno non le hanno raccontato la verità che ordina, nei confronti di Blengini e il suo capo, la trasmissione degli atti alla procura nissena. Per valutare se i due abbiano compiuto o meno reati.
Il premier Conte, che ha mantenuto le deleghe sui servizi, segue i dossier che arrivano dalla magistratura con grande attenzione. Ma le sue preoccupazioni maggiori riguardano, in questi giorni, i possibili sviluppi del Russiagate americano. O meglio, del côté tricolore della vicenda, che rischia di tenere a lungo sulle spine sia Palazzo Chigi sia Gennaro Vecchione, che l’avvocato di Volturara Appula ha voluto fortemente a capo del Dis, il dipartimento che coordina i nostri servizi.
È noto che Conte ha chiesto al suo fedelissimo (e a Carta e Parente che si sono adeguati obtorto collo) di incontrare ad agosto e settembre il ministro della Giustizia William Barr. L’uomo che insieme al procuratore John Durham sta indagando sull’ipotesi che Donald Trump, accusato di essere stato aiutato dai russi nella campagna elettorale del 2016, sia al contrario vittima di un complotto ai suoi danni ordito da pezzi dell’Fbi e dai democratici, con l’aiuto di governi e servizi di alcuni paesi alleati.
Due incontri segreti di cui Conte non informò nessuno, nemmeno il Quirinale. Riunioni che alcuni giudicano fatto gravissimo («il premier ha venduto i nostri servizi a un governo straniero per ottenere il sostegno da Trump», attaccano le opposizioni), e che molti valutano quantomeno inopportuni, dal momento che Barr è un’autorità politica, e che i servizi possono scambiare informazioni solo con i loro omologhi.
Il presidente del Consiglio e Vecchione, interrogati davanti al Copasir, hanno minimizzato gli eventi, negando con forza che i nostri 007 abbiano girato a Barr informazioni sensibili sul presunto complotto. Sarà però fondamentale leggere il rapporto finale del Dipartimento di giustizia sui presunti abusi compiuti dal deep state Usa per azzoppare la campagna di Trump: se dovessero esserci particolari rilevanti sull’Italia che non collimassero con le dichiarazioni di Conte e Vecchione, le polemiche potrebbero tornare in prima pagina con efetti devastanti. E l’ipotesi già raccontata dal nostro settimanale di uno spostamento del generale a Palazzo Chigi come consigliere militare, con lo spostamento di Carta al Dis e la promozione di un interno come nuovo capo dei servizi esterni (Giovanni Caravelli è in pole position, Caputo pagherebbe la vicenda Exodus) prenderebbe di nuovo corpo.
«L’indagine di Durham (che ha cercato prove in Italia, Australia, Ucraina e Gran Bretagna, ndr) è molto importante, sento che è una delle indagini più importanti nella storia del nostro Paese», ha ribadito il presidente americano in settimana. Nel palazzo romano di Piazza Dante, nuova sede dei nostri servizi, si augurano che Trump e Barr, essendo alle prese con la procedura di impeachment per le presunte pressioni fatte al governo ucraino per danneggiare il rivale Joe Biden, bluffino. O che, quantomeno, il lavoro di Durham e dell’ispettore generale del Dipartimento di Stato Michael Horowitz alla fine non citi espressamente l’Italia. «Se fossimo coinvolti davvero nel rapporto sarebbe un disastro», spiegano dal Dis. «Anche perché oggi non possiamo permetterci distrazioni. Le nostre agenzie devono concentrarsi pancia a terra su fronti caldi, in primis sulla Libia e sui tentativi di riportare a casa i nostri concittadini rapiti all’estero», come Silvia Romano.
In questi giorni, inoltre, a creare ansia è pure il rinnovo automatico degli accordi con l’esecutivo di Al Serraj, firmati da Paolo Gentiloni e Minniti nel 2017. Mentre molti addetti ai lavori, tra cui il prefetto Mario Morcone, non si capacitano ancora di come abbiano fatto i nostri servizi a permettere che un guardacoste e trafficante di rango come Abdulrahman Al Milad detto “Bija”, potesse due anni fa arrivare in Italia per discutere di politiche migratorie con nostri funzionari. Tanto da essere immortalato con tutti gli onori in alcune fototografie pubblicate su “Avvenire” che hanno dato il via al caso.
A Palazzo Chigi sottolineano che le eventuali responsabilità politiche e quelle inerenti al “mancato controllo” siano da addebitare a chi c’era prima, e che Conte e i nuovi vertici da poco insediatesi nulla potevano sapere. Nessuno fa nomi a chi scrive, ma è facile immaginare che ad Alberto Manenti, ex capo dell’Aise, possano fischiare le orecchie. Per trent’anni nell’agenzia, di cui conosce a menadito strutture e segreti, Manenti – grande conoscitore dello scenario libico, vanta buoni rapporti sia con Al Sarraj sia con il rivale Khalifa Haftar – è tornato a sorpresa sulla scena pochi giorni fa. Quando ha prima incontrato il capo della Cia Gina Haspel in un albergo della Capitale vicino l’ambasciata di Via Veneto (di che hanno parlato? Dello spygate?), poi ha “portato” l’ambasciatore libico a Roma dal neo ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. A che titolo, resta un mistero.
Gli amici sostengono che Manenti sia così intraprendente solo per provare a dare qualche buon consiglio «dall’alto della sua grande esperienza», eppure nei servizi segreti e a Palazzo Chigi le mosse dell’ex numero uno non sono affatto piaciute. Non solo per l’eccessiva autonomia di un semplice pensionato: gli si rinfaccia pure un rapporto ancora troppo stretto con Caputo e legami con Leonardo Bellodi, ex capo delle relazioni istituzionali di Eni che lo scorso febbraio ha fondato il “Marco Polo Council”. Un think tank specializzato in intelligence che ha ottime entrature in Usa, Israele e Medio Oriente.
Il problema di fondo, però, resta uno sol- tanto: quando il caos indebolisce l’autorità politica, la confusione si riverbera automaticamente sulle istituzioni controllate. Dunque: o Conte riprende rapidamente il controllo saldo della barra del timone, o altri scandali porteranno la barca della no- stra intelligence verso scogli ancora più perigliosi. Q
IL PREMIER CONTE E IL DIRETTORE DEL DIS VECCHIONE ASPETTANO CON ANSIA LA PUBBLICAZIONE
DEL RAPPORTO BARR. CHE POTREBBE SMENTIRLI
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Foto: E. Ferrari – Ansa, S. Georges – The Washington Post via Getty Images

IL RE È NUDO E IL PRINCIPE IN MUTANDE, di Antonio de Martini

IL RE È NUDO E IL PRINCIPE IN MUTANDE

Tra ieri e oggi mi sono divertito a leggere qua e là i commenti dei « geopolitici » che spuntano come funghi dopo la pioggia.

Cercano di scrutare nella breve dichiarazione di Mike Pompeo come gli auruspici nelle viscere degli animali sacrificati.

E, conseguentemente, segnalano merda.

1) prima cacca:lasciano intendere che gli Houti siano poco più che una milizia filo iraniana e sciita.

FALSO: sono una tribù che vive da almeno un secolo alla frontiera Saudita. Hanno un credo religioso a metà strada tra i sunniti e gli sciiti.

Si sono ribellati periodicamente fino a che furono sottomessi da Salah, il Presidente che gli USA vollero cacciare dopo un trentennio di regno, in nome della democrazia.

Accettò, gravemente ferito, di farsi curare negli USA lasciando però la presidenza al suo vice e le FFAA al cognato.

Tornato, trovo il vice che non voleva tornare nell’ombra e il cognato defenestrato e in rivolta.

Si rivolse agli Houti che aveva sottomesso e li aiutò a debellare il regime. È morto un paio di anni fa in combattimento. Aveva un grande carisma ed era un guerriero nato.

Il suo vice il pallido HADI è oggi rifugiato in Arabia Saudita in regime di semilibertà dorata.

Mohammed ben Salman – il principe assassino saudita- da neo ministro della Difesa dichiarò guerra allo Yemen ( senza interpellare il Crownprince o gli Esteri) credendo di liquidare gli Houti in una blitz krieg e conquistare lo Yemen.

Fu ripetutamente e sonoramente battuto, ma raggiunse l’obbiettivo di fare amicizia con i lobbisti americani degli armamenti cui assegnò cospicue quanto inutili commesse. Si avvicinò al potere scalzando il cugino ministro dell’interno, ma la guerra non si concluse.

Ora ha il potere saudita ma non riesce a vincere la guerra benché abbia coinvolto gli Emirati della UAE ( specie Abu Dahbi) che volevano partecipare al bottino, per non lasciare Aden ai sauditi, ma non a una guerriglia logorante.

Il capo degli Houti , mi spiace non ricordarne il nome, si è rivelato un vero guerriero della tempra di Salah: affronta gli avversari compensando gli svantaggi tecnologici con la sorpresa e la motivazione dei suoi.

Ha trasformato la deportazione ( subita da Salah) dei suoi in nuove basi di attacco, ha trovato i mezzi per le armi e sembra che abbia imparato a miniaturizzare i congegni di guida dei vettori inserendo il GPS russo che non ha zone illeggibili.

Dopo due attacchi di prova ( a Maggio e a Agosto) ha colpito la provincia orientale governata da un fratello del Crownprince col duplice scopo di fargli fare una figura barbina e avvertire la famiglia reale che se vuole continuare a vendere la loro mercanzia devono lasciare lo Yemen, paese di guerrieri.

2) seconda cacca: gli USA, non hanno ancora interiorizzato la lezione dell’attacco alle due torri. Gli arabi , come noi italiani del resto, sono cattivi organizzatori militari e combattenti temerari e audacissimi.
Gli USA cercano di spiegarsi l’evento attribuendolo ( con cautela) agli iraniani e i “ geopolitici” de noantri assecondano gli israeliani con la storiella della base di lancio vicina a Bagdad.

La realtà, molto più semplice, è che se gli Houti possono trasferirsi nel cuore dell’Irak, a maggior ragione possono farlo nel cuore dell’Arabia Saudita. C’è anche meno strada.

Certo, bisognerebbe ammettere che oltre a non avere il controllo dei cieli e del mare, il grande principe saudita ( e il suo potente alleato) non ha nemmeno il controllo del territorio, specie da quando ha fatto ammazzate due suoi fratelli-cugini pretendenti al trono. La vendetta è un obbligo d’onore.

Terza cacca. Per non offendere l’alleato nessun occidentale fa notare l’estrema cautela dei vertici americani.

I militari tacciono non sanno come spiegare il fatto che non hanno controllato le coste yemenite bloccando il contrabbando; non hanno controllato i cieli sauditi ( solcati da dieci droni o missili , fa lo stesso ) e non hanno controllato le vie di terra giudicandole impossibili per via del clima da attraversare. Trilioni al vento.

Non sanno ( gli analisti)che mio padre nel ‘35 andò proprio lì a reclutare 400 guerrieri per attraversare il deserto dancalo ( il più caldo al mondo + 65 all’ombra) per prendere alle spalle l’esercito del Negus schierato col fianco sul lago Ashanghi.

Per essere arruolati a piena paga dovevano fare cinque centri consecutivi a 200 metri col 91 su un fiaschetta di Chianti da mezzo litro, col collo interrato.

I politici , anche Trump, hanno lasciato parlare solo Pompeo e lui non ha detto praticamente nulla.

Ben Salman, cui Trump ha demandato un “ assessment”, si sta chiedendo di quanto si è avvicinato alla fine.

Putin, ha imparato il marketing: ha detto che con il sistema antiaereo S400 non sarebbe successo.

La borsa petrolifera invece ha detto che è un buon affare (+20% in un giorno per il greggio USA e il Brent che non c’entrano affatto).

Ricordate l’aeroplano che atterrò sulla piazza Rossa a Mosca quasi preannunziando la fine dell’URSS?
Il parallelo giusto è questo. Il re è nudo e il principe assassino è in mutande.

TORNA LA COMPAGNIA DELLE INDIE?

È bastato che Donald Trump lasciasse intravvedere la possibilità di incontrare il premier iraniano Rouhani la prossima settimana all’Assemblea delle Nazioni Unite a New York, perché “entità sconosciute” promuovessero un attacco distruttivo alla più grande zona petrolifera del mondo.

Per attutirne gli effetti, persino il Pentagono sta suggerendo “risposte caute” e “ soluzioni pacifiche”.

Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale è stato scelto tra i “ negoziatori” e non tra i geopolitici o i militari.
Rouhani non ha aperto bocca. I sauditi tacciono.
Gli Stati nazionali sono stati colti alla sprovvista.

Una ultima disperata resistenza di chi non ama l’idea di un incontro-dialogo è stata organizzata attorno alla concessione o meno del visto di ingresso negli USA al premier Rouhani e dall’annunzio che la Marina Saudita si unisce agli USA nel pattugliamento a protezione delle rotte del petrolio. Non ha protetto casa sua, ma vuole pattugliare il quartiere…

Mano a mano che il tempo passa, si delineano schieramenti non tanto nazionali ma tra entità interessate all’apertura di negoziati distensivi e altre interessate a mantenere lo stato di tensione, le sanzioni escludenti e il prezzo del greggio elevati.

Queste entità trascendono i confini nazionali e li attraversano longitudinalmente, continuano l’opera di criminalizzazione di ogni altro tipo di combustibile: carbone, legno ( amazzonia), nucleare.

Costoro, coperti anche da ruoli pubblici, creano intralci politici, logistici ed etici ad alcuni paesi produttori con grandi riserve petrolifere ( Venezuela, Iran, Russia) per tenerli fuori dai mercati e mantenere livelli di prezzi di mercato remunerativi per l’estrazione del petrolio di scisti.

Altri paesi potenzialmente ricchi in petrolio ( Egitto, Sudan) vengono ricattati con la minaccia di assetarli bloccando a monte il Nilo per riempire faraonici bacini di dighe e centrali idroelettriche in paesi ( Etiopia) dove non esiste alcunarete di distribuzione energetica e per crearla serviranno decenni e decenni.

Senza nuove urgenti e cogenti leggi di diritto internazionale che escludano eserciti privati, milizie paramilitari e proxy wars ci troveremo a fare guerre provocate e/o dichiarate ufficialmente da consigli di amministrazione e stati acquistati o conquistati da società per azioni.

LA MATASSA, di Antonio de Martini

LA MATASSA

L’Arabia Saudita si trova tra due fuochi da lei provocati: a sud la guerra con lo Yemen e a nord il conflitto siriano.

Gli Stati Uniti si trovano anch’essi tra due fuochi possibili: da una parte il conflitto in Irak con l’ISIS ( per combattere il quale hanno equipaggiato e autorizzato le milizie sciite) e dall’altra dovrebbero combattere e disarmare le stesse milizie sciite che secondo le accuse israeliane sono la base dell’attacco agli impianti petroliferi.

Entrambi i paesi stanno concertandosi oggi a Gedda circa il da farsi che consisterebbe nel decidere atti di guerra contro l’Iran, il quale nega tutto.

Gli Stati Uniti promettono di esibire alle Nazioni Unite le “ prove” che l’intelligence sta approntando, sempre che si trovi un Presidente USA disponibile a ripetere la scena di Colin Powell sulle armi di distruzione di massa irachene per avere il sostegno degli alleati.

Ne dubito.

Al massimo lo farà il fido Pompeo e tornerà con le pive nel sacco.

Il senato USA, anche repubblicani, dice che bisogna accertarsi che l’alleato saudita “ abbia tutte le armi necessarie” alla sua difesa . Escludono attacchi diretti di qualsiasi genere.
Alla peggio vorranno fare una Proxy war, ma ne stanno già facendo due….

La proxy war è una forma di lotta affidata nascostamente a terzi mirante a guerreggiare contro un paese terzo senza che appaia il mandante per non violare in forma sfacciata il principio di non ingerenza negli affari interni altrui fissato da Metternich nel Congresso di Vienna( 1815) .

Di fatto è impossibile trovare prove di una proxy war.

I dati di fatto sono che l’AS ha speso quest’anno 82,6 miliardi di dollari in armamenti e l’Iran 13,2.
Gli abitanti dichiarato dai sauditi sono 20 milioni e dagli iraniani 70.

L’Iran è stato oggetto di sanzioni da parte americana e gli europei stanno lavorando per farle togliere o attenuarne gli effetti.

Non credo vi siano dubbi su chi sia l’attaccante strategico, ne sulla fine che farebbero Riad e Tel Aviv in caso di scontro aperto.

Le conclusioni del vertice tra Mohammed ben Salman e Mike Pompeo dunque sono scontate.

La risposta di aumento delle sanzioni, inasprirebbe la situazione a danno degli interessi degli Stati Uniti, ma sarebbe ben vista dai sauditi.

Una decisione di intensificare qualche forma di proxy war sarebbe ben vista dagli americani ma danneggerebbe i sauditi destinati inevitabilmente a sostenere la reazione.

Una reazione nei confronti delle milizie sciite irachene ( incolpevoli) provocherebbe una nuova guerra in Irak e smentirebbe tre decenni di scelte politiche USA, dato che furono loro a dare il potere agli sciiti ed armarne le milizie.
Si passerebbe dalla tragedia alla farsa.

Parimenti impensabile è una rappresaglia contro gli Houti, dato che lo Yemen è stato da mesi dichiarato “ emergenza umanitaria” dalle Nazioni Unite e una serie di ben tre delibere senatoriali che proibivano di fornire armi e assistenza ai sauditi in guerra sono state fermate da un veto presidenziale.
Il quarto sarebbe di troppo.

Un’azione contro Hezbollah in Libano verrebbe vista come un diversivo e scatenerebbe una reazione contro Israele in un momento politico delicatissimo e alla vigilia della comunicazione del piano di pace coi palestinesi.

Le sole soluzioni sono un “ coup de teatre” di Trump alle Nazioni Unite con Rouhani ( che però agli occhi di molti potrebbe sembrare una sconfitta) o far fuori ( sei mesi) Mohammed ben Salman e dare tutte le colpe a lui.
Voi cosa scegliereste ?

C’EST L’ORIENT ! …….C’EST LA guerre, di Antonio de Martini

C’EST L’ORIENT !

Sono un lettore di “L’Orient-Le jour”, il giornale francofono di Beirut e di “ The Times of Israël” anglofono di Tel Aviv.

Oggi su l’Orient c’è un articolo dedicato al ministro degli Esteri israeliano che definisce « burattino dell’Iran » il segretario di Hezbollah, Nasrallah.

Strano che la mia copia, sono abbonato, proprio oggi non mi sia arrivata e che il tono del pezzo sia in contrasto con l’abituale felpata cautela. Provocatorio.

Sono giorni ormai che Israele ha lanciato, in perfetta coordinazione con l’ambasciatore USA a Beirut , una offensiva giornalistico-diplomatica mirante a disarmare e far mettere fuori legge l’Hezbollah inserito dagli USA nell’elenco delle “organizzazioni terroristiche”.

Si tratta di un “aiutino” offerto da Trump alla campagna elettorale di Netanyahu del quale il Libano dovrebbe fare le spese.

Hezbollah è un partito politico che raccoglie stabilmente il 50% dei suffragi elettorali , dispone di un esercito più forte, esperto e motivato di quello del governo libanese. ( 25.000 effettivi e 30.000 riservisti, reduci dalla vittoria in Siria ).

I quindici anni di conflitto civile, cessato nel 91, sofferto dal piccolo paese (103.000 morti su 3 milioni di abitanti) hanno vaccinato per almeno un secolo l’intera popolazione dall’idea di ricorrere alla violenza interna o esterna che sia.

Non faranno la guerra per gli USA né Israele. Né altri.

La guerra civile fu istigata e finanziata dagli stessi attori del presente conflitto siriano e che sono dietro all’improvviso impellente bisogno di sbarazzarsi di Hezbollah diventato ormai un attore permanente dello scenario Levantino.

Israele ha attaccato militarmente il Libano ripetutamente: voleva acqua ( il fiume Litani) e mirava al territorio compreso tra Tiro e Sidone.

Già nel 1982 invase tutto il sud Libano fino alla periferia di Beirut ( operazione “ pace in Galilea”) scacciandone gli abitanti – in prevalenza sciiti- che si spostarono di 50 km, in trecentomila, verso Beirut.
Il catasto di Saida ( Sidone) fu distrutto intenzionalmente per facilitare la rapina.

I Cristiani si spostarono, a loro volta, versoJunie, di una ventina di km.

Da questa mal meditata occupazione israeliana nacque un movimento di resistenza ( l’Hezbollah ) che – assieme alla opinione pubblica internazionale- indusse gli israeliani a rientrare nei confini, appropriandosi solo di una fascia di dieci km che dovettero poi ugualmente abbandonare a causa degli attacchi partigiani diuturni e delle troppo onerose misure di sicurezza.

Un secondo tentativo – un blitz punitivo vero e proprio contro Hezbollah – tentato dagli israeliani, si risolse in una sconfitta militare netta che provocò la rimozione del comandante israeliano accusato di incapacità.

Nel 2006 ci furono bombardamenti israeliani nella piana della Bekaa ad alcune infrastrutture ( e a una fabbrica di bottiglie per birra a capitale indiano!) che gli USA rifinanziarono ristabilendo la tregua.

Adesso, dopo aver fallito coi carri armati prima e con gli aerei dopo, provano con la propaganda e le pressioni diplomatiche.

L’obbiettivo di minima è ottenere un attacco Hezbollah che ridarebbe il carisma del capo militare a Netanyahu offuscato da accuse di tangenti su forniture militari tedesche e pressato dal rivale generale Ganz.

L’obbiettivo medio è quello di far ritirare dalla Siria i volontari Hezbollah che danno manforte al governo e agli iraniani e limitarne la libertà di movimento.

L’obbiettivo strategico é far continuare “l’unrest” nel Levante ritagliando un ruolo per l’emarginata diplomazia USA, a rimorchio e incapace di aver un ruolo guida in tutta l’area.

Ora ha inviato la signora Hole a Cipro per mediare a nome dell’ONU una riconciliazione greco-turca….

Hezbollah ha fatto sapere di essere per ora soddisfatto anche solo dell’innervosimento israeliano che teme un attacco sul suo territorio e ha pubblicato alcune foto di camionette israeliane di presidio al confine con dentro dei manichini.

Un trucco, già utilizzato, per supplire alla carenza di personale esausto dai turni impossibili, al punto che nel sud – a Gaza- il governo israeliano ha offerto cospicua assistenza finanziaria a Hamas in cambio di una “ tregua durevole”.

L’arma demografica comincia a fare effetto. Gli ebrei americani comprano volentieri una casa in Israele, ma non intendono lasciarci le ossa.

Anche il governo siriano, dopo otto anni di guerra, ha scarsità di effettivi.

A Deraa ( zona del giabal druso) , dopo la riconquista, ha concluso un accordo con gli sconfitti: ha lasciato l’armamento leggero di dotazione a un battaglione di ex nemici, incaricandolo di mantenere l’ordine pubblico in città.

Cerca la riconciliazione e
le truppe fedeli le risparmia per presidiare il troppo vicino confine israeliano.

Lumi sul Vicino Oriente, di Antonio de Martini

IL FLUIDO QUADRO STRATEGICO TURCO

IL bombardamento che ha bloccato il progredire del convoglio di rinforzi turchi all’avamposto di MOREK, non è rimasto senza conseguenze.

Già la settimana scorsa i turchi hanno abbattuto un aereo siriano lasciando nella indeterminatezza la sorte del pilota.

Subito dopo, Erdogan ha emesso un comunicato ufficiale annunziando di non riconoscere l’annessione russa della Crimea, dove era stato più volte in visita per incontrare Putin.

Non mi è chiaro se questa dichiarazione sia un episodio di baruffa tra innamorati o un secondo movimento di ritorno alla casa atlantica, dopo la commissione mista che studia i futuri pattugliamenti nella zona di sicurezza.

Aspettiamo l’esito della terza mossa che è la ripresa dell’attività diplomatica verso i comprimari della crisi siriana.

Mevut Cavusoglu , il Ministro degli Esteri che riesce a resistere ai cambiamenti di rotta più repentini, è appena rientrato da Beirut dove ha cercato appoggi.

La grande debolezza militare del Libano, ne ha fatto un interlocutore obbligato ad avere rapporti amichevoli con tutti i protagonisti dello scenario.il veicolo ideale.

Gli interessi in comune sono numerosi: il Libano ospita il secondo, per importanza, numero di sfollati siriani sul suo territorio ( Turchia 3,6 milioni; Libano 2,3).

A fronte di Cipro che gode della protezione israeliana grazie a una convenzione militare trilaterale coi Greci, il Libano ( che ha la sua quota di concessioni gaspetrolifere in mare), potrebbe volersi appoggiare alla Turchia dato che ha in contenzioso i limiti con Israele e Trump sta vanificando l’appoggio offerto da Obama ai libanesi.

I siriani hanno catturato alcuni militari turchi e per liberarli vogliono indietro il loro pilota.

Abbas Ibrahim, il capo dell’intelligence libanese ha relazioni eccellenti con tutto il Vicino Oriente, ma eccezionalmente buone coi siriani e potrebbe essere il veicolo negoziale ideale per un accordo Siro-Turco che renderebbe anche superflua la presenza militare russa al confine sud di Ankara .

Una mossa pacificatrice del genere sarebbe una vendetta verso i russi e, al contempo, un favore agli USA e un alleggerimento per i siriani, nonché un diminuito allarme per i curdi.

Un “ en plein” regionale.

Per atti ostili verso la Siria, i turchi avrebbero potuto rivolgersi più proficuamente verso la Giordania o l’Arabia Saudita, dunque la mossa verso il Libano mostra che Erdogan vuole stabilizzare la sua frontiera ed è più interessato a posizionarsi come potenza regionale.

Al posizionamento globale mostra sempre meno interesse.
E non è il solo.

KHAN CHEIKHUN: UOVO, GALLINA, FRITTATA.

Khan Cheikhun é il nome della località della provincia di Idleb (Siria) conquistata pochi giorni fa dall’esercito governativo siriano.

La provincia in questione é stata finora occupata dalla branca siriana di Al Kaida che ora ha cambiato nome in “Haya Tahrir el Sham “ per poter godere di assistenza e rifornimenti occidentali e della « protezione politica » della Turchia.

Lo SM turco ha, nella provincia, alcuni « punti di osservazione” il più avanzato dei quali è Morek, che in realtà è un caposaldo.

Dopo l’occupazione/liberazione di Khan Cheikhoun da parte siriana, i turchi si erano premurati di rifornire in armi e munizioni il loro “ punto di osservazione” più esposto a un attacco.

Numerosi media hanno informato l’Occidente di un bombardamento di un convoglio di rifornimento in marcia verso Morek ( 50 camion e 5 carri e alcuni VTT) inviato prevedendo una ulteriore avanzata siriana.

Il bombardamento potrebbe, ragionano i media, essere cagione del possibile deterioramento dell’intesa russo-turca del settembre 2018 costituente una zona di sicurezza congiunta in quell’area.

Il bombardamento, dicono gli analisti, non può essere stato realizzato nella ignoranza dei russi.

È la speranza di vedere uno screzio tra Russia e Turchia ( sempre i benedetti S400!) che ha indotto i media a dare, eccezionalmente, notizia di una vittoria di Assad.

Putant quod cupiunt.

L’artiglieria siriana e l’aviazione russa sono entrambe intervenute ma con distinte – politicamente raffinate – modalità di intervento.

I siriani hanno usato l’artiglieria provocando al convoglio 3 morti e 12 feriti civili (del MIT il servizio segreto turco?).

L’aeronautica russa ha invece effettuato una incursione davanti al convoglio distruggendo la strada ancora da percorrere ( ma nel contempo offrendo copertura aerea ai siriani per impedire agli F16 turchi ogni attacco),senza mirare ai turchi.

Si è trattato, a mio avviso, di una chiara messa in guardia a Erdogan e al suo Stato Maggiore: se volete a sud una zona di sicurezza con noi e a est un’altra con gli USA, state sognando.

Al contempo, la Russia sta mantenendo l’impegno coi siriani a difendere l’indipendenza e l’integrità del territorio nazionale.

Se i turchi cedono a Idlieb, Putin ha mantenuto la promessa alla Siria.

Se invece fermano la nuova fascia di sicurezza con gli USA, Putin ha messo un’altra zeppa nel rapporto Trump-Erdogan.

Non è – come affermato dagli analisti- la Russia che ha violato le intese di pacificazione di Astana : è la Turchia che ha creato una situazione nuova con la “ fascia di sicurezza” a pattugliamento congiunto turco-americano ( ancora in fieri) e ha incassato un “ caveat” dai russi.

Ora la Turchia deve scegliere tra l’uovo di oggi ( assieme agli alleati di sempre di Tahrir El Sham) della zona di Idleb e la gallina di domani ( in mezzo ai nemici curdi di sempre) verso Mossul.

Anche i russi han difeso il loro uovo siriano senza troppo turbare la gallina turca che potrebbe dare uova d’oro.

Temo proprio che la frittata la farà la commissione mista turco-americana incaricata di definire limiti e regole di ingaggio della “ zona di sicurezza” lungo la frontiera verso Hassake e Mossul.
Let’s wait and see.

AGGIORNAMENTI E CONFERME, di Antonio de Martini

IMBARAZZANTI IMPROVVISAZIONI

Ho appena letto su Dagospia ( ripresi dal Messaggero che ha citato il rapporto di Procura) il resoconto dei fatti connessi al delitto di via Cossa.

Mi sono soffermato sul comportamento dei Carabinieri coinvolti.
Quattro che erano in libera uscita e hanno assistito alla prima fase ( il furto).

a) desistono dall’inseguimento del reo e consigliano al derubato ( pusher-truffatore) di chiamare il 112.

Sopraggiungono i due CC della stazione Farnese ( i fatti si erano svolti a Piazza Mastai), si tiene consiglio su chi continuerà ad occuparsene e decidono che siano quelli di Farnese.

Appena arrivano a via Cossa, colluttazione e morte.

Da tutto questo scenario risulta, a mio parere:

1) la demotivazione dei 4 Carabinieri è la mancanza di spirito di corpo. In altri tempi non avrebbero lasciato i commilitoni a sbrogliare la matassa per continuare la passeggiata trasteverina.

2) ruolo quasi nullo dell’ufficiale di servizio al 112 che avrebbe dovuto mantenere il controllo e passare lui l’incarico alla tenenza/ stazione Prati per competenza territoriale.
.
3) la decisione presa dal gruppetto dei CC ha tenuto conto della comodità invece che della efficienza : avrebbero almeno dovuto far partecipare uno dei quattro che era in grado di riconoscere i due americani che Rega e il commilitone non avevano mai visto.

4) il 112 ( o i quattro Carabinieri o Rega) hanno anche omesso di informare la tenenza Prati di una operazione che stava per svolgersi sul territorio di sua competenza.

Confrontato a uno scontro armato, l’altro carabiniere non ha nemmeno pensato di reagire con l’arma di dotazione nemmeno con gli avversari in fuga.

DEMOTIVAZIONE, TRASCURATEZZA, NON COORDINAMENTO, ADDESTRAMENTO CARENTE.

Esattamente quel che ho scritto nel mio testo ( “ Meditazione in morte di un Carabiniere”) a botta calda.

Il coltello lo ha usato l’americano, ma le mani che lo hanno armato avete capito di chi sono: di coloro che hanno svirilizzato e invigliacchito – con pervicacia e intenzionalità – l’Arma dei carabinieri dai tempi del generale de Lorenzo in poi.

http://italiaeilmondo.com/2019/07/27/meditazione-in-morte-di-un-carabiniere-di-antonio-de-martini/

MEDITAZIONE IN MORTE DI UN CARABINIERE, di Antonio de Martini

Non leggo i fatti di cronaca nera , ma inciampo sempre più spesso in notizie e commenti su membri delle forze dell’ordine – sarebbe più appropriato ahimè parlare di forze armate- che soccombono di fronte all’aggressività di criminali di vario conio.

Inevitabile chi lamenta , come Alga Fratini le misere condizioni economiche del militare coinvolto e chi come Luca Pardi si lancia in una filippica contro i cittadini che non hanno votato come vorrebbe lui.

Improprio prendersela con vaghe categorie dello spirito come “ la classe politica” l’immigrazione irregolare o le coltellerie di Maniago ( Solingen per gli europeisti).

Se si andasse a guardare le statistiche dell’ultimo mezzo secolo, gli unici tre anni in cui nessun carabiniere è rimasto ferito o deceduto per causa di servizio, è stato il triennio in cui a capo dell’Arma dei Carabinieri è stato il generale ingegnere Giovanni de Lorenzo.

E questo è un dato di fatto.

Si, tre anni , anche non facili e nemmeno un ferito in un incidente automobilistico.

Seguiti dall’invio – quando de Lorenzo divenne capo di Stato Maggiore dell’Esercito – di sedicimila militari a salvare Firenze da una disastrosa alluvione di cui adesso mena vanto qualche quaquaraquà con accesso in TV.

Sedicimila uomini a spalare fango e raccattar cadaveri per giorni ( leggete le cronache di quei giorni de “ La Nazione” di Firenze) e anche questa missione fu portata a termine senza un ferito un annegato o un incidente.

Si chiama arte del comando e si acquisisce negli anni e non nei cocktail o nelle cerimonie commemorative.

Le nostre Forze Armate hanno il “know how” per addestrare gli uomini ( ed ora anche le donne) a svolgere ogni compito che venga loro assegnato.

Ma cominciarono col sottrarre loro l’addestramento dei controllori di volo e conclusero con una ipocrita “ sospensione” del servizio militare.

Le FFAA. Non dovevano essere un punto di riferimento morale o professionale.

Se da così tanto tempo ci sono incidenti che sarebbero stati evitabili ( come “check point pasta” ( Somalia) Nassirya ( Irak) o Stazione Termini ( casbah) la colpa è dei comandanti che ormai giungono al vertice attraverso una tale catena di servilismi da rasentare il grottesco se non ci fosse da piangere.

Sanno servire i potenti, ma non più lo Stato.

L’Arma dei Carabinieri – continuiamo a chiamarla così , ma è diventata una FORZA ARMATA come la Marina o l’Esercito grazie a un patto scellerato -che deve essere cancellato al più presto – tra D’Alema e il generale Del Sette e pochi altri vendutisi in cambio di un’altra stelletta sulle spalline e una pletora di posizioni da “ aiutanti di campo” che un tempo erano posti riservati agli incapaci di comando.

Oggi sono invece, queste attività servili, trampolini per le posizioni di vertice dato che le nomine le fanno coloro ai quali questi signori portano a spasso il cane o la moglie quando non vanno in giro a sparlare dei concorrenti del padrone di turno.

Chi lotta contro il banditismo non va più a comandare. Ne hanno paura. Et pour cause.

Li odiano e li lasciano massacrare da magistrati che da poco cominciano a far conoscere il loro vero volto e i loro interessi reali.

Gli ufficiali e i sottufficiali bravi a comandare vengono schiacciati tra questa incudine di incapaci e il martello dei magistrati arrivisti.

I carabinieri – e non solo loro – sono quindi molto mal comandati da almeno venti anni e le conseguenze si notano nella disciplina, nel tono psicofisico; nella propaganda fatta a colpi di fiction TV; negli episodi di cronaca nera di cui sono ad in tempo guardie e ladri; nell’impiego operativo affidato a magistrati che non hanno mai udito il suono di un colpo di pistola e arrembano verso l’alto “ senza badare agli uomini né ai mezzi”.

I danni creati da Del sette e compagni dureranno per almeno una intera generazione.

Potete sfogarvi a imprecare , a chiamarli eroi , vittime o altro, ma il DNA dei Carabinieri è cambiato e non in meglio.

Per far tornare a vincere ( è di questo che stiamo parlando) i carabinieri bisogna che tornino ad essere LA PRIMA ARMA DELL’ESERCITO; ESSERE COMANDATI DA UN UFFICIALE ESTRANEO ALLE CORDATE INTERNE; E CHE IL LORO IMPIEGO NON VENGA FRAZIONATO TRA I MAGISTRATI.

I vertici operativi e di comando non vengano scelti tra chi ha fatto l’ufficiale di collegamento di ministri, sottosegretari, e compagnia bella.

Per comandare bisogna aver comandato non vagato tra gli uffici altrui.
Vedrete che miracolo di resurrezione.

Premiare , come faceva de Lorenzo: ( es. invece di tanti premi da duemila lire, un minor numero ma da ventimila) , colpire chi trescava nelle forniture. ( con lo stesso stanziamento scambiò – grazie al colonnello Tagliamonte- settemila biciclette con tremila “Giulie”).

Dare spirito di corpo ( suo fu l’ordine – ancora in vigore- di usare solo la divisa nera e non più quella cachi).
Premi di sette giorni di licenza a chi reagiva energicamente ai contrasti di chiunque .

Diventato capo di Stato Maggiore si accorse che tutte le forniture del triennio erano già state appaltate al gruppo FIAT. Gli lasciavano da comandare una scatola vuota .

Le cancellò tutte.

Gli Agnelli fecero lobby per oltre un anno e poi scatenarono prima i rivali interni e poi i cani.

Dopo uno scontro politico cruento de Lorenzo fu defenestrato e da allora iniziò il piano inclinato delle stellette, intervallato da qualche singulto, ma si indovinava già, ad ogni giro, il rantolo di un sistema morente.

Dopo il sistema muoiono i singoli. Guardate le statistiche.

MEDINSAHARA e la guerra ibrida, a cura di Giuseppe Germinario e Roberto Buffagni

 

Negli ultimi articoli[1] dedicati all’ operazione Carola,  http://italiaeilmondo.com ha analizzato le azioni delle ONG che trasbordano immigrati irregolari nel nostro paese come veri e propri atti di guerra ibrida concepiti, diretti e organizzati da centri decisionali legati a potenze straniere. A queste operazioni prestano la loro indispensabile collaborazione, con gradi diversi di consapevolezza e organicità, settori tutt’altro che trascurabili delle istituzioni e dei media italiani[2].

Il governo ha reagito agli attacchi, seppur in modo non del tutto collegiale e adeguato. Il Ministro Salvini, principale bersaglio politico degli attacchi, sta tentando di rispondervi con l’ inasprimento delle sanzioni e un assiduo impegno nella comunicazione e nel sostegno a FFOO e FFAA. In termini di dissuasione, qualche risultato si comincia a vedere: ma si tratta pur sempre di un’azione di rimessa, indispensabile ma insufficiente. E’ invece di importanza capitale prendere l’iniziativa e contrattaccare, dettando l’agenda politica e costringendo l’avversario – anzi gli avversari, esterni e interni – a combattere sul nostro terreno e alle nostre condizioni.

Tra le prerogative e i doveri fondamentali di qualsiasi Stato c’è, naturalmente, la difesa delle frontiere e il controllo del territorio. E’ dunque benemerita e indispensabile la politica dei “porti chiusi” proposta e accanitamente difesa da Salvini, perché ha segnato una svolta netta, anche simbolica, rispetto alle politiche migratorie irresponsabili dei governi precedenti.

E’ chiaro a tutti che è responsabilità storica di qualsiasi governo puntare ad una netta diminuzione, regolamentazione e regolarizzazione di flussi migratori, in modo da renderli compatibili con la struttura socioeconomica e la coesione culturale d’Italia.

E’ così chiaro a tutti, che persino i diretti responsabili politici della grave crisi migratoria italiana  hanno la faccia tosta di sventolare  – a parole e a favor di telecamere – lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”.

Sinora, l’unico “aiuto a casa loro” che la classe dirigente europeista italiana ha dato agli immigrati è stata la sciagurata collaborazione all’aggressione anglo-francese alla Libia: li hanno aiutati ad ammazzare il  dittatore antidemocratico, precipitandoli nell’anarchia e nella guerra civile per poi piangere lacrime di coccodrillo sulle sofferenze dei migranti e l’insicurezza dei porti libici, e cianciare di “corridoi umanitari” che come l’araba Fenice, che vi sian ciascun lo dice, dove sian nessun lo sa.

Non c’è dubbio: anarchia e guerra civile sono “democratiche”, nel senso che coinvolgono tutto un popolo nessuno escluso, ma sarebbe questo, “aiutarli a casa loro”? Semmai, è mitragliare qualcuno, regalargli una scatola di cerotti e poi pretendere la medaglia al valore civile.

Un’altra cantafavola con allegate lacrime di coccodrillo e boccuccia ipocrita a culo di gallina che ogni tanto fa capolino nei media è quella del “piano Marshall europeo per l’Africa”, svergognata sciocchezza alla quale nemmeno il fratello più scemo della scemo può prestare una briciola di fede.

Da trent’anni l’Unione Europea applica, in Europa, una dura politica deflattiva iscritta nei trattati fondativi. Nell’Unione Europea, da trent’anni gli investimenti diminuiscono e la disoccupazione cresce, toccando vette abissali in Grecia e nel Meridione d’Italia. Con queste premesse, per “restare umani” (ammesso e non concesso che mai lo siano diventati) i diretti responsabili della catastrofe sociale europea sarebbero in procinto di inaugurare un “piano Marshall per l’Africa”?!

Ma insomma: è possibile aiutarli a casa loro, sì o no?

Sì che è possibile. E’ possibile “aiutarli a casa loro” se un governo italiano si ricorda della vocazione mediterranea del nostro paese, e degli antichi scambi culturali, politici ed economici che ci legano al Levante; è possibile aiutarli a casa loro se governo italiano e governi del Levante riconoscono i reciproci, comuni interessi e avviano una fattiva collaborazione economica e politica.

Basta ciarle a vuoto, basta ipocrite mozioni degli affetti,  basta eroismi umanitari a costo zero, basta carità pelosa con capital gain garantito sul C/C del caritatevole: avviare invece trattative su un piede di cordiale parità, e sulla base del reciproco rispetto e interesse.

Gli immigrati non sono i bambolotti di pezza, le coperte di Linus dei professionisti della bontà, non sono i personaggi di un brutto melodramma TV , e non sono il Buon Selvaggio Sventurato oppresso dal Cattivo Uomo Bianco Colonialista.

Gli immigrati sono uomini come noi, con la nostra stessa capacità di bene e male, con interessi e ambizioni e bisogni, con i quali dobbiamo trattare da pari a pari, sulla base del reciproco interesse, come con gli uomini dei paesi europei.

Leggiamo che proprio in questi giorni, il governo italiano tratta con il governo tunisino per ridurre l’afflusso dei barchini pilotati dagli scafisti, i trafficanti di schiavi che trasportano gli immigrati nel nostro paese.

E’ un’iniziativa opportuna, ma è anche un’occasione preziosa per riprendere in esame un progetto italiano che sul serio può “aiutarli a casa loro”.

italiaeilmondo.com ha già presentato https://www.medinsahara.org/   il progetto di collaborazione tra governo italiano e tunisino per l’escavazione di un mare artificiale nel deserto del Sahara, del quale è promotore e referente italiano il nostro collaboratore e amico Antonio de Martini.

Il progetto “ Mare nel Sahara” è stato presentato nell’ottobre scorso a Biserta, nel corso del « Forum de la Mer / rencontres euro-méditerranéennes de l’économie bleue durable », organizzato dall’ Institut tunisien des études stratégiques (ITES), con l’appoggio dell’ Unione Europea e dell’ Unione per il Mediterraneo, e la partecipazione dell’ambasciata di Francia in Tunisia. Vi collaborano le Università di Ferrara, Bologna e “La Sapienza” di Roma, l’ Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino (Roma), l’UNESCO.

E’ un progetto che sarebbe di interesse nazionale per il nostro paese anche se il problema migratorio non esistesse: per il vantaggio economico immediato (4-5 MLD di lavori per imprese italiane, circa 2.000 posti di lavoro per tecnici italiani), e per il vantaggio politico a breve e lungo termine di una ripresa in grande stile della cooperazione italiana con le nazioni del Nordafrica (il progetto è replicabile anche in Algeria).

Ma oggi che il problema migratorio è al primo posto dell’agenda del governo, il progetto “Mare nel Sahara” moltiplica la sua importanza e il suo valore, tanto economico quanto politico, internazionale e interno.

Il progetto “Mare nel Sahara”  è importante, anzi decisivo per la politica interna italiana, perché è questo il modo di “aiutare a casa loro” gli immigrati: creando nelle nazioni nordafricane opportunità di lavoro, sviluppo e speranza che tengano conto insieme dell’interesse loro e nostro.

Solo dando agli immigrati concreta speranza di lavoro e di vita dignitosa nel continente africano possiamo costruire le condizioni per  la nostra e la loro sicurezza, come per la reciproca intesa nella diversità.

Solo così svergognamo e tappiamo la bocca agli ipocriti fautori di un’immigrazione incontrollata e incontrollabile, ai bugiardi che cianciano di umanità mentre trattano noi e loro come animali “da meticciare”. Politica realistica ci vuole, non zootecnia ideologica.

Qui sotto il lettore troverà una intervista ad Antonio de Martini, principale promotore dell’iniziativa, e il link a un sintetico dossier sull’argomento.

Speriamo che finalmente, la vox clamantis in deserto Sahara trovi un ascolto attento nel governo. Per avviare il progetto,  basta finanziarne lo studio di fattibilità con 300.000 euro, da destinare alle tre Università italiane che lo sponsorizzano.

Sì, avete letto bene: non abbiamo scritto “trecento milioni” di euro. Abbiamo scritto “trecentomila”. Troppo? Non ci sembra._Roberto Buffagni, Giuseppe Germinario

[1] http://italiaeilmondo.com/2019/07/07/guerra-ibrida-navi-corsare-a-sud-e-pokeristi-a-bruxelles-con-piero-visani/

http://italiaeilmondo.com/2019/07/09/dopo-l-operazione-carola-la-fine-dellinizio-di-roberto-buffagni/

[2] http://italiaeilmondo.com/2019/07/06/navi-corsare-a-lampedusa-con-augusto-sinagra/

http://italiaeilmondo.com/2019/07/09/una-traversata-nella-teratologia-giuridica-su-alcuni-profili-dellordinanza-del-g-i-p-di-agrigento-in-merito-alla-vicenda-della-nave-sea-watch-3-di-emilio-ricciardi/

https://www.medinsahara.org/

 

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