Andrea Zhok
Elogio dell’identità
tratto da https://www.academia.edu/37853989/Elogio_dellidentit%C3%A0
I problemi posti dalle rivendicazioni identitarie e dalla natura delle identità
collettive sono, politicamente e moralmente, tra i più scottanti della nostra
contemporaneità. Nel dibattito italiano, probabilmente, la più autorevole voce
critica rivoltasi reiteratamente contro ogni pretesa identitaria è quella
dell’eminente antropologo Francesco Remotti, che vi ha dedicato due monografie
a quasi tre lustri di distanza: Contro l’identità (1996) e L’ossessione identitaria
(2010). Nelle pagine seguenti prenderemo l’eccellente lavoro argomentativo ivi
svolto come punto di partenza per sostenere una tesi per certi versi
diametralmente opposta a quella promossa da Remotti: laddove quest’ultimo
perviene ad un vero e proprio tentativo di eradicare ogni riferimento all’identità
come pericoloso e fuorviante, noi andremo a sostenere che intorno al tema
dell’identità gravitano alcune delle questioni più centrali ed imprescindibili per la
nostra epoca e, invero, per l’umanità in generale.
Contro l’identità?
La posizione aspramente critica di Remotti verso ogni rivendicazione
identitaria è andata radicalizzandosi nel corso del tempo. Nel lavoro del 1996,
nonostante la visione univocamente negativa delle rivendicazioni identitarie
come fenomeno storico, l’antropologo concedeva che la spinta alla ricerca di
un’identità (come identità di gruppo) fosse “un’esigenza irrinunciabile” (Remotti
1996: 57). Nel testo più recente invece egli giunge a sostenere senz’altro che
“si può fare a meno dell’identità” (Remotti 2010: XVIII). Radicalizzazione a
parte, la batteria argomentativa dei due testi è sostanzialmente omogenea, e
può essere presentata senza differenziare tra di essi. Secondo Remotti la nozione
di identità applicata alla realtà sociale e psicologica rappresenterebbe una
finzione esiziale, che “promette ciò che non c’è” (Remotti 2010: XII), e che non
ci può essere. Ad essere promessa sarebbe un’identità intesa come stabilità e
chiusura, che si fonderebbe in ultima istanza sull’idea metafisica del permanere
di una sostanza (Remotti 2010: XIII). Con le rivendicazioni di identità noi
chiederemmo “che questo nucleo sostanziale venga riconosciuto a monte e
preliminarmente rispetto ai nostri diritti e alle nostre caratteristiche” (Remotti
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2010: 95). A sostegno della sua polemica, Remotti si richiama ripetutamente
alla critica hegeliana al principio di identità, per mostrare che “l’alterità si insinua
nell’identità” divenendone una dimensione fondamentale e irrinunciabile
(Remotti 2010: 27). In questo senso “l’identità per Hegel è improponibile, perché
il mondo è una continua trasformazione” (Remotti 2010: 28). L’idea stessa di
applicare il principio di identità alla sfera della realtà e dell’esperienza sarebbe
un’assurdità, un “pasticcio concettuale” (Remotti 2010: XXII), in quanto nulla si
presenta mai come compiutamente identico a se stesso.
Questo errore concettuale tuttavia, lungi dall’essere un errore veniale,
comporta per l’autore gravi pericoli sul piano sociale. L’appello all’identità come
dimensione storico-sociale fomenterebbe fatalmente l’intolleranza, la xenofobia,
lo sciovinismo. Remotti giunge fino ad affermare che a suo avviso non ci sarebbe
“poi molta differenza tra razzismo e identitarismo.” (Remotti 2010: XIV) La
rivendicazione di un’identità sarebbe fatta sempre contro un’alterità (Remotti
1996: 62), con un atto di separazione artificiale e violenta. Istanze di
‘purificazione’ e ortodossia sarebbero cruciali per ogni identitarismo, sia esso a
base etnica, religiosa, o altro. Ma anche quando non si dovesse giungere agli
estremi dello scontro e della violenza, gli appelli all’identità promuoverebbero
pur sempre un “impoverimento culturale”. L’identità infatti “si avvinghia alla
particolarità, perché la particolarità è garanzia di coerenza, e la coerenza è un
valore tipico dell’identità.” (Remotti 1996: 21) L’identitarismo sarebbe dunque
strutturalmente incline al particolarismo, all’allontanamento da ogni dimensione
di universalità e comprensività, e questo nel nome dell’omogeneità e della
coerenza.
In questo quadro, che si configura come univocamente negativo, l’autore si
pone giustamente la domanda su come sia possibile che gli appelli all’identità
possano attecchire in prima istanza. E la risposta che si dà è duplice. Da un lato
egli sostiene che la ricerca dell’identità culturale si presenterebbe come una
pulsione rilevante in quanto la specie umana sarebbe caratterizzata da una sorta
di incompletezza biologica (cfr. Remotti 1996: 14): l’uomo, diversamente dagli
altri animali, non avrebbe già in sé le risorse per affrontare il proprio ambiente,
ma richiederebbe necessariamente un complemento culturale. Questa natura di
‘bisogno’ quasi-biologico spiegherebbe la tenacia con cui si presentano le fedeltà
culturali, e con ciò anche il successo degli appelli all’identità culturale (cfr.
Remotti 1996: 17). A questa ragione essenzialmente psicologica per motivare la
tenacia dell’identitarismo, Remotti ne aggiunge un’altra utilitarista. Sulla scorta
di alcune analisi di Ugo Fabietti, egli ammette che la ricerca di identità può essere
uno strumento “per avere successo nell’accaparramento delle risorse” (Remotti
2010: 35): l’identità di gruppo darebbe forza e coerenza alle richieste del gruppo
stesso. Queste due ‘ragioni identitarie’ vengono trattate da Remotti alla stregua
di accidenti, psicologici e antropologici, privi di una giustificazione profonda e
dunque sacrificabili. E per illustrarne la contingenza egli adduce svariati esempi,
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tratti dalla sua grande esperienza di antropologo culturale, e relativi a comunità
dell’Africa sub-sahariana o dell’entroterra amazzonico, dove l’identità di un’etnia
o di una società presentano tratti (relativamente) fluidi.
Naturalmente questo breve riassunto non può esaurire la ricchezza
argomentativa delle pagine di Remotti, cui rinviamo il lettore, ma questi ci
sembrano gli snodi cruciali delle sue tesi, quegli snodi che portano a ritenere il
riferimento all’identità collettiva qualcosa da eliminare, e che ora proveremo a
rileggere in chiave alternativa.
Sull’identità semantica del termine “identità”
Dalle pagine di Remotti si può avere a tratti l’impressione che l’intento di fondo
sia di delegittimare un concetto, come se il problema fosse la natura
semanticamente fuorviante del riferimento all’identità. Balena più volte l’idea
che la parola identità evochi un’irraggiungibile persistenza sostanziale, la quale
spingerebbe ad immaginare situazioni di ‘purezza’, ‘ortodossia’ e ‘intolleranza’
che colliderebbero inevitabilmente con la realtà. Ora, che nell’uso politico degli
appelli all’identità ci possano essere aspetti fuorvianti, tendenziosi ed esiziali è
certo; peraltro questo può accadere per qualunque concetto che venga brandito
per promuovere un’agenda politica. Ma che nel concetto di identità collettiva, o
nel suo uso culturale e politico, siano intrinsecamente incluse propensioni alla
purezza, all’ortodossia e all’intolleranza, questo è senz’altro falso.
La prima cosa da osservare, pur non potendola approfondire quanto
meriterebbe, è che “identità” è una parola la cui identità semantica funziona
esattamente come per tutte le altre parole, dipendendo dall’uso pubblico che se
ne fa. Esiste un uso logico del termine identità, dove si fa riferimento ad una
sovrapponibilità rigida di qualità o predicati tra occorrenze differenti. Questo uso
è chiaramente inadatto a qualsiasi applicazione alla realtà fenomenica, dove non
esistono mai due entità compiutamente identiche. Ma ciò naturalmente non
significa che non siano sensatamente esprimibili identità fenomeniche: possiamo
dire che l’oggetto A sembra una sedia, che l’oggetto B somiglia a una sedia, e
che l’oggetto C non sembra affatto una sedia. Il fatto che nessuna applicazione
identificativa di un termine determini univocamente un numero chiaro e definito
di predicati non implica che quel termine non abbia identità semantica. I
significati materiali (non logico-tautologici) hanno senza eccezioni ‘bordi
sfumati’: esistono tratti considerati nell’uso comune più centrali, tratti
considerati più contingenti o periferici, e tratti senz’altro estranei (cfr. Rosch &
Mervis 1975; cfr. Zhok 2014: 113-175). Se qualcuno vuole utilizzare la rigidità
del principio logico di identità sul piano delle ordinarie unità semantiche, è
qualcosa che rappresenta un uso irragionevolmente restrittivo, che non
delegittima in alcun modo l’uso comune delle identificazioni e reidentificazioni
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materiali. Pensiamo al caso, più prossimo alle identità sociali, dell’identità di una
persona. Un soggetto può avere un saldo senso della propria identità personale,
può successivamente entrare in una crisi psicotica che lo fa dubitare della propria
identità (con grave sofferenza psichica), e lo stesso soggetto può infine guarire,
ristabilendo, magari in forma rettificata, la propria identità. Dovremmo dire che
la persona in crisi psicotica che lamenta la sensazione di ‘perdita di identità’ si
sta lamentando a vuoto perché non c’è mai stata davvero alcuna identità? Lo
psicotico in sofferenza starebbe fraintendendo se stesso? O non dobbiamo
piuttosto fare spazio ad una nozione di identità più realistica e meno astratta di
quella logica?
Quando parliamo di identità, applicando il termine ad entità biologiche,
personali o sociali, il termine non può per essenza significare un’immobilità
statica o una separazione netta tra nocciolo permanente e tratti contingenti.
Torniamo all’esempio dell’identità personale: tra il me stesso infante e il me
stesso adulto posso avere difficoltà a indicare quali cose siano rimaste
precisamente le stesse, e anche laddove fossi in grado di farlo (es.: il mio
genoma) non è affatto detto che quel nucleo comune sia ciò che rappresenta la
mia identità personale. In effetti, se un incidente mi avesse reso perennemente
incosciente, il mio genoma sarebbe lo stesso, ma la mia identità personale
sarebbe perduta. Non è quella presunta unità sostanziale ad essere da me
percepita come mia identità. Sul piano fenomenologico ciò che percepiamo come
identità è piuttosto l’unità di senso intertemporale che connette i vari momenti
della nostra vita in una sequenza intelligibile, unità tale per cui ogni momento
successivo è reso intelligibile dai momenti precedenti, pur superandoli. Lasciamo
da parte le svariate teorie dell’identità personale, da Locke a Parfit, e limitiamoci
a portare alla luce il fenomeno associato qui all’idea di identità: ciò che
chiamiamo intuitivamente nostra identità personale è qualcosa che, lungi dal
configurarsi come isolamento di un nucleo sostanziale, richiama la capacità di
sentirsi connessi al proprio passato in vista del proprio futuro. In questa
continuità di sviluppo non c’è niente che vieti l’assimilazione del nuovo, la
sostituzione di abiti obsoleti, il rilancio di nuovi progetti. Questo senso di
un’identità ‘organica’, come unità di senso di un’azione nel tempo, è molto più
consona all’idea d’identità collettiva di ogni riferimento ad astratte formulazioni
logiche. Da questa prospettiva la battaglia anti-identitaria promossa da Remotti
corre il rischio di risultare meramente nominalistica e fuori bersaglio.
Hegel e la natura delle identità collettive
Nella proposta teorica di Remotti il riferimento a Hegel gioca un ruolo tanto
centrale quanto paradossale. Hegel viene infatti chiamato giustamente in causa
come pensatore del divenire e della storicità, e come critico dell’astrattezza del
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principio di identità. Tuttavia lo stesso Hegel potrebbe essere letto come uno dei
più autorevoli pensatori ad aver sviluppato un’argomentazione organica a
sostegno di quei principi che stanno al centro delle moderne rivendicazioni
identitarie. Lungi dall’essere un semplice ‘fautore della diversità e del
cambiamento’, Hegel presenta un modello di sviluppo delle comunità storiche
che consente precisamente di concepire lo sviluppo come assimilazione del
diverso e come sintesi. Nelle stesse pagine in cui introduce la sua celebre critica
all’astrattezza del principio di identità Hegel fa spazio al proprio concetto
concreto di identità, posizionato idealmente come télos del processo dialettico.
L’Assoluto è definito da Hegel come “identità dell’identità e della non-identità”
(Hegel 1986: 96), formulazione volutamente paradossale con cui si intende ciò
che guida il processo storico (e ontologico) di unificazione del diverso. Al netto
di questioni di filologia hegeliana in cui qui non possiamo entrare, è essenziale
rilevare come l’istanza ‘identitaria’ che Hegel mette alla porta nella versione
intellettualistica del principio d’identità rientra dalla finestra nella forma della
tendenza di ogni sviluppo storico alla sintesi. Il processo di sintesi delle
opposizioni attraverso cui, nella descrizione hegeliana, progredisce lo Spirito è
un processo che cresce attraverso la diversità, ma che non si acquieta affatto
nel mero riconoscimento della diversità in quanto tale. La tendenza sintetica
degli sviluppi storici è una tendenza verso l’identità, ma non un’identità statica
e omogeneizzatrice (come l’Assoluto schellinghiano), bensì un’identità dinamica
e assimilatrice. Il significato storico attribuito a questo processo risulta chiaro
guardando alla natura ideale dello Stato come sintesi terminale dello Spirito
Oggettivo: lo Stato hegeliano, sulla scorta delle idealizzazioni classiche delle
città-stato, è concepito come una dimensione sociale dove le istanze centrifughe
dell’interesse privato, proprie della “società civile”, vengono ricondotte
all’interesse comune, proprio dei rapporti famigliari. Lo Stato, come Hegel lo
descrive, ha un’identità, e conferisce identità ai propri membri, pur non
eliminandone le differenze individuali, né delegittimando il perseguimento dei
loro interessi personali. Naturalmente, se qui stessimo valutando nel merito la
proposta teorica hegeliana, potremmo osservare, come è stato spesso fatto, che
contrariamente alle intenzioni del suo autore, lo Stato hegeliano si configura più
come un ideale normativo che come un’effettiva realizzazione storica. Ciò
rappresenta forse una critica alla concezione hegeliana della storia e dei rapporti
tra razionalità e realtà, ma non impedisce in alcun modo di usare criticamente
quella concettualità.
Un concetto hegeliano in particolare può risultare specialmente utile per una
lettura della nozione di ‘identità collettiva’ che sia produttiva e non cada in
formulazioni astratte e insostenibili: si tratta del celebre concetto di Aufhebung
(“superamento”). Come noto, Hegel concepisce la Aufhebung come il momento
cardine dei processi di sintesi storica: nel corso di uno sviluppo storico (ma
potremmo estendere il ragionamento all’evoluzione naturale), il superamento di
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una parzialità (‘errore’, ‘falsità’) avviene negandola, e al contempo inglobandola,
cioè assimilando le ragioni che l’avevano portata alla luce in prima istanza.
L’Aufhebung è negazione determinata che, nel momento in cui supera una
parzialità, ne conserva le ragioni (cfr. Hegel, 1986b: 94). Ciò che, nel presente
contesto, è particolarmente rilevante nella nozione di Aufhebung è che essa
consente di concettualizzare un tratto comune ai processi di sviluppo di
un’identità organica. Così, un’identità personale in sviluppo incontra
ripetutamente situazioni che segnalano la parzialità o inadeguatezza di abiti e
conoscenze pregressi; quando ciò accade, se uno sviluppo personale ci
dev’essere, esso avviene prendendo quel limite come la base da cui promuovere
un’integrazione di abiti o conoscenze passate, ipotizzando una soluzione
all’altezza della nuova situazione. In questo processo gli abiti o le conoscenze
precedenti non vengono annullati, giacché il loro funzionamento pregresso viene
riconosciuto nella sua (parziale) validità, e ampliato. Ciò che essi erano in grado
di fare rimane in gioco, anche se la metamorfosi cui vengono sottoposti nel
venire assorbiti da una sintesi superiore può renderli a prima vista irriconoscibili.
Ogni ‘nuova verità’ non oblitera la validità delle vecchie verità, ma trasforma
queste ultime, conservandole ed ampliandone la portata. Così, in uno sviluppo
biografico, esperienze, conoscenze e abiti passati possono essere o non essere
direttamente accessibili al recupero mnemonico, ma in ogni caso è costruendo
su quelle esperienze, quelle conoscenze, quegli abiti che ciascuno diviene la
personalità che in ciascun momento è. In analogia con lo sviluppo dell’identità
personale possiamo ora provare a introdurre una nozione plausibile di identità
collettiva.
L’identità come universalità situata
Come osservato, un’identità organica, personale o sociale, non può essere
concepita secondo il modello statico della sostanza, ma solo secondo il modello
dinamico della continuità di sviluppo. In ogni momento della storia di una
comunità (così come di una persona, o persino di una specie biologica)
l’affidamento all’esperienza passata in vista del futuro è la chiave per uno
sviluppo che sia tale. Come ricorda Hayek (cfr. Hayek 1982: 17), ogni
società/comunità elabora nel corso della propria storia abiti collettivi e regole di
comportamento comune che vengono messi alla prova nel contesto ambientale
e culturale in cui si trova. Tali regole si consolidano nella misura in cui
consentono al gruppo di prosperare, o si dissolvono se la loro adozione va a
detrimento della sopravvivenza del gruppo. Tali regole ed abiti non sono
escogitati sulla base di un calcolo realistico della possibilità di condurre ad esiti
positivi; tentativi di anticipazione razionale naturalmente ci sono, ma il
funzionamento storico di ogni organismo sociale è di gran lunga troppo
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complesso per confidare in predizioni astratte: ciò che permane come eredità
culturale e regolativa per le prossime generazioni è essenzialmente ciò che, per
buona volontà o buona sorte, ha ‘funzionato’, permettendo a quella
comunità/società di prosperare.
Nessun singolo membro ha mai una conoscenza dettagliata di cosa,
nell’apparato vigente di regole e costumi, ha fatto funzionare quella
comunità/società. In ogni momento successivo di sviluppo, perciò, ogni nuova
iniziativa deve partire come datità inaggirabile, non solo dal contesto ambientale
e storico, ma anche dalla stratificazione reale di abiti collettivi, costumi, regole
sociali tacite o esplicite, e ‘valori’. Si tratta di un dato necessario per una
successiva condotta razionale, non perché ci siano state ragioni incontrovertibili
per l’adozione proprio di quell’ordine normativo invece di altri, ma perché
nessuno domina razionalmente tutte le buone o meno buone ragioni che hanno
fatto ‘funzionare’ quell’ordine normativo. E proprio per questa ragione nessuno
è in grado di stabilire con certezza a tavolino cosa dev’essere cambiato e come.
Questo ordine normativo consolidato di una comunità in un presente è ciò che
possiamo legittimamente nominare come l’identità di quella comunità.
Qui l’analogia con lo sviluppo biologico di una specie può essere illuminante.
Nelle descrizioni evoluzionistiche ortodosse ogni specie è divenuta ciò che è, non
perché fosse a priori necessario giungere a quegli esiti, e neppure perché in
assoluto quello status quo debba essere considerato l’unico ottimale. Specie
differenti avevano antenati comuni. Fenotipi alternativi, generati per variazione
genetica casuale, e confrontati con contesti ambientale divergenti, hanno
prodotto specie diverse: certe soluzioni si sono imposte in certi gruppi, e
soluzioni diverse in altri. Per quanto, in linea di principio, un medesimo
antecedente potesse portare tanto alla specie A che alla specie B, una volta che
la variazione si è consolidata nel tempo, le due specie hanno identità differenti
e il percorso evolutivo non può essere omesso come irrilevante, anche se di fatto
è stato generato accidentalmente. Questo significa che anche se, in linea di
principio non c’erano ragioni cogenti per l’esistenza di A, o per la sua diversità
da B, ora le due specie hanno la loro irriducibile identità, dipendente dal percorso
di storia naturale da cui derivano.
Un ragionamento simile può essere esteso alle comunità o società storiche.
Possiamo prendere la comune appartenenza alla specie umana come analogo
del comune antecedente biologico nell’esempio delle specie. Che un esemplare
della specie Homo Sapiens sia nato e cresciuto nell’entroterra rurale cinese, in
un quartiere sovraffollato di Buenos Aires o in un paesino delle alpi svizzere,
possiamo certamente pensarlo come mero accidente. Ma crescendo nel contesto
fisico, culturale e normativo di ciascuna di queste comunità, per ciascun
individuo, un’identità specifica ha preso forma, e insieme a questa identità anche
una rete di dipendenze, indebitamenti morali, impegni, promesse, progetti. Il
fatto che ‘in linea di principio’ tutto avrebbe potuto essere diverso, non toglie
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che ora è come è, e che tale realtà ha valore normativo per chi la vive. Ciascuno
di noi è vincolato a rapporti di indebitamento morale con i propri genitori o
famigliari, di affetto con i propri figli, di lealtà con i propri collaboratori, di
obbedienza al medesimo ‘patto sociale’ con i propri concittadini, ecc. E il tutto
avviene secondo l’ordine normativo sviluppatosi in quel luogo, in relazione a
quell’ambiente fisico, ereditando quella cultura materiale, quelle istituzioni, ecc.
Tutti questi elementi elevano richieste reali nei nostri confronti e sono il
presupposto affinché si possano sviluppare progetti riconoscibili e funzionanti.
Possiamo concedere senza difficoltà che se fossimo nati in un villaggio cinese, in
un paesino svizzero, in una metropoli sudamericana, o in mille altri contesti le
nostre dipendenze, lealtà, doveri e possibilità sarebbero diversi. Noi saremmo
diversi. Ma questo riconoscimento di contingenza ‘di diritto’ non comporta affatto
la possibilità di ignorare la realtà del percorso storico-culturale cui apparteniamo
e che ci porta in questo momento ad essere ciò che siamo. In ogni momento
presente quel percorso storico-culturale co-determina identità personali e
definisce un’identità collettiva. Che tale identità collettiva non abbia confini ben
definiti e che non sia rappresentata da un elenco pronto di tratti e qualità non è
un’obiezione, ma un fatto che riguarda tutte le identità semantiche in generale.
Noi riconosciamo facilmente la nostra identità di gruppo, di norma vissuta
tacitamente, quando siamo esposti ad identità differenti (ad esempio andando a
vivere all’estero). Ma tale riconoscimento intuitivo non è conoscenza e, dunque,
non equivale alla capacità di nominare cosa vi rientra e cosa no.
Queste identità collettive, molto diversamente da come definite da Remotti,
non sono temporalmente immote, e non hanno dimensioni precise. Non sono
immobili perché sono entità in perenne sviluppo, che in condizioni di evoluzione
fisiologica acquisiranno gradualmente nuove potenzialità e lasceranno cadere in
disuso regole ed abiti nati per confrontare circostanze non più attuali. In questo
senso il riconoscimento di un’identità collettiva non comporta affatto il
riconoscimento di qualcosa come una “essenza perenne”. Anche se possiamo
riconoscere spesso alcuni tratti persistenti nel percorso storico di un popolo, di
una città, di una nazione, ma non sono quei tratti, eventualmente permanenti,
a rappresentare l’identità di quel popolo, di quella città o nazione. L’identità qui
non è una presunta sostanza identica al variare degli accidenti, ma è il portato
storico-culturale ora disponibile, che crea lo spazio per il rispetto di regole
comuni e per la produzione di progetti comuni.
Tali identità non hanno poi neppure dimensioni precise, in quanto si tratta
sempre di sfere di appartenenza vigenti a ‘cerchi concentrici’: possiamo
riconoscere simultaneamente in noi un’identità locale o urbana, un’identità
regionale, nazionale, europea o mediterranea o mitteleuropea, ecc. L’identità ha
dunque una sorta di ‘molteplicità’ interna, ma si tratta di una molteplicità che
non comporta, o non necessariamente, un conflitto tra identificazioni differenti.
Può accadere, per dire, che le lealtà verso la propria città e la propria nazione
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entrino in tensione, ma tali appartenenze hanno il potenziale per coordinarsi
armonicamente, condividendo la medesima natura.
È qui importante distinguere queste identità collettive da un’altra forma di
identità collettiva con cui vengono spesso confuse. Non di rado le rivendicazioni
identitarie vengono associate a istanze particolariste, legate alla difesa di gruppi
speciali, che come tali si percepiscono (cfr. Taylor 1994). Ma le identità collettive
di cui parliamo qui sono relative a gruppi che hanno, almeno in linea di principio,
la complessità interna sufficiente ad un’autoriproduzione nel tempo: anche se di
fatto una città moderna non vive se non in relazioni, commerciali e politiche, con
realtà esterne, essa ha una struttura organizzativa, una divisione del lavoro e
dei ruoli sociali tali da potersi concepire come un’entità potenzialmente
autonoma. Questa nozione di identità collettiva non è un’idiosincrasia
sociologica, ma il modo fondamentale in cui i gruppi sociali si sono sempre
identificati nella storia: come ‘microcosmi’. Le città-stato dell’antichità ne sono
rappresentanze eminenti, ma ciò appare anche registrato nell’area semantica di
molte parole che nominano tali identità collettive: non è un caso che
originariamente la parola tedesca per stato (Staat) e quella per città (Stadt)
coincidessero; come non è un caso che la parola russa per ‘villaggio’, e poi
‘comune’ (Mir) fosse la stessa per ‘mondo’; o che in italiano ‘paese’ possa
indicare tanto la comunità locale che quella nazionale, ecc. Questo senso di
‘identità collettiva’ va tenuto nettamente distinto da altre forme di identità
particolari, che si possono formare attorno a singole caratteristiche, singoli gusti
o singole passioni. Nell’ambito delle discussioni comunitariste è stato elaborato
per questo secondo senso di identità collettiva l’espressione “life-style enclaves”
(Bellah et al. 1985: 335). Essere juventini, melomani, o vegetariani, ma anche
buddisti o anabattisti, caucasici o afroamericani, donne o uomini, eterosessuali
o omosessuali, ecc. non rappresenta identità collettive coordinate intorno alla
possibilità di un’autoriproduzione sociale autonoma. Non sono comunità, non
hanno una storia, né un’organizzazione, né un radicamento territoriale comune.
In alcuni casi, naturalmente, potrebbero in linea di principio diventare comunità
(un gruppo etnico o religioso può pretendere di diventare nazione), ma di norma
tali identità collettive esistono e operano rivendicazioni, rappresentando
particolarità che vogliono presentarsi come tali. Rispetto a tale identitarismo
particolare l’identità collettiva di cui qui parliamo è invece un’identità che si
concepisce come una “universalità potenziale”. Qui di nuovo il modello hegeliano
dello Stato può tornare utile: tali identità collettive, come lo Stato di Hegel, sono
universalità situate, ovvero punti di vista storici sul mondo tutto. Si tratta cioè,
come gli Stati hegeliani, di esistenze storiche circoscritte, che al tempo stesso
ambiscono di principio ad incarnare lo Spirito Oggettivo, la Ragione divenuta
Realtà. Fuori dal linguaggio hegeliano: un’identità collettiva è qualcosa che
emerge da un percorso storico comune, radicato in un ambiente comune
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(geografico, urbanistico), idealmente capace di autoriproduzione sociale
autonoma e di formulare a tal fine progetti comuni.
I rischi dell’identitarismo
Giunti a questo punto, bisogna concedere a Remotti che le sue preoccupazioni
intorno a usi pericolosi dell’invocazione identitaria non sono immotivate. Quando
un’identità collettiva è solo tacitamente vissuta è difficile che l’identità stessa
venga invocata o divenga tema di discussione. L’identitarismo come
rivendicazione segnala tipicamente una preoccupazione: la reazione ad una
minaccia percepita. Talvolta tali minacce hanno carattere di invasione culturale
o religiosa, ma in epoca moderna la forma primaria di minaccia all’identità è
rappresentata da una pluralità di fenomeni connessi alla globalizzazione
economica. I processi economici tipici del capitalismo maturo tendono infatti ad
erodere ogni identità di gruppo.
Il funzionamento ordinario del mercato spinge verso flessibilità di mansioni e
competenze, dislocazioni di attività produttive, migrazioni di forza lavoro e
precarizzazione contrattuale. La facilità con cui i capitali si spostano produce una
spinta al movimento delle forze produttive e delle merci, movimento che ha
sempre carattere provvisorio, giacché variazioni delle esigenze di mercato
possono modificare, anche repentinamente, i flussi tanto delle forze produttive
che delle merci. Al tempo stesso, la natura di concorrenza su base individuale
dei moderni rapporti di produzione tende a rompere solidarietà locali, a creare
divergenze di interessi, e a mettere in competizione idealmente ogni agente
economico con ogni altro. Infine, l’intercambiabilità dei modi e delle forme di
produzione sul pianeta produce da un lato un incentivo allo spostamento degli
apparati produttivi (delocalizzazioni) e dall’altro un incentivo agli spostamenti
delle persone, in cerca di lavoro e condizioni di vita migliori (migrazioni intra- e
inter-nazionali). Tutti questi processi convergono in un processo costante di
destabilizzazione che spinge l’individuo in un tendenziale isolamento, spezzando
lealtà e appartenenze sovraindividuali (cfr. Zhok 2006: 295-370).
Di fronte a questi processi possono sorgere, e spesso sorgono, movimenti
politici che nel nome di un’identità collettiva (locale, etnica, nazionale, ecc.)
cercano di porre un argine a queste tendenze disgregative. Purtroppo il carattere
difensivo-reattivo di queste istanze le predispone facilmente a tesi aggressive e
populiste. Questo è ciò che accadde con i movimenti nazionalisti e sciovinisti in
Europa negli ultimi decenni prima della Prima Guerra Mondiale, e questo è
quanto accade oggi in Europa con movimenti non di rado alimentati da istanze
xenofobe. È innegabile che queste tendenze possano degenerare. E tuttavia è
opportuno comprendere che niente è risolto se di fronte ai problemi reali posti
dall’erosione contemporanea delle identità collettive ci si limita a stigmatizzare
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le reazioni degenerate di identitarismo provinciale, ottusamente conservatore,
xenofobo o addirittura razzista. Un problema storico reale, se non è affrontato
bene, verrà comunque affrontato, male.
Identità come mezzo e come valore
Nel quadro fornito da Remotti, alle rivendicazioni identitarie era concessa una
specifica e circoscritta funzione: l’appello all’identità poteva risultare utile ad un
gruppo nella lotta per l’ottenimento di risorse. In questo senso l’identità veniva
letta come una dimensione strumentale, talvolta favorevole alla gestione delle
proprie finalità. Ora, questa interpretazione è, a nostro avviso, singolarmente
fuorviante, e conduce effettivamente a considerare l’identità come un tratto
sociale (o anche personale) sacrificabile. Remotti scrive che l’identità sarebbe
“la forma estrema di rivendicazione dell’unità da parte dei soggetti – individuali
e collettivi – che invece sono contrassegnati al loro interno da un’inesorabile
molteplicità” (Remotti 2010: 52).
Ma qui dobbiamo chiederci: come è possibile che soggetti, individuali e
collettivi, contrassegnati da tale “inesorabile molteplicità” mirino poi ad un’unità
di senso? Su quale base dovrebbero trovare tale ispirazione all’unità, se essa
non inerisce loro? Forse perché ciò sarebbe strumentalmente utile al
raggiungimento di certi fini? Ma se io non avessi alcuna identità come potrei
intendere che qualcosa è un mio fine? Esso potrebbe essere un fine altrui, e il
mio perseguimento di esso potrebbe tornare a mio detrimento.
Supponiamo che io desideri X, ma che l’ottenimento di X comporti la perdita
integrale della mia identità: in che senso potrei davvero volere X? Certo, posso
naturalmente sacrificare me stesso, ma un sacrificio sarà per un’identità diversa,
a favore di un altro individuo o gruppo. Finalità esistono solo per soggettività
dotate di un’identità. Posso volere X perché ciò promuove la mia sopravvivenza,
o posso posporre Y perché ciò consentirà a un mio piano di imporsi, o posso
ambire a Z perché ciò si confà al mio progetto di vita. Certi obiettivi sono comuni
ad ogni essere vivente (all’identità che il vivente è), altri obiettivi saranno
comuni ai membri di una specie (all’identità che quella specie è), altri saranno
obiettivi comuni ai membri di una comunità storico-culturale (all’identità che
quella comunità è) e altri ancora a diversi momenti della vita di un individuo (alla
sua identità personale).
Come osservava Alasdair MacIntyre, virtualmente la totalità delle finalità
specificamente umane sono rese possibili solo dall’esistenza di specifiche
pratiche, specifiche tradizioni, con specifiche finalità interne (cfr. MacIntyre
2007: 188). Posso mirare a fare scacco matto solo all’interno della pratica storica
degli scacchi, posso aspirare a comporre un capolavoro sinfonico solo all’interno
della tradizione della musica occidentale, posso ambire ad essere eletto deputato
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solo all’interno delle pratiche istituzionali della democrazia parlamentare, posso
sperare di eccellere nelle performance ‘poetico-musicali’ tipiche dei griot solo
entro quella tradizione orale africana, posso bramare la decapitazione del mio
primo nemico solo in una cultura come quella degli ilongot filippini, ecc. ecc. Non
ha alcun senso fare una comparazione di valore, per dire, tra le performance del
griot e quelle di un pianista classico, così come tra le aspirazioni di eccellenza
del primo di contro a quelle del secondo. Solo nella cornice definita da una certa
identità, personale e/o collettiva (culturale), certe finalità hanno senso. Fini
emergono in relazione a ciò che un soggetto (individuale o collettivo) è, e senza
identità di un soggetto nessun fine viene alla luce. L’identità avrà pure la sua
importanza come strumento per facilitare l’ottenimento di risorse, ma prima di
ciò essa è quel qualcosa per cui si cercano risorse: prima di essere un mezzo per
implementare senso e finalità, l’identità appartiene alla sfera di ciò che fornisce
senso e finalità.
Un’identità collettiva è ciò che consente a ciascun individuo di concepire la
propria azione storica come qualcosa che trascende i limiti della propria finitezza
e caducità. Solo nella misura in cui riusciamo in qualche misura ad identificarci
con altri possiamo considerarli eredi potenziali di qualunque cosa, grande o
minima, desideriamo lasciare di noi stessi. E solo nella misura in cui una tale
identificazione può avvenire vi sono ragioni autentiche per ottemperare a regole
comuni, leggi, patti sociali. Come osservava Douglass North (cfr. North 1981:
45), in assenza di una dimensione di appartenenza collettiva fatalmente
proliferano i ‘free riders’: violatori di regole, evasori, corrotti, criminali, ecc.
Infatti in nessuna società o comunità l’ottemperanza a regole, leggi, patti, ecc.
può avvenire sulla sola scorta della minaccia di sanzioni: le occasioni di
violazione senza rischio sono onnipresenti. In ogni gruppo sociale funzionante,
a tenere in piedi l’adesione personale a quella comune dimensione normativa è
un certo grado di identificazione con il gruppo stesso, i cui membri si sentono
perciò vincolati reciprocamente da diritti e doveri, aspettative etiche e lealtà
personali. Quanto più debole l’identità di un gruppo, tanto più forti le tendenze
centrifughe, le violazioni normative, gli opportunismi.
Concludendo questa breve analisi possiamo dire che, se da un lato i rischi
legati a forme ottuse di rivendicazione identitaria non vanno sottovalutati,
dall’altro le istanze legate al tema di un’identità collettiva sono istanze profonde,
non sradicabili senza gravi danni sul piano del senso e del valore. Definire forme
intelligenti e fertili di tutela identitaria, forme capaci di confrontarsi con il diverso
senza né aggredirlo, né disgregarsi, è un compito complesso, rischioso e, in un
contesto come quello della moderna economia globalizzata, anche schiettamente
‘inattuale’. Ma tralasciare, o persino screditare, quel compito è un errore senza
remissione.
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TRADUZIONE IN ITALIANO? O SI TRATTA DI UNA TRADUZIONE DELL‘AUTORE?
Hegel, G.W.F., 1986b, Phänomenologie des Geistes (Werke, vol. 3), Frankfurt, Suhrkamp.
MANCA TRADUZIONE IN ITALIANO? O SI TRATTA DI UNA TRADUZIONE DELL‘AUTORE?
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