Ucraina, il conflitto 29a puntata. Guerra e terrorismo_ con Stefano Orsi e Max Bonelli

Il regime di Kiev, per la verità i suoi mentori, si sta rivelando un vero maestro nella narrazione mediatica e nella coltivazione degli strumenti, anche i più ibridi, di guerra. Gli episodi di arbitrio verso i prigionieri, l’utilizzo di armi proibite, l’indifferenza e l’utilizzo della popolazione civile come strumento di guerra fanno ormai parte dell’armamentario utilizzato. Questa volta, però, la soglia dell’esplicito attacco terroristico è stata oltrepassata ampiamente con l’incursione in due villaggi russi al confine e la deliberata uccisione di civili. Elementi idonei a trascinare la giunta e i comandi ucraino verso quel tribunale di guerra che gli occidentali vorrebbero costruire su misura su Putin. Il regime di Kiev è ormai alle strette e solo l’incapacità e l’impossibilità statunitense di poter uscire dal vicolo cieco in cui l’amministrazione di Biden si è cacciata, se non a rischio di un confronto diretto su larga scala, sta impedendo la mala sorte per personaggi tragicomici ed aguzzini senza scrupoli. La novità è che piuttosto che scompaginare l’area dissidente o indifferente all’esorcismo russofobo, l’oltranzismo atlantista sta polarizzando sempre più le dinamiche geopolitiche in schieramenti sempre più delineati. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Proposte di pace, propositi di guerra_con Antonio de Martini

Il mondo occidentale, patrocinato dagli Stati Uniti, continua a offrire la propria rappresentazione come quella del mondo intero. Il conflitto in Ucraina non fa eccezione. La novità consiste proprio nel fatto che la verità che ci viene offerta in Europa e negli Stati Uniti questa volta è radicalmente diversa da quella accettata nel resto del mondo. L’amministrazione statunitense rivendica a buon diritto la compatezza conseguita, al momento, nel blocco di alleanze costruito nei decenni pur con qualche crepa; glissa nervosamente sulla neutralità e sulla aperta opposizione di un gran numero di stati nazionali e della gran parte della popolazione nel mondo al suo avventurismo. Dopo la Turchia, iniziano ad emergere nuovi attori di primo piano pronti ad esercitare una azione di mediazione. Lo stesso conflitto ucraino da essere l’oggetto univoco delle attenzioni si sta trasformando con il tempo nella leva per ridefinire le relazioni geopolitiche. La proposta impropria di mediazione della Cina assume questo significato. Nelle more, ancora una volta, i soggetti che vedranno restringere il proprio campo di azione saranno i centri politici europei. La direzione obbligata sarà quella dell’Africa. Ma in una condizione di estrema debolezza e con un retaggio coloniale e neocoloniale pesante come un fardello. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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GEOPOLITICA DELLA LINGUA: IL CASO DEGLI ISTITUTI CONFUCIO. ASCESA O DECLINO? – di Violetta Piccolo   

GEOPOLITICA DELLA LINGUA: IL CASO DEGLI ISTITUTI CONFUCIO. ASCESA O DECLINO?

 

– di Violetta Piccolo

Foto: di WU Hong, European Pressphoto Agency

tratta da New York Times, 26 settembre 2014.

Il nome degli Istituti viene direttamente dall’antico saggio Maestro Confucio, con una statua memoriale presso l’Università Qingdao, provincia dello Shandong

A cosa servono gli Istituti Confucio? E cos’è lo Hanban, o forse meglio dovremmo dire l’ex Hanban? Perché tra il 2013-14 e il 2022-23 si sono verificate tutte queste ansietà, molti dubbi e perfino chiusure di  centri culturali che vengono considerati “anomalie” che progressivamente hanno subìto un’accelerazione? Queste le domande con cui iniziamo, dunque, il presente articolo. Solo alcune semplici veloci domande a bruciapelo per poter sollevare fin da subito la questione degli Istituti Confucio e definire il contorno di questo scritto, nel quale si discute di come  esista una sottile e intelligente strategia da parte del governo cinese, che potremmo chiamare una sorta di Geopolitica della lingua, o se si vuole, usando un’espressione di più facile ed immediato intendimento, che si riferisce al politologo Joseph Nye (che più che coniarne una nuova la va dimostrando nei suoi lavori sul potere a partire dal suo testo del 1990 “Bound to Lead: The Changing Nature of American Power”), un soft power mirato all’uso e alla conoscenza di lingua e cultura cinesi che possano aprire a un lungo e durevole dominio, ma anche che convergono verso un conflitto a livello internazionale a causa dell’interesse più ampio che questi Istituti rivestono verso la politica e altri settori, o per il modus operandi con cui si legano i rapporti e motivi di partnership coi governi stranieri che ospitano i finanziamenti cinesi di questi stessi, inglobando in essi aspetti di influenza strategica di tipo politico-economico-commerciale, velata soprattutto da una esigenza culturale[1]. Sì, soprattutto l’aspetto culturale (come dimostra un paper di Nicola Casarini per l’Istituto Affari Internazionali visitabile online, che riporta le cifre fino al 2020 delle connessioni e dei vari accordi stipulati tra la Cina e l’Italia come caso esclusivo di apertura quasi senza limitazioni, a differenza di altri paesi europei e in particolare a differenza di Stati Uniti e UK, dove alcuni progetti si sono arenati o sono stati chiusi per motivi di sicurezza nazionale, parlando di una Silk Road o Via della Seta di Connessioni – financo concessioni- Accademiche per il caso dell’Italia) è l’esempio di quello che a livello di influenza internazionale la Cina è ora capace di dimostrare e imporre: la sua versione del Beijing Consensus si basa proprio sull’internazionalizzazione della lingua cinese comune o meglio definita putonghua 普通话, ovvero la lingua standardizzata che viene insegnata come lingua ufficiale e che il Partito usa e sfrutta come simbolo nuovo di potenza acquisita sul piano internazionale e diplomatico. Per poter esercitare questo potere “soft” e quindi essere appetibile e attrarre a sé sul piano globale il consenso mondiale, nell’interesse nazionale, ha attivato sul piano della strategia di lungo termine un tipo di sponsorizzazione o marketing della sua cultura, ed attraverso l’intento educativo avvia, così, da decenni il programma dello scambio interculturale attraverso gli Istituti Confucio. Sul magazine statunitense Politico[2] del 16 gennaio 2018 viene citato per questo aspetto strategico degli Istituti proprio una frase riportata dall’ex membro del Politburo nonché responsabile della propaganda Li Changchun, durante un briefing tenutosi a Pechino nel novembre del 2011 in cui ha esplicitamente dichiarato la natura degli Istituti, dicendo “L’Istituto Confucio è un marchio accattivante per l’espansione della nostra cultura all’estero. Ha dato un importante contributo al miglioramento del nostro soft power. Il marchio “Confucio” possiede una naturale attrattiva. Usando la scusa dell’insegnamento della lingua cinese, tutto appare più ragionevole e logico”. L’articolo poi continua affermando della comprensibile esultanza dell’allora ex membro del Politburo dicendo che, come viene riportato al 2018, oltre 500 erano allora gli Istituti presenti nel mondo e oltre un centinaio quelli con base negli Stati Uniti (più corsi di lingua e cultura ad essi collegati anche nelle scuole primarie e secondarie), di fatto i più rilevanti alla George Washington University, la Michigan University e la Iowa University, fra i college più noti. Davvero un risultato notevole, e per di più con tutto rispetto dell’obiettivo centrale progressivamente realizzato: lo shift/passaggio graduale di consegne dal Washington Consensus al Beijing Consensus. Si parla di un crescente interesse fra gli studenti che vi si iscrivono, ed inoltre di problemi e questioni che questa importante crescita esponenziale di adesioni ha portato con sé, tra cui si cita quello dell’appartenenza dei presenti centri culturali all’organizzazione dei campus (di solito la condizione in cui si ritrovano gli Istituti Confucio è embedded, ovvero “incorporata” e dipendente dall’università che la accoglie, pur dovendo dipendere ed essere sostenuti dal governo cinese facendo riferimento al Ministero dell’Educazione, dovrebbero restare indipendenti ed esterni alle università a cui si appoggiano, ma in realtà si impiantano in esse), i quali sono soliti come statuto professare la libertà di ricerca e esercitare il pensiero critico. Ma qui si pone subito il problema da affrontare: gli Istituti Confucio insegnano una versione loro propria della storia e civiltà cinesi, appunto quella della cultura cinese che viene influenzata dalle direttive del governo e non è indipendente ma piuttosto di tipo strettamente collegata alla versione politica che ne dà nei programmi il governo centrale di Pechino, essendo promanazione dell’Ufficio Hanban, ovvero si tratta di una versione della cultura generale decisa e approvata in seno al Ministero dell’Educazione da cui dipende il Quartier generale dell’Istituto Confucio, anche nominato Ufficio del Consiglio Internazionale per la Lingua cinese (in cinese, Hanban[3]汉办, che è l’abbreviazione di guojia Hanyu guoji tuiguang lingdao xiaozu bangongshi 国家汉语国际推广领导小组办公室, anche se l’origine viene da guojia duiwai Hanyu jiaoxue lingdao xiaozu 国家对外汉语教学领导小组, ovvero l’Ufficio nazionale per l’insegnamento della lingua cinese, fondato nel 1987). Il fulcro principale dello Hanban è lo sviluppo dei vari Istituti Confucio, ma ad esso viene collegato anche un altro progetto, ovvero il Chinese Bridge o Hanyu qiao 汉语桥,una specie di competizione per le abilità linguistiche dei non madrelingua. Quindi, in teoria, non dovrebbero esserci conflitti di interessi tra Istituti Confucio e i governi che li ospitano all’estero, ma non è proprio così, poiché il Ministero degli Esteri e delle Finanze cinesi hanno anch’essi un ruolo di indiretto collegamento –quindi, sotto il piano delle influenze anche il governo centrale- con gli Istituti che vengono diretti dallo Hanban e il suo Board. Lo Hanban è formato da numerose suddivisioni, le 3 principali delle quali sono le divisioni degli Istituti Confucio per macroaree di regione, Asia/Africa, America/Oceania e Europa. Lo Hanban,di cui oggi non è più possibile reperire dati online data la chiusura temporanea del sito dovuta alla sua riorganizzazione, nel suo statuto diceva di occuparsi, come istituzione non-profit e organizzazione non governativa (ONG) alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione, di divulgare la cultura e la lingua cinese per contribuire col suo servizio a favorire “la formazione della cultura della diversità e dell’armonia nel mondo”, e lavora con anche le istituzioni straniere a cui si appoggia per contribuire a sviluppare corsi di lingua e cultura cinese all’estero. Dunque, queste le parole chiave che ritroviamo nei suoi intenti statutari: armonia e diversità. Teniamo bene a mente questi due concetti, perché ci serviranno per comprendere dei brevi passaggi, dal concetto millenario antico di potere secondo la tradizione cinese, fino a quello che si costituisce oggi con la creazione del soft power cinese moderno per mezzo delle realizzazioni dei piani di Xi Jinping. Sebbene, oramai, tutti i report che arrivano dal 2017-18 in avanti, soprattutto negli Stati Uniti e in buona parte delle Università europee che contano (o che hanno dipartimenti di lingua e cultura orientale interessati), abbiano chiaramente messo in evidenza una buona dose di mancanze, disorganizzazione e rigida disarmonia, per non parlare di vere e proprie forme di censura/autocensura in particolare su temi sensibili come ad esempio le 3T (Tibet, Tian’An Men, Taiwan), più che di una vera dedizione alla ricerca di pensiero critico e libertà di ricerca, gli Istituti Confucio sembrano –specialmente in Italia- godere di buona salute. Tuttavia, le ingerenze della Cina e in particolare di questo organo promanazione indiretta di governo che sono gli Istituti Confucio, hanno sollevato problemi fin dal loro iniziale insediamento, nel 2005: problemi che vanno dalle perplessità alle aspre critiche, fino alle chiusure permanenti dei centri di lingua e cultura allora come oggi. O almeno queste sono le lamentele che provengono da una parte dell’accademia europea e americana in generale, a dire il vero non meno direzionata in alcuni ambiti, che si è rivolta a queste istituzioni accogliendole nel proprio alveo. A dare un paio di esemplificazioni della spendibilità del “marchio Confucio” e della commistione di interessi tra il Ministero dell’Educazione, delle Finanze e degli Esteri cinesi per la costituzione dell’organo direttivo Hanban e della diffusione degli Istituti Confucio come dei veri e propri academic malware[4], come li ha definiti il professore emerito di antropologia Marshall Sahlins dell’Università di Chicago, Illinois, sono alcuni report che vengono pubblicati dal GAO[5] (U.S. Government Accountability Office) e dalla Commissione investigativa del Senato USA, nonché dal Servizio di Ricerca del Congresso USA (U.S. Congressional Research Service)[6]. Nel suo lungo articolo pubblicato il 30 ottobre del 2013 per The Nation, il professor emerito di antropologia, dottor Sahlins, dice apertamente che gli IC frenano il libero scambio di idee e censurano il dibattito politico, e dunque si pone la seguente domanda: per quale motivo le università americane li adottano e sponsorizzano? I suoi punti decisivi sugli IC che sono stati installati in USA e in particolare quello dell’Università di Chicago, che mette in luce nel lungo articolo, sono i seguenti:

  • L’IC, che viene installato presso la UChicago e in un certo numero di altre scuole, fornisce finanziamenti per progetti di ricerca dei membri della facoltà afferente su temi riguardanti la Cina (ma sono le università tenute a non usare mai soggetti di tipo controverso su cui dibattere)
  • L’IC presso la UChicago così come in altre università o scuole ad esso afferenti è un’istituzione finanziata e supervisionata dal governo centrale cinese. Mentre il Goethe-Institut in Germania o il British Council in UK o Alliance Française in Francia sono organismi indipendenti e che si pongono al di fuori delle università, l’IC è un’entità embedded, cioè incorporata all’interno dell’Università che ha una sua vera e propria autonomia didattica, e unendosi coi suoi privati programmi a quelli dell’ente ospitante, ne influisce su quella che è la finale decisione delle scelte curricolari
  • Un altro punto centrale è che gli IC non sono indipendenti, ma direttamente gestiti dal governo centrale che in accordo ne decide i crismi, in particolare seguendo la sua costituzione e altre regole dello statuto, viene a dipendere direttamente dal Quartier generale di Pechino dello Hanban (il Chinese Language Council International)
  • Sebbene lo Hanban si sia dichiarato alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione cinese, in realtà è presieduto e governato da ufficiali di alto rango del governo centrale che afferiscono a vari dipartimenti oltre che essere presieduto da membri del Politburo (l’ex vice premier del Politburo, l’allora capo dello Hanban LIU Yandong, era quindi a sovrintendere un consorzio di 12 ministeri e commissioni che indirettamente influenzavano il Consiglio direttivo dello Hanban)
  • Lo Hanban è per così dire per sua natura “un’organizzazione pedagogica internazionale che si rivela strumento di operatività del Partito unico della Rep. Popolare cinese
  • Nelle università più accreditate e grandi che ospitano degli IC, lo Hanban diviene responsabile di una parte del curriculum sugli studi cinesi, e nelle realtà più piccole la maggior parte se non tutta la didattica offerta resta sotto il suo controllo. Oltre a fornire tutto il materiale necessario, spesso lo Hanban in questi casi nomina anche direttamente i condirettori della parte cinese dei locali IC
  • I progetti di ricerca sulla Cina che vengono assunti dagli specialisti con i fondi destinati dallo Hanban devono essere approvati da Pechino
  • Gli insegnanti nominati dallo Hanban, così come i programmi accademici e quelli extracurricolari degli IC, vengono periodicamente valutati per essere approvati da Pechino, e le università ospitanti sono costrette ad accettare la loro estrinseca supervisione.
  • Lo Hanban si riserva di punire con azioni legali qualsiasi attività condotta sotto il nome degli IC senza suo permesso o autorizzazione. Anche se lo Hanban ha sottoscritto accordi che ne garantiscono un’eccezione, tuttavia lo fa solo per le università che vuole avere nella lista per motivi di nomea, quelle più prestigiose come Stanford o Chicago all’interno del progetto IC nel mondo.

Poi il professore continua dicendo che lo stabilire questi criteri per una vera indagine giornalistica o etnografica su come si possano studiare dal di dentro gli IC è difficile, in quanto “(n)onostante tutta l’attenzione che gli Istituti Confucio hanno attirato negli Stati Uniti e altrove, non c’è stata praticamente nessuna seria indagine giornalistica o etnografica sui loro particolari, su come vengono formati gli insegnanti cinesi o come vengono scelti i contenuti dei corsi e dei libri di testo. Una difficoltà è stata che gli IC sono una specie di bersaglio mobile. Non solo i funzionari cinesi sono disposti a essere flessibili nei loro negoziati con le istituzioni d’élite, ma anche la strategia generale Hanban è cambiata negli ultimi anni. Nonostante la sua portata globale, il programma dell’IC apparentemente non sta raggiungendo gli obiettivi politici di dare lustro all’immagine e aumentare l’influenza della Repubblica popolare. A differenza del Libretto rosso di Mao nell’era della liberazione del Terzo mondo, l’attuale regime cinese è difficile da vendere. Avere l’apparenza di un sistema politico attraente è una condizione necessaria per il successo del “soft power”, come ha scritto Joseph Nye, che ha coniato la frase. L’iniziativa rinnovata dell’Istituto Confucio è quella di impegnarsi meno nella lingua e nella cultura e più nell’insegnamento e nella ricerca di base dell’università ospitante. Tuttavia, i principi di funzionamento del programma IC rimangono quelli della sua costituzione e regolamento, insieme agli accordi modello negoziati con le università partecipanti. Di routine e assiduamente, Hanban vuole che gli Istituti Confucio tengano eventi e offrano istruzione sotto l’egida delle università ospitanti che mettono in buona luce la RPC, confermando così l’osservazione spesso citata del membro del Politburo Li Changchun secondo cui gli Istituti Confucio sono “un importante parte del sistema di propaganda all’estero della Cina””. Quindi, dal suo scritto si evince proprio quella che lui chiama una condizione di Trojan horse accademici, i quali come unico scopo hanno quello di imbellirsi con l’associarsi e il compenetrarsi negli atenei più prestigiosi, a volte persino creando casi di intelligence e spionaggio, poiché specialmente complicata viene a delinearsi la loro funzione vera. D’altronde, come lamenta non solo lui ma hanno lamentato anche altri docenti qui in Italia – tra tutti forse l’unica voce dissonante e contraria a continuare la partnership con gli IC è stata quella dell’illustre sinologo ex direttore del Dipartimento di Lingue orientali a Ca’Foscari, Maurizio Scarpari- , è molto più che probabile che gli Istituti Confucio si servano delle loro ingenti somme di finanziamento per stuzzicare in modo allettante le università ad accettare una collaborazione (di fatto, con i finanziamenti che lo Hanban mette a disposizione per gli IC, questi ultimi possono garantire di conseguenza di finanziare vari progetti insieme all’università, andando meno ad impattare sulle finanze dirette delle accademie). Questo ovviamente viene direzionato dallo Hanban, di modo che l’università resti impigliata in un vincolo esterno a cui difficilmente può rispondere direttamente o che può  integrare, cioè le direttive del governo centrale, quelle del regime cinese, che non sono assimilabili alla direzione e al modo in cui si governa l’università di riferimento. Più o meno in linea in seguito, nel 2017-18 fino al 2020-22 saranno le indagini fatte negli Stati Uniti, e che, come abbiamo detto, coinvolgono gli IC: sono alcuni dei maggiori casi di investigazione redatti, che provengono principalmente dal GAO e dalla Commissione investigativa del Senato USA, nonché dal Servizio di Ricerca del Congresso USA (Congressional Research Service).La domanda che sorge piuttosto spontanea, quindi, è: a chi rendono davvero servizio, infine, questi centri culturali? Spendiamo qui due parole utili per capire di cosa stiamo parlando e inquadrare gli avvenimenti che hanno portato a questo diretto conflitto. Di fatto, negli Stati Uniti la questione della diffidenza e la minaccia di chiusura degli Istituti Confucio è sempre stata presente fin dal loro concepimento, avvenuto nel 2004 con l’installazione del primo istituto presso l’Università del Maryland, e mai del tutto sopita. Ma una decina di anni dopo, nel settembre del 2014, scoppia il caso: all’Università di Chicago, Illinois, vengono fatte diverse rimostranze e si decide di chiudere e ritirare la partecipazione con l’Istituto Confucio a loro riferito, dato che l’Università era ormai entrata in conflitto aperto con la censura di temi quali la storia di Taiwan e in un caso specifico con la censura da parte della ex direttrice dello Hanban  di allora, la signora XU Lin, in occasione di una conferenza tenutasi presso un’università a Braga in Portogallo pochi mesi prima, e poi successivamente nell’aprile dello stesso anno, altre vive contestazioni per l’anniversario dei dieci anni dall’installazione in USA del primo Istituto. Tematica quella di Taiwan ritenuta dalla direttrice “troppo sensibile” anche solo per il semplice fatto di nominarla, attraverso la partecipazione al convegno della Foundation Jiang Jingguo di Taiwan, quindi, non discutibile o presentabile in alcun caso, secondo la visione specifica data dal governo di Pechino,  seguendo i dettami di governo per i suoi curriculum e programmi educativi  definiti, di fatto dando avvio ad una lunga serie di polemiche e di frustrazioni all’interno delle Università coinvolte (le quali hanno sempre sostenuto, secondo il principio della libertà accademica didattica, di esercitare il dibattito aperto secondo il pensiero critico e democratico). Questo caso ha aperto la via per una petizione da parte dell’Università di Chicago, provocando l’inizio del primo di una serie di scontri che poi si verificherà anche da noi in Europa, ed è emblematico di come viene ormai trattato il problema degli Istituti Confucio e della sua diretta influenza nelle questioni di libera proposta didattica degli atenei, che entra non poche volte in aperto conflitto con quanto la propaganda di regime vuole difendere e diffondere: ciò ha portato in definitiva alla ribalta la questione a livello internazionale, suggerendo un atteggiamento di rifiuto e totale chiusura. Un altro caso che spiega e risponde alle nostre domande iniziali in apertura del presente articolo è quello riferito all’Università di Vrije a Bruxelles: il professor SONG Xinning docente presso l’IC della stessa università e a capo dell’Istituto Confucio in essa dislocato, si ritrova coinvolto alla fine del 2019 e fino agli inizi del 2020 in un caso di accusa di spionaggio, e per lui si richiede la revoca del visto internazionale per tutti i 26 Paesi dell’UE. L’accusa è tanto forte da scomodare addirittura il diritto internazionale, e infatti il caso finisce in Tribunale, ma ai primi mesi dell’anno 2020, come riporta il South China Morning Post verrà assolto[7] per mancanza di prove fondate dal Council for Alien Law Litigation sito sempre a Bruxelles, in Belgio. Nel frattempo che l’IC dell’università veniva chiuso, però, e il professore, che ha sempre sostenuto di non avere mai avuto nulla a che fare con lo spionaggio o il reclutamento di elementi tra gli studenti per recare danno alla comunità belga, pur riuscendo a venire assolto per il dettaglio che le indagini fatte non hanno trovato abbastanza prove schiaccianti del suo coinvolgimento in questo affaire, tuttavia l’Università di Vrije (VUB) prendeva la decisione di sospenderlo dato che il Belgio non gli garantiva più il visto d’ingresso per alcuni anni. Il professore è comunque stato assolto anche da questa condanna, in quanto il ban di otto anni del suo visto per l’ingresso in Belgio non si poteva applicare secondo un cavillo della legge belga vigente. Questi spiacevoli incidenti, se così li vogliamo chiamare, sono la dimostrazione cristallina che la difficoltà di integrare gli IC nel contesto del mondo liberale è effettivo, così come effettiva è l’incapacità delle università stesse di prendere decisioni e provvedimenti prima che questi eventuali episodi si manifestino. In ogni caso, è evidente una notevole carenza di reciprocità. Non è facile in Cina poter godere degli stessi eventuali benefici di cui gode qui in Occidente la compagine degli Istituti Confucio, né come nel caso del professor SONG potersi avvalere di una legislazione equa ed equilibrata da vedere tanto agilmente ritirare un’accusa diffamatoria vincendo la causa contro lo Stato belga. Oltre  a questa considerazione, potremmo farne un’altra di molto semplice e logica, ovvero il fatto che lo Hanban, esattamente come nel caso del professor SONG, attraverso degli escamotage oppure attraverso la propria capacità di risoluzione del conflitto con l’intervento di tribunali ad hoc o leggi speciali o comunque per mezzo della sua rinomata influenza, è in grado di rigenerarsi facendo un’opera di riorganizzazione al suo interno e rinominandosi sotto altre forme. E difatti, proprio questo è quello che è accaduto ultimamente con gli IC che hanno subìto questo sciame di chiusure, costringendo lo Hanban a sospendere momentaneamente la propria pagina online e, come messo in luce da un articolo dello storico Edward Lee per l’Heritage Foundation o quello di Lin Yang per VOA News citando Rachelle Peterson come co-autrice dell’aggiornamento del rapporto del NAS del 2021, rinominandosi e nel corso del 2022 riapparendo sotto la dicitura di Ministry of Education Center for Language Exchange and Cooperation[8] (quindi tentanto un rebranding all’americana del suo marchio Hanban cinese iniziale), secondo quanto riportato dallo stesso NAS, la National Association of Scholars degli Stati Uniti. Questo è quanto viene riportato da VOA News nelle parole della ricercatrice e docente Rachelle Peterson:  “Rachelle Peterson, ricercatrice senior presso la National Association of Scholars e co-autrice del rapporto, ha affermato in una discussione del 21 giugno ospitata dalla Heritage Foundation che la chiusura degli Istituti Confucio è “una storia di successo perché gli Stati Uniti hanno riconosciuto la minaccia posta dagli Istituti Confucio e hanno affrontato quella minaccia”. Tuttavia, ha detto, “È anche una storia di avvertimento perché in questo momento il governo cinese sta cercando di eludere queste politiche. In termini militari, questa sarebbe chiamata una “manovra di aggiramento”. Il governo cinese scommette che se toglie il nome, Istituto Confucio, e modifica la struttura di un programma, nessuno si renderà conto che l’influenza del governo cinese rimane viva e vegeta nell’istruzione superiore americana”.Il 1° luglio 2021, un giorno dopo la chiusura del suo Istituto Confucio, il College of William and Mary ha istituito la W&M-BNU Collaborative Partnership con la Beijing Normal University, secondo la scuola. L’università cinese era l’ex partner dell’Istituto Confucio della scuola americana, fornendo i programmi che l’Istituto Confucio offriva. Secondo Peterson, non è cambiato nulla tranne il nome.” Nel merito della questione pertanto rimaniamo dello stesso avviso ugualmente dei professori Perry Link e Jonathan Sullivan citati nell’articolo di VOA News, rispettivamente il primo docente emerito di lingua cinese all’Università di Princeton e della California presso Riverside e il secondo politologo nonché specialista di studi cinesi all’Università di Nottingham, UK, che si distinguono tra le molte voci fuori dal coro dei pro-chiusura quanto agli Istituti Confucio, dimostrando che per quanto possibile andrebbe fatto un lavoro diverso di contrattazione con le università e non la scelta d’emblée di chiudere degli indispensabili centri che forniscono , per quanto limitatamente nelle loro clausole di tipo censorio, l’unico punto di riferimento a cui attingere per conoscere e davvero venire a contatto con la cultura e la civilizzazione cinese, altrimenti molto difficilmente reperibile quand’anche fornita nelle università. Il grado di miglioramento interno alle università non sempre consente di fare a meno di queste strutture addende che di fatto in buona parte anche le finanziano.Come nasce quindi questa storia di infinite aperture e chiusure e riaperture o camuffamenti? Da dove proviene questo bailamme e come si è giunti a tutto ciò?

Entrando per un momento nel merito del caso, si deve ricordare che il New York Times, attraverso il suo sito online e blog sulla Cina “Sinosphere. Dispatches from China”, racconta così l’accaduto iniziale incidente del 2014[9], quello che ha dato avvio a tutto questo, come lo abbiamo definito, “sciame” di chiusure, alla volta del decimo anniversario dalla apertura dell’Istituto Confucio negli Stati Uniti presso la suddetta Università del Maryland nel 2004 e la scelta di quella di Chicago di poter chiudere l’Istituto sospendendo le negoziazioni per il rinnovo del contratto presso l’università:

“L’Università di Chicago  ha sospeso le negoziazioni per il rinnovo dei suoi accordi e del contratto con L’Istituto Confucio, che è il centro di lingua e cultura  parte di un network globale affiliato al governo cinese, in una battuta d’arresto in seguito al controverso programma in vista del suo [dell’Istituzione dei primi centri Confucio in USA, nda] decimo anniversario, sabato scorso.

Secondo una dichiarazione rilasciata martedì riguardo l’Istituto Confucio presso l’Università di Chicago, stabilitosi nel 2010, l’università afferma che esso e i suoi partner cinesi “si sono intrattenuti per diversi mesi in uno sforzo collettivo di buona fede e fermo progresso verso un nuovo accordo per il contratto.”

“Tuttavia, i commenti pubblicati di recente sull’Università di Chicago in un articolo riguardante il direttore generale dello Hanban –l’organizzazione sotto cui il Ministero dell’Educazione cinese sorveglia l’Istituto- “sono incompatibili con una equa e continuata partnership con esso”, afferma la  stessa dichiarazione. Questo è un riferimento all’intervista con XU Lin, la direttrice dello Hanban e capo esecutivo del Quartier generale dell’Istituto Confucio. La signora XU è classificata in qualità di viceministro del governo centrale.”

E poi il NYT così continua:

“Negli ultimi anni, un crescente numero di intellettuali e studiosi negli Stati Uniti e in Europa hanno espresso viva preoccupazione per il fatto che gli Istituti Confucio dislocati in giro per il mondo riflettano troppo da vicino l’ideologia del Partito comunista cinese, dichiarando che gli istituti non devono avere parte in nessun modo al tipo di programmazione centrale educativa svolta nelle università che tengono in conto della libertà accademica”. […] “Nel 2007, la missione dello Hanban era stata definita da LI Changchun, l’allora capo della propaganda del Partito a quel tempo, come “una parte importante del modello di propaganda cinese all’estero”, una frase che include l’educazione e la cultura tanto quanto l’ideologia politica e riflette la spinta cinese in questi recenti anni a proiettare all’esterno la sua crescente potenza. L’Istituto Confucio risponde di essere meramente impegnato ad insegnare la lingua e la cultura cinese al mondo. L’intervista con la signora XU è apparsa in un articolo pubblicato il 19 Settembre [dell’anno 2014, nda] nel quotidiano cinese Jiefang Daily, che è diretto dall’Ufficio per le News del Comitato del Partito comunista di Shanghai. L’articolo a tutta pagina, intitolato “La Difficoltà della Cultura Riposa in una Carenza di Consapevolezza”, descrive un incidente che si dice occorso nel tardo mese di Aprile, dopo che oltre 100 membri della facoltà dell’università hanno chiesto attraverso una petizione che la collaborazione con l’Istituto Confucio presso l’Università di Chicago venisse interrotta.

L’istituto aveva troppa influenza nel determinare “quello che valeva la pena insegnare, e quello che valeva la pena ricercare” nonché “quel che conta in quanto vera conoscenza”, come nel mese iniziale di Maggio riportò al giornale dell’università, il Chicago Maroon, il professore di Storia delle Religioni presso il dipartimento Divinity School e uno degli organizzatori della petizione, Bruce Lincoln.

“Molti hanno percepito la durezza di XU Lin”, ha scritto in modo ammirato il Jiefang Daily, citando quella che si dice essere la lettera che la signora XU ha inviato al rettore dell’Università di Chicago in risposta alla petizione. “Con una sola frase ha sentenziato ‘Dovesse il vostro college decidere di ritirarsi, sarei d’accordo’”, ha dichiarato l’articolo. In cinese la frase contiene connotazioni di sfida. E così continua: “Il suo [della sig.ra XU, nda] atteggiamento ha reso nervosa la controparte. Il college ha risposto sbrigativamente che continuerà a gestire in modo appropriato l’Istituto Confucio”. L’articolo [del Jiefang Daily, nda] riporta che la signora Xu ha dichiarato le stesse cose in una conversazione telefonica con l’ufficio del presidente dell’università a Pechino. La portavoce dell’Università di Chicago, Sarah Nolan, ha declinato l’invito a commentare con una email. HU Zhiping, il vice capo dell’Istituto Confucio, ha dichiarato in una email il venerdì: “Lo Hanban esprime il suo disappunto per la decisione dell’Università di Chicago, che è stata presa prima che i veri fatti in merito alla questione venissero stabiliti. L’Istituto Confucio è un programma condiviso sino-americano, entrambe le parti hanno il diritto di fare una scelta”.

Il New York Times, infine, conclude riportando che XU Lin, l’allora direttrice dell’Istituto Confucio, aveva anche in passato già attratto delle critiche e dei nervosismi presso la UChicago. Nel luglio dello stesso 2014, infatti, aveva deciso di rimuovere da una conferenza fatta presso l’Università di Minho in Portogallo diverse pagine delle proposte al meeting della European Association of Chinese Studies, secondo il report sul sito web della stessa Associazione, in quanto la signora XU obiettava che il testo menzionasse la Fondazione Jiang Jingguo di Taiwan come co-sponsor della suddetta conferenza, e questo ha creato l’incidente che ha acceso la miccia sul caso e le seguenti rimostranze e chiusure nei confronti degli Istituti Confucio, anche nei confronti dell’UChicago. Come infatti riprende anche il NYT, la Cina ha un problema di censura su argomenti sensibili come Taiwan, in quanto isola “ribelle” mai rientrata finora come provincia alla madrepatria e di fatto non ha mai previsto di non poter usare la forza, il suo potenziale hard power militare, per forzarla a essere riconquistata. Questa mossa della signora XU è stata definita come “azione arbitraria” e “non autorizzata”, quindi un atto di censura che l’Associazione Europea riporta come atto sgradito in quanto ordinato deliberatamente dall’ex direttrice, facendo rimuovere dal suo entourage tutto il materiale usato nella conferenza e facendolo portare in un appartamento di uno degli insegnanti dell’Istituto Confucio dell’Università di Minho, in Portogallo. L’incidente è stato risolto solo allorché Roger Greatrex, dell’Università di Lund e presidente dell’Associazione, ha ordinato che le copie degli originali della conferenza venissero ristampati e redistribuiti, secondo quanto affermato dalla stessa Associazione. Quello che è più rimarcabile sono le parole usate per spiegare l’accaduto da questa ex direttrice dell’Istituto, che ha apertamente dichiarato nell’articolo del Jiefang Daily che l’Istituto Confucio ha come missione la necessità di “costruire un treno spirituale ad alta velocità, usando la cultura come percorso definito”, facendo ricorso, dunque, con una espressione idiomatica alla metafora del treno ad alta velocità fiore all’occhiello delle recenti costruzioni e infrastrutture cinesi. Usando, dunque, un linguaggio simbolico, ha apertamente dichiarato quelle che sono le reali capacità del soft power cinese o wenhua ruan shili 文化软实力, ovvero un parallelo tra cultura e altri settori collegati ad esso, come le infrastrutture. Tutto questo perché in Cina oramai oltre allo sviluppo economico enorme che da 30-40anni ha reso possibile intorno al 2014-15 con lo sforzo cinese il sorpasso del PPP (ovvero, l’indice Purchasing Power Parity) americano, la grande conquista operata dall’era di Xi Jinping e la sua dottrina è quella di aver dato vita ad una pratica concreta del soft power in salsa cinese. Ovviamente, questo comporta che siamo sempre costretti a soffermarci un istante a definire di preciso di volta in volta cosa sia, in base a come vengono letti i messaggi tra le righe, e cosa rappresenti questo soft power; ma è imprescindibile sapere due cose generali: la prima e più importante è che la cultura e la lingua sono i veicoli determinanti e preferiti per ottenere un potere di attrazione verso la Cina dall’esterno e quindi il consenso verso la sua potenza, cosa che determina fortemente dunque la strategia geopolitica cinese in base al terzo aspetto più di livello immateriale, che invera i classici primi due fondanti aspetti della teoria del soft power di tipo più direttamente concreto anche secondo la descrizione di Nye, ovvero la supremazia economico-finanziaria e quella politico-diplomatica; la seconda è che così facendo, in fondo, è logico immaginare il motivo per cui così si declina la strategia del soft power cinese, nel senso che si determina di volta in volta a seconda delle opportunità e delle occasioni, non esistendo una teoria definita precisa ad esso afferente, ma essendo comunque pur assimilabile in certi aspetti a quella generica teoria del soft power di Nye, ne viene influenzata più direttamente da una versione che ripercorre la strada della cultura millenaria cinese con il suo focus centrato nei tempi classici antichi. Studiare quindi il soft power cinese comporta il grande sforzo di conoscerne quantomeno il più possibile se non a menadito la lingua e la cultura moderne, nonché quella più elitista basata sui classici. Se volessimo usare quindi questa espressione idiomatica finale della ex direttrice dello Hanban cinese, che ha concluso l’articolo del NYT che riportava “Solo la cultura può introdurre allo spirito. Non si può usare solo l’educazione per entrare nello spirito di qualcuno”,  potremmo definire meglio attraverso la spiegazione dei classici il suo significato più preciso. Perché questa signora ha dichiarato che solo la cultura può introdurre davvero allo spirito di qualcuno o qualcosa? Ebbene, poiché le radici profonde di questo spirito cinese, e quindi l’essenza del significato e della portata delle sue strategie, riposano sulla grande cultura e conoscenza – come detto- dei classici, quantomeno ma non solo quelli delle “Cento scuole” filosofiche antiche o in cinese 百家 baijia.
Di fatto, noi che qui trattiamo l’assetto dei citati Istituti e della loro quasi scomparsa o progressivo declino, potremmo anche dare ragione ad un passo del Laozi (opera mistica ma di fatto prettamente rivolta alla conduzione del potere o potenza, al sovrano, all’uomo di governo) citato proprio in un testo del Nye, il quale tuttavia mantiene una prospettiva di ricerca sul potere insita nella tradizione dei termini differenziati tipicamente occidentale e non in quella tradizionalmente sinica, per quanto comparativamente assimilabile al concetto espresso qui, in cui il Maestro Lao Dan definisce la regola celeste e cosa comporti essere un vero sovrano ed esercitare il potere (o meglio il vero attributo del saggio) col tipico adagio poetico che nel testo si lascia così intendere: “Il governante più alto è quello della cui esistenza i sudditi si accorgono appena. Poi viene quello che amano e stimano. Poi quello che temono. Infine quello che disprezzano”. In questo senso, Laozi o Lao Dan individua al primo posto il vero saggio o sovrano, invertendo, seppur in modalità complementare, i termini A e B dialettici e contrapposti tipici della tradizione logocentrica occidentale, che è ribaltata ed assente in quella taoista cinese come insegna l’illustre Angus C. Graham, nel suo monumentale “Disputers of the Tao. Philosophycal Argument in Ancient China”: ovvero, colui che si pone al di fuori dell’esistente apparire, dell’esserci (il termine B), quello è il vero sovrano; mentre, al contrario, il più basso dei termini, ovvero A, viene attribuito al peggior sovrano, quello che non riesce veramente a servire il popolo a causa della sua presenza “forte”, entrante. Infatti, secondo la regola taoista, il pieno è vuoto, così come vuoto è ciò che è pieno; quindi il potere deve essere “soft” per potersi esercitare nella maniera che più è efficace, poiché l’efficace è il sottile, anche quando la strategia posta in essere deve ammetterne una qualificazione “diminuita” per potersi “accrescere” e verificarsi, innalzando al più alto livello, pertanto, ciò che non è visibile o apparentemente più rozzo e insignificante/debole, ma almeno al suo massimo della potenza percepibile[10]. Una tal concezione pervade quasi tutta la tradizione filosofica e il pensiero o la mentalità sinica da millenni. Tornano utili, quindi, le raccomandazioni iniziali quanto al modo sinico di esprimere consenso e potere, tanto più se i concetti chiave come vedremo a breve hanno a che fare con armonia e integrazione degli opposti/delle diversità. Non solo in Laozi, ma anche nel Xunzi, il famoso Trattato sull’Arte della guerra, possiamo rintracciare vari rimandi ai concetti di “inganno” centrali per l’esercizio di un potere pacifico e soprattutto per poter quindi vincere guerre senza troppi spargimenti di sangue, o quantomeno il meno possibile facendo ricorso all’hard power, risparmiando così le energie e le armi. Infatti, come riporta The Diplomat in un articolo risalente al 31 marzo del 2015[11], il caso classico dell’Arte della guerra è stato usato dalla Chinese Academy of Military Science per ospitare il nono simposio internazionale del 2014 sull’Arte della Guerra di Xunzi, dal titolo “L’Arte della Guerra di Xunzi e la Pace, la Cooperazione e lo Sviluppo”. Questo mostra che la tendenza che sta maturando da tempo nell’élite, poiché la descrizione della conferenza era che l’opera di Xunzi dimostrava “(che) la ricerca dello sviluppo attraverso la sicurezza, la cooperazione e la crescita a sommatoria win-win è la strada giusta per giungere alla pace nel mondo”, sta diventando in questi ultimi tempi la via realizzata dei progetti strategici messi in atto da lungo corso da Pechino. In particolare la diffusione della sua millenaria cultura e lo sviluppo di strategie e policy ad esse collegate. Infatti, oggi effettivamente il testo del Xunzi potrebbe  bene rappresentare e descrivere la politica di sviluppo pacifico perseguita dal PCC finora, tanto che la sua figura potrebbe essere assimilata quasi ad un ufficiale dell’odierna compagine governativa, come rileva lo stesso quotidiano. In effetti, come viene puntualmente riferito, lo stesso allora ambasciatore cinese in UK, LIU Xiaoming, vedeva nell’uso dell’Arte della Guerra l’opera di riferimento del pensiero strategico cinese in grado di creare una fiducia reciproca e un collegamento con lo UK Joint Services Command and Staff College, e durante un discorso rilasciato nel 2012 per un meeting con questa istituzione accademica militare britannica diceva che “la Cina detiene il potere di deterrenza e la saggezza sufficiente a vincere senza dover combattere. Ma se necessario, la Cina avrà anche il coraggio e le capacità di vincere attraverso la battaglia. Questa è l’essenza dell’Arte della Guerra e l’odierno spirito della strategia militare cinese”. Questo è un rimando importante, dato che lo stesso HU Jintao nell’incontro col Presidente George W. Bush nel 2006 gli aveva regalato una copia di seta del Trattato e dato che nel 2011, durante una visita, la Beijing Renmin Daxue 北京人民大学o Università del Popolo di Pechino ha donato una copia di questo all’Ammiraglio Michael Mullen. Di fatto, non sono solo i cinesi gli unici ad aver analizzato e visto nel Xunzi un Trattato che può essere usato in tal maniera: a proposito di soft power e descrizione della strategia politica da adottare, il Xunzi rimane un testo spesso citato anche fra gli Occidentali come prettamente strategico, infatti riportando un estratto del quotidiano possiamo comprendere bene che:

“(Nel suo libro “The Power to Lead”) Joseph Nye descrive Xunzi come un brillante guerriero che ha compreso l’importanza di attrazione del soft power. Un altro esempio proviene dall’ex Primo Ministro australiano Kevin Rudd, il quale ha tenuto un discorso durante la Conferenza su Xunzi del 2014 a Qingdao. Nel suo discorso, Rudd sollecitava la Cina e gli Stati Uniti incoraggiandoli ad evitare la trappola di Tucidide del conflitto tra potenza in ascesa e potenza dello status quo e piuttosto a formare un nuovo tipo di relazione tra grandi potenze basato su comuni interessi, cooperazione e costruzione di mutua fiducia nel lungo periodo. Per delineare questa richiesta alla mutua fiducia e cooperazione tra Stati Uniti e Cina con l’uso dell’Arte della Guerra, le conclusioni del discorso riportavano l’ammonimento di Xunzi secondo cui “L’arte della guerra è di vitale importanza per lo stato. È una questione di vita o di morte, la via della salvezza o della rovina. Pertanto è una materia di indagine che non può mai in nessun caso venire meno”, e in seguito suggeriva che in questi tempi moderni la parola stato venisse sostituita con quella di mondo”.

D’altro canto, quanto a esposizione del soft power e all’attiva adesione al servire il popolo o wei renmin fuwu 为人民服务di tradizione maoista che riprende il motto per un’arte del governo così come nel Xunzi si trova quella della guerra a difesa dello Stato, altrettanto avviene nella linea filosofica del confucianesimo nel più classico dei sensi, anche se in parte distintamente dalla visione mistico-poetica taoista, con un accento focalizzato più nettamente sull’arte del buon governo in senso morale, dell’educazione e della benevolenza all’attivo servizio del bene del popolo. Non stupisce,dunque, se per parlare degli Istituti Confucio ci accingiamo a citare un passo del Maestro che ne chiarifica aspetti essenziali. D’altronde, come poter inquadrare contestualmente il concetto del soft power cinese tanto quanto le recenti vicende accadute tra il 2019 e queste prime fasi del 2023 per la grande quantità di chiusure (soprattutto negli Stati Uniti) o decise manifestazioni di insofferenza che in Occidente (in Europa sono stati chiusi diversi centri soprattutto in Svezia, Finlandia, Belgio, Portogallo e ora se ne minaccia la chiusura in UK) hanno subìto i centri culturali dedicati dallo Hanban, contrariamente alla diffusione capillare degli Istituti Confucio che aveva inizialmente preso piede, è cosa di trattazione presente in vari giornali esteri e disvelato in base a due principali traiettorie o sommari punti di vista: il solito, tipico o pro o contro, che noi qui vorremmo cautamente evitare; eppure sta avvenendo con grande velocità nel mondo sia accademico che politico una difficile battaglia, esponendoci forse per la prima volta dopo l’inizio della guerra in Ucraina a quella versione realizzata della visione multipolare integrata che i cinesi da decenni vanno inseguendo per il loro ideale nuovo ordine mondiale. Ma a quanto pare non corrisposto da un vero dibattito in Italia, dove attualmente vige un riserbo assoluto e un silenzio quasi tombale sulla questione, in particolare quella degli IC. In Italia questi Istituti sembrano non essere stati toccati da questo fenomeno, o almeno apparentemente. Anzi, pare che ai 12 centri già presenti se ne possano aggiungere degli altri, quindi nuove aperture. Eppure, nel 2019 il caso scoppiò con una serie di pubblicazioni in forma di botta e risposta tra accademici e sinologi delle università italiane, nello specifico a prendere la parola furono per loro stessa iniziativa Stefania Stafutti, Attilio Andreini e Maurizio Scarpari, rispettivamente delle Università di Torino e Ca’Foscari di Venezia. Inizialmente con una presa di posizione verso le rivolte degli studenti represse duramente ad Hong Kong a partire dal marzo-aprile del 2019 contro la decisione del governo hongkonghese di creare una nuova legge sull’estradizione dei latitanti dopo il caso dell’uccisione di Poon Hiu-ala da parte del suo fidanzato Chan Tong-kai a Taiwan, per i Paesi verso cui Hong Kong non ha questi accordi (nella fattispecie nessun accordo con la Cina continentale né con Taiwan, nda), la sinologa docente dell’Università di Torino e a capo dell’Istituto Confucio ad essa collegato Stafutti faceva appello diretto al Presidente Xi Jinping per una mediazione di pace tra le fazioni, invocando la missione culturale democratica svolta dalle istituzioni accademiche che si occupano di Cina e la studiano da vicino. Da quel momento ad intervenire nel dibattito tra accademici è sorta la preoccupazione sollevata dall’ex docente del Dipartimento di Lingue orientali di Ca’Foscari e sinologo Maurizio Scarpari per una deriva dovuta all’influenza negativa su temi sensibili da parte degli Istituti Confucio radicati nelle Università italiane che non ammettono per quanto attiene la politica estera visioni difformi da quella indirizzata dal governo centrale, ponendo seri problemi di interferenza con il corso dell’insegnamento curricolare e dello svolgimento delle tesi di laurea nelle stesse università ospitanti, tanto da far parlare per la prima volta in Italia di autocensura verso questo tipo di tematiche anche in  seno alle istituzioni accademiche italiane. Il professor Scarpari ha continuato spesso ad intervenire cercando di farsi comprendere dalle istituzioni accademiche italiane, e soprattutto avviando un serio dibattito iniziale tra docenti e studiosi della materia, ma a quanto pare le sue sollecitazioni sono state lasciate cadere nel vuoto. Particolari, per il modo sferzante, puntuale e incisivo, sono i suoi interventi al Corriere della Sera, su Formiche.net e sul blog Sinosfere[12], pur essendo un sostenitore dell’avvio verso la chiusura di questi centri, lo abbiamo voluto citare per l’ovvia ragione che la loro influenza sarebbe deleteria per la continua interferenza nell’attività di ricerca e didattica e, come unico motivo, il professore adduce la necessità di un limite del loro finanziamento nelle università, di fatto lasciate in mano a personale non abbastanza preparato per gestire le contrattazioni coi centri a loro collegati. Il professore sostiene, inoltre, che se non fosse per gli ingenti finanziamenti che gli IC portano con sé, difficilmente ci sarebbe tutta questa facile e spinta operazione di attirare a sé un IC nella propria università, e che questo avviene sulla base proprio delle competenze che il direttore di riferimento dell’IC preposto ha nei confronti della materia e di come sa o meno gestire l’Istituto. In gran parte in Italia gli IC se più o meno buoni nella loro qualità e scelta dei programmi dipende molto da chi all’interno dell’università collegata li gestisce, questo in definitiva è ciò che fa qui la differenza. Ma da noi, a quanto pare, governo e dibattito si sono arenati sul tema da tempo. In altre parti del Continente europeo, però, la musica cambia, come in UK ad esempio. Che detiene il primato insieme agli Stati Uniti di numero di Istituti sul suo suolo. In Francia sono 18, in Gran Bretagna sono 30. Il caso in specie poi si riferisce qui alle recenti prese di posizione del governo britannico[13] con la decisione (ancora da confermare) da parte del nuovo PM  Rishi Sunak di voler chiudere tutti e 30 i centri di lingua e cultura cinesi. Ma per quale motivo? E perché questo declino apparente tanto repentino? Secondo il recente (ottobre del 2022) articolo del The Telegraph, perché un report britannico ha messo in luce nelle sue investigazioni che solo 4 su 30 fra gli istituti rende davvero un servizio di tipo linguistico e culturale. Per districare la situazione della partnership con gli IC in UK si sta considerando una nuova legislazione con un emendamento alla legge sull’ Higher Education (Freedom of Speech) Bill, ma a quanto pare sembra una scelta arbitraria. Al contrario, una soluzione più sbrigativa e permanente pare sia all’ordine del giorno, ovvero la scelta fatta dal Primo Ministro Rishi Sunak di mettere ai voti un totale scioglimento dei vari IC. Dopo aver tacciato la Cina come “minaccia numero uno” per la sicurezza interna e globale, ha promesso di “cacciare fuori dalle nostre università il PCC”. Con le seguenti parole “Quando è troppo, è troppo. Per troppo tempo i politici britannici e nel mondo hanno steso il tappeto rosso e chiuso gli occhi di fronte alle ambizioni e alle nefande attività cinesi. E questo cambierà dal giorno uno a partire da quando sarò Primo Ministro”, ha promesso di mettere un freno e congelare la situazione cogli IC in Gran Bretagna, quindi la cosiddetta “cattiva influenza” di Pechino pare avere i giorni contati in UK. Questa tuttavia, ci sembra geopoliticamente parlando la tattica peggiore, proprio perché come già evidenziato gli IC verranno comunque rinominati e gli interessi verso questo Beijing Consensus difficilmente avrà termine a breve, date le ingenti poste in gioco.

Cosa di meglio, dunque, per introdurre il nostro punto sulla questione geopolitica della lingua come strumento di diffusione e veicolo della millenaria civiltà e del complesso della cultura cinese attraverso la creazione degli Istituti Confucio se non partire dalle parole medesime del “filosofo” o meglio Maestro di quel pensiero che più ha influenzato e condizionato questa parte di mondo nei successivi secoli a venire per poi ai giorni nostri giungere fino a noi? Di fatto questo scopo – ecco il motivo per cui si parla qui di geopolitica della lingua, cercando di rintracciare la complessità e le difficoltà del rapporto tra la diffusione della cultura cinese e le strategie messe in atto dal governo cinese come sforzo per la sua implementazione e influenza nel mondo dando loro spazio attraverso il finanziamento di queste istituzioni da parte del Ministero dell’Educazione e lo Hanban- sono stati chiamati a perseguire tali centri culturali, a partire dalla loro fondazione nel non troppo lontano 2004, anno in cui il primo Istituto Confucio sotto l’era di Hu Jintao fece la sua comparsa a Seoul, Corea del sud, e per primo ospite presso l’Università del Maryland negli Stati Uniti.[14] Nota è la posizione del Maestro su cosa debba appartenere all’uomo nobile o 君子 junzi e quali siano le primarie qualità che gli appartengono sia per educazione acquisita, il wen, che per naturale inclinazione, ovverosia il zhi, e come di conseguenza si debba comportare. Di fatti così si narra in un noto passo del Lunyu o Dialoghi, uno dei più noti tra i 13 Classici confuciani: 7.“Zigong domandò in che cosa consistesse l’arte del governo. Il Maestro disse: “Viveri a sufficienza, un esercito adeguato e la fiducia del popolo”. Zigong domandò: Dovendo rinunciare a una delle tre condizioni, a quale rinuncereste?” “All’esercito”.”Dovendo anche rinunciare a una delle due rimanenti, a quale rinuncereste?” “Ai viveri. Fin dai tempi antichi la morte è parte di noi, ma se non vi fosse la fiducia del popolo, mancherebbe ogni fondamento”. 8. “Ji Zicheng domandò: “L’uomo nobile di animo (君子) è tale per inclinazione naturale (), che necessità avrebbe dell’educazione ()? Zigong replicò: “Ahimè, come potete pronunciare simili parole sull’uomo nobile di animo! Nemmeno una quadriga di cavalli riuscirebbe a fermare la vostra lingua! L’educazione è importante  quanto l’inclinazione naturale! L’inclinazione naturale è importante quanto l’educazione! Proprio come la pelle di una tigre o di un leopardo sono preziosi quanto la pelle di un cane o di una capra!”[15] Per la summa del pensiero confuciano, pertanto, si può notare come siano di rilevante importanza sia l’innata predisposizione naturale che l’educazione/la cultura nel rendere l’uomo nobile d’animo, di alto valore: questo è il concetto di Principe a cui si rimanda anche in altri testi di filosofi successivi suoi discepoli (come Mencio all’interno del Mengzi) e che dimostra inevitabilmente come siano condizioni sine qua non un uomo possa essere in grado di gestire il buon governo. Saper governare, dunque, significa essere in possesso delle qualità del Principe. Non solo: di vitale importanza è per la sua stessa sopravvivenza il saper ottenere la fiducia del popolo, attraverso il 仁ren o benevolenza, pena la revoca del mandato o tianxia*geming天下革命 (*geming è un termine da cui deriva la parola moderna di “rivoluzione”). Dunque, per quale motivo abbiamo dovuto citare questo passaggio dei Lunyu e a quale scopo questa digressione sui termini confuciani più importanti nella concezione del “servire il popolo”, ovvero servirlo attraverso la conoscenza e l’educazione per ottenerne la fiducia (questo implica il conferimento o la revoca del Mandato Celeste o 天命 tianming per un sovrano o per chi svolge cariche governative, ancora oggi molto presente nella mentalità cinese), dovrebbe esserci di una qualche utilità? Presto detto: oltre ad essere nello specifico una summa che bene rappresenta il pensiero confuciano, in cui risiede la centralità dei concetti di Principe e di creazione dell’armonia cosmica che stiamo discutendo per il suo uso in seno alle nuove concezioni del soft power cinese o wenhua ruanshili 文化软实力, la formula è la metafora con cui sarebbe stato bello si fossero avverati i migliori auspici per una lunga vita degli stessi Istituti Confucio nel mondo, ma è stato davvero possibile tutto ciò? In parte di sicuro, perché lo straordinario lavoro di diffusione e finanziamento ingente da parte del governo (esperti stimano una cifra che si aggira intorno ai 10 mld di dollari all’anno di spesa complessiva) ha portato alle seguenti cifre: al 2019-20, c’erano dai 525 ai 550 Istituti Confucio e all’incirca 1.113 classi per i corsi alle scuole primarie e secondarie nel mondo, in particolare concentrate tra Europa e Stati Uniti, per un totale di oltre 150 Paesi coinvolti nel progetto con circa all’attivo 8-9 milioni stimabili di discenti in tutto il globo. Se si guarda ai soli USA (oltre 100 IC complessivamente), citando l’ultimo report del Servizio di Ricerca del Congresso americano, le cifre al 2020 salgono, per poi decrescere sensibilmente a causa delle progressive chiusure: si parla di oltre 160 Paesi coinvolti nel mondo (le stime sono diverse poiché se da una parte alcune sedi vengono chiuse, da altre se ne aprono rapidamente), e dell’impatto di queste istituzioni sul sistema educativo negli States che al 2019 includeva poco meno di 100 di questi Istituti su suolo americano. Questo fino a  una progressiva ma decisa decrescita nel periodo afferente al 2020-22. Il caso viene dibattuto dal report effettuato dal già citato GAO[16], ovvero lo United States Government Accountability Office, organo del Senato USA, attraverso testimonianze redatte per la Sottocommissione permanente alle investigazioni del Comitato sulla Sicurezza nazionale e gli Affari governativi, rilasciata a fine febbraio del 2019. Nel rapporto si sottolinea che, come in quello di Rachelle Peterson del 2017, vanno ricercate le cause della disaffezione e poca fiducia verso questi centri nei contratti stipulati dalle università con essi. In tutto, il rapporto GAO riuscirà a rintracciarne una novantina su tutte le oltre 100 sedi presenti. Nel rapporto si contestano agli Istituti di essere parte di una rete quasi “aggressiva”, di poter arrivare a minacciare o silenziare personale e studenti, di interferire nella didattica delle università e scuole ad essi collegati e di non informare su buona parte delle clausole che i contratti con essi stipulati comportano, o di tenerli perfino secretati mantenendo il totale riserbo all’esterno, di reclutare personale o metterne parte di esso a disposizione per compiere atti di spionaggio. Inoltre, questa continua pratica di sabotaggio della credibilità e fiducia, ha reso difficile il reperimento delle informazioni e della redazione del report finale che è stato presentato in audizione al Senato USA (le stesse preoccupazioni e difficoltà erano state accertate dalla stessa Rachelle Peterson nel suo rapporto del 2017, poi aggiornato al 2021, per il NAS). Tuttavia, potremmo anche azzardare l’ipotesi che in parte questi auspicati risultati non si sono verificati o non più come durante gli entusiasmi nell’iniziale fase dell’apertura delle sedi, perché a quanto pare a causa delle più recenti (ma, in realtà, le questioni risalgono a partire già dall’incidente accaduto presso l’Università di Chicago nel settembre del 2014, e di cui si è discusso sopra in questo nostro articolo, nda) manifestazioni di insofferenza verso queste istituzioni viene quasi da dire che per certo non sono più congeniali o ben viste da numerose istituzioni accademiche e dai governi che in generale hanno preso parte a questa diffusione culturale in Europa e negli Stati Uniti: eppure, sarebbe ingiustificato non ammettere, al di là delle revoche e chiusure, anche il ruolo di prestigio e di divulgazione culturale associato e promosso attraverso di essi tra le migliori realtà istituzionali  e universitarie presenti nel mondo. Questo è anche quello che viene dibattuto nel recente podcast dell’inserto al quotidiano britannico The Spectator, nel quale il ventennale responsabile diplomatico in Cina e RUSI think tank Senior fellow Charles Parton, esperto di spionaggio internazionale in UK, afferma ,quanto agli Istituti Confucio, che questi siano comunque una necessità per i paesi che vengono coinvolti dal progetto di scambio, che non ci sia bisogno di un’eccessiva critica nei confronti di queste istituzioni fino alla loro dismissione completa o alla loro rappresentazione come il “male assoluto”, ma piuttosto che rimangano importanti per conoscere meglio, quand’anche divulgassero della propaganda di regime, il senso generale della cultura da cui derivano e a cui si dedicano, che pur sempre vada compresa nella sua complessità e non debba essere per forza l’unica fonte a cui attingere informazioni sulla Cina, visto che in Cina e al suo esterno esistono ormai oggi svariate fonti diverse di cui beneficiare per l’approccio di tanti temi sulla sua stessa cultura, perfino quelli sensibili come la questione del Tibet o la storia dell’Incidente (come viene definito sbrigativamente e propagandisticamente in Cina) o Massacro (come viene etichettato più enfaticamente e altrettanto in maniera propagandistica in dissenso con la visione di Beijing qui da noi) di Tian’An Men. Possono, al contrario, essere considerati delle vere “mine vaganti” in quanto al loro vero scopo, soprattutto in seno alle Università e le Accademie di più alto livello e prestigio, il che diviene sempre più ampio e difficile da controllare, dato che svolgono un’attività connessa direttamente con l’Ufficio di Propaganda e il Ministero dell’Educazione cinese, quindi alle dirette dipendenze del governo centrale e non come tutti gli altri soggetti non-profit tra i centri culturali che popolano il resto d’Europa in qualità di “istituti culturali” per la diffusione delle lingue, anche quando in parte fornitori degli stessi interessi nazionali direttamente ad essi collegati, come ad esempio promozioni del Paese che servono ad ottenere legami anche diplomatici, ma che diversamente non sono promanazione diretta del governo. Nel caso degli Istituti Confucio, invece, si ha un intento meno esclusivamente limitato alla sola questione dell’insegnamento o della semplice sponsorizzazione nazionale, che resta piuttosto velata da un travestimento in incognito come già riportato dalle parole dell’ex membro del Politburo LI Changchun. Il loro servizio si amplia e non di poco, arrivando a scambi anche in seno alle attività accademiche connesse con le università e i college a cui si interfacciano, svolgendo attività di tipo disciplinare complesse, che possono variare dalla tecnologia alla medicina, alla scienza, e condurre quindi a spionaggio o altre forme di interferenza come quelle sulla proprietà intellettuale. Parton illustra come non siano esattamente uguali ai nostri centri culturali, per quanto per una parte ne svolgano una stessa funzione e siano comunque legati al governo di riferimento, come nel caso del British Council o di Alliance Française o dell’Istituto Cervantes o della Società Dante Alighieri. E, in base a questo principio del servizio, la Cina lo ha fin dall’inizio usato e tenuto in gran conto, spingendo verso un’intensa opera di lobby e integrazione. Forse perfino troppa integrazione, soprattutto poiché – e questa è la parte più preoccupante- gli Istituti Confucio sono parte della più ampia strategia facente capo allo United Front Strategy o in cinese lianhe chenxian zhanlue 联合陈线战略. La Strategia del Fronte Unito è una strategia politica del PCC che coinvolge reti di gruppi e di individui chiave che sono influenzati o direttamente controllati dal Partito, ed utilizzati per promuovere i propri interessi. Alcuni suoi elementi possono essere fatti infiltrare nelle università esattamente come quanto già accaduto per la CIA nelle università degli Stati Uniti. Storicamente è stato un fronte popolare a partire dalla fondazione della Repubblica popolare nel 1949 ed ha incluso anche gli altri otto partiti legalmente autorizzati dal Parlamento cinese, ovvero l’Assemblea nazionale del popolo, e organizzazioni popolari che hanno una rappresentanza nominale all’interno della stessa e nella Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CCPPC). Sotto il segretario generale del PCC Xi Jinping il Fronte Unito e i suoi obiettivi di influenza si sono espansi in dimensione e portata. La principale strategia in questo momento è segnata dall’identificazione di un principale nemico a cui mirare (ovvero gli USA, che sono attualmente il principale nemico sul fronte internazionale e diplomatico delle relazioni internazionali), e renderlo in effetti neutralizzato o diminuito formando intorno ad esso un “vuoto” diplomatico di consenso, utilizzando la leva dei satelliti o paesi più neutrali nei confronti del PCC e del governo cinese e spostando il loro asse da quello gravitante intorno gli USA a quello che aderisce o si allinea alla sfera e linea del PCC. Perché? Per i motivi adotti all’inizio di questo articolo, ovvero la sua politica interna tutta strenuamente indirizzata verso il文化软实力wenhua ruan shili, ovvero il Soft Power cinese per la conquista del primato internazionale nel centenario dalla fondazione del PCC e della Repubblica popolare. Infatti, il governo cinese sotto Xi Jinping ha come obiettivo quello di raggiungere il massimo della potenza entro il 2050 (il centenario della fondazione della Rep.Popolare sarà nel 2049) e in particolare in questo primo secolo del millennio; e per raggiungere l’obiettivo di accumulare conoscenze di tipo scientifico e tecnologico atte a mostrarne la supremazia politica interna e esterna a livello internazionale, pertanto, come già detto, attraverso il Ministero dell’Educazione, ha programmato e finanziato un metodo per infiltrarsi, in oltre 500 diverse realtà accademiche e culturali, con questi istituti integrandoli nel comparto educativo di prestigiose realtà accademiche, soprattutto di lingua inglese e dunque americane e britanniche, per cui  –all’incirca tra i 535  e i 550 al momento di massimo picco della loro diffusione nel periodo 2019-20 – poter, secondo la loro stessa definizione, svolgere alcuni punti chiave della missione di influenza culturale (o come afferma lo stesso Parton perfino per compiere dello spionaggio a livello accademico su mandato dello United Front), che secondo il seguente report, Outsourced to China (2017), di Rachelle Peterson[17] e altre fonti ad esso assimilabili, riporta attraverso lo Hanban a questi sommari punti chiave:

  • Sulla Libertà Intellettuale si deve ricordare che gli insegnanti vengono reclutati e pagati dal PCC, in quanto gli IC sono afferenti al Ministero dell’educazione attraverso lo Hanban, che li ritiene responsabili del programma svolto e del tipo di insegnamento tanto da definire fin da subito censurati i temi sensibili che toccano le 3T (Tibet, Tian’An Men, Taiwan) o la Rivoluzione Culturale e punibili o perseguibili quelli che ne trattano
  • Quanto ai contratti tra università e strutture afferenti allo Hanban, per quanto attiene alla trasparenza, raramente vengono resi pubblici e consultabili. Questo crea un grosso problema per poter raccogliere anche dati sensibili per le ricerche sul campo sugli IC e il loro finanziamento
  • Quanto alle connessioni tra strutture e all’esercizio del pensiero critico, gli IC coprono tutte le spese collegate alla fornitura del materiale didattico e offrono anche borse di studio agli studenti americani per studiare all’estero. Ma con tali incentivi finanziari, piuttosto ingenti, le università ad essi collegate spesso fanno difficoltà a potersi porre in una condizione di libero pensiero, libero dibattito e di libera critica
  • Quanto a soft power gli IC evitando di trattare argomenti sensibili, censurano la possibilità di intervenire su argomenti scomodi quali il trattamento delle minoranze uigure e le violazioni dei diritti umani. Inoltre, presentano come territori indiscussi Taiwan e la regione del Tibet , di conseguenza, trattando così gli argomenti suddetti, sviluppano una generazione di studenti americani che ha conoscenze selettive riguardo un grande paese e un maggior avversario.

 

  • Gli IC pretendono di essere assimilabili a centri culturali tipicamente in attività nel mondo, quali il British Council o l’Alliance Française, ma pur fingendo di esserlo, in realtà sono una macchina della propaganda di regime finanziata e diretta dal governo centrale cinese.  Il report del NAS raccomanda prudenza, quindi, per non aprire più su suolo americano IC affiliati alle università.

Tuttavia, al contrario, nell’ex pagina dedicata allo Hanban, si poteva leggere che la missione degli Istituti Confucio erano strettamente collegati al loro Statuto o Costituzione con queste principali finalità:

  • Fondazione del NOCFL o “China National Office for Teaching Chinese as a Foreign Language” nel 1987(Hanban Directorate), al fine di attivare la mutua conoscenza e amicizia, nonché promuovere una migliore comprensione tra il popolo cinese e i popoli nel mondo, attraverso lo studio della lingua, e per promuovere la cooperazione tra questi a livello economico-commerciale, così come per quella scientifica, tecnologica e culturale.
  • Il gruppo a capo dell’Ufficio del Direttorio  è composto dai membri di 12 ministeri di Stato più le commisisioni, incluso il Ministero dell’Educazione, il Ministero delle Finanze, il Ministero degli Esteri, ecc. Il Consigliere di Stato Chen Zhili è il presidente di questo gruppo. L’OCLCI o “Office of Chinese Language Council International” , meglio noto come Hanban, viene governato da questo gruppo.
  • Lo Hanban è il braccio esecutivo del NOCFL, ovvero un’organizzazione non-governativa e non-profit affiliata al Ministero dell’Educazione cinese.
  • Lo Hanban è impegnato a rendere disponibile nel mondo i servizi e le risorse per l’insegnamento della lingua e cultura cinese, per andare incontro alle richieste dei discenti all’estero cinesi, e a contribuire alla formazione  di un mondo fatto di diversità culturale e d’armonia. Per questo, il più visibile progetto dello Hanban sono gli Istituti Confucio.
  • Lo Hanban lavora anche al fianco di organizzazioni all’estero per sviluppare corsi di lingua cinese nei rispettivi Paesi. Nel 2004, Lo Hanban e il College Board (USA) hanno sviluppato il programma per esami “AP Chinese Language and Culture Course and Exam”. Come conseguenza di questo e altre iniziaitive, circa 160 insegnanti di lingua cinese  negli Stati Uniti hanno preso parte ai corsi dell’AP Chinese Teacher Summer Institutes.
  • A partire dal 2006, lo Hanban ha continuato a inviare negli Stati Uniti insegnanti volontari dalla Cina. 105 tra questi insegnanti hanno svolto l’insegnamento del cinese in circa 30 stati della federazione USA.

Questo come abbiamo detto è vero, però, solo in parte. Nell’articolo dell’Heritage Foundation troviamo per la prima volta nel maggio del 2021[18] una voce che prende parola e conferma quelle descritte sopra dal professor Marshall Sahlins e dal report di Rachelle Peterson, in merito al fatto, come lo stesso titolo dell’articolo introduce, che i vari Istituti Confucio siano delle specie di “virus” o dei “Trojan horse” all’interno delle università statunitensi e europee. Dobbiamo ricordare che anche il Giappone, nonostante la sua tradizione millenaria anch’essa mutuata dal confucianesimo cinese e nonostante si trovi nell’area di influenza dell’Asia orientale ormai gestita dal risveglio della potenza asiatica cinese, ha deciso di chiudere questi centri allineandosi al modello della strategia internazionale americana ed europea sul “chiusurismo” e che quindi anche questo punto di vista, del ph.D. e stimato storico del conservatorismo americano Edward Lee è piuttosto condizionato da un pervasivo ideologismo di tipo trasversale a destra quanto a sinistra dell’ala del governo americano (perché sono gli Stati Uniti quelli che vengono maggiormente presi di mira e attaccati dalla strategia del soft power cinese attraverso l’utilizzo dei centri confuciani) quanto alle soluzioni da adottare nei confronti degli Istituti Confucio: un punto di vista conservatore e molto definito per quanto riguarda la politica da adottare verso le procedure per tenere a freno ingerenze di contro intelligence cinese, ma che non hanno determinato finora una vera e propria soluzione efficiente ed efficace per quanto attiene al secondario problema della chiusura dei centri per motivi esclusivamente culturali e linguistici che sfociano in forme di tipo auto-censorio verso le informazioni. Lo riportiamo in quanto troviamo, comunque, il pezzo tuttavia moderatamente corretto negli intenti che sorreggono le motivazioni del suo scritto e che in parte condividiamo per l’obiettività con cui vengono presentati i fatti: nel presente citato articolo vengono subito messi in risalto due problemi fondamentali che in effetti sono al momento presentati come motivazione basilare per la scelta di applicare questo chiamiamolo “collettivo chiusurismo” nei confronti dei centri culturali cinesi confuciani, ovvero il fatto che se gli addetti all’insegnamento presso gli Istituti vengono trovati quasi fossero in flagranza di reato ad aver tenuto delle lezioni o aver pubblicato qualcosa di difforme da quanto impartito dal governo centrale non possono fare rientro regolare in Patria e le loro famiglie in Cina vengono minacciate; inoltre, lo citiamo per il fatto che il capo dell’FBI, Christopher Wray, sta valutando e da tempo seguendo molto attentamente con tutto il possibile impianto di intelligence americana del suo Bureau gli Istituti e, dunque l’amministrazione Biden dovrebbe affidarsi ai report dell’FBI sulla questione dell’ingerenza da parte della Cina con questi Istituti che svolgono un ruolo attivo propedeutico alla sottrazione di high-tech e intelligence americana a favore della contro intelligence e dello spionaggio cinesi. Sebbene dietro le parole che abbiamo letto di Edward Lee esista un evidente interesse per la sicurezza nazionale USA, bisogna ricordare che i centri non andrebbero chiusi, ma secondo la nostra opinione la loro partecipazione in seno a certe realtà accademiche ad alti livelli andrebbero ripensate dalle università. Di fatto, il vero problema come ben puntualizzato in precedenza dall’amministrazione Trump sono le stipule dei contratti e le ingenti somme di denaro di finanziamenti che sono stati stipulati e sono pervenuti alle stesse università, le quali ora si lamentano pur avendo ricevuto per il loro spesse volte stesso blasone delle moli di denaro di sovvenzione per i loro programmi. Detto questo, sono dei tipi di contratto, purtroppo a volte, secretati, e come evidenziato che le università stipulano tra loro e lo Hanban direttamente insieme col Ministero del’Educazione cinese che andrebbero meglio sorvegliati, ovvero necessitano di periodica revisione e di maggior informazione e formazione da parte degli aderenti e addetti degli organi interni all’università stessa, dato che decidono in modo troppo autonomo le forme di collaborazione da avviare con la Cina, dovendo poi essere costretti a rispettare anche clausole vessatorie o improbabili per il normale decorso e adempimento degli studi e della ricerca. Se con una migliore disposizione verso l’apertura alla Cina fossero adempiute stipule con maggior incentivo alla disclosure sarebbe forse possibile che non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in altre regioni del globo che decidono di installare un Istituto Confucio avessero meno problemi fin dal loro insediamento. Ciò detto, resta comunque improbabile che i centri universitari di maggior spicco e con dipartimenti particolarmente dedicati a settori di interesse per la sicurezza nazionale e la proprietà intellettuale (e quindi non solo con finalità educativo-culturale verso la sinologia in senso stretto, ma più che altro verso settori tecnologici, militari e per le analisi di difesa, economico-finanziari o perfino dedicati all’ alta medicina con utilizzo di patenti e brevetti, magari in AI, oppure dedicati alla scienza, alla fisica e chimica e allo sviluppo di energie rinnovabili) possano d’ora in poi decidere di contrarre un servizio aggiuntivo ai loro distaccamenti con gli Istituti Confucio, anche se questo dovesse significare un rallentamento sul piano internazionale degli scambi e un lento progressivo allontanamento/sganciamento dalla partnership con la Cina sul versante della strategia del soft power e della diplomazia internazionale. Infatti, come abbiamo dimostrato citando vari report e in particolare commenti su quotidiani e giornali online riguardo il caso, che considerano gli Istituti alla stregua dei “programmi spam” o dei “virus Trojan horse” nei loro intenti, giusto per mutuare un‘espressione in uso nel settore dell’informatica, siamo convinti della buona fede dei diretti dipendenti degli Istituti, gli insegnanti che in fondo rischiano di venire anche per parte loro ostracizzati in Cina, così come della grande necessità di poter accedere ai programmi di lingua e cultura svolti dagli stessi in questo arco temporale lunghissimo di co-partecipazione con le istituzioni di vari paesi nel mondo, più o meno accademiche o para-accademiche. L’aver etichettato come tali gli Istituti Confucio dà al mondo l’idea che questi si permettano immancabilmente il lusso di ostacolare in via del tutto esclusiva i programmi educativi svolti all’interno dell’università, su qualsiasi argomento si possa arrivare a dibattere, culturale e non, ma in realtà così non è, e una loro definitiva chiusura comporterebbe un’immane perdita per l’approfondimento delle conoscenze in ambito sinologico, quantomeno per il solo fatto che spesso sono le poche uniche fonti di reperimento del materiale di ricerca che ci perviene direttamente dalla Cina, quand’anche fossero evidentemente di stampo particolarmente ideologico e direzionato. Concordiamo sul fatto che, come ha dichiarato lo stesso Parton durante la sua intervista a The Spectator, nessuno si sia mai convertito pericolosamente al PCC e alla sua ideologia intrinseca solo per il fatto di aver leggiucchiato ogni tanto le news provenienti dalla Cina sul People’s Daily, quotidiano organo e voce del partito, o il Renmin ribao nella sua versione in cinese, o l’agenzia online Xinhua come pure il Global Times nella sua versione inglese; piuttosto la scelta dovrebbe ricadere su una puntuale cernita e individuazione contestualizzata degli argomenti svolti o ricercati, sapendo scremare l’ideologia da corretta e obiettiva informazione, a seconda del ruolo svolto dall’istituzione accademica afferente e del contesto in cui la ricerca viene a contatto. Di fatto, come sottolinea l’ex diplomatico e ora imprestato all’intelligence britannica Charles Parton, siamo dell’idea che questi centri culturali debbano essere messi più strettamente sotto controllo dalle università, ma non esclusi a priori definitivamente da esse, in quanto il problema di tipo censoriale che proviene dagli istituti non meno che da altre fonti di scambio e ricerca con la Cina sicuramente esiste, ma non può trascendere in forme quasi razzistiche di chiusura e ban, dato che svolgono una agevole e pregevole funzione anche di riconoscimento delle diversità di vedute che la Cina sta portando avanti nella sua logica di soft power, concetto con il quale dovremmo essere meglio capaci di dibattere e trovare mediazioni, nonché per la poca dimestichezza generale con la quale esso viene affrontato : il primo e unico colpevole di questa vogliamo pure definirla “deriva”, ammesso che lo sia, è il governo centrale a cui questi centri culturali sono imprestati e da cui vengono centralmente diretti. Questi Istituti svolgono di fatto un lavoro di tipo culturale che non è slegato dal concepimento di una ideologia e strategia del PCC, ma non hanno verso questa una diretta responsabilità decisionale. Di conseguenza, se chiuderli o no resta un grossissimo problema, ma quello che veramente andrebbe proposto è una ricollocazione degli stessi in modo meno entrante nel seno delle università e delle istituzioni scolastiche o organizzazioni culturali dei Paesi ospitanti nel mondo. Purtroppo o per fortuna, ci piaccia o meno qui in Occidente, per poter essere però al passo con la logica del soft power cinese è necessario avere stimoli e conoscenze linguistiche approfondite, perché il linguaggio limitato impedisce ulteriore ricerca nel suo ambito, confonde e crea disarmonie o inconvenienti di comprensione reciproca che proprio le migliori accademie votate alla sinologia dovrebbero poter evitare incentivando lo scambio ad alti livelli, nella speranza che anche in Italia ci si adegui a questa sollecitazione, rompendo definitivamente il silenzio tombale che pare concentrarsi ultimamente proprio intorno al livello alto della ricerca sinologica accademica, in seno in particolare all’Aisc (Associazione italiana dei sinologi), e in generale nelle recensioni o nei commenti dei quotidiani sulla questione, senza troppe riserve per il timore di ricadute di tipo finanziario o di tipo diplomatico verso le istituzioni che li ospitano, trovando il coraggio di parlare e lasciando però libera espressione alle esigenze molto più liberali e direzionate verso la ricerca indipendente delle università, cogliendo l’occasione di interessarsene sapendo fare una corretta ed obiettiva disamina e analisi del caso in specie. Difficile prendersela con la controparte cinese tagliando corto dicendo che è ideologicamente propagandistica, quando dall’altra parte noi stessi non siamo in  grado di dibattere liberamente, e con tutti i crismi della conoscenza di un certo livello, di questioni come questa o di in generale tutto quello che attiene alla sfera delle competenze sinologiche e della millenaria cultura cinese. Questo effettivamente sembra più simulare una sorta di “Maoismo censorio alla Xi Jinping” all’incontrario, nell’alveo del mondo liberale per autodefinizione. Difficile anche dire come verrà usata o se manipolata ulteriormente la discussione riguardo questi centri culturali, che effettivamente includono preoccupanti episodi di ingerenza nei programmi di studio universitari, i quali per loro stessa costituzione sono aperti al dibattito libero e indipendente, ma che nonostante la più totale buona fede anche dell’Istituto Confucio, rischiano tramite una forzosa ingerenza da parte delle autorità centrali del regime di subire un allentamento o perfino una auto-censura che causerebbe l’inficiare dello strumento par excellence della libera espressione, dibattito e ricerca, strumenti indispensabili alla parte occidentale e al Washington Consensus certamente per quanto attiene la sicurezza nazionale e la rivendicazione del suo esclusivo strategico soft power, ma non meno impregnati di altrettanta radicata e fondamentale tradizione alla “cultura direzionata” da noi, non potendo in questo i cinesi mancare di reciprocità e attenzione verso le altre culture e diversità come loro stessi vanno predicando e sbandierando. In conclusione, possiamo dunque affermare che non siamo totalmente allineati né con l’una né con l’altra parte, ma condividiamo le preoccupazioni generali addotte dallo stesso Charles Parton e dalla più compassata tradizione di intelligence britannica, che ne individua la giusta e calibrata posizione. La necessità di un buon vero pensiero critico sarebbe quello di adottare delle soluzioni, anche piuttosto serie e restrittive, senza giungere alla totale ostracizzazione o alla caccia alle streghe, fornendo un metodo risolutivo delle contese creativo e non pretendendo come infine detto fin dall’apertura di questo nostro scritto nessun tipo di flebile o immaginifico wishful thinking sulla questione, ma nemmeno una rigida impostazione dialettica estremizzata nel o tutti pro o tutti contro, tipica dell’attuale moderna incapacità critica. Un vero sollievo sarebbe per la controparte cinese poter riconoscere, e dare così definitivo scacco matto all’antagonista parte americana e britannica, ma in fondo a tutto il versante occidentale, di essere in posizione di supremazia a causa della grave carenza di pensiero creativo e critico di questa parte di mondo che possa portare a una soluzione ragionevole e brillante, fornendo idee che possano far transitare da questa impasse. Sarebbe un regalo enorme al nostro avversario diplomatico. Non per niente in gioco ci sono le migliori teste che l’Occidente tutto sta mettendo a disposizione per risolvere questo caso, sebbene finora poco sia stato detto di veramente interessante in merito in Italia, tutta concentrata in altre apparenti amenità politichesi, e mentre poco sia stato prodotto in questi ultimi 4-5 anni nei confronti di uno sviluppo di una nuova strategia nei confronti della Cina da parte del peso massimo delle potenze più influenti nel mondo fino a ora coinvolte nell’affaire: gli Stati Uniti.

Eppure bisognerebbe tenere bene in mente che sono state proprio le università le protagoniste di questo mancato pensiero critico e creativo, ma più del wishful thinking o del solito “modello pro-contro”, e a dir il vero a non essere state capaci, da voci autorevoli in merito, di risolvere da sé entro le proprie competenze questo spinoso affaire: ad esse quindi, in particolare a quelle che si interessano di ambito sinologico, non dovrebbe passare inosservato le parole che, in un famoso 成语 chengyu o frase idiomatica cinese
tratto dal classico romanzo di epoca Qing 红楼梦 Hongloumeng, meglio noto in Italia come
“Il Sogno della Camera rossa”, il Presidente Xi Jinping ha usato quasi un anno fa, all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, quando, intervistato in una delle tante concitate riunioni internazionali coi giornalisti di quel periodo, gli venne chiesto se la Cina avrebbe o meno appoggiato le scelte del presidente Putin e cosa proponesse la Cina come unico referente mediatore per l’Occidente di fare per fermare la guerra. E il Presidente serafico rispose con la seguente frase idiomatica: “解铃还须系铃人jiě líng hái
xū xì líng rén” 19 , che vuol dire “Spetta a chi ha messo al collo della tigre il sonaglio di levarlo” o “Chi ha iniziato a creare il problema, ecco chi lo deve risolvere ora”. Crediamo che lo stesso si possa dire a riguardo della crisi con gli Istituti Confucio.

[1] Si veda report di Nicola Casarini per l’Istituto Affari Internazionali: https://www.iai.it/sites/default/files/iaip2144.pdf

[2] Si veda articolo online del gennaio 2018 all’indirizzo https://www.politico.com/magazine/story/2018/01/16/how-china-infiltrated-us-classrooms-216327/

[3] Si veda sulla missione dello Hanban l’archivio sul sito dell’Università del Texas: https://web.archive.org/web/20140819085145/http://confucius.tamu.edu/content/about-hanban

 

 

[4] Articolo pubblicato su The Nation, dal titolo “China U. Confucius Institutes censor political discussions and restrain the free  exchange of ideas. Why, then, do American universities sponsor them?”, il 30 0ttobre 2013, e reperibile alla pagina https://www.thenation.com/article/archive/china-u/

[5] Si veda il documento del report dello U.S. Government Accountabilty Office, col titolo “China: Observations on Confucius Institutes in the United States and U.S. Universities in China”, full report disponibile, vedi indirizzo nota 6;

e quello dal Senato e Congresso americano dello US Congressional Research Service, col titolo: “Confucius Institutes in The United States: Selected Issues”, vedi indirizzo nota 6. Per riferimenti, vedi anche sotto, nota 12 e 14

[6] Dal GAO: https://www.gao.gov/products/gao-19-401t?fbclid=IwAR33JbXl6njQMOXWnqAxtZ230O_b79sOSvOGAZWyAhHCRGVLJ2mO0G755N0 ; dallo US Congressional Research Service: https://crsreports.congress.gov/product/pdf/IF/IF11180

[7] https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3080679/belgian-ban-chinese-confucius-institute-professor-accused

[8] https://www.voanews.com/a/controversial-confucius-institutes-returning-to-u-s-schools-under-new-name/6635906.html?fbclid=IwAR3ja9cXYrLbfOaq4tekaEUnwQAvCucHa3N0EMJHjd4MFtwpbJj0dyzc-Yc

 

[9] https://archive.nytimes.com/sinosphere.blogs.nytimes.com/2014/09/26/university-of-chicagos-relations-with-confucius-institute-sour/?fbclid=IwAR0YF6xGKjr5hfD_NBsePdrsgdr3j7__FU0tAHlnx-gs7nOlkLKSngHRo1s

[10] Angus. C. Graham, “La Ricerca del Tao. Il dibattito filosofico nella Cina classica”, ed. Neri Pozza, 1999, pp.305-321

[11] https://thediplomat.com/2015/03/sun-tzu-and-the-art-of-soft-power/

[12] Per gli interventi dell’ex docente in ritiro professor Maurizio Scarpari si veda: https://www.corriere.it/la-lettura/19_dicembre_16/cina-noi-fuori-istituti-confucio-universita-italiane-461cd4ca-1f61-11ea-92c8-1d56c6e24126.shtml  ;  https://sinosfere.com/2021/01/13/maurizio-scarpari-allombra-dellanaconda-considerazioni-sinologiche/  ; https://formiche.net/2020/07/pechino-rifare-look-istituti-confucio/ ; https://decode39.com/4547/confucius-institute-italy/?fbclid=IwAR3NTsxZjD6xWEsz4KbRvll2j1fL0LYvW_vjoPhG1A6umZijC8-SvnmLCQU

 

[13] https://bitterwinter.org/uk-sunak-in-confucius-institutes-out/?fbclid=IwAR3qoA3h1wTR09C1D4TtpOCrXcStOxxnrpRnrbTtrZYWy8XUKqAbx5H1AcU ; https://www.outlookindia.com/international/geopolitics-of-language-how-china-s-confucius-institutes-become-extension-of-chinese-state-on-campuses-news-195212/amp?fbclid=IwAR3m53eKqBj_OzFgG-DOHj93qIUW7_4D3AQmMhHSLLGfnhqOOFuopYD2-fk  ;  https://www.telegraph.co.uk/news/2022/10/08/confucious-institutes-universities-part-partys-propaganda-system/

 

[14] Report del Congresso USA, Congressional Research Service, aggiornato al 20 maggio 2022, dal titolo: “Confucius Institutes in the United States: Selected issues”, 1-2pp., vedi in alto nota 5-6

[15] Tiziana Lippiello (a cura di), Confucio. Dialoghi, ed. Einaudi, Torino, 2003, p.137

[16] https://www.gao.gov/products/gao-19-401t?fbclid=IwAR33JbXl6njQMOXWnqAxtZ230O_b79sOSvOGAZWyAhHCRGVLJ2mO0G755N0

 

[17] https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china/full-report?fbclid=IwAR0qp7nQjT6IXAgDjp5yUsLbJ0mIRfHNHtaXcydGVvjv6vYjoAhlcwW13pQ#_ftnref17 ;

https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china/full-report ;

https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china ;

 

[18] https://www.heritage.org/homeland-security/commentary/confucius-institutes-chinas-trojan-horse?fbclid=IwAR3uw87vKsMl3YDinUjVzjGiXiLzNaCgq2uKejNZrLf9JdZM0VB2f4oLxKQ

19 Vedi spiegazione in cinese del riferimento storico al chengyu usato dal Presidente Xi Jinping
https://zhidao.baidu.com/question/44222555/answer/151347795.html Qui si riporta la traduzione della pagina della fonte citata in particolare questo breve sunto: “Questo chengyu o frase idiomatica deriva dalla storia del monaco Fa Deng. Secondo le citazioni del Buddhismo chan nello “Yuelu – rotolo 23°” compilato da Qu Ruji durante la dinastia Ming, si registra che durante la dinastia Tang meridionale c’era un Maestro zen di
nome Tai Qin Fa Deng nel Tempio Qingliang a Jinling (ora Tempio Qingliang nel parco Qingliangshan) che era troppo severo con i precetti buddhisti e i monaci nel tempio lo disprezzavano. Tuttavia, il Maestro zen Fa Yan, suo responsabile, lo teneva in gran stima. Una volta Fa Yan chiese a tutti i monaci presenti nel tempio mentre teneva una riunione con tutti loro: “Chi può sciogliere la campana d’oro legata al collo della tigre?”
Tutti pensarono e ripensarono, ma non poterono rispondere. In quel momento Fa Deng si avvicinò e Fa Yan gli rifece la stessa domanda. Fa Deng rispose senza esitazione: “Solo la persona che ha legato la campana d’oro al collo della tigre, può slegare la campana d’oro” . Dopo aver sentito questo, Fa Yan pensò che Fa Deng potesse comprendere abbastanza bene gli insegnamenti buddhisti, quindi lo lodò in pubblico.
Successivamente, questa frase è stata tramandata come il chengyu o modo di dire di “解铃还需系铃人jiě líng hái xū xì líng rén”, cioè che bisogna che chi ha legato al collo il campanello sleghi il campanello. Durante la dinastia Qing, Cao Xueqin lo ha citato nel 90° capitolo di 红楼梦 Hongloumeng (Il Sogno della Camera rossa), come “心痛还得心药医,解铃还需系铃人”,ovvero “come un mal di cuore richiede uan medicina per il cuore, così una campana legata richiede a qualcuno di slegarla”. Questo idioma ora è una metafora che
significa che chi ha provocato un problema ora deve comunque risolverlo. Dopo questo “questione”, Fa Deng fu molto apprezzato dal Maestro zen Fa Yan. In seguito, servì come Wei Na (o persona principale responsabile del monastero, dei monaci e della Sala di Meditazione) per la sede del Maestro chan Fa Yan, ed ha assistito il Maestro Fa Yan nella creazione della sua famosa setta Fa Yan delle Cinque Scuole del Buddhismo. ( Traduzione dell’autrice del presente articolo dal brano cinese: “ 这句成语源自一个叫法灯的和
尚。据明代瞿汝稷所编佛家禅宗语录《指月录·卷二十三》记载:南唐时金陵清凉寺(既今清凉山公园清凉寺)有
一位泰钦法灯禅师,他性格豪放,平时不太拘守佛门戒规,寺内一般和尚都瞧不起他,唯独主持法眼禅师对他
颇器重。有一次,法眼在讲经说法时询问寺内众和尚:“谁能够把系在老虎脖子上的金铃解下来?”大家再三思
考,都回答不出来。这时法灯刚巧走过来,法眼又向他提出这个问题。法灯不假思索地答道:“只有那个把金
铃系到老虎脖子上面去的人,才能够把金铃解下来。”法眼听后,认为法灯颇能领悟佛教教义,便当众赞扬了
他。 后来这句话就被以解铃还需系铃人的成语流传下来。到了清朝,曹雪芹在《红楼梦》第九十回中还以“心
痛还得心药医,解铃还需系铃人”加以引用。这个成语现在比喻谁惹出来的事情,仍然由谁去解决。
   这件事之后法灯深得法眼禅师的赏识,后来在法眼禅师座下作维那(寺庙中统摄僧众统管禅堂的主要负责
人),协助法眼开创了佛教五宗中著名的法眼宗”)

LA SVOLTA STORICA DELLA FASE MULTICENTRICA di Luigi Longo

LA SVOLTA STORICA DELLA FASE MULTICENTRICA

di Luigi Longo

 

 

                                                        Quando leggo nel mio Plutarco le vite

                                                        degli uomini grandi mi viene a schifo

                                                        questo secolo parolajo.

Federico Schiller*

 

 

Ho trovato interessante la lettura dello scritto di Piero Pagliani Slittamento di paradigma, apparso in www.sinistreinrete.info del 18/2/23 e ripreso qui http://italiaeilmondo.com/2023/02/28/slittamento-di-paradigma-paradossi-nonsense-e-pericoli-di-una-svolta-storica-di-piero-pagliani/, perché stimola una serie di riflessioni da sviluppare e approfondire.

Le elenco, per comodità di sintesi, per punti, senza ordine di priorità.

 

Primo. La svolta storica rappresentata dalla decisione politica della Russia di abbandonare le relazioni, improntate soprattutto alla sfera economica, con l’Europa (a seguito di fatti irreversibili: il boicottaggio Usa-Nato al Nord Stream 1 e 2; la guerra alla Russia via Nato-Europa-Ucraina; le sanzioni alla Russia che si sono rilevate un boomerang contro la serva Europa; il ladrocinio degli attivi monetari detenuti all’estero dalla banca centrale russa; la trappola europea, tramite Francia e Germania, garanti degli accordi di Minsk; eccetera) e di lavorare in coordinamento e in cooperazione con la Cina, alla costruzione del polo asiatico allargato (con altre nazioni dell’Africa e dell’America Latina) in grado di sfidare l’egemonia assoluta degli Usa (in relativo declino) e proporre un nuovo modello di sviluppo e di relazioni sociali dentro la fase multicentrica (rimando alla letteratura ormai solida sulle forti potenzialità del polo in tutte le sfere sociali: economica, finanziaria, militare, scientifica, tecnologica, sociale, culturale, eccetera). Un polo asiatico, quello della Cina e della Russia, la cui costruzione è iniziata a partire dalla configurazione e dalla loro ascesa a potenze mondiali: una data simbolica può essere il 2011 con la distruzione della Libia e il tentativo mancato di demolire la Siria, da parte degli Usa, che ha significato la loro messa in discussione come unica potenza di coordinamento mondiale.

E’ utile ricordare, di passaggio, che la Russia, storicamente a fasi alterne, mantenendo un’autonomia dall’Occidente, ha avuto periodi di relazioni intense con l’Europa (si pensi, per esempio, al periodo di Pietro il Grande e di Caterina II, il XVIII secolo della cosiddetta europeizzazione o modernizzazione della nuova Russia).

 

Secondo. L’Europa, per ragioni storiche, non è mai esistita come soggetto politico con una propria autodeterminazione in grado di svolgere un ruolo di crocevia tra Oriente e Occidente, ricco di relazioni economiche, sociali, culturali, storiche, come sintesi di esperienze e peculiarità territoriali dei diversi popoli.

L’Unione europea, a partire dalla seconda guerra mondiale che sancisce l’egemonia statunitense nel mondo cosiddetto libero dell’Occidente, è stata un progetto Usa da utilizzare contro il cosiddetto mondo comunista egemonizzato dall’URSS. Oggi, dopo l’implosione dell’URSS, l’Unione europea non serve più ed è stata sostituita dal progetto Nato. E’ la Nato che detta l’agenda europea e tiene unite le diverse nazioni secondo le strategie statunitensi di conflitto contro le potenze in grado di sfidare il suo dominio assoluto.

Resta la domanda posta dallo storico Jacques Le Goff: quale Europa? Cioè come ri-costruire una Europa come sintesi altra delle nazioni autodeterminate senza la servitù volontaria verso gli Stati Uniti?

E’ tutto da studiare e capire bene, con senso critico, il processo di americanizzazione dei territori europei.

 

Terzo. La fase multicentrica non necessariamente deve sfociare nella terza guerra mondiale (la fase policentrica) ma può assestarsi, con un accordo di spartizione del mondo, tra le potenze mondiali così come storicamente è già avvenuto (Graham Allison). La spartizione del mondo tra le potenze egemoni (con le loro aree di influenza) è la logica conseguenza di un modello di sviluppo e dei relativi rapporti sociali basati sul potere e sul dominio e, questo, riguarda sia le potenze occidentali (alla faccia della cosiddetta democrazia!), sia le potenze orientali (alla faccia del cosiddetto comunismo!).

Pertanto si pone il problema della ricerca di un altro modello di sviluppo, di altri rapporti sociali a partire dai territori nazionali con le loro aggregazioni (aree, regioni, poli, altro) e del soggetto sessuato che si faccia carico di tale modello sociale di sensatezza della vita (individuale e sociale) a partire dalle peculiarità territoriali e storiche. Intendo il territorio come l’insieme delle relazioni dei processi di modi di produzione e riproduzione della vita umana sessuata e dei processi di produzione e riproduzione della vita della natura (animata ed inanimata). L’equilibrio/squilibrio tra i suddetti processi è dato prevalentemente dall’intervento dell’essere umano sessuato storicamente dato (ma queste sono questioni profonde da ri-costruire con autocoscienza critica sessuata, nella logica di un lavoro multidisciplinare).

 

Quarta. Le relazioni sociali sono fondate sul potere e sul dominio. Il potere si forma nelle diverse sfere della società (economica, politica, culturale, istituzionale, territoriale, eccetera) tramite l’accumulazione del denaro (inteso come rapporto sociale) con modalità diverse. Nelle fasi della società capitalistica (monocentrica, multicentrica, policentrica) le sfere sociali assumono peso e valenza specifica ed esprimono i loro agenti strategici (Gianfranco La Grassa) che vanno a costituire quelli egemonici che praticano il dominio (inteso in senso gramsciano) dell’intera società. Dominio che viene realizzato ed esercitato attraverso lo strumento dello Stato con le sue articolazioni territoriali dove i suddetti agenti strategici egemonici producono, gestiscono ed eseguono le proprie strategie.

 

Quinta. La pericolosità degli Usa è data dal fatto che, per la loro storia, non accettano una condivisione del dominio mondiale con altre potenze. Il suo dominio è assoluto, essi hanno “una missione speciale” da compiere e sono pertanto l’unica “nazione indispensabile” al mondo (Costanzo Preve) e per questo impongono un modello sociale a loro immagine e somiglianza. La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza. (Alain Badiou).

Al contrario, la Russia e la Cina, che sono per un mondo multicentrico a partire dalla affermazione della propria sovranità, hanno un diverso approccio per l’uso della guerra; per esempio, mentre per gli occidentali [gli Usa] la guerra inizia quando la politica si ferma, [al contrario, per i russi] la guerra in Ucraina segue un’ispirazione clausewitziana: la guerra è la continuità della politica e si può passare in modo fluido dall’una all’altra, anche nel corso dei combattimenti. Questo crea pressione sull’avversario e lo spinge a negoziare (Jacques Baud); e per la modalità delle relazioni tra nazioni (basti pensare al funzionamento dell’aggregato geoeconomico BRICS, BRICS+; al coordinamento dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, SCO; alla cooperazione dell’Unione Economica Euroasiatica, UEE; eccetera): “trattano i Paesi come soggetti legittimi, con esigenze e aspirazioni legittime” (Piero Pagliani).

Per queste ragioni bisogna ritenere la potenza Usa pericolosa per il mondo intero e pertanto ogni sforzo va fatto per piegarla verso un mondo multicentrico.

 

Sesta. La crisi della potenza egemone di coordinamento mondiale, gli Usa, è una crisi di declino irreversibile che riguarda soprattutto l’Occidente per la penetrazione nei territori del loro modello di sviluppo e dei relativi rapporti sociali. Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente: non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle armi moderne, la sua stessa esistenza), ma le teorie scientifiche, i processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di comportamento penetrano, per il bene come per il male, tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente non appaia (Raimondo Luraghi).

Quindi non è solo la crisi degli Usa ma è una crisi di civiltà dell’Occidente che si evidenzia con maggiore decisione nella fase multicentrica (una crisi d’epoca, di passaggio verso nuovi equilibri mondiali e nuovi modelli economici e sociali). Una crisi che evidenzia il nichilismo occidentale della ricerca del post-umano (intelligenza artificiale, rivoluzione digitale, robotizzazione, recisioni delle radici umane e naturali, eccetera) e non riesce ad esprimere una nuova idea di sviluppo economico e sociale tendente al benessere individuale e sociale. La civiltà ha bisogno di ben altro progresso, di ben altra scienza (vanno ripensati sia la sua produzione sia i suoi obiettivi, tenendo presente la sua non neutralità: abbiamo raschiato il fondo facendo passare per scienza la produzione dei falsi vaccini per combattere la malattia da covid-19 scaturita da un virus Sars-Cov-2 di origine artificiale usato per una guerra batteriologica prevalentemente statunitense) che aiutino a produrre sensatezza individuale e sociale affrontando i bisogni fondamentali della produzione e riproduzione della vita, innervando e rispettando le leggi della natura (di cui non sappiamo molto!).

 

Settima. Quale strumento (Antonio Gramsci, Massimo Bontempelli e Costanzo Preve), quale forza nuova (Gianfranco La Grassa) occorre per ridare senso e slancio ad un lavoro collettivo? È chiaro che non siamo più in grado di svolgere, né tanto meno di fare, sintesi politica dei diversi saperi multidisciplinari che interpretano la realtà. Il livello dell’attuale degrado culturale è elevato in confronto ad altre crisi d’epoca, basti osservare come si fa ricerca nelle Università, diventate luoghi istituzionali di ricerca di finanziamenti, di denaro per i propri particolari poteri e non luogo di ricerca per capire, comprendere, interpretare e cambiare la realtà per migliorarla. Questo deve far riflettere sulla deriva delle relazioni umane individuali e sociali anche in termini di intelligenza collettiva; se penso alle crisi d’epoca delle due guerre mondiali (la lunga fase policentrica) dove la maggioranza della popolazione aveva una intelligenza derivata dalla pratica (che è già teoria e prassi) e dalla volontà di dare sensatezza alla vita, dove il sapere popolare era uno strumento importante nei rapporti sociali storicamente dati.

 

Ottava. Che fare? Intanto bisogna a) pensare ad una articolazione sessuata dell’intellettuale collettivo (in tutto il mondo siamo sempre in due), b) ri-prendere un processo di autocoscienza critica del partire da sé (Carla Lonzi, Luce Irigaray, Luisa Muraro) in tutte le relazioni individuali e sociali e, qui, noi uomini dobbiamo andare a lezione dal pensiero femminile (soprattutto quello di derivazione marxiana). Noi uomini (a prescindere dai rapporti di potere), con il nostro ordine simbolico della società cosiddetta capitalistica, abbiamo, parafrasando Luigi Pirandello, troppe maschere e non siamo più in grado di mostrare i volti.

 

 

* L’epigrafe è tratta da Federico Schiller, La congiura del Fiesco- I Masnadieri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1924, pag. 132.

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Slittamento di paradigma Paradossi, nonsense e pericoli di una svolta storica, di Piero Pagliani

Su questo link http://italiaeilmondo.com/2023/02/28/la-svolta-storica-della-fase-multicentrica-di-luigi-longo/ una prima considerazione sul saggio di Pagliani. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Nell’analisi che segue enuncio quelli che mi sembrano dei dati di fatto, tiro alcune somme, pongo una domanda per rispondere alla quale avanzo un’ipotesi sull’oggi e due sul domani concludendo con un’assunzione che in modo irrituale espongo alla fine e non all’inizio. In specifico:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo).

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

 

1. L’ammiraglio statunitense Robert Bauer, presidente del Comitato militare dell’alleanza Atlantica, ha dichiarato alcuni giorni fa che la Nato «è pronta per un confronto diretto con la Russia». Questa dichiarazione segue di pochi giorni la previsione del generale a 4 stellette Mike Minihan riguardo una guerra con la Cina tra due anni. Immediatamente dopo il segretario della Nato, Jens Stoltenberg ha iniziato a preparare il terreno per trascinarci piano piano nel delirio ventilando che sebbene la Cina non sia un avversario della Nato, «la sua crescente assertività e le sue politiche coercitive hanno delle conseguenze». Parole che, in un gioco di squadra, si inserivano nella scia delle accuse di Ursula von der Leyen contro Pechino, rea di voler «rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio [così che] dobbiamo rafforzare la nostra resilienza», sottraendoci in modo crescente alla dipendenza dal commercio con la più grande economia mondiale a parità di potere d’acquisto (PPP) [1].

Seppure la minaccia di confronto diretto con la Russia e l’ipotesi di guerra con la Cina sembrino due follie o addirittura due nonsense, tuttavia hanno entrambe, separatamente e congiuntamente, una logica. O meglio una doppia logica i cui due versanti non sono sempre semplici da discernere, sia per la confusione di interessi che essi rappresentano, sia per la situazione caotica della politica statunitense.

Le due dichiarazioni hanno evidentemente degli scopi, non sono state rilasciate con leggerezza.

Uno di essi è mantenere i membri della Nato in stato di soggezione tramite una sorta di mobilitazione permanente e l’evocazione continua di nemici comuni. E’ una mossa classica, prima l’Unione Sovietica, poi il terrorismo, oggi la Russia e domani la Cina. Tuttavia ripetere la stessa mossa in condizioni drasticamente mutate può portare a risultati opposti a quelli sperati.

Io sono convinto che alle varie cancellerie europee arrivino (anche) notizie veritiere su cosa sta succedendo nel mondo e in Ucraina in specifico [2]. La domanda più immediata è allora: a parte il governo polacco benedetto da Radio Maria, quanti paesi della Nato se la sentono di fare una guerra senza speranza alla Russia per difendere gli interessi di alcune élite cosmopolite che fanno capo agli Stati Uniti e distruggere definitivamente i propri di interessi?

Ce la sentiremo di difendere la traballante egemonia mondiale di un Paese disastrato, che sta perdendo la sua ciambella di salvataggio, cioè il predominio del Dollaro, e che ci sta spingendo alla rovina assieme a lui e prima di lui? [3]

Ce la sentiremo di andare a combattere a migliaia di chilometri di distanza, in Ucraina e nel Mar Cinese Meridionale, minacciando l’integrità della Russia e della Cina nei loro stessi giardini di casa se non addirittura sul loro stesso territorio e sui loro mari? Che tradotto vuole anche dire: ce la sentiremo di sfidare per l’ennesima volta le lezioni della Storia, proprio mentre la congiuntura storica stessa è tutta a nostro sfavore?

 

2. Le risposte dipendono dal concorso di ciò che succede in varie dimensioni.

Una dimensione è legata al caso (qualche incidente può sempre esserci quando si gioca con l’alta tensione, qualche disastro naturale può sempre avvenire), mentre un’altra dimensione è legata alla personalità e alla caratura dei governanti occidentali, purtroppo drammaticamente bassa in termini di rettitudine, preparazione, capacità di analisi, e consiglieri di cui si circondano. Possiamo chiamarle “gruppo di dimensioni A” (da “aleatorie”, anche se in realtà sono semi aleatorie, dato che raramente i “disastri naturali” sono esclusivamente naturali ed è il sistema che seleziona le classi dirigenti, le coopta). Un’altra dimensione riguarda i rapporti di forza militari tra la potenza delle parti in conflitto. La chiameremo “dimensione V” (da “violenza” – credo che sia il termine più onesto). Collegata ad essa abbiamo i rapporti di forza economico-finanziari che costituiscono la “dimensione D” (da “denaro”). Infine abbiamo la differenza delle loro strutture sociali e politiche, una dimensione che non è meccanicamente deducibile dalla dimensione D, ma è ovviamente ad essa collegata; la chiameremo “dimensione T” (da “territorio”). Alla base di tutto ci sono i differenti rapporti sociali (chiamati spesso, in modo inesatto, “modelli di sviluppo”).

Collettivamente possiamo allora chiamare il compito di analisi “AVDT” e consiste nello sbrogliare il groviglio esistente individuando dove agiscono, come agiscono e come evolvono le varie dimensioni sopra accennate, descrivendo al meglio tramite esse le parti che si contrappongono, i motivi della contrapposizione (le sue origini storiche e logiche) e, infine, cercare di capire cosa uscirà da questo confronto, non per divinazione ma per applicazione della razionalità all’analisi dei processi in essere.

Un compito difficile, ma per fortuna ci sono lavori che aiutano a non brancolare del tutto nel buio. Sto parlando delle classiche analisi di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Karl Polanyi, di Giovanni Arrighi e Samir Amin, della coppia Shimshon Bichler-Jonathan Nitzan, di David Harvey, di Jason Moore, di Gianfranco La Grassa e di Michael Hudson e, in Italia, delle recenti proposte interpretative di Raffaele Sciortino, Pierluigi Fagan, Gianfranco Formenti, del gruppo Brancaccio-Giammetti-Lucarelli, per fare alcuni nomi e, di nuovo, di Michael Hudson e di altri autori, spesso apparsi su Sinistra-in-rete, che coi loro contributi permettono di gettare luce su un aspetto o l’altro di questo complesso problema [4].

Purtroppo, non essendoci un organismo coordinante, questi contributi non riescono a consolidarsi in una lettura, per l’appunto, organica. E questo è un problema squisitamente politico. Se la guerra in Ucraina ha fornito la scusa per ampliare e approfondire l’emarginazione e addirittura la criminalizzazione delle voci dissenzienti, la nostra capacità di opporci a quello che ormai a tutti gli effetti è un regime totalitario, nel senso che impone una visione totale del mondo (sociale, politica, economica, scientifica e valoriale), è indebolita dalla suddivisione in una miriade di “voci” che non si coordinano nelle modalità di presentazione e rimangono scollegate [5]. Queste voci presentandosi prive di un moderatore politico che quanto meno le inquadri e le metta in correlazione le une con le altre, appaiono isolate anche quando concordano tra loro e anche quando sono offerte in un unico involucro, come ad esempio un medesimo portale (cosa in sé meritoria). Anche questo è un segno dei tempi.

Oltre che a rimandare alla bibliografia (che si trova agevolmente sul web) dei singoli autori sopra citati e a raccomandare la visita a portali come questi, l’esposizione che segue è in forma di note dove le varie dimensioni saranno implicite e non chiamate per nome.

 

3. La Nato che affronta direttamente la Russia e muove guerra alla Cina è un’idea folle. Tuttavia è veramente il sogno proibito dei crazy freaks neo-liberal-con al potere attualmente a Washington. Per gli ambienti statunitensi meno psicopatici è invece una minaccia per cercare di compattare gli alleati, far vedere al mondo che non si intende cedere il posto di comando e infine per spaventare Mosca e cercare di farle accettare un compromesso ed evitare il completo collasso dell’Ucraina (con eventuale spartizione tra Russia, Polonia, Ungheria e Romania) e quindi l’umiliazione dell’Alleanza Atlantica.

Una richiesta di compromesso che Mosca ha già rinviato al mittente perché giudicata poco seria, specialmente dopo l’ammissione occidentale (Hollande e Merkel riguardo gli accordi di Minsk) che noi tradiamo i patti in modo premeditato (da parte Russa potrebbe essere una scusa, o meglio un utilizzo ai propri fini della sbalorditiva provocazione franco-tedesca istigata dalla Nato).

Bisogna anche sottolineare che le politiche di sicurezza nazionale svolgono un ruolo di potente barriera unitaria protezionistica militare ed economica. Da questo punto di vista, per gli Stati Uniti il conflitto attuale è un mezzo per perseguire un fine economico più ampio dell’ovvio arricchimento dell’apparato industriale-militare: cercare di re-industrializzarsi ai danni principalmente dell’Europa.

Dualmente, l’innalzamento di una barriera unitaria protezionistica militare ed economica è stata per la Russia e la Cina una reazione obbligata all’aggressività statunitense, che ha creato ex novo percorsi che non erano previsti, ha accelerato tendenze latenti che avevano altre tempistiche o sbloccato processi che altrimenti difficilmente avrebbero visto la luce. E tutto questo si riversa e riverbera nella configurazione sociale, economica e politica dei due principali Paesi competitor degli Stati Uniti.

Siamo di fronte alla “larger picture”, cioè al quadro di quanto succede al di fuori dell’Ucraina, il quadro che spiega la guerra e che a sua volta è influenzato da ciò che avviene sui campi di battaglia. Per inserire il conflitto armato stesso nella larger picture occorre per prima cosa, accettare quanto segue:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Questo è uno dei monopoli fondamentali del dominio mondiale. Gli altri sono quello dell’accesso alle fonti energetiche e alle altre risorse fondamentali (come il settore chimico-agricolo-farmaceutico), quello dei sistemi finanziari e di pagamento, quello della cultura e dell’informazione/comunicazione e infine quello dell’innovazione scientifica e tecnologica. Monopoli diversi ma collegati tra loro.

Questo collegamento spiega la famosa “resilienza” (termine che detesto) della Russia:

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

E’ un’osservazione che vale in questo caso, non in generale. Un paradosso, nel senso di contraddizione reale, che non può essere né concepito né spiegato se non si ha una visione sistemica degli eventi. Infatti gli esperti occidentali di scuola canonica (economisti, politologi, geostrateghi e chiromanti d’altro tipo) si sentono spersi: “Le sanzioni non funzionano. Ma come?”. E cercano spiegazioni nelle minuzie.

Il fatto è che attorno a questa guerra tutto il sistema-mondo si muove, e velocemente, per un terzo motivo:

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Se non si capisce, o si fa finta di non capire, che per la Russia questa guerra è esistenziale sarà un disastro di ampiezza mai vista perché le guerre esistenziali la Russia le ha sempre vinte indipendentemente dal prezzo da pagare. Non solo dobbiamo ricordarci di Napoleone, di Hitler o dei Cavalieri Teutonici, ma è meglio che Varsavia e i Paesi baltici si ricordino di come sono finite le mire espansionistiche di Sigismondo III e della sua Confederazione Polacco-Lituana durante il “Periodo dei Torbidi” quando pure la Russia versava in stato di debolezza [6].

Ma Mosca è anche perfettamente consapevole che questa guerra si inserisce diritta nel cuore della crisi sistemica ed è quindi destinata a rivoluzionare il sistema-mondo. Basta rileggersi uno qualsiasi dei discorsi di Putin dell’ultimo anno. Anche gli Stati Uniti lo sanno perfettamente e ciò lascia sbalorditi, perché la potenza egemone non poteva concepire una strategia peggiore:

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ciò che è stupefacente è che questo esito era stato ampiamente previsto con molta precisione da uno dei maggiori geopolitici statunitensi, Georg Kennan, uno dei “padrini” della Nato, che già nel 1997 aveva avvertito: «L’opinione, per dirla senza mezzi termini, è che l’espansione della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana nell’intera era post-guerra fredda. Ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionaliste, antioccidentali e militariste dell’opinione pubblica russa, abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa, riporti l’atmosfera della guerra fredda nei rapporti Est-Ovest, e spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento» [7].

Durante la guerra esistenziale contro Napoleone la Russia si compattò attorno allo zar Alessandro I Romanov. Durante la guerra esistenziale contro Hitler la Russia si compattò attorno al segretario del Partito Comunista Josif Stalin. Oggi nella guerra esistenziale contro la Nato, la Russia si è compattata attorno al presidente Vladimir Putin. Difficilmente si può sostenere che non fosse prevedibile.

Questa strategia suicida dice pressoché tutto dello stato misto di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva della leadership occidentale. Uno stato ormai patologico dovuto a un gioco di hubris e di disperazione che avvitandosi una sull’altra rendono impossibile l’elaborazione di un percorso alternativo, di una via di fuga non distruttiva.

 

4. Se dunque la nazione russa si compatta attorno ai suoi leader per combattere una guerra esistenziale, attorno alla guerra in Ucraina in quanto guerra sistemica la larger picture si muove.

Si pensi, ed è un solo esempio, alla recente “Dichiarazione dell’Avana” dei banchieri centrali, presidenti e parlamentari di 25 Paesi riuniti a Cuba il 27 gennaio scorso. E’ un programma per la creazione di un blocco planetario «led by the South and reinforced by the solidarities of the North».

«Il Congresso riconosce l’opportunità critica offerta dalla presidenza cubana del Gruppo dei 77 più la Cina per guidare il Sud fuori dalla crisi attuale e incanalare gli insegnamenti della sua Rivoluzione verso proposte concrete e iniziative ambiziose per trasformare il più ampio sistema internazionale». «La liberazione economica non sarà concessa ma conquistata».

Quando ci entrerà in testa che non ci sopporta più nessuno e facciamo di tutto per non essere sopportati? Quando capiremo che la maggior parte del mondo, in Ucraina ci vuole vedere umiliati, anche chi all’ONU vota secondo creanza o pressione?

La ribellione al cosiddetto “ordine internazionale” ha come protagonisti Paesi che si sentono minacciati e Paesi che si sentono soffocati dall’architettura di potere occidentale. Il verbo “sentire” è però impreciso, perché le minacce occidentali sono da tempo aperte, esplicite, spudorate, così come lo è la rapina. Dietro a questo disastro c’è l’abnorme finanziarizzazione dell’economia occidentale che è stata la via d’uscita “naturale” (in senso capitalistico) dalla crisi di sovraccumulazione degli anni Settanta. Ovviamente esiste un rapporto tra la disconnessione dell’economia dai valori reali e la disconnessione del pensiero occidentale dalla realtà. Lo studio dei suoi particolari è un tema seducente ma purtroppo non ho sufficienti conoscenze per affrontarlo e lo lascio quindi ad altri [8].

Il grosso ostacolo a una “revisione” interna all’Occidente della sua politica, suicida oltre che omicida, è dunque un blocco cognitivo e culturale connesso all’esasperante livello di finanziarizzazione raggiunto dall’economia. La bolla finanziaria incombe come un mostruoso ordigno nucleare pronto a scoppiare. Nel tentativo di depotenziare lo scoppio, le élite finanziarie obbligano l’ambiente esterno al centro capitalistico occidentale ad estrarre quanto più profitto e a sequestrare quanta più ricchezza sociale sia possibile per devolverli al centro egemone in crisi in cui la rendita finanziaria ha sostituito l’estrazione di profitto alimentando la sovraccumulazione, e parimenti obbligano l’Occidente stesso a un’operazione di auto-cannibalizzazione che consiste nell’avvitarsi in politiche di austerity e deflazione salariale e nella privatizzazione selvaggia del dominio pubblico (welfare, capitale sociale fisso, servizi).

Se l’inizio della crisi sistemica fu segnalato dal decennio di stagflazione (stagnazione con inflazione, superata dall’avvio della finanziarizzazione dell’economia), oggi, dopo poco più di mezzo secolo, nello show-down della crisi concorrono stagnazione, inflazione e finanziarizzazione, un triangolo devastante esasperato dallo scardinamento della globalizzazione dovuto allo scontro sistemico stesso.

Oggi la finanziarizzazione non può più essere un rimedio perché è stata utilizzata fino all’eccesso (come già avvertiva Thomas Friedman nel 2004 sul New York Times: “gli elefanti possono volare, ma solo per poco tempo” [9]). Non solo, ma il Paese dove oggi sono concentrati i mezzi di pagamento mondiali, la Cina, è largamente al di fuori del raggio d’azione politico imperiale e quindi della possibilità di far fagocitare le sue risorse dal sistema finanziario occidentale ormai fuori controllo.

Ecco allora un disperato tentativo imperiale di re-industrializzazione che essendo ostacolato dalla neo-compartimentazione dell’economia mondiale alimentata dagli scontri geopolitici, avviene ai danni dei vassalli in Europa e in Giappone e deve fare i conti con ritardi tecnologici, con mancanza di materie prime e con perdita di know how [10].

Negli Stati Uniti si rendono conto dell’impossibilità di una strategia coerente e solida per mantenere l’egemonia mondiale. Esclusa una guerra nucleare dalla quale i generali sanno perfettamente che gli Stati Uniti uscirebbero totalmente distrutti, l’unica speranza sarebbe un collasso interno della Russia e della Cina, inverosimile per mille ragioni, storiche, geografiche, antropologiche, culturali, economiche e politiche ampiamente studiate.

L’unica regione che è ripetutamente collassata nella Storia è stata l’Europa, il continente più violento del pianeta, suddiviso in mille poteri e con la possibilità idro-orografica di fare e disfare mille confini. Gli Stati Uniti si trovano in una situazione, anche geografica, più vantaggiosa di noi, ma il suo sistema economico-sociale ha assunto da subito un andamento “estrovertito”, cioè dipendente dalla conquista diretta o indiretta di crescenti spazi esterni, nonostante spesso si parli delle tendenze “isolazioniste” statunitensi. L’espansionismo è un fenomeno che era comprensibile per la piccola Inghilterra ma è abbastanza sorprendente in una nazione che nasce e si consolida su spazi enormi (“confederazione” e “impero” erano termini intercambiabili per i fondatori degli Stati Uniti). La spiegazione più verosimile è che esso sia dipeso dalla grande capacità di accumulazione degli Stati Uniti messa definitivamente in moto a livello internazionale proprio dal periodo protezionistico che seguì quella Guerra Civile in cui furono sconfitti gli interessi legati alla preminenza dell’impero britannico e alla triangolazione atlantica (manufatti inglesi scambiati con schiavi africani, schiavi africani scambiati con prodotti tropicali americani, prodotti tropicali americani scambiati con manufatti inglesi). E’ la ragione per cui considero la fine della Guerra Civile Americana l’inizio dell’era contemporanea, o meglio ancora dell’era “attuale”.

 

5. La necessità di “estroversione” degli Stati Uniti si scontra ora con la resistenza di due enormi competitor che storicamente non sono dipesi da un’esigenza simile. Ciò che sovente viene chiamato “imperialismo russo” e “imperialismo cinese” sono in realtà relazioni economiche internazionali di natura differente. Ad esse viene dato l’appellativo di “imperialismo” per pigrizia, per comodità, per incapacità di concepire fenomeni diversi da quelli che hanno caratterizzato l’Occidente nella sua particolare traiettoria storica. Le cose stanno in modo differente e non casualmente Giovanni Arrighi intitolò la sua ultima monografia “Adam Smith a Pechino” e non “Karl Marx a Pechino”. Per quanto riguarda la Russia mancano analisi precise che comunque non dovrebbero sottostimare l’influenza di oltre 70 anni di bolscevismo. La stessa reazione di Putin alla shock therapy messa in atto da Eltsin ha risentito, sebbene in modo altalenante, di quella tradizione e dell’attaccamento della popolazione russa ad essa (innanzitutto ai servizi statali e all’assistenza sociale, ma anche ideale, a giudicare dal fatto che il Partito Comunista della Federazione Russa col 19% è il secondo partito [11]).

L’ultima grande stagione di estroversione statunitense è stata la cosiddetta “globalizzazione”, «another name for the dominant role of the United States», come affermò candidamente Henry Kissinger in una conferenza al Trinity College di Dublino il 12 ottobre del 1999. Ma la globalizzazione ha avuto come esito inintenzionale proprio la crescita dei grandi competitor strategici degli Usa e dei competitor minori che attorno ad essi si stanno aggregando. Questo ha portato a un deterioramento della globalizzazione e a una neo-compartimentazione del sistema-mondo dove le economie giovani e dinamiche stanno da una parte e quelle mature e obsolescenti dalla parte opposta.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo)[12].

Il deterioramento della globalizzazione ha provocato quello dei processi di alimentazione delle prime da parte delle seconde. Se la globalizzazione serviva a sopperire a ciò che non potevano più fare le singole società nazionali occidentali né il loro assemblaggio/coordinamento nell’economia-mondo centrata sugli Stati Uniti, ovvero “pompare energia” sufficiente dai processi di creazione del valore a quelli di accumulazione monetaria, il suo scardinamento sta obbligando il centro dominante a ricorrere alla “accumulazione per espropriazione” ai danni dei suoi stessi vassalli. Ma facendo ciò gli Stati Uniti si stanno ritraendo dalla posizione di Paese “egemone” per assumere le vesti di Paese “dominante”. Se l’egemonia è sempre “corazzata di coercizione”, oggi gli Stati Uniti devono usare un massimo di forza dato che ormai godono di un minimo di consenso, pur avendo ancora una notevole presa culturale [13]. Detto in termini generali, il problema che si è trovato di fronte l’Occidente è stato l’impossibilità di inglobare altre economie-mondo nella propria, un’impossibilità di tipo geopolitico (la sconfitta nel Vietnam è forse stato il suo segnale più precoce).

Il problema che il mondo invece si trova oggi di fronte è proprio l’impossibilità dell’economia-mondo occidentale di coesistere con altre economie-mondo, un’impossibilità che ha le sue radici nella logica dei processi di accumulazione che si sono storicamente strutturatati in Occidente.

L’Occidente è quindi in preda a un giro vizioso perfetto: i tentativi di bloccare l’ascesa dei competitor inducono un indebolimento della sua economia e un approfondimento della crisi e questo diminuisce la sua capacità di contrastare i competitor. O l’Occidente cambia strategia, ovvero accetta di negoziare la propria posizione in un mondo multipolare, pagando ovviamente un prezzo in termini di privilegi, comunque destinati a sparire con la forza, o la situazione diventerà sempre più disperata. E questo è pericolosissimo. Il cambio di strategia deve quindi essere rapido.

La disperazione che serpeggia tra le élite occidentali ha infatti già fatto evaporare le loro residue capacità diplomatiche/egemoniche, quasi che si fosse ormai consapevoli che è meglio essere espliciti e brutali dato che non c’è più possibilità di far identificare il bene degli Usa col bene dell’Occidente e il bene dell’Occidente con quello di tutti.

Se si leggono i rapporti dell’FMI e delle altre istituzioni preposte all’ordine mondiale occidentale, si vede un quadro di desolazione che grazia solo pochi Paesi [14]. La maggior parte delle nazioni del mondo sono considerate un “problema”. Problema che deve essere risolto con macellerie sociali e, in definitiva, con l’aggravamento del problema stesso, in un giro vizioso a beneficio dei soliti pochissimi noti.

Se durante la reaganomics un Paese in via di sviluppo dopo l’altro dovette ricorrere ai prestiti delle banche di New York e Londra che riciclavano i petrodollari, accettando di pagare tassi d’interesse inauditi, mentre oggi invece la coda è a Pechino e anche a Mosca, il motivo è proprio questo: in Cina e in Russia non sono considerati come dei problemi e dei polli da spennare. Il BRICS, il BRICS+, la SCO, l’Unione Economica Eurasiatica, trattano i Paesi come soggetti legittimi, con esigenze e aspirazioni legittime.

Cos’altro è l’architettura monetaria che da alcuni anni viene studiata da Sergej Glazyev, il responsabile per l’integrazione e la macroeconomia della Commissione Economica Eurasiatica, l’organo esecutivo dell’Unione Economica Eurasiatica, e che provvisoriamente possiamo definire “Diritti Speciali di Prelievo Multipolari”, se non una sorta di Bancor, quella moneta orientata al debito, cioè ai Paesi che devono svilupparsi, anche in deficit, e non sottoposta a una singola nazione, proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata a favore del Dollaro (il gold-dollar exchange standard), ovvero una moneta internazionale orientata al credito e al sostegno geopolitico di una parte sola, gli USA, che allora erano la più grande potenza creditrice del mondo?

Il BRICS, il BRICS+, la SCO e la UEE sono impetuosi corsi d’acqua che finiranno per confluire in un unico fiume, assieme al G77, la ridestata Organizzazione dei Paesi non Allineati. Ridestata, che lo si voglia o no, dall’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina. Un fiume rappresentabile (e non certo metaforicamente) con le Nuove Vie della Seta, la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, alla quale già aderiscono 140 Paesi in Asia, Europa e America Latina. Un’area potenzialmente allargabile a quell’80% di Paesi che non applicano nessuna sanzione alla Russia.

 

6. Gli Stati Uniti, o meglio le sue élite, o meglio ancora le sue élite neo-liberal-con legate allo strapotere della finanza e/o a una mentalità eccezionalista, le élite cresciute, spesso anche anagraficamente, e diventate potentissime con la crisi sistemica, guardano a questi processi non capendoli, considerandoli semplicemente degli insulti a un ordine “naturale” che non poteva e non doveva essere perturbato.

E li guardano sempre più impotenti e spaventate. E questo è molto pericoloso, perché può portarle ad atti disperati di cui nemmeno riuscirebbero a calcolare tutte le conseguenze, per via della loro arroganza e dalla loro inesistente, insufficiente o inadatta preparazione culturale e intellettuale.

Che ciò sia evitato dipende soprattutto da come agirà quella parte degli Stati Uniti – e quella parte dei suoi interessi – che vede meno pericoloso e più conveniente adattarsi a un mondo multipolare che cercare di lanciarsi a testa bassa contro il muro di contraddizioni politiche, economiche e militari che la crisi e la sua gestione neoliberista hanno eretto. Si farebbe per lo meno guadagnare al mondo tempo prezioso anche se una soluzione più duratura richiederà un patto che ponga la società al centro. E lo stesso vale per l’Europa.

A questo punto si passa a un altro tema d’analisi che deve rispondere alla domanda seguente:

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Innanzitutto dobbiamo domandarci se tutti questi soggetti nazionali che si stanno ribellando all’ordine globale occidentale sperano che la Russia, o la Cina se per questo, prenda il posto degli Stati Uniti come nazione egemone. La risposta molto semplice è No. Ma questo non sembra nemmeno essere nelle intenzioni. Saggiamente, perché la Storia è arrivata a un punto particolare:

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

E’ un dato storico. Si pensi all’egemonia statunitense entrata economicamente in crisi dopo meno di trent’anni, e si sta parlando di una potenza di primissimo livello che alla fine della II Guerra Mondiale concentrava quasi tutti i mezzi di pagamento mondiali e aveva una produttività che surclassava il resto del globo messo assieme.

La Russia e la Cina vedono perfettamente cosa sta succedendo agli Stati Uniti (ad esempio al suo Dollaro, una volta padrone del mondo). E non vogliono ripetere l’esperienza. Comunque per la Russia i costi sarebbero inaffrontabili se volesse sostituirsi agli USA (tra l’altro litigherebbe subito col suo principale alleato, la Cina, a cui si applica lo stesso ragionamento). Ne segue un’ipotesi:

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Se ciò è confermato, come molte cose fanno pensare, ci sarà (o dovrebbe esserci) di conseguenza un drastico cambio di paradigma sia nei rapporti internazionali sia nei rapporti economico-sociali interni alle singole nazioni, due aspetti dialetticamente collegati, perché da cinquecento anni a questa parte un’economia-mondo è proceduta sempre attorno a un centro egemone, si identificava con esso.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

In Russia la guerra stessa sta facendo rivedere il “modello” economico. È troppo presto per un giudizio, ma le cose stanno cambiando, ad esempio riguardo al ruolo dello Stato. Sono movimenti da tener d’occhio in modo critico.

Siamo di fronte a una ribellione planetaria che obbligherà i futuri studiosi a rivedere la periodizzazione storica e qualche persona non riflessiva o con scarsa capacità di raziocinio potrebbe chiedersi se io, che sono e mi considero occidentale, faccio il tifo per una parte. Di sicuro non faccio il tifo per l’ipocrisia dei bombardatori “umanitari”, per chi ritiene che mezzo milione di bambini morti in Iraq sono “un prezzo giusto”, per chi dal 1945 ad oggi ha provocato con le sue guerre 20 milioni di morti, per chi a Washington dava l’ordine di bombardare con droni matrimoni in Afghanistan, per chi ha massacrato milioni di civili in Vietnam. E non faccio il tifo per chi sventola la svastica.

Faccio allora il tifo per il compimento di un processo storico che da oltre due decenni ritengo inevitabile? Che senso avrebbe? Sarebbe come fare il tifo per il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse. Sarebbe del tutto insensato. Certo, quando torna la luce del giorno si possono fare cose impossibili durante la notte al buio. Ma, per l’appunto, tutto dipende da cosa si fa.

E’ troppo presto per prevedere che tipo di architettura multipolare nascerà dalla ribellione in corso contro il plurisecolare ordine internazionale occidentale.

Posso solo fare ipotesi in base alla Storia e alla logica, ma credo che nessuno possa onestamente dire che le cose sono chiare. Ci separano ancora anni da una bozza di progetto alternativo sufficientemente precisa, e anni per implementarlo, anni che saranno pieni di eventi difficili da prevedere. Anni in cui questo conflitto si amplierà e di conseguenza si approfondirà. Un decennio? Due decenni?

Sulla carta dovrebbe uscirne un sistema più equo. Ma quali livelli di equità sono necessari?

Una cosa per me è certa:

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

Non tifo dunque perché venga il giorno. Il Sole sorgerà da solo, non ha bisogno di incoraggiamenti. Io posso solo sperare che durante la notte si smetta di uccidere, si cessi di provocare sofferenze e che prevalgano il buon senso e la pietà.

Tifo invece perché durante il giorno, per parafrasare Karl Polanyi, si riesca a trovare il modo perché la società con mercato (cosa naturale) prenda il posto della società di mercato (cosa innaturale, dove i rapporti tra esseri umani sono sostituiti dai rapporti tra merci).

Altrimenti, come si suol dire, in poco tempo saremmo da capo a quindici e tutte queste sofferenze sarebbero servite solo a mettere alla luce un essere ancor più mostruoso.

«Superare il capitalismo è dunque non soltanto “correggere la ripartizione del valore” (ciò che produce solo un immaginario “capitalismo senza capitalisti”) ma anche liberare l’umanità dall’alienazione economica»(Samir Amin).


NOTE
[1] Qui le dichiarazioni di Bauer. Qui le dichiarazioni di Minihan. Qui le dichiarazioni di Stoltenberg. Per quelle della von der Leyen si veda qui e qui. I discorsi di Ursula von der Leyen sono casi di studio esemplari sul tema “ipocrisia”. Notevole, ad esempio, questo passaggio: «Il sabotaggio del Nord Stream ha dimostrato che dobbiamo assumerci maggiori responsabilità per la sicurezza della nostra infrastruttura di rete». Realmente fantastico: persino i sassi, anche quelli americani, sanno che questo sabotaggio (e disastro ambientale) è stato opera di Stati Uniti/Nato. Ai sassi che ancora non lo sanno consiglio l’inchiesta investigativa del Premio Pulitzer Seymour Hersch. Questa inchiesta è piena di dettagli che possono essere conosciuti solo da “insider”. Che alcune “gole profonde” abbiano permesso in questo momento a Hersh di produrre il suo “scoop”, la sua “bombshell”, è evidente sintomo di una lotta interna all’establishment statunitense. Mi è immediatamente ritornato in mente lo scandalo Watergate e la sua copertura da parte di Bob Woodward e Carl Bernstein per il “Washington Post” (da sempre legato alla CIA) e dallo stesso Hersh per il “New York Times”. In quel caso si è saputo che la “gola profonda” era niente meno che il vicedirettore della CIA, Mark Felt.
Per quanto sia incredibile, persiste ancora un mito condensato nella celeberrima frase «È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!» (Ed Hutcheson-Humphrey Bogart alla fine del film di Richard Brooks L’ultima minaccia, 1952): la (libertà di) stampa può mettere in ginocchio il potere. Vedremo in un’altra nota che fine ha fatto la libertà di stampa negli USA e in Occidente, ma anche all’epoca del Watergate ci voleva ben altro che un’inchiesta-bomba, come ha ammesso la stessa editrice del “Washington Post”, Katharine Graham: «A volte la gente ci accusa di “aver abbattuto un presidente”, cosa che ovviamente non abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare. I processi che hanno causato le dimissioni [di Nixon] erano costituzionali». E persino dallo stesso Woodward: “La mitizzazione del nostro ruolo nel Watergate è arrivata al punto di assurdità, in cui i giornalisti scrivono … che io, da solo, ho abbattuto Richard Nixon. Totalmente assurdo”.
Per mettere in ginocchio il potere ci vuole una rivoluzione o un altro potere che vuole scalzarlo, eventualmente “utilizzando” ottimi giornalisti (o comprandone di spregiudicati o vili, cosa che avveniva fin dai primordi della professione come ci racconta Rossini nella sua opera lirica “La pietra di paragone”).
Il fine dell’estromissione di Nixon è ancoro dibattuto negli Stati Uniti (l’anno scorso c’è stato il cinquantenario dello scandalo). Io sono convinto che si volesse impedire il suo disimpegno dal Vietnam. Per altri non è così, ma è la stessa caoticità delle forze e dei decisori statunitensi che non permette una lettura univoca.
Tornando alla von der Leyen, nei suoi interventi si possono notare anche stupidaggini terminologico-concettuali come «la guerra brutale della Russia». La signora von der Leyen sa indicarci una guerra che non sia stata brutale? Forse quella del Vietnam col 67% di vittime civili? O quella in Iraq col 77%? Tutte le guerre sono brutali!
Si noti che il termine composto “guerra della Russia” è accompagnato da due tic, da due automatismi. Il primo è, appunto, aggiungere l’aggettivo “brutale”, il secondo è aggiungere l’aggettivo “non provocata” (unprovoked). Da linguista e scienziato cognitivista geniale qual è, Noam Chomsky ha subito commentato: «Of course, it was provoked. Otherwise, they wouldn’t refer to it all the time as an unprovoked invasion. By now, censorship in the United States has reached such a level beyond anything in my lifetime».
Per quanto riguarda invece la potenza economica dei contendenti, la Cina supera del 20% gli USA per PIL calcolato in PPP e di 8 volte gli UK (noi siamo al 12° posto). Ma nonostante il confronto sulla base del PPP sia più preciso rispetto a quello in base ai valori nominali, tuttavia è incompleto. Come la stessa RAND Corporation ammette «[Il] PIL fornisce solo un limitato quadro del potere. Dice poco sulla composizione dell’economia, come ad esempio se è guidata da settori di punta o è invece dominata da quelli vecchi e in declino». Lo stesso discorso riguarda il budget per la difesa (cfr. RAND Corporation, Measuring National Power”, 2005).
Ma se si prendono sul serio questi “caveat” notiamo un ulteriormente aggravamento della posizione statunitense dato l’altissimo grado di finanziarizzazione della sua economia che significa ridotte capacità produttive reali. Si pensi solo alla produzione statunitense legata all’industria militare comparata a quella Russa. Inoltre, la logica di produzione, guidata dai profitti privati e non dall’efficacia del risultato, spinge i produttori a sviluppare sistemi d’arma complicatissimi e costosissimi ma operabili con difficoltà nei conflitti reali contro un avversario alla pari.
[2] I dati catastrofici per le forze armate ucraine, ancor più allarmanti se confrontati con le perdite russe inferiori di un ordine di grandezza, fuoriescono ora non solo dagli ambienti del Pentagono ma anche da quelli del Mossad e non sono nascosti nemmeno dalla BBC. Per quanto riguarda l’economia, l’FMI ha dichiarato che nonostante la Russia sia la nazione più sanzionata della Storia il suo PIL è più alto di quello della Germania. In compenso il PIL dei bellicosi e revanscisti UK è in zona negativa. Inflazione, fallimenti, disoccupazione, collasso dei servizi pubblici, strette sulle pensioni, il quadro europeo è disastroso e con prospettive foschissime. Non oso nemmeno pensare a cosa succederà quando gli Stati Uniti ci obbligheranno alle sanzioni contro la Cina: dopo la perdita dell’energia a buon mercato russa andremo incontro alla perdita delle merci a buon mercato cinesi. Al di là di ogni altra conseguenza, la produzione di profitto in queste condizioni sarà impossibile a meno di far ritornare i lavoratori ai tempi di Dickens. E in un sistema capitalistico il profitto è la molla dell’economia reale.
Voglio far notare incidentalmente che un rapporto speciale dell’ONU sulla povertà negli UK già comparava la situazione del 2019 alle situazioni descritte da Dickens:
«Ad alcuni osservatori potrebbe sembrare che il Dipartimento del lavoro e delle pensioni sia stato incaricato di progettare una versione digitale e sterilizzata del laboratorio del diciannovesimo secolo, reso famigerato da Charles Dickens, piuttosto che cercare di rispondere in modo creativo e compassionevolmente ai bisogni reali di coloro che affrontano una diffusa insicurezza economica in un’epoca di profonde e rapide trasformazioni indotte dall’automazione, dai contratti a zero ore e da una disuguaglianza in rapida crescita» (UN Report of the Special Rapporteur on extreme poverty and human rights: Visit to the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, pag. 5). Ed è del tutto inutile consolarci con scuse come l’uscita degli UK dalla UE: Italia, de te fabula narratur.
La situazione degli Stati Uniti non è molto più rosea, se non dal punto della forza geopolitica relativa e quindi della loro capacità di far pagare il più possibile la crisi a noi. Ma mentire è ormai una questione di vita o di morte. E si mente in modo così spudorato ed esagerato che gli esperti si grattano scettici la testa: “ ‘Too good to be true’ jobs report draws skeptics on data quirks”, titola “The Philadelphia Inquirer” il 3 febbraio scorso, un articolo che riporta le stime di Bloomberg che parlano di un aumento di oltre mezzo milione di posti di lavoro in Gennaio, cosa che porterebbe il tasso di disoccupazione addirittura ai livelli più bassi dal 1969, cioè da inizio crisi! L’Inquirer fa notare però che si tratta di un dato “aggiustato” e che la stessa Bloomberg ammette che «Su base non rettificata, le buste paga sono in realtà diminuite di 2,5 milioni il mese scorso» (“On an unadjusted basis, payrolls actually fell by 2.5 million last month).
[3] I BRICS stanno elaborando un sistema di pagamenti alternativo al Dollaro, notizia che non si trova nei media occidentali ma che potete trovare sul media outlet indiano “Business Standard”.
Comunque il “Financial Times” ci informa che le due più grandi economie dell’America Latina, Brasile e Argentina, hanno iniziato la preparazione di una moneta comune, che si dovrebbe chiamare “Sur”, per incrementare il commercio regionale e “ridurre la dipendenza dal Dollaro”.
L’Arabia Saudita sta considerando di vendere petrolio in divise diverse dal Dollaro.
La Cina sta trattando per comprare energia dai Paesi del Golfo in Yuan.
Le banche centrali di Russia e Iran alla fine dello scorso gennaio hanno firmato un accordo per connettere le banche dei due Paesi attraverso un sistema alternativo allo SWIFT.
Intanto le riserve cinesi in bond governativi statunitensi sono diminuite in un anno di 92 miliardi di dollari.
Ovviamente l’Euro non se la passerà meglio: il vice-ministro russo delle Finanze, Vladimir Kolychev ha dichiarato che entro l’anno la quota di Euro nei Fondi Nazionali Russi sarà azzerata nell’ambito di una revisione della composizione del fondo che alla fine ammetterà solo Rubli, Yuan e oro.
Per un’analisi generale recente si veda il rapporto “The Future of the Monetary System”, pubblicato niente meno che dal Credit Swiss e redatto da un team diretto da Zoltan Pozsar, un autore che consiglio di seguire.
[4] Su un versante politico-filosofico dobbiamo aggiunge Gramsci come classico (la fondamentale nozione politica di “egemonia” è sua) e Costanzo Preve come pensatore contemporaneo.
Questi autori non dicono le stesse cose, né hanno le stesse preoccupazioni. Ad esempio, se Lenin e la Luxemburg sono dei politici, Arrighi è un economista e storico, Shimshom e Bichler sono economisti, Harvey è un geografo mentre Moore si occupa di sistemi socio-ecologici. Ma se invece di dare al loro pensiero una lettura tutta interna alla dimensione delle idee, incasellando i loro ragionamenti sui rami di un albero col tronco ben piantato sottosopra con le radici nel cielo, si cercano di capire i problemi concreti, materiali, su cui si sono concentrati, e di localizzare sia i problemi che i punti di vista, (localizzare in senso storico e geografico), allora oltre ai punti di divergenza si potranno notare anche gli elementi comuni senza necessariamente rischiare di cadere nell’eclettismo. Specie se si traguarda la loro lettura coi problemi che devono essere affrontati oggi. Per parafrasare Marx, non bisogna dividere in quattro le idee, i concetti, per collocarli in una tassonomia accademica («Prima di tutto, io non parto da “concetti”, quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perciò in alcun modo “dividere” questo concetto», Marx, “Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner”).
[5] Riguardo lo sprofondamento in un regime da Ministero della Verità orwelliano, si pensi innanzitutto a Julian Assange. O si pensi a Seymour Hersh, il più grande giornalista investigativo statunitense, il Premio Pulitzer che svelò il massacro di My Lai e i bombardamenti segreti della Cambogia durante la guerra del Vietnam e denunciò le torture di Abu Ghraib. Autore di inchieste che comparivano in prima pagina sul “New Yorker” e sul “New York Times”, oggi è emarginato come un paria essendosi opposto alle versioni ufficiali degli attacchi chimici in Siria, del caso Skripal e del sabotaggio del Nord Stream. Si pensi ancora al giornalista britannico Graham Phillips, accusato di “crimini di guerra” per aver detto che il mercenario britannico in Ucraina Aiden Aslin era, per l’appunto, un mercenario. Gli hanno anche bloccato il conto in banca. Alla giornalista tedesca Alina Lipp oltre che congelare il conto in banca hanno sequestrato il computer e rischia la galera con l’accusa di aver “diffuso notizie false atte a turbare l’ordine pubblico” per non essersi uniformata alla copertura dei media Minculpop sulla guerra. Sorte simile per la cineasta francese Anne-Laure Bonnell, acclamata nel 2016 persino dal “New York Times” per un suo documentario sul Donbass e oggi esclusa da ogni evento cinematografico con la colpa di voler continuare a dire la verità sul Donbass. Ha anche perso il posto all’università parigina dove insegnava. Il giornalista italiano Giorgio Bianchi è entrato nella kill list dei servizi segreti ucraini che appare nel sito “Myrotvorets” (“Il pacificatore”), senza che il nostro ministero degli Esteri si sia sentito in dovere di protestare.
La cosa più inquietante è la velocità con cui siamo passati dal pluralismo all’intolleranza.
[6] «A noi non interessa un mondo senza la Russia», ha dichiarato Putin, ma questo è il sentire del 99% dei Russi e lo hanno dimostrato in 1.000 anni di storia. Che quella in Ucraina sia una guerra esistenziale, ai Russi glielo abbiamo fatto capire con abbacinante chiarezza dichiarando esplicitamente: 1. che la guerra in Ucraina è stata deliberatamente preparata per anni, tradendo ogni accordo, per indebolire la Russia; 2. che vogliamo abbattere il legittimo governo che i Russi hanno eletto; 3. che vogliamo smembrare la Russia come abbiamo fatto con la Jugoslavia; 4. che odiamo o ci è estraneo tutto ciò che è russo.
[7] George F. Kennan, “A Fateful Error”, The New York Times, 5 febbraio 1997.
[8] Riguardo questo tema posso fare solo alcune considerazioni di metodo. La classica dottrina della “verità” si basa sulla definizione aristotelica di “adaequatio rei et intellectus” dove il soggetto che parla (intellectus) è distinto dalle cose (res) di cui questo soggetto parla. In tempi moderni, questa distinzione è stata rielaborata dal logico tedesco Gottlob Frege in quella tra “Sinn”, cioè “senso”, e “Bedeutung”, cioè “riferimento”, e l’interpretazione “realistica” del concetto di “riferimento” era sottintesa anche nella semantica formale del grande logico e matematico polacco Alfred Tarski. Ma col post-strutturalismo (Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Jacques Lacan, Michel Foucault, ecc.) il “riferimento” viene relativizzato (o “intenzionalizzato”) abbandonandone l’interpretazione “realistica”. La semiotica post-strutturalista di Umberto Eco, ad esempio, riallacciandosi alla “semiosi illimitata” di Charles Sanders Peirce, sostiene che l’enunciato “La neve è nera” è rifiutato non perché si riferisce erroneamente a uno stato di cose, ma perché altrimenti dovremmo «riorganizzare le nostre regole di comprensione”, dato che questa affermazione romperebbe una “unità culturale”» (“Trattato di semiotica generale”, Bompiani, 1975 § 2.5). L’interpretazione diventa un riferimento interno in una sorta “antinomia del mentitore” metodologica. La critica post-strutturalista, che ha lati interessanti e altri cialtroni, specialmente quando mima il rigore delle scienze esatte, ha condotto a quelle posizioni relativistiche che oggi sono sfociate nei concetti di “narrazione” e di “post-verità”.
Già nel 1994 Noam Chomsky era esterrefatto da questa deriva:
«Se finisci per dirti: “è troppo difficile occuparsi dei problemi reali” ci sono un sacco di modi per non farlo. Uno di essi consiste nel disperdersi in affari di scarsa importanza. Oppure impegnarsi in culti accademici completamente avulsi dalla realtà e che costituiscono un riparo al doversi occupare delle cose come stanno. E’ pieno di comportamenti di questo genere, anche all’interno della sinistra. … Oggi nel Terzo Mondo predomina un senso di profonda disperazione e di resa. Il modo in cui si è estrinsecato questo atteggiamento, nei circoli colti che hanno contatti con l’Europa, è stato di immergersi completamente nelle ultime follie della cultura parigina e di concentrarsi totalmente su di esse. Per esempio, se dovevo parlare di attualità, anche in istituti di ricerca che si occupassero di aspetti strategici, i partecipanti volevano che li traducessi in vaneggiamenti postmoderni. Per fare un esempio, piuttosto che sentirmi parlare dei dettagli dell’azione politica statunitense in Medio Oriente, cioè a casa loro – che è una cosa sporca e priva d’interesse – preferivano sapere in che modo la linguistica moderna fornisse un nuovo paradigma argomentativo riguardo gli affari internazionali, capaci di soppiantare il testo poststrutturalista. Questo li avrebbe davvero incantati… . Tutto ciò è deprimente.» (Keeping the Rabble in Line: Interviews With David Barsamian”. Questo passaggio è citato opportunamente da Alan Sokal e Jean Bricmon nel loro “Imposture intellettuali” (Garzanti 1999) nel loro tentativo di “mettere in guardia la sinistra da se stessa” (Nota: quasi 30 anni dopo, come stiamo vedendo, il Terzo Mondo è meno disperato e vede la possibilità di sottrarsi agli artigli dell’Occidente e alle sue “follie parigine” sempre più fuori controllo).
Non era necessario che finisse così male, ma così è stato, per questioni storiche: questo modo di concettualizzare fa comodo al Potere, perché la narrazione, la post-verità, è in mano a chi controlla i media, a chi gestisce il “soft power”. Il “politicamente corretto” fa parte di questi esiti: non è corretto dire “negro” (piano linguistico), ma ciò non evita che la stragrande maggioranza relativa di condannati a morte negli USA sia composta da “neri” (piano della realtà). Il grande sforzo ideologico di politici e mass media è convincere il pubblico a lasciar perdere lo stato dei fatti e a concentrarsi solo sul linguaggio. Le contraddizioni devono essere espunte dal linguaggio non dalla realtà. Si potrebbe pensare che quanto meno è un inizio. No! E’ già la fine, pura forma senza sostanza.
Allo stesso modo la sinistra si è progressivamente concentrata sugli aspetti più superficialmente “culturali” del conflitto, privilegiando le sottoculture e la difesa dei diritti (e dei bisogni) individuali e di gruppi specifici che non creano nessun reale fastidio, sostituendo con tutto ciò la visione materialista del mondo e la difesa dei diritti e dei bisogni sociali e alienandosi le simpatie popolari a beneficio della destra. Secondo Michael Hudson il tradimento dei propri patti costitutivi è il compito e la ragion d’essere attuale dei partiti di sinistra. Questa deriva era stata ampiamente prevista da Pier Paolo Pasolini. E’ significativo che negli eventi per il centenario della sua morte si sia glissato su questo aspetto del suo pensiero o lo si sia ridotto a fatto di costume o a polemica.
Purtroppo lo scollamento economico e culturale dalla realtà ha indotto equivoci anche in parecchi compagni che assieme ad abbagli sulla globalizzazione si sono messi a teorizzare sul “capitale immateriale”, sulla “infosfera” e sul “lavoro cognitivo” in modi che troppe volte riecheggiavano i vuoti slogan accattivanti dell’avversario.
Faccio notare che a volte persino gli studi statunitensi di geostrategia erano, anche se solo parzialmente, influenzati dall’approccio, diciamo così, “finanziarizzato-poststrutturalista” (si veda ad es. Ashley J. Tellis, Christopher Layne, “Measuring National Power in the Postindustrial Age”, Foreign affairs (Council on Foreign Relations), January 2001.
Una volta messi in circolo questi guasti culturali, agendo sulla de-concettualizzazione promossa dalla “pedagogia progressista” e sull’ideologizzazione indotta da infotainment e tecniche di marketing centrata sull’identificazione di desiderio individuale e diritto, contando sull’ignoranza imposta dalla censura e da un sistema d’informazione uniformato e normalizzato e infine garantite da un meccanismo di punizione-premiazione che obbliga al conformismo ideologico e politico, le élite dominanti hanno trascinato nel loro stato di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva il corpo della società, pressoché nella sua interezza.
[9] Thomas Friedman, “The 9/11 Bubble”. The New York Times, 2 dicembre 2004.
[10] La decentralizzazione negli Usa delle industrie europee comporterà anche un’emigrazione di forza lavoro qualificata e uno avvilimento/smantellamento del ciclo istruzione-ricerca-sviluppo nel Vecchio Continente.
[11] Ovviamente occorre tener conto dei dati anagrafici. Ricordo che nel referendum del 1991 la media di chi chiese il mantenimento dell’Unione Sovietica fu di circa l’80% dei votanti. E faccio anche notare la cautela con la quale Putin ha affrontato il tema dell’aumento dell’età pensionabile (da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne).
[12] Lo sviluppo ineguale è indotto dal fatto che l’accumulazione si basa su differenziali di sviluppo (economici, finanziari, culturali, politici e geopolitici), sia all’interno delle singole società sia tra Paesi e blocchi di Paesi. Per il concetto di “differenziali di sviluppo” e il loro ruolo nei conflitti si può vedere i miei “La logica della crisi” in “Dopo il neoliberalismo”, a cura di C. Formenti, Meltemi 2021 e “Al cuore della Terra e ritorno”, 2013, in due volumi scaricabili gratuitamente qui e qui.
[13] L’espressione “pompare energia” è usata da Fernand Braudel nel suo “La dinamica del capitalismo”, Il Mulino, 1988, pag. 63: «Il capitalismo è, per natura, congiunturale, cioè si sviluppa in rapporto- alle pressioni esercitate dalle fluttuazioni economiche… .[P]enso che nella vita mercantile tendesse ad affermarsi solo un tipo di specializzazione: il commercio del denaro. Il suo successo però non è mai stato di lunga durata, come se l’edificio economico non fosse in grado di pompare energia fino a queste alte vette».
Il concetto di “accumulazione per espropriazione” è stato introdotto da David Harvey rielaborando idee di Rosa Luxemburg, Fernand Braudel e il noto capitolo del Capitale di Marx sulla cosiddetta “accumulazione originaria”, interpretata, come da altri esponenti della scuola del sistema-mondo, come un processo in realtà ricorrente. Si veda “The ‘new’ imperialism: accumulation by dispossession”. Socialist Register 40, 2004, pp. 63-87.
La fondamentale elaborazione gramsciana del concetto di “egemonia” si trova, come è noto, nei “Quaderni del carcere”.
[14] Senza contare che una nazione ricca come la Libia, la più sviluppata dell’Africa, è stata devastata deliberatamente dall’Occidente (compresa vergognosamente l’Italia di cui era la maggior alleata nel Mediterraneo).

https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/24927-piero-pagliani-slittamento-di-paradigma.html?auid=91921

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CRONACHE DEL MONDO MULTIPOLARE, di Pierluigi Fagan

CRONACHE DEL MONDO MULTIPOLARE. Negli ultimi giorni abbiamo avuto un ennesimo voto di condanna delle UN verso l’invasione russa, con l’auspicio di una pace completa, giusta e duratura ed i risultati di una ricerca di opinione condotta dall’European Council for Foreign Relation (ECFR) in Occidente più Russia, Cina, India, Turchia effettuata attraverso tre grandi istituti internazionali. Il tutto ad un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina.
In breve, il voto UN è esattamente identico a quello di un anno fa, nulla si è spostato. Quanto alla ricerca la sintesi più precisa è del Direttore dell’ECFR, Mark Leonard: “Il paradosso della guerra in Ucraina è che l’Occidente è tanto unito quanto ininfluente nel mondo”.
L’opinione di Leonard combacia con quella di altri due partner nell’indagine. Ivan Krastev (Center for Liberal Strategy) ha detto: “Lo studio rivela che mentre la maggior parte degli europei e degli americani vive nel mondo pre-Guerra Fredda, caratterizzato dal confronto tra democrazia e autoritarismo, molti al di fuori dell’Occidente vivono in un mondo postcoloniale incentrato sull’idea della sovranità nazionale”.
Timothy Garton Ash (Oxford, Hoover, Stanford) invece ha detto: “I risultati sono estremamente deludenti: l’’occidente transatlantico, incentrato su Europa e Stati Uniti, è oggi più unito, ma non è riuscito a convincere le restanti potenze principali come Cina, India e Turchia. La lezione per l’Europa e l’Occidente è chiara: abbiamo urgentemente bisogno di una nuova narrativa che risulti convincente per Paesi come l’India, la più grande democrazia del mondo”.
Forse a seguire l’idea espressa da Garton-Ash, Biden ha proposto Banga come direttore della Banca Mondiale, un indo-americano ex Mastercard ed ora Exor (Agnelli), membro associato all’élite statunitense ma anche a capo di molte istituzioni miste USA-India per lo sviluppo commerciale. Banca Mondiale fa parte dell’originario pacchetto Bretton Woods 1945 e dalla sua fondazione ad oggi, il direttore è stato sempre e solo americano. Il corteggiamento americano all’India per portarla nell’alveo occidentalista va avanti da tempo. Oltre a Banga, oggi abbiamo la capo economista del FMI ed addirittura il primo Ministro britannico di origine indiana, oltre molti CEO influenti. Curiosa anche l’espressione usata da TGA ovvero “… abbiamo urgentemente bisogno di una nuova narrativa” che denota una deriva di mentalità in corso in Occidente ormai da un po’ di tempo. TGA non crede che gli indiani siano in grado di ragionare razionalmente sul proprio interesse strategico, hanno solo bisogno noi gli si racconti la storiella giusta. La realtà non esiste, esistono solo interpretazioni, narrative appunto.
Forse è per questo che come invece fotografa Leonard, dopo un anno di guerra l’Occidente si è condensato ed estremizzato sotto la costante pressione narrativa USA-NATO mentre una buona parte del resto del mondo va da un’altra parte. Quale parte?
Il Resto del Mondo pensa che presente ed immediato futuro c’è e ci sarà un mondo condominiale, rifiuta l’idea dei due blocchi contrapposti. Astenuti, assenti, contrari alla risoluzione UN, nonostante i numeri dei voti a favore la risoluzione (141) che comprendono molti stati ininfluenti, sommano comunque più della maggioranza del mondo. Ma molti votanti a favore della risoluzione che contiene comunque auspici ecumenici, ad esempio molti soggetti centro-sudamericani (Argentina, Brasile, Messico), africani, asiatici, non per questo si possono annoverare schierati così convintamente con l’Occidente nel nuovo bipolarismo armato auspicato dagli americani. Questi voti servono solo a fare titoli sui giornali, narrative appunto.
Corretta la sintesi che viene fatta nel Rapporto ECFR: “Uno dei risultati più sorprendenti del sondaggio riguarda le idee divergenti sul futuro ordine mondiale. La maggior parte delle persone sia all’interno che all’esterno dell’Occidente crede che l’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti stia morendo”. E questo lo diamo come condiviso. Poi però “In Europa e in America, l’opinione prevalente è che il bipolarismo stia tornando. Un numero significativo di persone si aspetta un mondo dominato da due blocchi guidati da Stati Uniti e Cina.”. Nel resto del Mondo, invece: “… al di fuori dell’Occidente, i cittadini credono che la frammentazione piuttosto che la polarizzazione segnerà il prossimo ordine internazionale. La maggior parte delle persone nei principali paesi non occidentali … prevede che l’Occidente sarà presto solo un polo globale tra i tanti. L’Occidente potrebbe essere ancora il partito più forte, ma non sarà egemonico”. Differenze tra chi è soggetto a bombardamento narrativo e chi no.
Emerge così la strategia realista americana per quanto qui da noi impacchettata da narrative idealistiche. La Russia dovrà indebolirsi in modo da non esser più un pericoloso competitor militare. Mai più un’altra Siria, ci rivediamo nell’Artico. In vista del condominio planetario, all’Europa va tolta ogni autonomia strategica in modo da permettere a gli USA di sedersi al tavolo delle varie partite in cui si giocheranno i nuovi equilibri mondiali in nome e per conto dell’Occidente Unito. Un anno fa, definimmo questa una “cattura egemonica”, mi pare si sia perfettamente compiuta, obiettivo perfettamente raggiunto. Anche per evitare che l’Europa dia in toto a parte sponda a questo nuovo gioco con tanti giocatori, va imposto il format “crociata democrazie vs autocrazie”. Gli strateghi degli Stati Uniti sanno benissimo che il gioco sarà plurale e vogliono riservarsi quanta più forza per giocarlo da posizione di primato, per quanto sempre meno esclusivo.
Quindi non solo il voto UN è esattamente uguale a quello di un anno fa, anche le mie considerazioni lo sono, un anno fa circa scrivevo le stesse, identiche cose a conflitto appena iniziato.
Una ultima considerazione andrebbe fatta sulla convenienza europea. In prospettiva multipolare, l’Europa avrebbe ben potuto appartenere al fronte non allineato, quello che gli stessi ricercatori ECFR chiamano “Stati oscillanti” (ad esempio Turchia, India etc.), ma questo non era semplicemente possibile. Europa non è, né può essere, un soggetto geopolitico semplicemente perché non è uno Stato, non avrà mai una sola logica di interesse nazionale e non si può fare una strategia a più logiche. Ma neanche nei sogni più sfrenati può auspicare di diventare uno Stato per quanto federale poiché non ha alcun grado di potenziale omogeneità per esserlo. Non ne ha neanche la volontà. Al di là delle polemiche teatrali tra europeisti e sovranisti i leader europei ed i relativi popoli sono tutti cripto-nazionalisti, nessuno pensa di sciogliere il proprio Stato in un comune con altri. Infatti “europeismo” è una nuvola di sfocati pseudo-concetti ciancicati a coprire una realtà di confederazione economica con rilievi giuridici, così è e mai potrà esser altro.
Semplicemente, popoli, intellettuali, élite degli Stati europei, arrivano ad una svolta storica nel Grande Gioco del mondo, impossibilitati a giocarlo. Gli strateghi americani questo lo sapevano e lo sanno, per questo hanno forzato la mano e con successo, perché non c’era alcuna realistica alternativa viabile. Alternative c’erano ovviamente nel mondo delle chiacchiere, non in quello del crudo realismo ed è proprio la mancanza di realismo a far sì che noi si viva e si possa vivere solo nel mondo delle chiacchiere.

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La Cina sembra ricalibrare il suo approccio alla guerra per procura tra NATO e Russia. Ecco cosa ho imparato analizzando la nuova guerra fredda per 365 giorni consecutivi, di Andrew Korybko

La Cina sembra ricalibrare il suo approccio alla guerra per procura tra NATO e Russia.

Andrew Korybko

Se le dinamiche strategico-militari dovessero spostarsi decisamente a favore della NATO a causa dell’invio di armi più moderne a Kiev a scapito delle esigenze minime di sicurezza nazionale dei suoi membri, come ha lasciato intendere Stoltenberg, allora la pace sarebbe esclusa e la sconfitta della Russia sarebbe possibile. In questo scenario, la Cina potrebbe armare Mosca per mantenere l’equilibrio di potere con la NATO, nonostante le massime sanzioni che l’Occidente potrebbe imporre nei suoi confronti per scongiurare gli scenari peggiori di escalation nucleare o di “balcanizzazione” della Russia.

Stato degli affari

Finora la Cina ha fatto del suo meglio per rimanere completamente estranea alla guerra per procura tra la NATO e la Russia che si sta combattendo in Ucraina, ma una rapida serie di sviluppi negli ultimi giorni suggerisce in modo convincente che sta ricalibrando il suo approccio al conflitto principale della Nuova Guerra Fredda. La presente analisi inizierà evidenziando i suddetti eventi prima di spiegare il contesto più ampio in cui si stanno verificando, che dovrebbe mostrare al lettore che qualcosa di grosso sta accadendo dietro le quinte.

Sviluppi diplomatici in questa direzione

Il direttore dell’Ufficio della Commissione Affari Esteri del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC) Wang Yi ha incontrato la scorsa settimana il presidente russo Putin al Cremlino, dopo aver visitato diversi Paesi e partecipato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. Il colloquio è stato significativo perché il leader russo raramente incontra qualcuno che non sia la sua controparte e non avrebbe fatto un’eccezione alla sua regola informale solo per discutere i dettagli dell’imminente visita del presidente Xi in primavera.

La Cina ha poi presentato il suo piano di pace in 12 punti per risolvere il conflitto ucraino nel giorno del primo anniversario dell’operazione speciale della Russia. Il piano è stato prevedibilmente elogiato dalla Russia, ma pochi si aspettavano che suscitasse anche l’interesse di Zelensky, che ha dichiarato di essere ansioso di incontrare il Presidente Xi per discuterne, nonostante Biden lo abbia snobbato. Lo stesso giorno, il Wall Street Journal (WSJ) ha riferito che Francia, Germania e Regno Unito stanno considerando un patto simile a quello della NATO con Kiev per incoraggiarla a riprendere i colloqui di pace.

Meno di 24 ore dopo, sabato, è stato annunciato che il Presidente bielorusso Lukashenko si recherà in Cina dal 28 febbraio al 2 marzo, mentre il Presidente francese Macron ha dichiarato che intende recarsi anch’egli in Cina all’inizio di aprile. Questo rapido susseguirsi di sviluppi dimostra che la Cina è seriamente intenzionata a negoziare almeno un cessate il fuoco nel conflitto ucraino, per cui il Presidente Xi probabilmente condividerà le sue opinioni in merito con le due controparti sopra citate durante le loro visite.

Speculazioni sulle spedizioni di armi cinesi alla Russia

Allo stesso tempo, tuttavia, i funzionari americani hanno iniziato ad avvertire che la Cina starebbe prendendo seriamente in considerazione l’invio di aiuti letali alla Russia. Il Segretario di Stato Blinken è stato il primo a fare questa affermazione dopo aver incontrato il Direttore Wang in Europa. Biden e il capo della CIA Burns hanno poi affermato la stessa cosa venerdì, in occasione dell’anniversario dell’operazione speciale russa, anche se il primo ha detto di non prevederlo, mentre il secondo non ha scartato questo scenario.

È difficile stabilire la veridicità di queste accuse, ma l’America è fermamente intenzionata a convincere tutti che si tratta di una possibilità reale, ed è per questo che sta considerando di condividere pubblicamente l’intelligence correlata, secondo quanto riportato dal WSJ in un rapporto pubblicato giovedì. Sebbene non sia chiaro se le informazioni che potrebbero essere divulgate siano puramente fatti, falsità artificialmente costruite o una combinazione delle due, un intrigante sviluppo di sabato getta un po’ di luce sul pensiero cinese.

Lo scandalo che circonda la dichiarazione congiunta dei ministri delle Finanze del G20

La Cina si è schierata con la Russia nel respingere il terzo e il quarto paragrafo della dichiarazione congiunta dei ministri delle Finanze del G20 dopo il loro incontro a Bangaluru. Queste due parti del documento – che facevano riferimento alle risoluzioni antirusse dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, alla divergenza di opinioni sul conflitto ucraino all’interno del gruppo e al sostegno dei principi della Carta delle Nazioni Unite – sono state tratte dalla Dichiarazione dei leader del G20 di Bali, precedentemente approvata a metà novembre.

La portavoce del Ministero degli Esteri russo, Zakharova, ha dichiarato in un comunicato di condannare gli sforzi di Stati Uniti, Unione Europea e del resto del G7 nel tentativo di destabilizzare il lavoro del G20 includendo quei due paragrafi nella dichiarazione congiunta, motivo per cui è stato rilasciato solo un documento di sintesi e di risultato. La posizione di Mosca, che si oppone allo spirito dello stesso testo che aveva accettato solo un quarto d’anno fa, suggerisce che ha fatto quest’ultimo perché non poteva contare su nessun altro per sostenere il suo rifiuto in quel momento.

La “nuova distensione” e il suo inaspettato deragliamento

Per non apparire “isolata” e per non alimentare le speculazioni sul futuro della sua partnership strategica con l’Unione Europea, la Corea del Nord ha deciso di non fare nulla.

https://korybko.substack.com/p/china-compellingly-appears-to-be?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=105188555&isFreemail=true&utm_medium=email

Ecco cosa ho imparato analizzando la nuova guerra fredda per 365 giorni consecutivi

In tutta onestà, nessuno nella comunità degli Alt-Media o dei media mainstream ha pubblicato tante analisi quante ne ho pubblicate io nell’ultimo anno, che cumulativamente superano le 1.000, visto che ne pubblico in media circa tre al giorno e a volte ne pubblico anche cinque. Ho ricalibrato i miei modelli in base alle mutate circostanze per riflettere la realtà nel modo più accurato possibile, sapendo che è impossibile produrre un lavoro perfetto, ma aspirando comunque a fare del mio meglio.

Sono un analista politico americano con sede a Mosca che ha scritto sulla Nuova Guerra Fredda per gli ultimi 365 giorni consecutivi dall’inizio dell’operazione speciale della Russia in Ucraina, esattamente un anno fa. Ho iniziato condividendo i miei pensieri su OneWorld e ho continuato a farlo su Substack dopo che il primo è stato chiuso. Occasionalmente pubblico anche su CGTN, a cui ogni tanto concedo interviste radiofoniche, e su altri siti per cui lavoro come freelance. Due volte alla settimana, inoltre, realizzo brevi analisi video che condivido sui social media.

Prima di riassumere tutto ciò che ho imparato, vorrei condividere alcune delle mie cosiddette “analisi fondamentali” che sono rimaste rilevanti fino ad oggi. Esse forniranno ai lettori una visione dettagliata di alcuni dei punti che esporrò nel presente articolo. Tutti sono inoltre invitati a farmi domande su Twitter se sono interessati a saperne di più sui miei pensieri. Ecco i materiali di base che costituiscono la mia visione del mondo nella sua forma attuale:

* 25 febbraio: “Sono un orgoglioso americano con ascendenze ucraine: Ecco perché #IStandWithRussia”

* 15 marzo: “Perché gli Stati Uniti hanno dato priorità al contenimento della Russia rispetto alla Cina?”.

* 26 marzo: “La Russia sta combattendo una lotta esistenziale in difesa della sua indipendenza e sovranità”.

* 18 aprile: “Vladimir Putin: Mostro, pazzo o mente?”.

* 15 maggio: “Ciò che viene disonestamente spacciato come ‘propaganda russa’ è solo la visione del mondo multipolare”.

* 5 agosto: “Il Ministero degli Esteri russo ha spiegato in modo esauriente la transizione sistemica globale”.

* 1 settembre: “La fantasia politica di ‘decolonizzare la Russia’ è destinata a fallire a causa del patriottismo del suo popolo”.

* 5 ottobre: “La Russia vincerà strategicamente anche nello scenario di una situazione di stallo militare in Ucraina” * 29 ottobre: “La fantasia politica di ‘decolonizzare’ la Russia è destinata a fallire a causa del patriottismo del suo popolo”.

* 29 ottobre: “L’importanza di inquadrare adeguatamente la nuova guerra fredda”.

* 12 novembre: “20 critiche costruttive alle operazioni speciali della Russia”.

* 29 novembre: “L’evoluzione delle percezioni dei principali attori nel corso del conflitto ucraino”.

* 26 dicembre: “I cinque modi in cui il 2022 ha cambiato completamente la grande strategia russa”.

* 22 febbraio: “Putin ha ricordato a tutti che la Russia sta usando la forza per porre fine alla guerra iniziata dall’Occidente”.

In tutta onestà, nessuno nella comunità degli Alt-Media (AMC) o dei Mainstream Media (MSM) ha pubblicato tante analisi quante ne ho pubblicate io nell’ultimo anno, che cumulativamente superano le 1.000, visto che la mia media è di circa tre al giorno e a volte ne pubblico anche cinque. Ho ricalibrato i miei modelli in base alle mutate circostanze per riflettere la realtà nel modo più accurato possibile, sapendo che è impossibile produrre un lavoro perfetto, ma aspirando comunque a fare del mio meglio.

Per mettere a punto il mio lavoro ho applicato il processo in sette fasi che ho condiviso con i lettori quasi mezzo decennio fa, nella primavera del 2018, e che i lettori possono rivedere qui se non lo conoscono già. Spero che il mio esempio possa ispirare altri a seguire le mie orme, se lo desiderano, o almeno a saperne di più sul processo collaudato per produrre analisi di qualità. Senza ulteriori indugi, ecco cosa ho imparato analizzando la Nuova Guerra Fredda per 365 giorni consecutivi:

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* Gli Stati Uniti stanno facendo un gioco di potere senza precedenti per il dominio globale

Tutto ciò che è accaduto nell’ultimo anno dimostra che gli Stati Uniti non hanno intenzione di sedersi e lasciare che la transizione sistemica globale verso il multipolarismo proceda senza ostacoli. Stanno conducendo una guerra ibrida multidimensionale nel mondo con l’intento di ritardare indefinitamente questo processo, di cui la guerra per procura della NATO contro la Russia attraverso l’Ucraina è l’esempio più lampante. Dopo aver riaffermato con successo la propria egemonia unipolare sull’Europa, gli Stati Uniti vogliono ora espandere la propria “sfera di influenza” nel Sud del mondo.

* Né il blocco della Nuova Guerra Fredda di fatto è così unificato come potrebbe sembrare

La nuova guerra fredda può essere riassunta come la lotta tra il miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti e il Sud globale guidato congiuntamente dai BRICS e dalla SCO sulla direzione della transizione sistemica globale, con i primi che vogliono mantenere l’unipolarismo e i secondi che vogliono accelerare il multipolarismo. Tuttavia, nessuno dei due è così unito come sembra, dato che i membri nominali del Miliardo d’Oro, Ungheria, Israele e Turchia, sfidano regolarmente gli Stati Uniti, mentre il Brasile, membro dei BRICS, è politicamente contro la Russia, come ho spiegato qui.

* La maggior parte di ciò che AMC e MSM producono è copione e fake news

I lettori possono essere perdonati per aver avuto l’impressione che ogni blocco de facto della Nuova Guerra Fredda sia unificato, dal momento che l’AMC e il MSM hanno falsamente spinto tali affermazioni rispettivamente sul Sud Globale e sul Miliardo d’Oro. Per promuovere la loro agenda si affidano a una combinazione di fake news e copium, che si riferisce a narrazioni artificialmente costruite per far passare sviluppi svantaggiosi come presumibilmente vantaggiosi. Entrambi sono generalmente inaffidabili e nessuno dovrebbe dare per scontate le loro affermazioni.

* La rapida ascesa dell’India alla ribalta mondiale è il principale evento del cigno nero

Tra tutti gli sviluppi inattesi emersi nell’ultimo anno, il principale evento del cigno nero è la rapida ascesa dell’India a Grande Potenza di rilevanza globale. L’India mira a costituire un terzo polo d’influenza in mezzo al duopolio sino-americano di superpotenze bi-multipolari, per accelerare la fase tripolare della transizione sistemica globale prima della sua forma finale di multipolarità complessa (“multiplexity”), motivo per cui Soros la sta prendendo di mira. I lettori più attenti possono approfondire l’argomento consultando i precedenti collegamenti ipertestuali.

* L’esito della nuova distensione sino-americana sarà decisivo

Dal vertice Xi-Biden di metà novembre, Cina e Stati Uniti stanno esplorando una serie di compromessi reciproci volti a stabilire una “nuova normalità” nelle loro relazioni allo scopo di preservare congiuntamente il suddetto ordine mondiale bimultipolare. La Nuova distensione è stata però inaspettatamente complicata dall’incidente del pallone aerostatico di inizio febbraio, che potrebbe portare Pechino ad abbandonare questi piani. L’esito di questo processo, che i precedenti collegamenti ipertestuali illustrano in dettaglio, sarà decisivo per la nuova guerra fredda.

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Spero che la visione che ho condiviso possa illuminare le persone a percepire il complesso processo che si sta svolgendo nel mondo in modi nuovi che ne migliorino la comprensione. Tutto ciò che sta accadendo è così caotico e imprevedibile, eppure ci sono alcune tendenze distinguibili, che ho identificato nel mio lavoro dell’anno scorso. Sono convinto che la transizione sistemica globale verso il multipolarismo sia irreversibile per le ragioni che ho spiegato, ma non mi aspetto nemmeno che si concluda presto.

https://korybko.substack.com/p/heres-what-i-learned-from-analyzing

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SULLA DITTATURA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

L’articolo è stato pubblicato su Palomar 4/2004. Dato che ha ancora
qualche attinenza con le vicende degli ultimi anni, lo si ripropone ai
lettori. TKdlG

SULLA DITTATURA

1. Il regime politico del (fu) comunismo reale aveva (tra i molti difetti) dei pregi, uno dei quali – piccolo perché fruibile essenzialmente dagli studiosi del diritto pubblico –, era di costituire un esempio di come la “costituzione materiale” (cioè quella reale) possa differire da quella “formale” (ovvero – anche – ideale); e come quella concreta ed effettiva, cioè realmente “regolatrice”, sia la prima e non la seconda. A renderlo evidente – in misura raramente raggiunta nella storia – erano le omissioni più che le disposizioni, anche se entrambe rivestivano un ruolo convergente. E che di ciò fossero consapevoli i bolscevichi lo prova – tra l’altro – un opuscolo di Stutcka, scritto per spiegare la costituzione sovietica del 1918, che si apre proprio con la distinzione tra costituzione come “reale rapporto delle forze sociali” e “foglio di carta” (cioè la costituzione scritta) riprendendo così la nota espressione di Lassalle1

Il primo connotato dei regimi del socialismo reale era d’essere delle dittature “proletarie”, concetto strettamente collegato da Stutcka a quelli di “guerra civile”, la quale “nel secolo del capitalismo… è l’unica guerra giusta”. La dittatura proletaria è così “la conquista di tutto il potere dello Stato ed uno spietato consolidamento di questo potere”2. Tutto il resto del “costituzionalismo” sono “formalità borghesi”. Anche Lenin, nello sciogliere la Costituente russa la descriveva come “un insieme di cadaveri e di mummie disseccate”, ed affermava che, oltre che “superata” dalla situazione politica, lo scioglimento dell’assemblea era una tappa della guerra civile in corso. Pertanto Stutcka individuava quale carattere fondamentale della Costituzione “lo stabilimento della dittatura proletaria e dei contadini poveri con la guerra civile”3.

La dittatura era individuata quindi come lo strumento ideale per raggiungere due scopi: condurre la guerra civile e, nel frattempo, e in prospettiva, guidare la trasformazione verso la società comunista, la “società senza classi”, meta finale del comunismo. Mentre il primo è uno scopo per così dire normale della dittatura (per lo più utilizzata in caso di guerra, esterna o civile), il cui modello storico e istituzionale è quello romano, ed è un mezzo normale per la conservazione dell’unità e dell’ordine politico e sociale (come già notava Machiavelli nel “Discorsi sulla prima deca”) il secondo fine è moderno, e, per certi tratti, peculiare al comunismo “reale”. Infatti la dittatura “classica” è uno strumento per conservare l’ordine esistente, e cioè rivolto al presente: la dittatura comunista è indirizzata alla costituzione dell’ordine futuro. È nella prospettiva della società senza classi che la dittatura modella la società futura.

In tale differenza essenziale v’era in nuce il germe della successiva decadenza ed implosione finale del “socialismo reale”. Infatti il dittatore “classico” si giustificava per la conservazione dell’ordine e il suo ufficio (di durata limitata) cessa con il ripristino di quello; mentre alla dittatura comunista compete un compito assai più impegnativo, suscitatore di aspettative enormemente più difficili a soddisfare. Che, infatti non soddisfatte per oltre settant’anni, hanno costituito la causa, probabilmente principale, dell’implosione del regime sovietico.

2. La dittatura era strettamente collegata al ruolo dirigente del Partito comunista. Da ultimo, la Costituzione sovietica del 1977 così ne descriveva il ruolo: “Il Partito comunista dell’Unione Sovietica è la forza che dirige e indirizza la società sovietica, il nucleo del suo sistema politico, delle organizzazioni statali e sociali. Il PCUS esiste per il popolo ed è al servizio del popolo.

Il Partito comunista, armato della dottrina marxista-leninista, determina la prospettiva generale di sviluppo della società e la linea della politica interna ed estera dell’URSS, dirige la grande attività creativa del popolo sovietico, conferisce un carattere pianificato e scientificamente fondato alla sua lotta per la vittoria del comunismo” (art. 6). Tale disposizione andava letta insieme all’art. 3 (sul centralismo democratico). Il tutto spiega perché, ad esempio, nessuna delle Repubbliche federate abbia esercitato il diritto di secessione previsto dall’art. 72 (e dai corrispondenti delle precedenti costituzioni).

Tale diritto è (logicamente) esercitabile se la repubblica aspirante alla secessione ha la possibilità di darsi un indirizzo politico in contrasto con quello della federazione; ma se “il nucleo” del sistema politico “la forza che dirige ed indirizza la società” (e così via) è un’organizzazione unica e totalitaria per cui “il centralismo democratico combina la direzione unica con l’iniziativa e l’attività creativa locale, con la responsabilità di ogni organo statale e di ogni funzionario per l’incarico affidato”, la diversità d’indirizzo politico non poteva manifestarsi: l’autonomia dello Stato-membro in una federazione retta da un partito unico e totalitario, in quanto tale detentore del monopolio del potere politico, ha campi di azione assai più limitati di quelli che può trovare in uno Stato anche unitario, ma pluralista. Il problema della natura federale dello Stato e della salvaguardia dell’unità politica, nel sistema comunista era risolto con l’uovo di colombo rappresentato dal controbilanciare la pluralità degli Stati con l’unità del partito (e quindi della direzione politica).

In realtà che la vera costituzione dell’URSS (e degli altri regimi di “socialismo reale”, fosse la dittatura del Partito comunista, è provato a posteriori dal fatto che lo scioglimento del PCUS ha coinciso con quello dell’Unione sovietica, dissoltasi nelle repubbliche della C.S.I. L’architrave del sistema era quello e non le centinaia di disposizioni della Costituzione formale, alla quale in quella occasione fu dimostrato come si adattasse bene il giudizio di Stutcka: d’essere un “foglio di carta”.

3. La distinzione tra dittatura commissaria (quella “classica”) e dittatura sovrana (cioè quella bolscevica e, prima, giacobina) è stata formulata da Schmitt4; tale distinzione tuttavia è già in nuce in Bodin, nella dicotomia tra sovranità ed altri poteri pubblici. L’argomentazione di Bodin si fonda sul fatto che “così come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, poiché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti, come si dimostra secondo ragioni naturali e necessarie, così possiamo dire che quel principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a se stesso senza con ciò annullare il suo stesso potere”; per cui “le prerogative sovrane devono essere tali da non poter convenire altro che al principe sovrano; se anche i sudditi possono esserne partecipi, esse cessano di essere tali”5.

E il concetto che discrimina la sovranità da tutti gli altri poteri pubblici è quello di limite: non è tanto il potere di dare leggi, fare pace o guerra, conferire potestà pubbliche ad altri soggetti, rendere giustizia a connotare il potere sovrano, (giacché l’uno o l’altro di questi poteri sono conferiti anche ad altri organi e soggetti pubblici), ma quello di farlo senza limiti (giuridici), di oggetto, di procedimento, di tempo. E’ questa la concezione che formula Bodin e che sarà, per così dire, raffinata dai pensatori successivi, per culminare nella definizione di Kant. Infatti anche per i magistrati straordinari, in primis il dittatore romano, sussistevano limiti all’esercizio del potere e questo era conferito per delega del sovrano: “né il dittatore dei Romani, né l’armosta a Sparta, né l’esimneta a Salonicco, né quel magistrato di Malta che veniva chiamato archus, né l’antica balìa di Firenze, magistrature tutte che avevano press’a poco le stesse funzioni, né il reggente di un regno, né alcun altro magistrato che abbia avuto per un limitato periodo di tempo potere assoluto di disporre dello Stato, ha veramente avuto la sovranità. E non significa niente che i primi dittatori avessero pieno potere”6 e ciò perché “il dittatore romano non era né principe né magistrato sovrano, come molti hanno scritto, e non disponeva che di una commissione con un fine preciso, o condurre una guerra, o reprimere una rivolta, o riformare lo Stato, o istituire nuovi magistrati; mentre la sovranità non è limitata né quanto a potere né quanto a compiti né quanto a termini di tempo”7.

Se andiamo a leggere qualcuna delle commissio conferite all’epoca dell’assolutismo, la distinzione tra sovrano e “commissario” (cioè organo straordinario) appare evidente, per quanto ampi siano i poteri conferiti dal primo al secondo. Nel diploma, ad esempio, rilasciato da Ferdinando IV di Napoli al Cardinale Ruffo (Palermo 25/1/1799) per la difesa del Regno, a questi sono conferiti vastissimi poteri: principio (e delega generale) è che “Ogni mezzo che dall’attaccamento alla Religione, dal desiderio di salvare le proprietà, la vita e l’onore delle famiglie, o dalle ricompense per chi si distinguesse, crederà di poter impiegare, va adoprato senza limite, ugualmente che i castighi i più severi. Qualunque molla finalmente che giudicherà poter suscitare in quest’istante, e crederà capace di animare quegli abitanti ad una giusta difesa, dovrà eccitarla”.

I poteri conferiti al Cardinale erano: fare proclami; rimuovere, sospendere, arrestare e nominare ogni funzionario pubblico; adoperare ogni risorsa finanziaria delle “casse regie” (con rendiconto); amministrare la giustizia; comandare le forze militari regolari e levarne di irregolari; organizzare servizi d’informazione.

Il Re ripete “Per ottenere ciò non le prescrivo mezzi, che tutti lascio al suo zelo, tanto in modi di organizzazione, che per la distribuzione delle ricompense di ogni genere: se queste saranno in danaro, potrà accordarle subito; se saranno in onori ed impieghi che prometterà potrà istallare interinalmente quelli che giudicherà, e me ne renderà inteso per la conferma ed approvazione, come pei distintivi promessi”; e ribadisce “Non, mi estendo in dettagli maggiori per le misure di difesa, che nel massimo grado da lei aspetto; molto meno per quelle contro le mozioni interne, attruppamenti, seduzioni, emissari e mala volontà di alcuni. Lascio al discernimento di V. Eminenza il prendere le più pronte determinazioni e per la giustizia subitanea contro tali delinquenti” (i corsivi sono nostri). Per quanto ampi fossero i poteri del Cardinale, erano limitati (oltre che da qualche obbligo, soprattutto d’informazione, rendicontazione e approvazione) dalla stessa commissio finalizzata alla riconquista e pacificazione del Regno. Proprio la distinzione tra sovrano e commissario (del sovrano), la presenza e la preminenza del primo sul secondo consentiva di ricondurre quest’ultimo nell’ambito dell’istituzione, quale organo straordinario (ed eccezionale) di questa, subordinarlo all’insieme e di limitarne i poteri.

4. Caratteri della dittatura commissaria erano da un lato d’essere strumento utilizzato solo nelle situazioni eccezionali: la straordinarietà dell’organo e dei suoi poteri era il riflesso dell’eccezionalità della situazione; secondariamente di avere un mandato limitato dello scopo (condurre una guerra, reprimere una rivolta); in terzo luogo di avere dei limiti di tempo; infine di essere comunque soggetta a controlli ed approvazioni di un altro organo, cioè quello sovrano, cui doveva rispondere.

La dittatura sovrana, di converso, non conosce (altrimenti non sarebbe tale) questi limiti: non – o solo in parte – quello dell’eccezionalità della situazione. Come scriveva Jhering, nell’antica Roma, “se ci si trovava in una situazione d’emergenza, si nominava un dittatore” e questa era un’azione “di salvataggio compiuta dal potere statale”8; mentre la dittatura sovrana non è limitata e funzionalizzata dall’emergenza: piuttosto lo è dalla transizione (da un ordine ad un altro); non è un’azione del potere statale, ma nasce da un potere di fatto opposto allo Stato.

Soprattutto, non ha limiti giuridici, proprio perché sovrana. Intendendo poi “limitato” in relazione ai presupposti (elementari) di un pensiero giuridico istituzionalista9, per cui il limite è, in primo luogo, quello istituzionale, più specificamente organico.

Ovvero il limite che incontra la dittatura “classica” è di essere inserita in una forma istituzionale, in cui c’è un organo (ordinario) che ha funzioni di controllo, autorizzazione, sorveglianza, approvazione riguardo all’organo straordinario (e ai di esso atti). Il primo è comunque un organo costituito, oltre che, talvolta, costituente. L’essere organo di un’istituzione, composta di una pluralità di organi, uffici e relative subordinazioni, coordinazioni, sfere di attribuzioni limita doppiamente l’istituto della dittatura: per l’inserimento in una forma istituzionale e per la presenza, conseguente, di tali organi, almeno uno dei quali detiene una posizione di preminenza (superiorità) rispetto all’organo commissario.

Nella dittatura sovrana tale – principale – limite viene meno: il dittatore risponde non a un organo costituito, ma semmai ad un potere costituente, che ha il connotato precipuo di non essere neppure costituibile. In se non vi è una possibilità giuridica (cioè, in primis, istituzionale) di controllo, ma solo politica, almeno finchè viene ammesso un pouvoir constituant.

Più che nell’eccezione la dittatura sovrana trova, come cennato, il proprio presupposto e la propria “giustificazione” nel diverso (concetto di) transizione: dal vecchio al nuovo ordine, da quello ingiusto al giusto. Ordinamento futuro che richiede una nuova costituzione, e/o addirittura la (previa) trasformazione di tutto l’ordine sociale.

Nella dottrina comunista questo è già previsto da Marx ed Engels; resta il fatto, comunque, che anche senza una costituzione (in senso formale) una costituzione sussiste comunque (e non potrebbe non esserlo almeno finchè esiste l’unità politica). Costituzione che può coincidere con l’autorizzazione (presunta o meno) all’esercizio del potere in capo ad un soggetto (collettivo o individuale): e questa non può mancare almeno finchè si ha un’esistenza politica. Vale per la dittatura sovrana quello che Santi Romano scriveva in relazione allo Stato assoluto “Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza al sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica”10. Così del pari, anche se non delineato in “dottrina” come nel marxismo, la transizione (da una vecchia alla nuova costituzione, dal vecchio al nuovo ordinamento) appare anche nella prassi della Convenzione francese del 1792-1795: in particolare con la redazione della nuova Costituzione (direttoriale), la cui entrata in vigore coincise con lo scioglimento dell’assemblea e la formazione degli organi (pouvoirs) ordinari.

Altri caratteri della dittatura sovrana non differiscono da quelli della dittatura commissaria: così l’idea (più che l’atto) della commissio (inserita nel concetto di trasformazione dell’ordinamento) così il presupposto del “nemico”. Anche se l’attivazione di organi (e/o misure) straordinari non è limitata ai casi di guerra esterna o interna, giacchè spesso sono impiegati per fronteggiare situazioni d’emergenza provocate da calamità naturali, di solito si ricorre alla dittatura in questi casi.

Nella dittatura sovrana della Convenzione la necessità di combattere il nemico esterno (la prima coalizione) ed interno (classi privilegiate, clero refrattario, insorti realisti) giustificava la dittatura (e anche la sospensione della prima costituzione approvata) in forza del nemico (e la guerra) esterna ed interna. Anzi, in entrambi i casi, proprio il compito assegnato alla dittatura moltiplicava il numero dei nemici: se infatti questo consiste nell’instaurazione di un nuovo ordine, chiunque si opponga a ciò diventa un nemico, anzi nell’immediato, il nemico. Man mano che procede l’edificazione dell’ordine nuovo i nemici si susseguono.

Così nella Rivoluzione francese alle classi già privilegiate seguirono gli insorti realisti, con l’intermezzo dei girondini e degli arrabbiati, e l’accompagnamento di Danton; in quella sovietica ai bianchi ed ai socialrivoluzionari seguirono i trozkisti, poi i kulaki, infine la vecchia guardia bolscevica. All’esterno polacchi, forze dell’Intesa; a metà tra interno ed esterno ucraini ed altre nazionalità. Le dittature sovrane sono, sotto tale aspetto, i moltiplicatori più efficaci del numero dei nemici.

5. La seconda metà del XX secolo ha visto cadere molti regimi dittatoriali, anche se, da un certo momento, il termine dittatura è stato adoperato di preferenza per quelle di “destra”, mentre i regimi comunisti venivano qualificati, per lo più, in modo diverso a seconda delle preferenze politiche del qualificatore (da “Stato totalitario” a “regimi del socialismo reale” e così via). Sta di fatto che, in Europa, (e spesso anche altrove) queste dittature (di destra o di sinistra), a partire dalla seconda metà del secolo, sono cadute senza spargimento di sangue, o, quanto meno, senza guerre civili. Non ha fatto eccezione neppure quella sovietica. In fondo a questa si può estendere quanto fu detto riguardo al franchismo: d’essere morto di vecchiaia (per la Spagna, fisica, essendo un regime “personale” di Franco; per l’Unione Sovietica, ideale, come si conviene da un’ideocrazia utopistica).

A chiedersi perché, al contrario di quelle cadute nella prima metà del secolo, queste siano finite in maniera incruenta (o quasi) la risposta più probabile è dato proprio dal nemico (reale). Una dittatura, infatti, come ad esempio quella dei colonnelli greci o quella franchista spagnola, erano prive di reali nemici interni (perché debellati o posti in condizione di non nuocere) ed anche esterni. Infatti, almeno nell’ambito del mondo occidentale gli USA e gli altri Stati democratici non percepivano quelle dittature come nemici reali, sia perché tale era il comunismo, sia perché queste rappresentavano un’eccezione, forte ma relativa, rispetto all’ordine democratico-liberale (e perciò assai meno pericolosa); d’altra parte la stessa rappresentazione, all’inverso valeva per i regimi greco e spagnolo. Quindi né gli Stati democratici erano nemici reali per tali dittature, né queste per quelli.

Per l’Unione Sovietica (e i paesi satelliti) la situazione creatasi, anche se differente, si fondava sempre sull’inimicizia. Infatti, a differenza che nel comunismo statu nascenti, per cui il nemico contro cui condurre la guerra giusta era il capitalista, in quello senescente la percezione del capitalismo come nemico si era sbiadita tra i governanti e, probabilmente, svanita del tutto o quasi tra le masse dei governati.

La dittatura del partito comunista era così erosa in ambedue i pilastri fondamentali: la percezione-convinzione che il capitalismo fosse il nemico assoluto, e la dittatura necessaria per lottarvi contro. Parimenti si era ridotta la fede che il comunismo fosse la “fine della storia” e la dittatura il mezzo necessario per attingerlo. Venivano così meno entrambe le condizioni che giustificavano la dittatura. Da ciò la sua caduta tra tanti sbadigli e nessuna convulsione.

T.K.

1 Über verfassungswesen (conferenza del 16 aprile 1862), trad. it. in Behemoth n. 20

2 P. Stutcka La costituzione della R.S.F.S.R. in domande e risposte, Milano 1920, p. 12-13

3 Op. cit., p. 13

4 v. Die Diktatur trad it. Bari 1975

5 Six livres de la République, lib. I, cap. X, trad. it., Torino 1964

6 Op. cit., lib. I, cap. VIII.

7 Op. loc. cit.

8 R. von Jhering Der Zweck im recht, trad. it., Torino 1972, p. 185

9 v. Santi Romano L’ordinamento giuridico, p. 15, quando definisce l’ordinamento giuridico “in tal senso, si parla, per esempio, del diritto italiano o del diritto francese, non è vero che si pensi soltanto ad una serie di regole o che si presenti l’immagine di quelle fila di volumi che sono le raccolte ufficiali delle leggi e decreti. Ciò a cui si pensa, dai giuristi e, ancor più, dai non giuristi, che ignorano quelle definizioni del diritto di cui parliamo, è invece qualche cosa di più vivo e di più animato: è, in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese; i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse. In altri termini, l’ordinamento giuridico, così comprensivamente espresso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso”.

10 V. Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 3.

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Arta Moeini, La crisi della modernità liberale e la risposta totalitaria_a cura di Roberto Buffagni

Questo intelligente e ambizioso saggio si propone di indagare la trasformazione del liberalismo in totalitarismo morbido, riconducendola alla logica interna del liberalismo come manifestazione della Modernità. L’Autore, Arta Moeini, è uno dei redattori fondatori di AGON. Il dott. Moeini è un teorico della politica internazionale e direttore di ricerca presso lo Institute for Peace & Diplomacy.

È interessante, oltre che curioso, notare che l’analisi di Moeini coincide in più punti con quella che io ho delineato in forma sintetica in questi due articoli: GUERRA IN UCRAINA. QUAL È LA POSTA IN GIOCO CULTURALE?, del 17 marzo 2022[1] e REALTA’ PARALLELA E REALTA’ DELLA GUERRA II PARTE, del 28 marzo 2022[2]. Interessante e curioso perché Moeini è un nietzschiano, io un cattolico conservatore. La parziale confluenza delle nostre analisi si realizza nel realismo politico da entrambi condiviso, a partire da diversissimi presupposti culturali.

In questa traduzioni non vengono riportate le note, consultabili nel testo originale: https://www.agonmag.com/p/the-crisis-of-liberal-modernity-and

 

 

La crisi della modernità liberale e la risposta totalitaria

Il paradosso della libertà e la fissazione messianica dell’uguaglianza galvanizzano le tendenze dispotiche della modernità.

 

di Arta Moeini

22 febbraio

 

 

Le democrazie industrializzate avanzate stanno vivendo tempi spaventosi e strani, caratterizzati da crisi apparentemente senza fine, isteria di massa e una successione di emergenze, il tutto amplificato dallo Stato e dalle istituzioni di propaganda sociale, nominalmente indipendenti, con cui ha sviluppato un rapporto simbiotico.

L’analisi offerta dalla maggior parte dei critici della nostra attuale situazione – quelli giustamente allarmati dagli eccessi del securitarismo, della centralizzazione, del globalismo e dello statalismo – è più o meno questa: che il liberalismo moderno o l’ordine neoliberale rappresentano una perversione del liberalismo classico o delle origini e che solo restaurandoli e tornando ai loro principi originari i buoni liberali dell’Occidente potrebbero raddrizzare la rotta e porre rimedio alla situazione. Tali affermazioni non sono del tutto errate, ma sono superficiali.

Il dilagare dello Stato manageriale liberale in un Leviatano totalitario e di portata mondiale è in parte il risultato degli stessi successi della visione liberale del mondo – quello che potremmo definire il “progetto moderno” – nonché il naturale culmine di tre antinomie fondamentali per il liberalismo.

 

Come siamo arrivati qui?

L’attuale tempesta distopica si sta rafforzando da tempo, almeno dall’inizio del XXI secolo. Non solo l’attacco terroristico dell’11 settembre ha spinto la macchina bellica statunitense a una serie di guerre senza fine in una guerra globale al terrorismo, ma l’amministrazione di George W. Bush ha sfruttato quella tragedia e la minaccia di Al-Qaeda per consolidare e razionalizzare ulteriormente un regime di sorveglianza che ha drammaticamente ampliato e abusato del Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA). Tre presidenti democratici e repubblicani più tardi, l’intelligence statunitense – con la complicità delle Big Tech – continua a sorvegliare in massa gli americani sul territorio degli Stati Uniti con scarsa trasparenza e supervisione.

Lo spettro del Covid-19 ha solo accelerato questa tendenza allarmante e ha allargato la portata della securitizzazione e della politica della paura alla salute pubblica. Da un giorno all’altro, molti governi occidentali si sono trasformati in Stati di biosicurezza, imponendo passaporti per il vaccino, limitando i viaggi e rinchiudendo i propri cittadini in nome della sicurezza pubblica. Si è sempre dubitato che tali misure draconiane fossero necessarie o addirittura utili a “rallentare la diffusione” di un virus altamente trasmissibile (come dimostrato dalle varianti Delta e Omicron). Tuttavia, la gestione bellica del virus da parte di Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito e molti Paesi europei ha creato un clima marziale in cui era essenzialmente accettabile trattare i “non vaccinati” come cittadini di seconda classe, persino come una pericolosa minaccia, con la minima considerazione per la sovranità corporea o lo scetticismo scientifico.

 

Nel 2022, la famosa nozione di “stato di eccezione” di Carl Schmitt era diventata una caratteristica ordinaria della vita in molte parti del mondo. Una situazione in cui il sovrano trascende la sua autorità politica e costituzionale apparentemente per proteggere il pubblico da una qualche emergenza in una società sempre più polarizzata sembra essere diventata la nuova normalità nel mondo occidentale.

Un anno fa, nel febbraio 2022, due eventi distinti, apparentemente non correlati, hanno catturato la condizione dispotica e distopica del nostro Zeitgeist. In primo luogo, le proteste pacifiche organizzate dai camionisti canadesi contro gli eccessi delle norme Covid, note come Freedom Convoy, sono state stroncate dalla piena mobilitazione dello Stato canadese, con l’esplicito appoggio del governo statunitense e delle multinazionali. Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha dichiarato lo stato di emergenza, permettendo al suo governo di ignorare e calpestare le libertà civili dei canadesi in nome della sicurezza.

 

All’epoca, il famoso giornalista americano Matt Taibbi lo paragonò alle azioni del dittatore rumeno Nicolae Ceauşescu. Un’inchiesta ufficiale sull’episodio, pubblicata questo mese, ha tuttavia rilevato che l’ordine di emergenza aveva raggiunto la “soglia molto alta” di un’emergenza nazionale. Nonostante la sua “riluttanza” a schierarsi con il governo Trudeau, il commissario Giudice Paul Rouleau ha scritto che “la libertà non può esistere senza ordine“. L’implicazione è che è il governo che può decidere cosa costituisce “libertà” e quali sono i suoi limiti.

 

Vivere in quello che Carl Schmitt chiamava “stato di eccezione” è diventata la nuova normalità nelle società occidentali.

In secondo luogo, “The Blob”, l’establishment che dirige la politica estera USA, e i suoi alleati nei media mainstream, hanno suonato le sirene di una guerra santa per difendere la nascente “democrazia” ucraina – e, a quanto pare, lo stile di vita occidentale – dal cattivo e autoritario Vladimir Putin. Galvanizzati da molti membri dell’amministrazione Biden, i falchi del Nord Atlantico hanno adottato un duplice approccio alla loro agenda interventista, facendo leva sul moralismo dei loro gruppi di pari e sulle corde del cuore delle masse per propagandare le loro dubbie – e altamente ideologiche – affermazioni sulla vitalità geopolitica dell’Ucraina e sulla sua importanza per l’alleanza occidentale.

 

Con una vittoria occidentale realisticamente impossibile, il wishful thinking, le esortazioni manichee e le proclamazioni veementi dei leader occidentali hanno avuto come unico risultato quello di prolungare la guerra, congelare il conflitto, impedire una soluzione diplomatica e approfondire la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti e dalla NATO. Questa politica ha imposto un enorme tributo ai civili ucraini e ha gravato sulle economie e sulle popolazioni occidentali con un’inflazione e una carenza di energia senza precedenti. Senza contare che aumenta drammaticamente il rischio di escalation militare e lo spettro di un’apocalisse nucleare. Ma punire la Russia, presumibilmente, vale tutto questo e molto di più.

Questi episodi evidenziano anche la propagazione sistemica e selettiva dell’informazione e il securitarismo del discorso intorno alla “crisi attuale” sempre rigenerata come crisi “di emergenza” del momento, senza la quale è difficile mantenere e giustificare la politica della paura e dell’eccezione. Infatti, stabilire un resoconto di base della crisi adatto all’inflazione di minacce, plasmare e influenzare la percezione del pubblico in modi moralistici e produrre consenso intorno alla linea d’azione desiderata sono fondamentali per ottenere i controlli psicologici e sociologici – e il paradigma temporaneo del consenso – necessari per invocare i poteri di emergenza.

 

Nel mondo post-Covid, l’Occidente si trova di fronte alla terribile prospettiva di poter diventare il portabandiera di un nuovo tipo di regime: un regime socialmente totalizzante, sorvegliante, monopolizzatore dell’informazione, biopolitico e marziale, mascherato dall’involucro gradevole della democrazia liberale. Ma quali sono il pathos filosofico e le basi sociologiche di un sistema che ha reagito ed esagerato in modo così inquietante ed estremo da cooptare e armare la crisi come strumento di legittimazione politica e di massimizzazione del potere?

 

Uno Stato socialmente totalizzante, sorvegliante, monopolizzatore dell’informazione, biopolitico e marziale, mascherato con l’involucro di benessere della democrazia liberale, sta diventando il regime standard dell’Occidente.

Per svelare questo fenomeno inquietante, è necessario fare un viaggio nella storia delle idee ed elaborare una genealogia critica della Modernità, la visione paradigmatica del mondo e il complesso storico nato sulla scia delle guerre di religione europee e dell’Illuminismo. Dobbiamo identificare i codici ideologici alla base della nostra attuale matrice sociale ed eseguire una diagnosi o un’autopsia del paradigma e dello zeitgeist che abitiamo.

 

I malcontenti intrinseci del liberalismo

Oggi, soprattutto in Occidente e sempre più a livello globale, siamo tutti allevati nella modernità liberale. Un modo per cercare di cogliere e sistematizzare le basi della condizione moderna è quello di intenderla come “forma di vita” liberale o Weltanschauung, in cui la vita diventa inseparabilmente legata alla politica. Sostengo che la décadence culturale, la perdita di significato, l’angoscia esistenziale e le dislocazioni politiche e sociali che debilitano l’Occidente sono innescate da una crisi di legittimità al centro della visione liberale del mondo e dallo sforzo del regime esistente di consolidare e preservare la propria autorità e la struttura di potere esistente (in un momento in cui l’autorità dell’autorità è sempre più messa in discussione).

 

Ma cosa contraddistingue la Modernità come pathos filosofico e come si rapporta al liberalismo?

 

La modernità è certamente un concetto ambiguo e sfuggente: in un certo senso, riflette la temporalità, intendendo semplicemente ciò che è attuale, presenziale o nuovo. Tuttavia, ha anche una definizione filosofica e sostanziale: una particolare mentalità e un paradigma che arriva a dominare la costellazione di valori dell’Occidente a partire dal XVI secolo con la Riforma protestante e poi con l’Illuminismo. Le sue caratteristiche sono riassunte nell’espressione familiare “progetto moderno“.

 

Come orientamento alla vita, la modernità rappresenta la sublimazione di ciò che il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche chiama la pulsione apollinea, caratterizzata dal desiderio o dall’istinto umano di dominare e soggiogare la materia e la natura, la volontà di creare ordine dal tragico disordine della vita. Alcuni dei costrutti teorici ed epistemologici più influenti dell’era moderna sono stati tentativi di incapsulare ed esprimere questa pulsione apollinea, dal razionalismo e dallo scientismo all’utilitarismo e persino al marxismo.

 

Se la modernità è la forma, il liberalismo è la sostanza originaria: l’insieme delle principali razionalizzazioni, lo schema teorico o filosofico, necessario per portare avanti il progetto moderno e che può essere utilizzato anche per dare un senso allo Zeitgeist moderno e ai suoi “baldacchini sacri” e immaginari sociali sui generis, in gran parte secolari.

 

Man mano che il paradigma liberale maturava in uno Zeitgeist che ha prima plasmato l’esperienza vissuta e l’orizzonte dell’immaginazione dell’uomo occidentale e poi ha consolidato il suo trionfo sulle visioni del mondo alternative con la globalizzazione della Modernità, il suo stesso successo ha reso più pronunciate ed esplicite le sue contraddizioni intrinseche. Questo sviluppo, a sua volta, ha generato una crisi di legittimità per il liberalismo, in cui si sono affermati l’incredulità, il dubbio e il nichilismo, e la fede nelle premesse originali è diventata sempre più incredibile.

 

Il paradigma liberale ha condizionato l’esperienza vissuta dell’uomo occidentale e ha trionfato sulle visioni del mondo alternative con la globalizzazione della Modernità.

Il liberalismo soffre di almeno tre antinomie originarie:

 

  1. Dominazione vs. Autonomia. Il liberalismo cattura la volontà moderna di dominio affermando il controllo dell’uomo sulla materia e sulla natura. L’agente umano viene considerato come la fonte ultima dell’autorità, che si sottrae a Dio, alla Storia, alla Tradizione o alla Natura. Di conseguenza, richiede una netta rottura con il passato e con le strutture sociali tradizionali che sono viste come limitanti e costrittive per l’uomo. La “libertà” dell’uomo, si ritiene, richiede un progetto di liberazione sistemica dalle gerarchie e dalle norme del passato, che sono ingombranti o oppressive, in modo da poter creare un nuovo ordine basato sull’autonomia e sull’agenzia dell’individuo.

 

Questa è la ragion d’essere del liberalismo nella sua fase iniziale. La Rivoluzione francese, il Regno del Terrore e le esecuzioni di massa che scatenò sotto il leader giacobino Maximilien Robespierre illustrano al meglio il legame tra desiderio di liberazione e desiderio di dominio. Il fascino persistente della rivoluzione violenta e dell’attivismo sociale nella psiche occidentale attraverso le generazioni incarna questa disposizione paradossale.

 

  1. Universalismo vs. soggettivismo. Il liberalismo professa la fede in alcuni principi immutabili e universali (verità autoevidenti) derivati da una concezione fissa della natura umana. Essi sono fondamentali per la teoria dei diritti (naturali). Al centro di questa antropologia filosofica – cioè la concezione liberale della natura umana – c’è il possesso da parte dell’uomo della ragione e della volontà razionale, di cui tutti, in quanto umani, sono partecipi in egual misura.

 

Tuttavia, se da un lato afferma l'”ethos dell’uguaglianza“, dall’altro il liberalismo segna la svolta verso l’individualizzazione della moralità, invitando al soggettivismo etico ed epistemologico. Ciò porta a una forma di solipsismo in cui i valori, la conoscenza e persino la realtà sono veri o oggettivi solo nella misura in cui il singolo agente umano li ritiene tali. Questa visione è sostenuta dalla convinzione che la volontà razionale dell’uomo abbia un’esistenza a priori, indipendente dalla società, dalla cultura, dalla storia e dalle gerarchie di valore e di potere. Sia l’identitarismo moderno che la fissazione moderna per l’uguaglianza senza riserve trovano qui le loro giustificazioni originali.

 

  1. Perennialismo vs. perfettibilità dell’uomo (il mito del progresso). Dato il suo impegno a favore di una natura umana fissa e universale, il liberalismo è presenzialista e sprezzante nei confronti della storia e del divenire, che considera una forza esterna alla natura essenziale dell’uomo come agente autonomo (homo liber) e che quindi ritiene perturbante per la sua libertà. Le formulazioni astratte e reificate del liberalismo sradicano l’uomo dalla sua esistenza storica concreta e trascendono le complessità della vita comunitaria. Nel suo idealismo filosofico, il liberalismo privilegia quindi la perennità dell’uomo come categoria nominale, ideativa e immutabile rispetto all’uomo nella vita reale, come homo cultus saldamente radicato in una rete estesa di relazioni familiari e sociali, inserito in comunità storiche e cresciuto all’interno di particolari nazioni o culture.

 

Allo stesso tempo, forse influenzato dalla sua discendenza e dal suo impulso protestante, il liberalismo ritiene che le potenzialità, i poteri e la dignità dell’uomo non siano stati pienamente realizzati – la sua apoteosi è stata interrotta – a causa dei vincoli strutturali posti sull’uomo che lo separano dal suo telos universale. Questo astio contro l’ordine ereditato radica nel pensiero liberale un desiderio di cambiamento che è in tensione con ciò che il liberalismo considera immutabile, cioè la sua visione essenzialista dell’uomo come homo liber. Poiché trova sgradevole la realtà data – il mondo così com’è – il liberalismo deve sviluppare un’apposita teoria della storia che possa accogliere il cambiamento sociale.

 

L’obiettivo della storia deve essere il progresso umano verso una società in cui tutti sono completamente uguali e l’uomo è pienamente razionale, interamente libero e perfettamente produttivo. L’uomo è un agente teleologico che attualizza la padronanza quasi sovrumana dell’umanità sulla natura e sulla materia. Privilegiando la linearità rispetto alla vecchia ciclicità del tempo (principalmente pagana), il liberalismo adotta una visione apocalittica, seppure astorica, della storia, finalizzata alla realizzazione dell’Utopia o della Città di Dio sulla Terra: una società “giusta” che realizza pienamente i principi egualitari universali, sradicando ogni differenza, distinzione e legame. Una “nuova” società in cui l’antropologia filosofica fissa del liberalismo e la sua nozione idealistica di libertà umana sono attuate e raggiunte attraverso il livellamento e la massificazione delle persone (e l’appiattimento della cultura superiore e dei suoi imperativi gerarchici).

 

Le contraddizioni interne del liberalismo sono difficili da risolvere senza ricorrere al potere sovrano dello Stato moderno.

Queste tensioni non sono mai state facili da conciliare. L’ascesa dell’utilitarismo, dell’hegelismo e del marxismo nel XIX secolo può essere intesa in parte come il primo tentativo dell’Occidente di affrontare e risolvere le suddette antinomie a favore del progresso, dell’universalismo e del controllo, che Bentham, Hegel e Marx vedevano come potenzialità incarnate nello Stato moderno o nella dialettica storica che potevano essere utilizzate per avanzare e raggiungere la libertà.

Nella sua forma più influente, il Romanticismo, con la sua glorificazione dell’uomo comune, il sentimentalismo, il soggettivismo e il democratismo, fu un’altra emanazione. Il suo esponente più importante, Jean Jacques Rousseau, reagì contro l’interpretazione illuministica della libertà, riconcependo l’uomo come originariamente e naturalmente perfetto e concentrando la sua interpretazione sull’autonomia e sull’emancipazione dell’uomo dalle “catene” della società. Secondo Rousseau, la libertà sarebbe sinonimo e impossibile da raggiungere senza l’uguaglianza, una mossa che ha provocato le tendenze politicamente rivoluzionarie insite nel liberalismo – presto incarnate dai giacobini – e che da allora è diventata un aspetto ineludibile della modernità liberale.

 

In contrasto con la spinta all’omogeneità, alla convergenza storica e all’uniformità globale del liberalismo standard, un liberalismo che privilegiava la libertà personale e intellettuale e conservava alcune delle sensibilità gerarchiche e aristocratiche del vecchio mondo occidentale, era rappresentato da personaggi come Alexis de Tocqueville, Jacob Burckhardt e John Stuart Mill. Sottolineando l’autonomia privata rispetto al dominio (cfr. la prima antinomia), questi pensatori ponevano maggiore enfasi sull’individualità, sulla libertà di pensiero e su un governo limitato.

 

Va notato che l’enfasi sulla libertà umana come valore culturale determinante non è appannaggio esclusivo della modernità liberale, così come viene usata in questa sede. L’ Homo liber è formativo nello sviluppo dell’umanesimo rinascimentale incarnato dal pensiero di Montaigne e Machiavelli, che hanno preceduto il liberalismo e sono stati suggestivi di una modernità alternativa. Forse influenzato dai pensatori dell’Illuminismo scozzese, Edmund Burke fu un proto-liberale, o un liberale esitante, che privilegiando la religione, la virtù e gli elementi ancestrali e tradizionalisti, tentò di creare una sintesi tra il liberalismo Whig e il conservatorismo europeo del tardo XVIII secolo, sperando di indicare la strada per una rivitalizzazione della vecchia eredità occidentale in via di calcificazione.

L’approccio sincretico di Burke non trovava un conflitto tra l’apprezzamento per l’individualità e la diversità e l’enfasi sulla comunità e sulla monarchia ereditaria. Difensore dell’aristocrazia e della diversificazione sociale, era fortemente antiegalitario e sosteneva una sorta di unità organica. Burke attribuiva grande importanza alla cultura, alla gerarchia e all’immaginazione come collante della società e rimase un critico acuto dell’idealismo astratto e dell’individualismo razionalistico. Aborriva l’incapacità di comprendere la natura storica dell’esistenza umana, compresa la grande dipendenza dell’umanità dalle forme ancestrali. L’atomismo sociale e gli astratti diritti individuali di un John Locke gli erano del tutto estranei. Burke offriva un’interpretazione più gradualista del progresso che si scontrava fondamentalmente con il ceppo dominante del liberalismo del suo tempo, che diede origine alla Modernità liberale.

 

Nonostante le spinte primarie della Modernità liberale, il pensiero liberale stesso non è mai stato del tutto univoco. Non ha offerto un’unica interpretazione della libertà, né c’è stato un accordo uniforme sullo strumento o sul meccanismo per raggiungerla. Ciò che unifica i diversi orientamenti che hanno dato forma alla modernità liberale, tuttavia, è un profondo idealismo filosofico. Al di sotto delle varie interpretazioni della libertà si nasconde una comune antropologia filosofica, fissata sull’universalità e l’indivisibilità dell’idea dell’uomo come agente libero, l’homo liber come categoria assoluta che sovrasta tutti gli altri valori umani contestati che conducono alla prosperità umana.

 

Un profondo idealismo filosofico unifica i diversi orientamenti della modernità liberale.

Secondo questa visione idealistica e riduzionista dell’uomo, tutti gli esseri umani sono innatamente liberali e lo sarebbero anche nella vita reale, a meno di impedimenti esterni o sociali che corrompono la loro costituzione liberale interna. Come osserva giustamente il filosofo John Gray, tale convinzione rende il desiderio missionario di sopraffare ed eliminare continuamente le forze oscure e disgregatrici considerate antiliberali – una nuova forma di “male” – una parte intrinseca dell’agenda liberale.

 

In modo sottile, i paradossi di cui sopra animano gli attuali conflitti nelle società occidentali, mostrandoli come sintomi della generale malattia filosofica – in ultima analisi, psicologica e persino fisiologica – al cuore della modernità liberale.

 

Il secondo avvento totalitario del liberalismo

Poiché tutti i sistemi tendono a resistere al loro disfacimento e alla discesa nel disordine, il liberalismo è stato spinto a risolvere le sue contraddizioni intrinseche in una nuova unità, cosa che ha fatto favorendo l’elemento più totalitario o ordinatore di ogni antinomia. Questo spiega l’evoluzione del liberalismo nel XX secolo. Una delle prime conseguenze della battaglia interna del liberalismo per raggiungere una nuova forma più sostenibile è stata l’alba dell’ordine “neoliberale” e l’ascesa del liberalismo (tardo-moderno) che è oggi il nostro Zeitgeist. Questa trasformazione è più il destino del liberalismo, più il prodotto di un suo desiderio di sopravvivenza, che una perversione o un tradimento dei suoi ideali – che è la convenzionale interpretazione conservatrice/classica “liberale” degli sviluppi contemporanei.

Data la crisi di legittimità che la tarda modernità liberale si trova ad affrontare, le tensioni interne allo schema liberale vengono risolte in modi sempre più autoritari e totalitari. Come accennato in precedenza nella discussione della terza antinomia, la Modernità è stata ispirata dall’impeto di una nuova forma di immaginazione che evocava una visione del mondo trasformato. Questo desiderio sognante e missionario di un mondo migliore, che giustificava e ampliava il campo di intervento attivo dell’uomo, rafforzava le potenzialità totalitarie del meliorismo razionalistico, conferendo alla Modernità una dimensione quasi spirituale.

 

La crisi di legittimità della modernità liberale invita a reazioni autoritarie e totalitarie.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il liberalismo moderno ha risolto efficacemente la prima tensione – dominio contro autonomia – ricorrendo all'”egemonia”, in cui il dominio culturale e intellettuale viene mascherato e presentato come liberatorio, con l’Altro che dà un consenso spontaneo o riflessivo. La seconda tensione – universalità contro soggettivismo – è stata risolta attraverso l'”ideologia”, per cui tutti sono condizionati e propagandati a credere le stesse cose. La riserva di universalità viene mantenuta stabilendo l’identità dell'”uomo”, come inteso dal liberalismo, con l'”universale”.

 

La terza e ultima tensione – perennialismo vs. meliorismo – trova soluzione nella “tecnocrazia” e nel nuovo “culto della competenza”. Una nuova classe di mandarini viene socializzata (soprattutto attraverso l’università moderna) e installata in posizioni di potere e influenza nella cultura in generale. A sua volta, questa classe indottrina il pubblico e funge da “avanguardia” del nuovo regime. Questa classe professionale-manageriale ha il compito di condurre le mandrie di uomini verso la terra promessa, cosa che tenta di fare attraverso l’uso selettivo della “scienza” (la fede secolare), dell'”ideologia” (le nuove scritture) e della tecnologia (un bastone da pastore) per il controllo, l’emissione del messaggio, il monitoraggio e la manipolazione.

 

Alla base di questa risoluzione c’è la crescente fiducia che il Controllo sia necessario e fonte del Bene. Impiegato in modo appropriato, alla fine creerà un’utopia di giustizia sociale. Il mito del progresso si consolida nell’idea che, in teoria, tutto può essere conosciuto e che la conoscenza umana può essere illimitata (cfr. certezza epistemologica); che l’applicazione della conoscenza disponibile (scientismo/positivismo) al mondo materiale e sociale, la definizione stessa di tecnologia, guida l’umanità verso la perfettibilità; e che questo processo raggiungerà il miglioramento della condizione materiale e morale di tutta l’umanità.

 

Mentre la ricerca del dominio inizialmente si maschera come liberazione dalle vecchie strutture e gerarchie mantenute dalla tradizione, dall’aristocrazia o dalle istituzioni patriarcali, la ricerca del dominio sulla natura e poi sulla società richiede, col tempo, l’acquisizione e la sovversione della società stessa, un progetto ingegneristico completo. Questa ricerca richiede l’indottrinamento finale di esperti che si considerano, a ragione, oracoli dell’età moderna in grado di prevedere il corso della Storia. Questa tendenza è perfettamente esemplificata da John Stuart Mill, per il quale il dibattito libero distrugge le credenze e le istituzioni tradizionali e pone le basi per il dominio di esperti illuminati, animati da quella che Mill chiama, con Auguste Comte, la “religione dell’umanità“.

Il liberalismo moderno ha creato un triplice apparato di controllo e di conformità attorno a “egemonia”, “ideologia” e “tecnocrazia”.

È interessante notare che, date le sue radici quasi cristiane, l’inclinazione altruistica e moralmente egualitaria del primo liberalismo viene innescata e problematizzata già durante il XIX secolo, quando le condizioni di vita ordinarie di molte persone nelle aree urbane peggiorano con l’aumento dell’industrializzazione e la massificazione che l’accompagna. Nel marxismo, figlio ideazionale e utilitaristico della modernità e del liberalismo, si trova il riconoscimento, e forse la prima reazione sistematica, alle complessità e ai problemi scatenati dalla continua presenza di disuguaglianze socio-economiche e alla profonda inquietudine che questa realtà contraddiceva il mito del progresso.

 

 

Molti – utilitaristi, rivoluzionari marxisti in senso estremo e (più tardi) leader del Movimento Progressista – giunsero alla conclusione che il “progresso” non avrebbe potuto realizzarsi senza l’intervento umano. La consapevolezza che il progresso richiederà di essere plasmato e incanalato attivamente ha richiamato l’attenzione sull’importanza della leadership e delle élite. Per guidare il popolo, un nuovo ordine di rango, presumibilmente basato su meriti e credenziali, doveva essere giustificato e dotato di autorità. Il liberalismo prebellico (conservatore) cercò di resistere a queste convinzioni, ma il liberalismo postbellico (ispirato dal New Deal di FDR) le combinò con gli ideali di progresso sociale e di uguaglianza globale nel neoliberismo. Lo Stato avrebbe ora acquisito un ruolo più centrale e collaborato con le grandi imprese per fornire beni pubblici e giustizia sociale ed economica. Il liberalismo moderno identificava quindi la liberazione con un progressivo egualitarismo il cui raggiungimento comportava un aumento dei controlli sociali e politici.

 

Il liberalismo e il marxismo si sono rivelati come espressioni diverse dello stesso Giano moderno, cioè come schemi diversi che cercano di formalizzare e razionalizzare l'”essere-nel-mondo” o “sé” moderno. Questo Giano Moderno difende l’uguaglianza e il progresso come segni distintivi della libertà umana e professa di abbattere le vecchie gerarchie per realizzarli; eppure, asservisce l’uomo a forme sempre nuove di gerarchia innaturale e di controllo sotterraneo, sacrificando la grandezza umana e la fioritura culturale sull’altare della mediocrità e dell’omogeneità.

 

La modernità è una creazione occidentale, ma i suoi effetti non si limitano all’Occidente. Come una termite, divora le gerarchie radicate delle civiltà, lasciando dietro di sé solo un guscio vuoto.

La modernità è una creazione occidentale, ma i suoi effetti non sono limitati al mondo occidentale. Ovunque venga introdotto e qualunque forma assuma alla fine, questo Proteo dalle molte forme e facce dissangua e corrode la civiltà che lo ospita, lasciando solo un guscio vuoto che vacilla sul baratro, forse più che in Occidente. In tutto il mondo, questo dio trasmigrato appiattisce maniacalmente la società e sfigura o distrugge le istituzioni ereditate, mentre, allo stesso tempo, innalza nuove strutture di repressione e subordinazione totale. Incarna la forza anti-vita e anti-cultura per eccellenza.

 

Allora, cosa spiega il notevole successo e la resistenza dell’ordine mondiale neoliberale e l’attrazione del suo programma di negazione della vita?

 

Le fonti del potere (e del declino?) del liberalismo

Il successo travolgente del liberalismo contemporaneo nelle società occidentali è dovuto all’uso efficace di quello che può essere definito il circuito di retroazione egemonia-prestigio. L'”egemonia” è il processo attraverso il quale una classe dominante stabilisce il controllo socio-culturale sui gruppi subordinati, sposando e segnalando la propria leadership morale e intellettuale su di essi in modo tale che le classi inferiori acconsentano effettivamente alla propria dominazione da parte delle classi dominanti. La conformità degli inferiori è assicurata attraverso la segnalazione delle élite, in cui le classi superiori usano il loro capitale sociale o “prestigio” per indicare al pubblico comportamenti corretti da emulare, nonché facendo leva sulla loro posizione all’interno dell’establishment socio-politico per sfruttare il potere della propaganda moderna.

 

In questo processo, la narrazione delle élite, che trasmette la loro benevolenza e la visione di una società migliore per tutti, viene interiorizzata dalle masse e trasformata in una narrazione “sacra”, che le condiziona ad agire come desiderato, in modo che non ci sia bisogno di forzarle o costringerle. Nel loro immaginario è radicata la convinzione che con i loro governanti partecipano, ritualmente e simbolicamente, a cause giuste e cosmopolite, persino sacre.

La tecnologia moderna e i social media hanno solo aumentato il raggio d’azione delle élite e il loro monopolio sulla “verità”, mentre i resoconti che se ne discostano vengono attivamente respinti come disinformazione. Garantire la conformità è un processo a più livelli che utilizza il securitarismo e l’armamento della “crisi” come veicoli attraverso i quali le élite raggiungono la solidarietà di classe, i dissidenti vengono ulteriormente emarginati e il pubblico in generale subisce una “formazione di massa”.

 

Questo processo di omogeneizzazione rafforza le identità di gruppo attraverso le linee di classe e ossifica le posizioni sociali, proteggendo, riaffermando e rafforzando lo status quo. L’ homo liber genera così il suo inevitabile altro, quello che il filosofo italiano Giorgio Agamben chiama acutamente homo sacer, l’uomo “maledetto” o “bandito” che vive in una sorta di purgatorio tra la cittadinanza e il controllo statale, essendo allo stesso tempo membro di una comunità politica e vivendo al di fuori di essa a causa del suo rifiuto di conformarsi alle nuove norme stabilite.

 

Questo processo si estende oltre l’Occidente. In diverse società, le caste superiori – che si identificano con gli ideali occidentali di progresso liberale – formano un blocco ideativo liberale decentralizzato e informale che serve a promuovere, come forma di vita ideale, l’ordine mondiale neoliberale e la sua apposita ideologia universalista. L’ imprinting globale dell’ideologia liberale tra le élite internazionali di diverse civiltà, che la usano come moneta di potere e di status, globalizza l’egemonia culturale del liberalismo e dà potere alle istituzioni e alle ONG occidentali che perpetuano l’ideologia. Questa dinamica rafforza il sistema mondiale neoliberale esistente e le organizzazioni internazionali che lo difendono con il potere della semiotica e della retorica e con le loro regole ostinate, noiose e arcane.

 

L’inevitabile conseguenza della Modernità liberale è la proliferazione del totalitarismo morbido o interiorizzato, dell’omogeneità e del conformismo globale, in nome della libertà e della democrazia.

Il risultato è la proliferazione del totalitarismo morbido o interiorizzato e lo scatenamento dell’omogeneità e del conformismo in nome della libertà e della democrazia, non solo in Occidente ma a livello globale. Questo totalitarismo morbido è ancora più pernicioso della tirannia coercitiva o del totalitarismo duro, che si ottengono con la violenza, perché uccide la criticità, il dissenso e il libero pensiero, diminuendo l’energia spirituale o intellettuale necessaria per la sopravvivenza di una società sana. Il totalitarismo morbido è, in parte grazie ai suoi appelli all’immaginazione sognante e alle ricerche utopiche, anche molto più sottile della tirannia coercitiva esteriore. Ed è più difficile da individuare, per non parlare della difficoltà di resistergli.

 

Il totalitarismo morbido è anche più socializzato, incoraggiando la cittadinanza a diffamare, ostracizzare e cancellare le voci dissidenti che si ritiene abbiano violato un implicito vincolo sacro, dando vita a una dinamica noi contro loro, in cui l’identità collettiva è forgiata in un’opposizione manichea all’Altro. Questa forma di guerra alla mente del totalitarismo premia i dogmi e i luoghi comuni più che l’imparzialità e il buon senso. Promuove il pensiero di gruppo come mezzo per monopolizzare il pensiero, anzi, la percezione stessa della realtà. L’obiettivo è chiaro: garantire lo status quo contro qualsiasi rottura e superamento radicale.

 

Un fattore importante che rivela e contribuisce all’ascesa del totalitarismo soft è che il confine originario tra Stato e società civile, tra pubblico e privato – divisione che era stata enfatizzata nel primo liberalismo – è oggi sempre più sfumato e inaridito. Una profonda crisi epistemologica su ciò che è conoscenza, esacerbata dall’accelerazione della politicizzazione di tutti gli aspetti della vita, aggrava la dinamica totalizzante. La crescente disintegrazione dei confini e delle distinzioni sociali nella tarda Modernità liberale, e la confusione e l’assenza di significato che ne derivano, fanno presagire una crisi d’ autorità di prim’ordine, in cui sia la classe politica (governo e burocrazia statale) sia gli esperti e persino la conoscenza che professano (“scienza”) vengono gradualmente ripudiati. Tutto ciò fa presagire un maggiore allontanamento, una polarizzazione, un conflitto futuro e persino una rivoluzione sociopolitica. Inoltre, alza ulteriormente la posta in gioco per la Modernità liberale: esercitare il potere diventa un problema esistenziale.

 

La preoccupante traiettoria della tarda modernità liberale verso la perdita di autorità fa presagire futuri conflitti sociali; inoltre, rende l’esercizio del potere un imperativo esistenziale per l’imperium liberale.

La risposta naturale dell’establishment a questa crisi definitiva di legittimità è quella di consolidare e combinare lentamente l’apparato di controllo sociale e di formazione della cultura (cioè i media, le grandi imprese e il mondo accademico), storicamente appannaggio della società civile, con i meccanismi di comando politico e di autorità legale già a sua disposizione. In effetti, si crea una struttura massiccia e complessa di controllo e conformità, un regime integrato che può essere chiamato imperium liberale.

 

L’imminente guerra contro l’imperium

L’ imperium liberale, ancora in fase di consolidamento, è una mostruosità hobbesiana. Influenzato dalla guerra civile inglese, Hobbes aveva in mente uno Stato con un controllo assoluto, ma con lo scopo limitato di mantenere l’ordine. Il nuovo Leviatano aspira a un controllo totale. Sembra decentralizzato, ma è integrato attraverso le classi e le ideologie, con un chiaro gruppo interno e un gruppo esterno e le masse apatiche (cfr. l'”ultimo uomo”) nel mezzo. Il profondo risentimento del gruppo esterno, unito alla generale mancanza di capacità d’azione politica della popolazione, rende quest’epoca storica particolarmente incline al pensiero cospirativo, che dobbiamo identificare come un altro sintomo della patologia generale del paradigma tardo-moderno.

Il filosofo italiano Antonio Gramsci ha osservato in modo preveggente quasi cento anni fa: “Quando lo Stato ha tremato, si è subito rivelata la robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo un fossato esterno, dietro il quale si trovava un potente sistema di fortezze e di sbarramenti“. La robusta struttura di cui parla Gramsci – forse il ventre del moderno Leviatano – è stata continuamente rivelata e usata come arma dall’establishment nell’inquadrare le nostre numerose guerre infinite, il COVID, l’ESG e, più recentemente, la guerra in Ucraina.

 

In tutti questi casi, i meccanismi di controllo sociale e di addomesticamento sono regolarmente impiegati per ottenere il consenso quasi spontaneo del pubblico attraverso la “formazione delle masse” e per trasformarle, attraverso la mobilitazione psicologica, in collaboratori inconsapevoli, se non addirittura consenzienti, del regime e dei suoi fini desiderati. Questi fini sono mascherati come prerequisiti per la libertà e persino mascherati come morali e giusti, ma equivalgono a una spaventosa sovversione della libertà e del senso comune.

 

L’ascesa del regime integrale può sembrare promettere alla classe dirigente una sorta di stabilità, ma è più che probabile che si tratti di una fase transitoria. È improbabile che l’attuale stato di cose sia sostenibile per decenni e potrebbe degenerare in un vero e proprio totalitarismo, con tutte le sue dimensioni politiche oppressive e pericolose.

 

Il Leviatano di Hobbes aveva lo scopo limitato di mantenere l’ordine civile. Il Leviatano moderno aspira a un dominio totale, che non è sostenibile.

Resta da vedere se il risveglio ancora incoerente, anche se vigoroso, dell’apparato di controllo liberale genererà un desiderio radicale e tragico di “superamento” (la décadence) tra il crescente numero di gruppi (di prestigio) emarginati in Occidente, le persone che si sono liberate dalla caverna liberale e vedono attraverso la sua falsa costruzione, o quelle provenienti da altre civiltà la cui Weltanschauung è in conflitto con il paradigma liberale moderno. Sembra che sia iniziato un contraccolpo, anche se ancora per lo più embrionale, e se si rafforzerà, ci si può aspettare che l’imperium liberale colga ogni opportunità per securizzare ulteriormente e armare le crisi al fine di eliminare questi neonati dissenzienti prima che diventino adulti.

 

L’uomo era il soggetto del progetto moderno, ma sempre più spesso questo soggetto è stato trasformato nell’oggetto preferito della modernità: è stato trattato come una tela bianca su cui imprimere il nuovo ordine. Quindi, proprio mentre il regime cerca di in-formarci, noi dobbiamo dis-formarci in una lotta radicale contro il nostro stesso io conformato. È in questo spirito che dobbiamo cercare di comprendere la famosa nozione di Nietzsche di “volontà di potenza”. Il tedesco ci esorta ad andare oltre la politica, le sue banalità e la sua partigianeria, per smantellare e sublimare i complessi sistemi di potere culturale e di prestigio sociale che l’egemonia ideologica della modernità liberale ha imposto.

 

Questo radicalismo spirituale e intellettuale è il primo passo per coltivare una contro-élite “dionisiaca” che rifiuti attivamente l’idealismo moderno e le illusioni ideologiche liberali, come il “progresso” o la “felicità”, a favore di un realismo concreto e storicamente radicato che consacri la vita, la natura, la società organica e la salute culturale.

 

In quest’ora fatidica, abbiamo bisogno di un realismo tragico e radicale, che gridi un duro No alla decadenza negatrice della vita e un duro Sì ai vincoli e ai limiti rigenerativi posti all’uomo dagli imperativi dell’unità organica e dell’evoluzione umana.

[1] http://italiaeilmondo.com/2022/03/17/guerra-in-ucraina-qual-e-la-posta-in-gioco-culturale_di-roberto-buffagni/

[2] http://italiaeilmondo.com/2022/03/28/realta-parallela-e-realta-della-guerra-ii-parte-di-roberto-buffagni/

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L’AFRICA RIFIUTA I “VALORI” DELL’OCCIDENTE!_di (Bernard Lugan)

Su questo sito abbiamo più volte sottolineato il ruolo inconsistente e nefasto svolto dai paesi europei in Africa, specie nella area costiera mediterranea e subsahariana. Il deprimente allineamento dei paesi europei alla linea russofobica e di aperta ostilità alla Russia, tra le enormi implicazioni di postura geopolitica, di politica estera e di natura socio-economica, ne avrà una ancora del tutto sottovalutata dalle classi dirigenti europee, in particolare di Francia e Italia: l’obbligo di attenzione verso l’unico spazio geopolitico in qualche maniera rimasto agibile, l’Africa appunto. Una strada obbligata da percorrere, però, nelle condizioni peggiori. Nessuno dei paesi europei, allo stato, dispone di sufficienti strumenti diplomatici, politici, economici e militari sufficienti a perseguire politiche più autonome; gran parte delle classi dirigenti africane hanno assunto ormai una consapevolezza dell’interesse nazionale tale da consentire l’assunzione di un proprio ruolo autonomo e di agire tra le contraddizioni e gli spazi di un contesto multipolare ben visibile in Africa; le grandi dinamiche geopolitiche di quel continente sono ormai in mano ad altri protagonisti, nella fattispecie Stati Uniti, Cina, Russia, India e Turchia in particolare. Ai paesi europei non resta alla fine che il ruolo di meri ausiliari. Un contesto che rischia pesantemente di vellicare tentazioni ed avventure neocoloniali che puntino ad agire sulle diversità etniche e tribali rese presentabili nella veste della salvaguardia dei diritti umani e della tutela di una democrazia formale che in realtà non fa che sancire il predominio di gruppi etnici. Tentazioni coltivabili, come ovvio, nella condizione di ausiliari nella competizione geopolitica in corso. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Bernard Lugan è un noto storico specializzato in Africa. In un momento in cui i riflettori dei media sono puntati sul conflitto russo-ucraino, ci è sembrato utile pubblicare questa intervista che getta nuova luce sulle relazioni molto deteriorate tra Francia e Africa. Ciò che è in gioco in questo continente in piena espansione demografica è di grande importanza per comprendere meglio la ricomposizione in corso delle relazioni internazionali e la perdita di influenza della Francia nonostante (o a causa di) i suoi (maldestri) interventi politici e militari.

(Questa intervista è apparsa originariamente sul sito web di Boulevard Voltaire)

 

 

 

Gabrielle Cluzel

Bernard Lugan, il 9 febbraio pubblicherai una Storia del Sahel, dalle origini ai giorni nostri (Éditions du Rocher), essenziale per comprendere le minacce del mondo di oggi. Per te, è importante conoscere questa storia. Pensi che questo fattore sia sottovalutato?

Bernard Lugan

I decisori francesi non hanno visto che gli attuali conflitti saheliani sono prima di tutto risorgenze “modernizzate” di quelle di ieri, che inscritte in una lunga catena di eventi, spiegano quelli di oggi.

Prima della colonizzazione, i meridionali sedentari venivano catturati nella tenaglia predatoria dei nomadi. Un fatto comune a tutto il Sahel, dal Senegal al Ciad dove troviamo lo stesso problema. Alla fine del XIXe In un secolo, la colonizzazione ha bloccato l’espansione di entità predatorie nomadi il cui crollo è stato fatto nella gioia dei sedentari che hanno sfruttato, i cui uomini hanno massacrato e venduto donne e bambini agli schiavisti del mondo arabo-musulmano.

Ma, così facendo, la colonizzazione ha invertito l’equilibrio di potere locale offrendo vendetta alle vittime della lunga storia dell’Africa, mentre riuniva predoni e predoni entro i limiti amministrativi dell’AOF (Africa occidentale francese). Tuttavia, con l’indipendenza, i confini amministrativi all’interno di questo vasto insieme divennero confini di stati all’interno dei quali, essendo i più numerosi, i sedentari prevalevano politicamente sui nomadi, secondo le leggi immutabili dell’etno-matematica elettorale. Gli ex governanti non accettarono di diventare sudditi dei loro ex vassalli, quindi fu posto il problema conflittuale saheliano. Le prime guerre tuareg scoppiarono nel 1960 in Mali, poi in Niger e Ciad dove i Toubou si sollevarono.

G.C.

Nel tuo libro, seguiamo costantemente l’interazione tra la geografia e ciò che definisci etno-storia. Perché i decisori francesi non l’hanno visto?

B

Questo è davvero il cuore della cascata di errori commessi dai decisori politici francesi mentre i militari avevano capito la realtà sul terreno, ma non sono stati ascoltati. In Mali siamo stati al cospetto di due guerre, quella dei Tuareg a nord, quella dei Fulani a sud, e poi, più tardi, si è aggiunta quella dello Stato Islamico nella regione dei tre confini.

Nel nord, e come ho più volte detto nei miei articoli su Real Africa, la chiave del problema era detenuta oggi dai Tuareg riuniti di nuovo attorno alla “leadership” di Iyad Ag Ghali, leader storico delle precedenti ribellioni tuareg. Politicamente, avremmo dovuto raggiungere un accordo con questo leader di Ifora con il quale inizialmente avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è prima di tutto identitaria prima di essere islamisti. Tuttavia, per ideologia, per rifiuto di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno politica africana francese consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Anche il secondo conflitto, quello del sud (Macina, Liptako, Burkina Faso settentrionale e regione dei tre confini), ha radici etno-storiche e la loro forza trainante è costituita da alcuni gruppi Fulani.

G.C.

Lei scrive che il jihadismo è “il più delle volte lo schermo del traffico di droga”. Quindi i due mali sono strettamente intrecciati?

B

Un altro errore di Parigi è stato quello di aver “essenzializzato” la questione chiamando sistematicamente come jihadista qualsiasi bandito armato o anche qualsiasi portatore di armi. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, abbiamo avuto a che fare con trafficanti che affermavano di essere jihadisti per coprire le loro tracce. Perché è più gratificante pretendere di combattere per la maggior gloria del profeta che per le stecche di sigarette, le spedizioni di cocaina o per il controllo delle rotte migratorie verso l’Europa. Da qui la giunzione tra traffico e religione, la prima nella bolla assicurata dall’islamismo. L’errore della Francia è stato quello di aver rifiutato di vedere che ci trovavamo di fronte alla spazzatura delle rivendicazioni etniche, sociali, mafiose e politiche, opportunamente vestite con il velo religioso, con diversi gradi di importanza di ogni punto a seconda dei momenti.

G.C.

Lei spiega che un altro errore francese è stato quello di aver globalizzato la questione quando era imperativo regionalizzarla.

B.L

Proprio perché Parigi non voleva vedere che ISGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) e AQIM (Al-Qaeda per il Maghreb Islamico) hanno obiettivi diversi. L’ISGS, che è collegato a Daesh, mira a creare un vasto califfato transetnico in tutta la striscia sahelo-sahariana per sostituire e comprendere gli stati attuali. Da parte sua, essendo AQIM l’emanazione locale di ampie frazioni dei due grandi popoli all’origine del conflitto, vale a dire i Tuareg nel nord e i Fulani nel sud, i suoi leader locali, i Tuareg Iyad Ag Ghali e i Fulani Ahmadou Koufa, hanno obiettivi principalmente locali e non sostengono la distruzione degli Stati del Sahel. Parigi non ha visto che c’era un’opportunità sia politica che militare da cogliere, che non ho mai smesso di dire e scrivere, ma in Francia non ascoltiamo le opinioni degli “eretici”… Di conseguenza, i decisori parigini hanno categoricamente rifiutato qualsiasi dialogo con Iyad ag Ghali. Al contrario, il presidente Macron ha persino dichiarato di aver dato a Barkhane l’obiettivo di liquidarlo… Contro quanto sostenuto dai capi militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “digitando” indiscriminatamente tutti i GAT (gruppi terroristici armati) perentoriamente descritti come “jihadisti”, rifiutando così qualsiasi approccio “raffinato”. “à la française”…

G.C.

Qual è il ruolo di Wagner nella regione del Sahel?

B

Permettetemi di essere molto chiaro: rifiuto questa mania di attribuire agli altri le cause dei nostri fallimenti. Se Wagner ha preso il nostro posto nella Repubblica Centrafricana, è perché Sarkozy ci ha fatto evacuare Birao, chiusa di tutta questa parte dell’Africa che i russi, che sanno leggere una mappa, hanno naturalmente occupato. Poi perché Hollande aveva i pannolini distribuiti dai nostri eserciti quando era necessario colpire e molto duramente la Seleka. Abbiamo perso la fiducia dei nostri alleati locali e tutto il nostro prestigio. I russi dovevano solo raccogliere il frutto maturo che avevamo lasciato sull’albero. . . In Mali era la stessa cosa e l’ho spiegato a lungo all’inizio di questa intervista.

Ma, più in generale, attraverso il rifiuto della Francia, sono i “valori” dell’Occidente che l’Africa rifiuta. Il continente, che, nel suo insieme, si riconosce nei valori naturali della famiglia vede con repulsione il “matrimonio per tutti”, i deliri LGBT o il femminismo castrante di ogni virilità proposta come “valori universali” dall’Occidente. Per gli africani, questa è una prova di decadenza. Questo è il motivo per cui la Russia appare, al contrario, come un contrappeso di civiltà al frantoio morale-politico occidentale.

Per quanto riguarda la democrazia “alla francese”, è vista come una forma di neocolonialismo. Tanto più che proporre agli africani come soluzione ai loro problemi l’eterno processo elettorale, il miraggio dello sviluppo o la ricerca del buon governo è ciarlataneria politica… Gli eventi dimostrano costantemente che in Africa, democrazia = etno-matematica, il che si traduce in gruppi etnici più grandi che vincono automaticamente le elezioni. Ecco perché, invece di spegnere le fonti primarie di incendio, le elezioni le rianimano. Per quanto riguarda lo sviluppo, tutto è già stato provato in questo settore dall’indipendenza. Invano. Inoltre, come possiamo ancora osare parlare di sviluppo quando è stato dimostrato che la demografia suicida africana vieta ogni possibilità?

G.C.

Quindi, quale futuro?

B

Decine dei migliori bambini in Francia sono caduti o tornati mutilati per aver difeso un Mali i cui uomini emigrano in Francia piuttosto che combattere per il loro paese. Ma, richiesto dagli attuali leader maliani in seguito ai numerosi errori di Parigi, il ritiro francese ha lasciato campo libero al GAT, offrendo loro anche una base d’azione per destabilizzare Niger, Burkina Faso e paesi vicini. Il bilancio politico di un decennio di coinvolgimento francese è quindi catastrofico.

La Francia sta ora affrontando un rifiuto globale. Se il Niger, un paese più che fragile in cui abbiamo appena ritirato le nostre forze, dovesse subire un colpo di Stato, la situazione diventerebbe problematica e il ritiro verso le coste un’emergenza. Ma con quali mezzi di ritiro? Gli uomini possono ancora essere evacuati per via aerea, ma per quanto riguarda i veicoli e le attrezzature, dal momento che non abbiamo jumbo jet?

La priorità urgente è quindi sapere cosa stiamo facendo nella striscia sahelo-sahariana dove non abbiamo interessi, compreso l’uranio trovato altrove. Dobbiamo quindi definire finalmente e molto rapidamente i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo o meno disimpegnarci, a quale livello e, soprattutto, senza perdere la faccia.

Occorre trarre diversi insegnamenti da un colossale fallimento di cui, va ripetuto, i responsabili politici sono gli unici responsabili. In futuro, dovremo dare priorità agli interventi indiretti o alle azioni rapide e ad hoc delle navi, che eliminerebbero lo svantaggio dei diritti territoriali percepiti localmente come una presenza neocoloniale insopportabile. Sarebbe quindi necessaria una ridefinizione e un aumento del potere delle nostre risorse marittime e delle nostre forze di proiezione.

Ultimo ma non meno importante, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si sviluppi. Ciò implica che i nostri intellettuali finalmente capiscono che i vecchi governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etno-matematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti sono ora i loro padroni. Questo sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma questa è la realtà africana. Più che mai, è quindi importante riflettere su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne trarranno beneficio… In una parola, il ritorno alla realtà, la rinuncia alle “nuvole”, che passa attraverso la conoscenza della geografia e della storia, ed è questo lo scopo del mio libro e delle sue numerose mappe.

21 febbraio 2023

(Questa intervista è apparsa originariamente sul sito web di Boulevard Voltaire)

https://www.minurne.org/billets/34553

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