Credi nella magia?_di Aurelien_a cura di WS

Credi nella magia?
Nella nostra fragile società, quale altra speranza c’è?

30 aprile 2025
Stavolta per gentile richiesta de l’ amico Germinario mi occuperò un pochino di più del nostro Aurelien.
Aurelien , e l‘ho più volte detto, è sicuramente molto bravo e contrariamente a me ( non so voi ) “è uomo di mondo” ( anzi ci fa spesso capire che addirittura “ha fatto il militare a Cuneo” ) e volendolo inquadrare in modo iperbolico lo si potrebbe paragonare ad un “Tacito” perché è mosso da un sincero dispiacere nel vedere la rovina del “suo mondo” ( e “suo “ nel senso più profondo) e ne coglie l’ origine nella bassezza intellettuale ma soprattutto morale di una classe dirigente non più all’ altezza del proprio passato.
“Mondo” che lui ha visto bene “ all’opera” , “opera” che non era certo nè morale , nè disinteressata anche se ammantata di moralismo e “filantropia”. Lui lo sa ( perché l’ ha visto) e forse vi ha anche sentitamente partecipato , almeno fino “ad un certo punto”, o per ingenuo entusiasmo o necessità di carriera.
Finché , finita in qualche modo la “carriera” adesso di “quel mondo” può descriverne metodi e magagne , ma solo fino ad un certo punto perché “ quel mondo” era comunque “il suo”.
Così come già una volta scrissi , Aurelien è un medico “sintomatologico” , cioè “descrive “la malattia” e ne prevede “il decorso” (purtroppo “funesto” ) ma non ne denuncia le “cause prime”e tantomeno ne propone ”cure”.
Ad esempio laddove egli scrive correttamente “l’Occidente si trova oggi in una situazione di confusione irrecuperabile è che è fissato sulle tattiche a breve termine, ma non ha una vera strategia se non a livello dichiarativo.” lui sa benissimo di riferirsi al solo livello gestionale visibile , che sembra “confuso” solo perché in realtà “ esegue ordini” da un livello strategico superiore che sicuramente non è “stupido” e della cui strategia i “decisori apparenti” sono tenuti all’oscuro . “Rovesciare Putin” non è un pensiero magico , ma lo scopo primario dei “veri decisori” perché rimuovere “il kathecon del Cremlino” “in QUALSIASI modo” è lo scopo strategico di chi evidentemente ha già li pronte diverse “pedine”.
Questo anche Aurelien lo sa , ma se lo dicesse poi dovrebbe argomentare su chi siano e cosa vogliano i “veri decisori”.
Infatti “l’Occidente ha in gran parte perso la capacità di pensare e pianificare a lungo termine” perché ai “decisori apparenti” questo non è concesso in quanto c’è “qualcuno” che lo fa per loro , “ decisori apparenti opportunamente “selezionati ” a cui quindi non è permesso in alcun modo avere un pensiero indipendente dagli “ordini ricevuti”.
E “questo anche Aurelien lo sa , ma se lo dicesse etc. etc…”
E se “ l’Occidente ha progressivamente perso la capacità di formulare e far funzionare i meccanismi per mettere in pratica ( le sue visioni)” è perché anche un grosso organismo ( e tanto più quanto più è grosso ) ha difficoltà a prosperare con il “cervello hackerato”.
E “questo anche Aurelien lo sa etc. etc…”
Altro esempio :”Non solo mancano le capacità tecniche, ma anche i processi di pensiero”. Giusto! Ma questo non è avvenuto per caso. Chiunque abbia avuto un qualche continuo contatto con i “sistemi educativi” de “l’Occidente” ha visto emergere ed ingrossare questo problema di sicuro a partire dal “mitico’68” e chiunque abbia provato anche solo a denunciare il processo è stato sempre emarginato da una “narrazione” contraria, “magica” appunto in tutti i sensi.
E “questo anche Aurelien etc. etc…”
E potrei anche andare oltre con il solo risultato che più chioso Aurelien e più mi convinco del paragone con “Tacito”. Anche Lui aveva delle tesi da dimostrare lasciando però “illibata” la sua classe di appartenenza, il che se salva il suo valore di storico ne inficia pesantemente quello di politico.
E , non so voi, ma io sono abbastanza smaliziato da vedere in tutto questo una cosa chiamata “gatekeeping”. Buona lettura, WS
Il sito Italia e il Mondo non riceve finanziamenti pubblici o pubblicitari. Se vuoi aiutarci a coprire le spese di gestione (circa 4.000 € all’anno), ecco come puoi contribuire:
– Postepay Evolution: Giuseppe Germinario – 5333171135855704;
– IBAN: IT30D3608105138261529861559
PayPal: PayPal.Me/italiaeilmondo
Tipeee: https://it.tipeee.com/italiaeilmondo
Puoi impostare un contributo mensile a partire da soli 2€! (PayPal trattiene 0,52€ di commissione per transazione).
Contatti: italiaeilmondo@gmail.com – x.com: @italiaeilmondo – Telegram: https://t.me/italiaeilmondo2 – Italiaeilmondo – LinkedIn: /giuseppe-germinario-2b804373
Sono lieto di annunciare che un’altra recente ondata ci ha portato a un soffio da 9500 abbonati e “follower”, un numero infinitamente superiore a quello che mi sarei mai aspettato. Vorrei dare il benvenuto e ringraziare tutti i nuovi abbonati, e soprattutto coloro che hanno sottoscritto abbonamenti a pagamento o mi hanno offerto un caffè. Che gli dei vi ricompensino. Sono commosso anche dai gentili messaggi che le persone allegano agli abbonamenti a pagamento e ai caffè, che sono un potente incentivo a continuare.
Ciononostante, questi saggi saranno sempre gratuiti, ma potete sostenere il mio lavoro apprezzando e commentando, e soprattutto trasmettendo i saggi ad altri e i link ad altri siti che frequentate.
Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️ Grazie a coloro che hanno recentemente contribuito.
E come sempre, grazie a coloro che instancabilmente forniscono traduzioni in altre lingue. Maria José Tormo sta pubblicando le traduzioni in spagnolo sul suo sito qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Anche Marco Zeloni sta pubblicando le traduzioni italiane su un sito qui. Nei prossimi giorni pubblicherò la traduzione francese di Yannick di uno dei miei recenti saggi. Sono sempre grato a coloro che pubblicano occasionalmente traduzioni e riassunti in altre lingue, a condizione che si dia credito all’originale e che me lo si faccia sapere. E così:
*************************
Di solito non scrivo saggi di approfondimento, ma questa settimana farò un’eccezione. Il saggio della scorsa settimanaha raggiunto un pubblico molto vasto e ha suscitato molti commenti, e la discussione mi ha fatto capire che c’è ancora molto da dire in certe aree, e quindi forse dovrei continuare. (Ironia della sorte, visto l’argomento di oggi, un’interruzione di Substack ieri ha ritardato la pubblicazione). .
Il paradosso di scrivere saggi lunghi è che la gente di solito vuole che tu ne scriva di ancora più lunghi. Così ricevo lamentele per aver tralasciato qualcosa, ma molto raramente per aver inserito troppo. Così, le persone hanno fatto notare che – come speravo di aver chiarito – la discussione era limitata all’Occidente, e questo era intenzionale. Sebbene abbia avuto la fortuna di vedere una discreta parte del mondo nel mio tempo, non credo di avere la profondità di conoscenza necessaria per allargare la discussione oltre l’Occidente. Altre persone hanno sottolineato che ho offerto analisi piuttosto che soluzioni. Questo è vero (anche se ho linkato un precedente saggio in cui discutevo di come persone e gruppi avessero reagito alla disperazione e alla fine l’avessero superata) perché non mi illudo di essere un insegnante o un leader, o di essere più saggio di chiunque altro. Mi ha sempre colpito la decisione di Samuel Beckett di lasciare l’insegnamento al Trinity College di Dublino perché non poteva insegnare cose che non comprendeva appieno. In effetti, ho sottolineato che alcuni dei problemi che ho discusso non hanno in realtà soluzioni, e questo è il punto da cui dobbiamo partire.
Oggi voglio quindi estendere l’argomento a due punti collegati, che per motivi di spazio ho sfiorato molto brevemente la volta scorsa. Uno è il divario tra visione e attuazione, l’altro è la disconnessione tra il livello micro e macro. Entrambi riflettono una mia crescente preoccupazione: la nostra attuale classe dirigente vede il mondo e i suoi problemi in un modo che posso solo descrivere come “magico”, e non in senso positivo.
Il primo è essenzialmente una versione del vecchio argomento sull’interdipendenza tra strategia e tattica. La tattica senza strategia è solo un agitarsi senza scopo, mentre la strategia senza tattica è solo un esercizio vuoto. Uno dei motivi per cui l’Occidente si trova oggi in una situazione di confusione irrecuperabile è che è fissato sulle tattiche a breve termine, ma non ha una vera strategia se non a livello dichiarativo. E questa strategia, per quanto pietosa, non ha alcun rapporto particolare con le iniziative tattiche effettivamente intraprese: manca quella che i militari chiamano l’arte operativa, che trasforma la strategia in una serie di mosse tattiche organizzate verso un obiettivo definito. Rimanendo per un attimo nel discorso militare, possiamo vedere questo aspetto nell’attuale approccio occidentale alla guerra in Ucraina, dove vaghi obiettivi strategici (“rovesciare Putin!”) sono accompagnati da iniziative tattiche disarticolate e scollegate (“fare un raid in Crimea!”) che non hanno alcun effetto percepibile sull’andamento della guerra, ma che sono quanto meno possibili da realizzare. Come argomenterò, si tratta essenzialmente di un tipo di pensiero magico.
Ma è così da molto tempo. In uno dei miei primissimi saggi, ho sottolineato che l’Occidente ha in gran parte perso la capacità di pensare e pianificare a lungo termine. Così, siamo continuamente messi in ombra e delusi quando abbiamo a che fare con Stati che almeno si sforzano di guardare al futuro in modo organizzato. L’Occidente è un po’ come il manager di una squadra sportiva che si presenta poco prima della partita e dice “andate in campo e fate tutto ciò che vi sembra sensato”. Non è un buon modo per vincere le partite, di solito.
Nel mio ultimo saggio, ho sottolineato quanto fossero insolite e contingenti le iniziative per creare uno Stato moderno funzionante in alcuni Paesi occidentali, ad esempio. Esse richiedevano sia un senso a lungo termine degli interessi dei Paesi interessati, sia un’ideologia che incoraggiasse il perseguimento di tali interessi. Come ho sostenuto in precedenza, per ragioni culturali gli anglosassoni non sono mai stati particolarmente propensi alla pianificazione e all’attuazione a lungo termine, motivo per cui gli Stati meglio organizzati hanno cominciato progressivamente a mangiare i loro panini a partire dagli anni Settanta. Naturalmente questa riluttanza e la scomparsa di ogni reale capacità di pianificazione e attuazione fanno sì che, anche tra gli Stati occidentali, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti siano oggi particolarmente poco attrezzati per affrontare – per non parlare di anticipare o superare – il tipo di crisi di cui ho scritto la settimana scorsa. In passato ho già abbozzato alcune ragioni sociali e politiche, ma in questo saggio voglio dire di più sul perché le idee di “de-globalizzazione” o “on-shoring”, tra le altre, saranno praticamente impossibili da attuare per ragioni strutturali. Questo è vero soprattutto nei Paesi anglosassoni, ma ora è vero quasi nella stessa misura anche altrove in Occidente, dato il progressivo dominio delle idee anglosassoni.
Le visioni sono facili, ma l’Occidente ha progressivamente perso la capacità di formulare e far funzionare i meccanismi per metterle in pratica. In parte, ciò è dovuto al fatto che la comprensione ereditata dei passi pratici necessari è molto scarsa. Ad esempio, il re-shoring della produzione di alcuni prodotti farmaceutici comporterebbe attività che la maggior parte dei politici e degli opinionisti non ha mai sentito nominare, né tantomeno è in grado di descrivere. Trovare e importare le forniture di sostanze chimiche, progettare e costruire fabbriche, reclutare e formare tecnici specializzati e laureati in ingegneria chimica (naturalmente dopo aver istituito i corsi necessari), affrontare tutti i vari rischi per la salute e la sicurezza, creare un sistema di distribuzione dei prodotti… Dubito che gran parte della nostra attuale classe dirigente e dei suoi parassiti abbia una qualche idea anche solo delle fasi coinvolte, per non parlare di come metterle in sequenza. Per contro, c’è una grande esperienza nel chiudere le fabbriche, nel licenziare la forza lavoro e nel legarsi a fornitori esteri. Ma purtroppo non serve a molto in questo caso.
Anche se ci sono molti casi di ricostruzione dell’industria manifatturiera dopo conflitti e distruzioni (vedi la Seconda Guerra Mondiale, passim), ed esempi di transizione deliberata di economie da un tipo di produzione a un altro (diversi paesi scandinavi) non ci sono esempi, per quanto ne so, di paesi che hanno deliberatamente rinunciato a una capacità industriale e che successivamente hanno cercato di farla ricrescere con successo. In ogni caso, come ho sottolineato, una capacità è molto più di una fabbrica: è un insieme di risorse umane e materiali collegate, disposte in una sequenza coerente.
La fissazione anglosassone (e ora più ampiamente occidentale) per gli archetipi dell’imprenditore eroico e dell’universitario ha oscurato il fatto storico che nessuna industria significativa, e nessuna tecnologia chiave, è mai stata sviluppata senza un certo livello di pianificazione e di incoraggiamento da parte del governo. Molto presto, ad esempio, gli Stati si sono resi conto che i minerali di ferro, il carbone e la capacità di produrre acciaio erano importanti beni nazionali e hanno agito di conseguenza. L’idea moderna che anche i beni strategicamente importanti possano provenire da qualsiasi luogo, purché a basso costo, sarebbe sembrata incomprensibile anche solo mezzo secolo fa.
Mezzo secolo fa… sì. Il caso britannico è particolarmente istruttivo, perché è stato un precursore e un esempio. I britannici hanno giocherellato per alcuni decenni con l’idea di una politica industriale e di un piano nazionale, guardando al successo degli sforzi francesi che hanno portato al TGV e al Minitel: una generazione prima della Gran Bretagna. Negli anni Sessanta, l’attenzione era rivolta alla Germania e all’Italia come concorrenti, mentre a partire dagli anni Settanta fu il Giappone a mettere a ferro e fuoco l’industria britannica con importazioni a prezzi ragionevoli e di fatto ben fatte e affidabili. Questo non ha portato a veri e propri cambiamenti di comportamento, ma a iniziative di facciata, come l’abortito Piano Nazionale del governo laburista del 1964-70. E in seguito ha fatto arricchire un’intera generazione di consulenti di gestione, che hanno detto alle aziende di insegnare ai propri dipendenti l’Aikido e il Buddismo Zen, in modo che comprendessero i segreti della gestione giapponese. Ma in Gran Bretagna, come nella maggior parte dell’Occidente, i produttori nazionali si arresero: negli anni ’80, se si voleva un televisore di alta classe, se ne comprava uno giapponese, e di fatto lo si fa ancora. Da certe cose non si può guarire.
Il governo conservatore britannico eletto nel 1979 decise di adottare un approccio completamente diverso. Invece di imitare i concorrenti di successo della Gran Bretagna, decise di fare l’opposto di quello che facevano, e di affidarsi essenzialmente alla magia. Non uso questa parola a caso. Non intendo la magia nel senso austero dell’Alta Magia, ma nel senso vernacolare di rituali e incantesimi che dovrebbero produrre cambiamenti nel mondo reale. Così, tutto ciò che il governo doveva fare era creare il giusto ambiente magico (tasse basse, pochi regolamenti) e gli “spiriti animali” (interessante scelta di parole, questa) degli imprenditori avrebbero fatto spontaneamente il resto, attraverso la “magia” (interessante scelta di parole, questa) del “mercato”. Il mago, tuttavia, dopo aver evocato questi poteri, dovrebbe assicurarsi di stare ben lontano dal lavoro.
Questa ideologia, del tutto priva di qualsiasi fondamento empirico, si impose rapidamente, perché era culturalmente accettabile in un Paese che non amava la manifattura volgare, che preferiva la manipolazione di simboli astrusi al lavoro vero e proprio e che sperava segretamente di trovare una lampada magica che generasse denaro senza bisogno di sforzi reali. Ciò era più evidente nei tentativi di controllare l’inflazione che, secondo il governo, era il principale ostacolo a una rinascita economica nazionale, perché “complicava i calcoli” degli uomini d’affari, poveretti. Poiché si riteneva che l’inflazione fosse il risultato di una quantità eccessiva di denaro nell’economia, si doveva ridurre la quantità di denaro rendendo più costoso il prestito, quindi alti tassi di interesse avrebbero fatto scendere l’inflazione, per quanto paradossale potesse sembrare il tentativo di ridurre i prezzi aumentandoli. Ma questa è magia per voi. Naturalmente, il tasso di inflazione poteva essere misurato in molti modi diversi e il flusso di “denaro” nell’economia dipendeva da quale definizione si usava. Senza scoraggiarsi, il governo iniziò a “puntare” sulla crescita di M3, una delle definizioni di denaro, convinto che attraverso la manipolazione simbolica e la recita di formule incomprensibili, il tasso di inflazione sarebbe sceso. (Così, la storia del deputato conservatore frastornato che lascia l’aula dopo l’ennesimo annuncio del Cancelliere infarcito di gergo e borbotta: “Pensavo che M3 fosse un’autostrada”).
In realtà, i massicci aumenti dei tassi di interesse hanno fatto lievitare i costi e rilanciato l’inflazione, mentre allo stesso tempo, insieme a una sterlina sopravvalutata, hanno spazzato via ampi settori dell’industria britannica che non sono mai stati ricostruiti. Non importa, disse il governo, l’inflazione scenderà e tutto tornerà a posto dopo ritardi “lunghi e variabili”. Non è stato così, ovviamente.
Mi soffermo un po’ su questa storia perché è stato il primo vero avvistamento dell’approccio al governo basato sulla fede che ha caratterizzato l’era moderna. Invece di fare le cose, i governi “creano le condizioni” perché altri facciano le cose, e siedono in fiduciosa attesa. I fallimenti seriali, in pieno stile New Age, significavano che l’incantesimo non era giusto, o più spesso che non era stato usato con sufficiente volontà e convinzione. L’idea che i governi debbano effettivamente fare cose è considerata un anacronismo pittoresco. L’idea era quella di avere un Mago di Corte che facesse accadere cose incredibili: l’incarnazione più recente è l’IA, chiamata in modo improprio, il cui risultato può far pensare che sia un oracolo, se non si guarda troppo bene.
Di conseguenza, nei casi in cui i governi dovevano effettivamente fare qualcosa, non c’era alcuna tradizione o capacità di pianificazione e attuazione su cui fare affidamento. Covid lo ha dimostrato, nella ricerca di qualche aggeggio magico che avrebbe risolto il problema senza i programmi governativi su larga scala che non erano più possibili. I vaccini, con la loro discutibile efficacia, potevano essere presentati come “condizioni per il ritorno al lavoro”, consentendo al governo di dichiarare risolto il problema. L’incoerenza dei tentativi di Trump di ricostruire l’industria statunitense attraverso i dazi, e l’ignominiosa ritirata che sembra aver provocato, sono semplicemente l’ultimo esempio del pensiero magico secondo cui le vaghe aspirazioni possono essere convertite in risultati specifici attraverso la forza di volontà e la creazione delle giuste “condizioni”. In realtà, sembra improbabile che qualcuno che gode della fiducia di Trump abbia la più pallida idea di cosa comporti in pratica la ricostruzione dell’industria statunitense. Allo stesso modo, è stata notata l’incoerenza tra gli ambiziosi piani americani di alto livello in Ucraina, a Gaza e in Medio Oriente più in generale, e la loro esecuzione incerta e dilettantesca.
Ma questi problemi non sono iniziati ieri: sono il risultato di decenni di incuria, e persino di distruzione, della capacità di tradurre la strategia in azioni specifiche. Si consideri, ad esempio, il contrasto tra la costruzione da parte degli Stati Uniti di un’alleanza internazionale per la Guerra del Golfo 1.0 e il disastro politico del suo successore. Qualunque cosa si pensi del primo episodio, è stato condotto con abilità e professionalità e aveva un obiettivo strategico semplice: la creazione di un’ampia coalizione internazionale per cacciare le forze irachene dal Kuwait. Al contrario, il secondo episodio era puro pensiero magico, secondo il quale un’invasione avrebbe “creato le condizioni” per uno Stato pacifico e democratico filoamericano. Non chiedetemi come. Non chiedete nemmeno a loro come.
Oppure si consideri la differenza tra il disastro della Brexit e la gestione da parte britannica dei negoziati sull’Unione Europea del 1991. Qualunque cosa si pensi degli obiettivi britannici nel 1991, essi sono stati in gran parte raggiunti, perché la macchina governativa, sebbene indebolita, era ancora in grado di agire efficacemente e di trasformare le aspirazioni politiche in attività specifiche. Nel 2016-19 quella macchina era stata in gran parte distrutta e, anche se non lo fosse stata, la capacità di pensiero strategico era praticamente scomparsa dalle alte sfere del governo. Boris Johnson sembrava pensare che sarebbe bastato un colpo di bacchetta magica per risolvere il problema. Oppure si consideri la guerra delle Falkland del 1982, combattuta da parte britannica da forze armate non ancora Thatcherzzate. Qualunque cosa si pensi dei diritti e dei torti di quella guerra, si trattò di un notevole risultato tecnico-militare, che sbalordì gli argentini. Al momento della disfatta di Bassora, nel 2008, era già chiaro che questa capacità era stata effettivamente persa e le forze armate britanniche di oggi, come la maggior parte di quelle del mondo occidentale, sono probabilmente danneggiate in modo irreparabile.
Pertanto, qualunque siano gli incoerenti obiettivi strategici che i governi occidentali si prefiggono nel tentativo di affrontare le terribili sfide del futuro, e persino di riguadagnare il terreno perduto, se possibile, è altamente improbabile che vengano raggiunti. Non solo mancano le capacità tecniche, ma anche i processi di pensiero. Certo, qualche società di consulenza manageriale o altro può essere pagata una fortuna per una presentazione in Powerpoint, ma le cose non andranno oltre. È già chiaro, ad esempio, che il tanto sbandierato “riarmo” dell’Europa non avverrà, soprattutto a causa dell’irrimediabile confusione sulla questione a tutti i livelli. Non c’è una vera comprensione di cosa sarebbe il “riarmo” e di quale scopo strategico dovrebbe servire. Non c’è una vera comprensione di come sarebbe, a parte il fatto che apparentemente implica la spesa di enormi quantità di denaro. Non c’è comprensione del fatto che il denaro, da solo, non porta magicamente alla fornitura dei beni e dei servizi necessari, anche se ci fosse un accordo su quali sarebbero. Non c’è un concetto strategico che permetta di definire i bisogni operativi e non si capisce come farlo. E così via. I frutti di decenni di pensiero magico sono ormai caduti dall’albero e si rivelano davvero amari.
Lo scollamento che ho evidenziato tra il livello strategico e il livello di attuazione è il collegamento al mio secondo argomento. Inevitabilmente, poiché si è persa la capacità di pensare e pianificare in modo olistico, i governi e altri soggetti si sono ritrovati ad adottare piccole misure ad hoc che si illudono, una volta aggregate, di poter essere spacciate collettivamente come “strategia”. In realtà, ovviamente, il processo dovrebbe funzionare esattamente al contrario: si parte dalla strategia. (Pare che Starmer abbia detto, in alcune interviste, di non avere un’ideologia o una strategia: è solo un manager, dice, che affronta i problemi man mano che si presentano. Lo dice come se fosse una virtù, non una debolezza). Naturalmente, quindi, i governi non hanno strategie per affrontare le enormi sfide ambientali e climatiche di oggi e del prossimo futuro, ad esempio: hanno solo una serie di iniziative scollegate, frutto di sessioni di brainstorming organizzate da consulenti di gestione, molte delle quali in contrasto tra loro.
È in parte una questione di tempi. Gli esseri umani preferiscono notoriamente i benefici a breve termine rispetto a quelli a lungo termine e sono disposti a correre anche rischi a lungo termine per goderne. L’epidemia di influenza di quest’anno in Europa è stata inaspettatamente letale, soprattutto perché la gente non si è preoccupata di vaccinarsi. In Francia, solo il 50% circa l’ha fatto, e la ragione più diffusa per non farlo è stata il desiderio di evitare possibili spiacevoli effetti collaterali a breve termine. Il risultato è che una parte consistente dei non vaccinati si è ammalata, molti si sono ammalati gravemente, molti sono finiti in ospedale e un numero significativo è morto. Un tempo era compito dei governi competenti compensare queste tendenze umane a breve termine investendo per il lungo periodo e istituendo programmi, come le pensioni statali, con benefici molto lontani nel tempo. Ma l’orizzonte temporale della politica si è sempre più contratto, al punto che ciò che conta davvero è l’effetto immediato, il rimbalzo passeggero nei sondaggi di opinione, persino l’ampiezza della copertura favorevole dei media. Questo è stato reso crudamente chiaro nel caso dell’Ucraina, dove i governi nazionali sono in competizione tra loro per attirare l’attenzione politica e la copertura giornalistica per la loro prossima idea folle, solo per abbandonarla il giorno dopo a favore di un’idea ancora più folle.
Il risultato è che i macchinari e le competenze, e ancor più la capacità di pensiero strategico e di pianificazione, non esistono al livello necessario per affrontare i problemi veramente importanti discussi nel saggio precedente. Per fare un semplice esempio, è probabile che il prezzo del gas in Europa aumenti notevolmente nei prossimi anni e che si verifichino vere e proprie carenze se i russi decidono di fare i difficili. Ci saranno interruzioni di elettricità in inverno e la gente resterà senza riscaldamento e senza energia perché non può permetterselo o semplicemente non è disponibile. L’ultima volta che è successo qualcosa di simile è stata la crisi petrolifera del 1973, che ha portato paesi ben organizzati come la Francia e il Giappone a ricorrere a programmi nucleari di emergenza. Oggi è ridicolo pensare che un Paese occidentale abbia l’immaginazione o le risorse per organizzare un programma così ambizioso. Possiamo immaginare una processione di politici che dicono alla gente di comprare vestiti caldi, di correre in giro per tenersi al caldo e di investire in pannelli solari, cosa che se sei una madre single disoccupata che vive al quarto piano di un grattacielo non è particolarmente utile.
Eppure, in un certo senso, questo approccio minimalista e a breve termine è comprensibile, anche se non è molto attraente. La combinazione di problemi davvero grandi e potenzialmente insolubili e di una capacità radicalmente ridotta di affrontare problemi di qualsiasi tipo, impone praticamente che i governi si riducano, nel migliore dei casi, ad aggiustare le cose e, nel peggiore, a passare il tempo a discutere di chi sia la colpa.
Lo stesso vale, in ultima analisi, per le amministrazioni locali, le aziende private, i gruppi di volontariato e le organizzazioni che si occupano di campagne. Sappiamo, ad esempio, che la maggior parte degli sforzi per il riciclaggio va sprecata. Spesso questo accade perché il lavoro viene lasciato alle aziende private, che non hanno incentivi oltre al profitto e quindi impiegano la forza lavoro più economica che riescono a trovare. (I governi hanno di fatto distrutto la loro capacità di attuare qualsiasi programma di riciclaggio veramente ambizioso). Tuttavia, sulla base del fatto che qualsiasi cosa è meglio di niente, divido la spazzatura in categorie, metto i rifiuti organici in sacchetti speciali e rifiuto i sacchetti di plastica nei negozi. Collettivamente, milioni di persone che lo fanno fanno molto. Ma il problema è che la dimensione totale del problema è incommensurabilmente più grande della somma totale delle iniziative che i singoli possono intraprendere per affrontarlo. Questo è il motivo per cui la scala è una questione così importante, come discuterò tra poco.
Il risultato è che, poiché la dimensione dei problemi che dobbiamo affrontare in molte aree è schiacciante, i critici, gli attivisti e altri si attaccano a tutto ciò che può essere fatto rapidamente, indipendentemente dal suo impatto reale, solo perché può essere fatto e anche perché spesso non li riguarderà. (I politici verdi sono noti, ad esempio, per non aver mai raccomandato o introdotto misure che avrebbero davvero un impatto sul loro stile di vita borghese). E spesso praticano quello che può essere descritto solo come ambientalismo punitivo, volto a punire gli altri per lo stato in cui hanno permesso che il pianeta si trovasse. A Parigi, dove i Verdi sono molto influenti, la loro politica di punta è stata quella di vietare il riscaldamento delle terrazze dei caffè in inverno con i fornelli a gas, distruggendo così uno dei pochi piaceri della vita invernale parigina. In questo modo, a quanto pare, si invertirà il cambiamento climatico. O meglio, si farà un gesto inutile e magico, perché i gesti inutili sono tutto ciò che possiamo fare. Pensare globalmente, in altre parole, agire con dispetto.
Ma questo tipo di esempi non solo illustrano problemi di scala, ma anche il grado di infiltrazione del pensiero magico in ogni settore della vita politica. (È una coincidenza che si vedano così tanti adulti leggere i romanzi di Harry Potter?). Atti simbolici, come impedire alle persone di bere il caffè all’aperto in inverno, porteranno in qualche modo, attraverso qualche meccanismo inspiegabile, a una soluzione al riscaldamento globale. (Possono anche essere visti come una forma molto tardiva e secolare di sacrificio umano, o se preferite di flagellazione rituale, concepita come sempre per sollecitare il favore degli dei). Allo stesso modo, incollarsi a un quadro e chiedere l'”azione” del governo non è un atto politico, ma un magico rituale teatrale. Interrogati sui loro obiettivi una volta scollati, gli attivisti ricadono in canti rituali sul “fare qualcosa” e sul “prendere sul serio il riscaldamento globale”. E questo è tutto.
La discrepanza tra l’entità dei problemi in arrivo e la somma delle idee per affrontarli, per quanto singolarmente fondate, è in parte dovuta al fatto che pochi di noi sono in grado di comprendere il significato di numeri veramente grandi. Ad esempio, poiché le potenze coloniali (inizialmente arabe, poi europee) hanno stabilito capitali sulla costa dell’Africa, molte città africane sono a rischio estremo di inondazioni a causa dell’innalzamento del livello del mare. La sola città di Lagos ha una popolazione di 21 milioni di persone e la capacità delle sue autorità di far fronte a inondazioni catastrofiche è, per così dire, limitata. Su scala più piccola, lo stesso vale per Algeri e Dar es Salaam, tra le tante. Complessivamente, forse cinquanta milioni di persone potrebbero essere cacciate dalle principali città africane solo a causa dell’innalzamento del livello del mare, e le conseguenze indirette per l’Europa, ad esempio, sono potenzialmente enormi. Ma questi numeri sono troppo grandi per pensarci.
Fare cose su piccola scala come contributo per affrontare grandi problemi è del tutto ragionevole a patto chenon si confondano le scale. Probabilmente a tutti è capitato che un amico o un parente orgoglioso ci raccontasse del pannello solare che ha installato e che d’estate riscalda tutta l’acqua per la doccia. È un’ottima cosa, ma ovviamente non è scalabile oltre un certo punto. (Qualche mese fa ero su un treno che attraversava la Francia orientale in una fredda mattina d’inverno, con la nebbia che copriva i campi, e ci siamo fermati per qualche minuto di fronte a un’enorme struttura di raccolta di energia solare, ovviamente inattiva, che potevo scorgere in modo impercettibile attraverso la nebbia). In effetti, tutti gli studi che ho visto suggeriscono che non possiamo, nemmeno in linea di principio, sperare di coprire il nostro attuale livello di consumo energetico con fonti rinnovabili. Quindi, qualcosa di fondamentale dovrà cambiare, ma è un problema troppo grande per pensarci. Quindi manifestiamo contro l’energia nucleare.
Una delle principali ragioni della difficoltà di comprensione della scala è l’aumento della popolazione, che ha prodotto cambiamenti qualitativi, piuttosto che quantitativi, nella vulnerabilità. Gli archeologi hanno trovato antiche città abbandonate a causa dei cambiamenti climatici e di altre ragioni. Ma la differenza tra l’abbandono di una città di, ad esempio, 50.000 persone e l’abbandono di una città di un milione di persone o più, non è una differenza di scala, è una differenza discontinua di tipo, e potrebbe non essere possibile oltre una certa dimensione. Consideriamo una città di un milione di persone in un’area a bassa quota allagata a causa di piogge inaspettatamente forti e fiumi che rompono gli argini. Supponiamo che ciò avvenga in inverno. Non c’è corrente, non c’è riscaldamento, non ci sono servizi igienici, non c’è acqua corrente. Come fareste a far uscire un milione di persone e dove le mettereste? Come li nutrireste, li ospitereste, vi prendereste cura di coloro che sono stati feriti o hanno malattie croniche? Come fareste a far arrivare i servizi di emergenza in città? I manuali di pianificazione delle emergenze (quelli che ho visto io, comunque) non cercano nemmeno di stabilire procedure per queste circostanze: ragionevolmente, descrivono per lo più disastri ed emergenze che pensiamo che le nostre società e i nostri governi possano effettivamente affrontare.
Di fatto, quindi, abbiamo costruito sistemi urbani altamente complessi ed estremamente fragili, destinati a collassare, forse in modo definitivo, dopo uno stress relativamente ridotto, e che dipendono assolutamente dalla continuità delle forniture di energia e di acqua dolce per sempre. Poiché non esiste una modalità reversibile, né un piano B se qualcosa va storto, per la nostra sopravvivenza ci affidiamo assolutamente al favore degli dei. (Anche mentre scrivo, arrivano notizie di massicce interruzioni di corrente in Spagna e Portogallo). Ma i problemi che si presentano se qualcosa va storto sono così terribilmente grandi e insolubili che non ci pensiamo e installiamo invece piste ciclabili.
Esiste un problema parallelo con il cibo. Tendiamo a pensare che il cibo che compriamo al supermercato o che mangiamo al ristorante appaia magicamente. È vero, alcuni di noi vivono in campagna o nelle vicinanze e possono anche vedere campi di grano o mandrie di mucche dalla propria auto. Ma basta indagare un po’ per scoprire che i pomodori che abbiamo comprato hanno un’etichetta che indica che sono stati prodotti in un altro Paese a centinaia di chilometri dai nostri confini, o che le banane, nella maggior parte dei casi, provengono da altri continenti. Arrivano come per magia e raramente pensiamo al come.
Ma ovviamente non è così, e la crisi di Covid lo ha dimostrato, quando sono comparsi improvvisi e inspiegabili vuoti sugli scaffali dei supermercati. Non si trattava solo del fatto che le navi con il cibo importato non salpavano, ma anche che i lavoratori dei grossisti e delle aziende di consegna erano in malattia e persino che i pezzi di ricambio per riparare i veicoli e i congelatori non erano disponibili. Nell’ultima generazione, le catene di distribuzione alimentare, un tempo piuttosto semplici, hanno assunto una complessità allucinante, anche perché i subappaltatori e i sub-subappaltatori sono diventati la norma. Il sistema che ne deriva sembra sovrannaturalmente complesso, soprattutto perché il suo scopo principale, dopo tutto, dovrebbe essere quello di assicurarci di avere abbastanza da mangiare. In realtà, il vero scopo del sistema è quello di far guadagnare il più possibile gli azionisti e i manager. Gli Stati occidentali dipendono quindi, per la loro stessa sopravvivenza, da catene di distribuzione alimentare elaborate e complesse, progettate per ridurre i costi al minimo indispensabile e con poca o nessuna ridondanza. Tutto quello che possiamo fare è pregare che non vengano fortemente stravolte.
Anche se l'”insicurezza alimentare” è qualcosa di solito associato all’Africa e all’Asia (che in effetti è il luogo in cui si concentrano i maggiori problemi), la maggior parte degli Stati occidentali sono importatori netti di cibo. Il governo britannico pubblica ogni tre anni un rapporto sulla sicurezza alimentareche è di interessante lettura. Da esso si evince, ad esempio, che il Regno Unito importa circa il 40% dei suoi prodotti alimentari, compresi quelli che non possono essere coltivati in loco per motivi pratici. In particolare, importa frutta, verdura e (ironia della sorte) frutti di mare. Il documento osserva che l’agricoltura del Regno Unito (e dell’Europa) è molto vulnerabile agli aumenti dei prezzi dell’energia e alle interruzioni della catena di approvvigionamento. E le prospettive di espandere drasticamente la produzione alimentare sono scarse: Il 70% della superficie del Paese è già utilizzato per l’agricoltura, anche se gran parte di essa è inadatta alla coltivazione. Questo ci ricorda ancora una volta la questione della scala: la popolazione delle nazioni occidentali è aumentata massicciamente nell’ultimo secolo o due, mentre la superficie del territorio, per ovvie ragioni, non è aumentata. E naturalmente la complessità della distribuzione del cibo è aumentata a dismisura anche nelle ultime due generazioni, il che è forse il punto più fondamentale di tutti.
In sostanza, il mondo occidentale, che consuma molte più calorie di altre regioni, si affida per la sua esistenza a sistemi di approvvigionamento e distribuzione del cibo altamente complessi, fragili, interconnessi, just-in-time e orientati al profitto, che non hanno alcuna ridondanza apprezzabile e che non potrebbero fallire per più di qualche giorno senza causare enormi problemi. (Immaginate qualcosa di semplice come un aumento massiccio del prezzo della benzina, che costringerebbe molte aziende di trasporto a cessare l’attività). Possiamo solo pregare, suppongo.
Forse esistono soluzioni che possono risolvere questi problemi a livello macro, e se così fosse mi piacerebbe sapere quali sono. Il problema è che, mentre è possibile costruire scenari del tutto immaginari e artificiali, indistinguibili dalla magia, in cui tutto si aggiusta, è molto difficile vederli realizzabili in pratica. Come direbbe un economista, ipotizzate una dittatura mondiale onnipotente e onnisciente, composta da persone di ineccepibile integrità, e il resto è facile (in realtà, come molte di queste cose, è facile in linea di principio, ma è incredibilmente difficile in pratica). È sufficiente per chiedersi se i nostri governanti abbiano una sorta di desiderio di morte satanica per il pianeta (e in definitiva per se stessi) o se semplicemente manchino di immaginazione. Dopo tutto, costruire per decenni un sistema mondiale altamente fragile, basato principalmente su priorità finanziarie a breve termine, e che ora è diventato così complesso che disfarlo sarebbe impossibile anche se esistesse la volontà, è un comportamento che, nel complesso, è folle.
Alcune cose sono impossibili da visualizzare: la nostra stessa morte ne è l’esempio classico. Ma alcune cose sono semplicemente più grandi e complesse di quanto il nostro cervello sia in grado di elaborare, e la probabile progressiva disintegrazione del sistema mondiale è una di queste. Riuscite a immaginare, per esempio, cosa significherebbe per una città occidentale di anche solo un milione di persone diventare inabitabile, in modo permanente o per qualche mese (in pratica è la stessa cosa)? Io non ci riesco e nemmeno, sospetto, la maggior parte delle persone. Riuscite a immaginare un milione di rifugiati climatici accampati sulle coste del Nord Africa, nella speranza di raggiungere l’Europa, e altri che arrivano in continuazione? Come potremmo affrontarlo? E poi aggiungiamo al mix la fuga delle malattie infettive tra di loro.
Gli scrittori di fantascienza hanno sempre saputo che non è possibile descrivere in modo sensato disastri di quella portata, ed è per questo che da John Wyndham a JG Ballard si sono concentrati sugli effetti su piccoli gruppi. Lo stesso valeva, credo, per il ciclo di film sulle catastrofi degli anni Settanta. Ci sono problemi su cui non riusciamo ad avvolgere i nostri neuroni e quindi facciamo una di queste due cose. Cerchiamo di ignorarli e minimizzarli, in modo che la nostra visione del mondo (e quindi il nostro ego) non venga disturbata, oppure ci allontaniamo dal quadro generale e ci rifugiamo nei dettagli, con cose che possiamo capire a una scala assimilabile. (E naturalmente chi non ha scrupoli cercherà solo di trarne vantaggio, come sempre).
Ora, pochi di noi volevano questa situazione, e persino gli ideologi utopisti dagli occhi vitrei degli anni Ottanta non pensavano davvero che sarebbe andata così. Ma la combinazione di sistemi immensamente complessi e fragili con la capacità sempre minore di gestirli, o addirittura di impedirne la disintegrazione, è letale, se solo i nostri governanti se ne rendessero conto. Dopotutto, se chiediamo loro come faranno la popolazione e l’industria europea in un’epoca di gas naturale massicciamente più costoso, non ne hanno idea, se non che qualche soluzione magica salterà fuori da una presentazione Powerpoint. Come ha detto Cohen, abbiamo visto il futuro, ed è un omicidio. Tutto ciò che i nostri governanti possono fare è aspettare un miracolo.
Raccomandate ai vostri lettori Cercare di capire il mondo
Una newsletter dedicata non alla polemica, ma al tentativo di dare un senso al mondo di oggi.Raccomandare