Il rapporto Draghi interrompe la silenziosa “cena di famiglia” dell’UE, di Olga Butorina

Il rapporto Draghi interrompe la silenziosa “cena di famiglia” dell’UE

Qui sotto un interessante articolo, pubblicato dal Club Valdai russo, sul recente rapporto di Mario Draghi alla Commissione Europea. Rappresenta una fedele fotografia di quanto rappresentato dall’autore. Utile, ma dal punto di vista dello scrivente, però, sin troppo letterale, forse epifenomenica. Il segno probabile che nei circoli intellettuali russi non si sia ancora del tutto consumata l’illusione sulla reale natura e ragione di esistenza della Unione Europea e sulla funzione reale di protagonisti del calibro di Mario Draghi. Il protagonista viene presentato come un “libero pensatore” per il fatto di non avere incarichi effettivi e di aver raggiunto un età che lo libera da stretti vincoli politici, ma che conserva, comunque, una grande autorevolezza che rischia, nel peggiore dei casi, di farlo scivolare nel ruolo di “Cassandra”, rispettato, ma inascoltato. Penso, al contrario, che la stesura di quel rapporto sottenda finalità recondite, molto più sofisticate, pur condizionate da incongruenze ed incoerenze legate in parte alla formazione tecnocratica dell’estensore, in parte allo stridore con la realtà che le politiche comunitarie, specie quelle ecologiche-ambientali, dell’innovazione e sanitarie, hanno determinato. Non paiono mere fughe in avanti di un uomo ormai estraneo alle quisquilie dei giochi politici correnti, proclami inascoltati o momenti di reale e drammatica rottura, quanto, al contrario, orientamenti di massima all’interno dei quali proseguire la classica tattica funzionalista inaugurata da Jean Monnet e proseguita coerentemente da tutti i suoi epigoni.

  • E così l’incongruenza denunciata da Mario Draghi sulle politiche di decarbonizzazione, consistenti nella eccessiva tassazione, si rivela in realtà essere una consapevole omissione del fatto che tassazione ed oneri impropri, riscontrabili nelle bollette e nei prezzi al consumo riguarda, in vario grado, tutti i prodotti energetici e non solo quelli utili alla conversione ecologica. Se è vero che le politiche di conversione più spinte potrebbero, non potranno, nel giro di diversi decenni coprire nel migliore dei casi il 25% dei consumi energetici si comprenderà che, più che essere una panacea verso l’indipendenza, si risolverebbero in un solo parziale contributo al risanamento ambientale e alla energetica dei paesi europei. L’estensore, per la verità, sottolinea due aspetti che pregiudicano la fattibilità e la positività del piano di conversione: il ritardo tecnologico e l’assenza di una matura base industriale europea, la frammentazione e il groviglio burocratico che asfissia la rete energetica europea da una parte; l’assenza di autonomia ed indipendenza energetica dall’altra. Nel primo caso, la conclusione coerente rispetto alle premesse dovrebbe portare ad un rinvio e ad una riconsiderazione espliciti delle politiche e dei tempi di conversione, di fatto parziale, energetiche oltre ad una definizione precisa delle modalità di creazione delle piattaforme industriali; nel secondo il nostro dovrebbe chiarire l’impossibilità di una totale autonomia, se non relativa, anche nel caso di buona parte dell’energia ecologica e chiarire, quindi, il significato di indipendenza, riferito ad indipendenza dalla Russia, non assoluta. Si tratterebbe in realtà di una politica di diversificazione, in realtà di fatto in buona parte pregiudicata dallo stesso ostracismo verso la Russia e dalla imprevedibilità ed insicurezza dei due nuovi corridoi energetici alternativi in costruzione dal Mediterraneo Orientale e dall’Africa Nord-Occidentale che attraversano paesi instabili politicamente, se non addirittura schierati sempre più nel campo dichiarato avversario dal nostro. Paradossalmente, se c’è un paese del campo occidentale che sta tentando un recupero di capacità egemonica in queste due aree, sia militarmente che attraverso le società di fondi di investimento, sono gli Stati Uniti, non certo i paesi europei. Lo stesso ricorso al mercato-spot e alle forniture surrettizie, per vie traverse, di provenienza russa creano il percorso obbligato delle pratiche speculative del quale lamenta Draghi senza possibilità di soluzione.
  • Quanto ad un altro cavallo di battaglia esibito nel documento, l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica, Draghi si prodiga nell’assumere la veste del paladino della sovranità europea. All’atto pratico, però, viene fuori il carattere dualistico ed ambiguo della sua proposta. Da una parte propugna una politica altamente selettiva, in tecnologie di secondo livello e relativamente più mature (batterie elettriche, eolico e fotovoltaico), rivolta in particolare alla Cina, glissando, escludendo quindi a priori una sua partecipazione nella diffusione delle tecnologie più strategiche legate alle comunicazioni e alla elaborazione e trasmissione dei dati; dall’altra, dando per scontato ed irreversibile il ritardo europeo su queste ultime, accettando l’apertura alle tecnologie statunitensi; andando, quindi, al di là delle chiacchiere dei recenti piani europei di recupero dei ritardi.
  • Un capitolo a parte merita l’argomento, caldamente sostenuto, della creazione di un complesso militare-industriale europeo di supporto ad un sistema europeo di difesa. Un nobile proposito che glissa su due aspetti strutturali fondamentali del settore e su di un aspetto politico-strategico sostenuto e dato per scontato dal nostro: la presenza massiccia e determinante dei fondi di investimento statunitensi, mai messa in discussione nel documento, nell’economia generale e nei complessi militari-industriali europei; l’integrazione di gran parte delle aziende europee della difesa nei sistemi industriali statunitensi; la prosecuzione scontata delle politiche russofobe subite e perpetrate dalla UE e da gran parte dei paesi europei.

Mario Draghi, a corredo di queste proposte che meriterebbero ulteriori riflessioni legate ad un esame approfondito dei suoi dieci piani settore e dei cinque piani di intervento orizzontali, si presenta come paladino di un percorso accelerato verso una Europa Federale ed una struttura comunitaria “decisionista”. Sa benissimo, però, che è improponibile nell’attuale contesto e che la realtà porta al contrario verso un collasso delle istituzioni europee, specie in caso di affermazione di Trump alle prossime presidenziali; il suo obbiettivo reale è quello di arrivare a gestire, nella maniera più gestibile e meno dolorosa possibile, la dinamica di predazione e ridimensionamento delle economie europee, nonché di nuova divisione del lavoro e delle catene produttive a guida statunitense. La retorica e l’afflato europeista ignora volutamente il carattere fondamentalmente nazionale dei sistemi di relazione e dei rapporti interni alla UE e delle sue istituzioni e non fa che propugnare, alla fine, quei “rapporti di cooperazione rafforzata” che puntano ad assecondare sempre più la fedeltà atlantica, poggiandosi di volta in volta alle variabili degli assi franco-tedesco, anglosassone e dell’Europa Orientale di volta in volta in conflitto e/o cooperazione tra di essi. Se, quindi, il rapporto contribuirà ad “interrompere la silenziosa cena di famiglia della UE”, lo farà per serrare ancora di più il recinto dell’ovile nel quale sono racchiuse le pecorelle europee. La nemesi che affligge spesso i propositi politici più ambiziosi e surrettizi potrebbe, però, rivelare finalmente che il lupo, piuttosto che oltre cortina, si nasconde sotto le sembianze del buon pastore di quell’ovile; che una reale emancipazione dei paesi europei, almeno di parti importanti di essi, debba passare da un recupero prioritario delle relazioni con la Russia, su basi più paritarie con la Cina, da iniziative autonome rispettose verso i paesi della “maggioranza globale” e da una ridefinizione drastica delle relazioni con gli Stati Uniti. In questo senso, quel rapporto, se discusso seriamente, potrebbe svolgere una funzione positiva ed aprire spazi e margini di azione interna agli attuali schieramenti. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il 9 settembre 2024, l’ex presidente della Banca Centrale Europea (BCE) ed ex primo ministro italiano Mario Draghi ha presentato alla Commissione Europea (CE) un rapporto di 400 pagine sul futuro della competitività europea.1 Il documento è composto da due parti: La parte A contiene una panoramica critica dell’economia dell’UE e della sua posizione globale, mentre la parte B offre un’analisi approfondita delle questioni settoriali e intersettoriali, fornendo obiettivi e proposte per ciascuna di esse.

La crescita economica è stata una priorità assoluta per l’UE fin dalla sua nascita. Le cose sono cambiate, tuttavia, alla fine del 2019, quando si è insediata la nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, che ha spostato l’attenzione sul Green Deal europeo (ossia il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050), sulla trasformazione digitale e sulla costruzione di un’economia che funzioni per le persone.2

La quota dell’UE nel PIL mondiale si è ridotta costantemente negli ultimi tempi, passando dal 21,8% nel 2010 al 17,5% nel 2023. Nel frattempo, la quota degli Stati Uniti è salita dal 22,5 al 26,0% e quella della Cina è passata dal 9,2 al 17,0%. Nel 2021, per la prima volta, la Cina ha superato l’UE in termini di PIL nominale, chiudendo l’anno con 17.800 miliardi di dollari contro i 17.300 miliardi dell’UE.3

Silenzio verde

Nel 2023, il PIL reale dell’area dell’euro è cresciuto di appena lo 0,4% e si prevede che aumenterà dello 0,8% nel 2024.4 La crescita dinamica è stata una priorità fondamentale per l’UE fin dai primi anni ’70, quando il crollo del sistema di Bretton Woods e gli shock petroliferi hanno provocato un’impennata dell’inflazione e della disoccupazione in tutta Europa. All’inizio degli anni ’80, la Comunità Economica Europea (predecessore dell’UE) ha adottato una serie di misure radicali per rendere l’industria europea più competitiva e ridurre il divario tecnologico tra l’Europa, da un lato, e gli Stati Uniti e il Giappone, dall’altro. Una crescita dinamica era l’unico modo in cui l’Europa poteva risolvere il suo più grande problema sociale: la disoccupazione.

I due principali sforzi dell’UE degli ultimi decenni – il mercato unico europeo e l’Unione economica e monetaria – hanno entrambi dato priorità alla crescita economica. Il piano per la creazione di un mercato interno unico, annunciato nel 1985, mirava a sfruttare il potenziale di integrazione garantendo la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali. Secondo il Rapporto Cecchini del 1988, questi sforzi avrebbero aggiunto circa il 5% al prodotto interno lordo della Comunità, aprendo migliori opportunità per la crescita, la creazione di posti di lavoro, le economie di scala e il miglioramento della produttività.5 Questo ampio programma è stato in gran parte completato entro il 1992.6

Il successivo passaggio all’Unione Economica e Monetaria e la transizione alla moneta unica all’inizio del 1999 avevano l’obiettivo di facilitare l’integrazione dei mercati finanziari, intensificare la concorrenza e migliorare l’allocazione delle risorse. Si prevedeva l’emergere di nuovi incentivi per la promozione della produttività e degli investimenti. Presumibilmente, tutto ciò, insieme alla stabilità dei prezzi a lungo termine (mantenuta dalla Banca Centrale Europea) e a una moneta riconosciuta a livello internazionale, costituiva un ambiente favorevole per la crescita e l’occupazione a lungo termine.7

In seguito l’UE ha adottato tre strategie di crescita a lungo termine: la Strategia di Lisbona del 2000, la sua versione aggiornata del 2005 e la Strategia Europa 2020 proposta dalla Commissione europea nel marzo 2010. Tuttavia, come sottolinea Draghi nel suo rapporto, “sono passate varie strategie per aumentare i tassi di crescita, ma la tendenza è rimasta invariata”.8

Dopo il 2020, l’UE ha abbandonato i programmi a lungo termine. Gli indirizzi di massima per le politiche economiche a medio termine sono stati abbandonati senza alcuna spiegazione, nonostante il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea preveda che il Consiglio formuli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri (art. 5, p.1). Sembrava che Bruxelles si stesse spostando dal classico concetto di crescita verso le moderne idee di post-crescita, enfatizzando le dimensioni ambientali, strutturali e sociali.9

Questo può essere illustrato dai fatti. La relazione generale sulle attività dell’Unione europea nel 2019 si è aperta, come di consueto, con un ampio capitolo sulle politiche economiche.10 La relazione sul 2020, invece, era incentrata sulla risposta COVID-19 (naturalmente) e su una sezione di 25 pagine sulla neutralità climatica, con una grande foto di giovani che inscenano una protesta ambientale.11 Seguiva una sezione sulla protezione delle persone e delle libertà, e solo dopo veniva la sezione economica, di sole sette pagine, foto comprese. I rapporti pubblicati dal 2021 al 2023 non si soffermano affatto sulla crescita economica. La crescita è stata menzionata solo occasionalmente come uno dei sottoprodotti attesi da varie iniziative legislative proposte dalla Commissione europea, dalle norme sul mercato del lavoro alle pratiche di tassazione delle imprese.12

Gli osservatori esterni hanno dovuto concludere che Bruxelles ha completamente abbandonato l’idea di avere una politica economica comune (che era uno dei due pilastri dell’Unione economica e monetaria). Oppure ha delegato questo lavoro ai tecnocrati, concentrandosi invece sul dipingere un bel quadro che potesse piacere all’opinione pubblica e ai suoi elettori. È emblematico che ultimamente i documenti chiave dell’UE siano sempre più arricchiti da illustrazioni appariscenti, il che rende molto più difficile navigare al loro interno e coglierne il significato.

Dichiarando il Green Deal, la Commissione europea ha adottato un’agenda nuova e accattivante, non macchiata dai fallimenti del passato. L’atmosfera delle “cene di famiglia” è migliorata, perché i partecipanti non dovevano più preoccuparsi di tutti quei brutti deficit, distorsioni e sproporzioni.

La missione di Draghi

Forse nessun economista dell’UE gode della stessa fama internazionale di Mario Draghi. Ha iniziato il suo mandato di presidente della BCE il 1° novembre 2011, quando la crisi dell’eurozona stava raggiungendo il suo apice. All’inizio del 2012, il rendimento dei titoli di Stato portoghesi a 10 anni è salito al 13% e quello dei titoli greci ha sfiorato il 30%. La politica monetaria non ortodossa di Draghi ha salvato il settore bancario dell’UE da un potenziale collasso.

Parlando alla Global Investment Conference di Londra il 26 luglio 2012, Draghi ha pronunciato il famoso giuramento: “Nell’ambito del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente”.13 I mercati gli credettero e gli spread iniziarono a ridursi. Non tutti i capi della BCE possono affermare che le loro parole abbiano un tale impatto.

Ecco perché il rapporto sulla competitività presentato da Draghi merita tutta la nostra attenzione. Sfata il mito che l’agenda verde renda irrilevante la crescita. Parlando con il suo solito candore, Draghi afferma in un paragrafo a parte: “Il bisogno di crescita dell’Europa sta aumentando”. Spiega che oggi l’UE si trova ad affrontare una maggiore concorrenza sui mercati globali, che ha perso la Russia come suo principale fornitore di energia e che è debole nelle tecnologie emergenti, in parte perché ha perso ampiamente la rivoluzione digitale. Inoltre, la situazione demografica appare desolante: entro il 2040, si prevede che la forza lavoro dell’UE si ridurrà di 2 milioni di unità all’anno.

Draghi e i suoi coautori sono ben consapevoli, ovviamente, del galateo di Bruxelles, quindi “guarniscono” le loro raccomandazioni in linea con le ultime tendenze e le servono con il giusto “condimento”. Nella prefazione sottolineano che saranno necessari grandi investimenti per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la capacità di difesa. I numeri specifici, tuttavia, vengono citati solo verso la fine della Parte A. L’UE avrà bisogno di almeno 750-800 miliardi di euro all’anno di investimenti aggiuntivi, pari al 4,4-4,7% del PIL dell’UE nel 2023. Ciò richiederebbe che la quota di investimenti dell’UE passi dall’attuale 22% del PIL a circa il 27%, ossia di cinque punti percentuali, “invertendo un declino pluridecennale nella maggior parte delle grandi economie dell’UE”. In altre parole, la digitalizzazione e la decarbonizzazione sono solo un “topping” alla moda.

Il rapporto delinea tre aree su cui l’UE dovrebbe concentrarsi per riaccendere la crescita sostenibile.

Il primo – e più importante – obiettivo è quello di colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate. Attualmente, gran parte degli investimenti per la ricerca e l’innovazione nell’UE sono concentrati nei settori tradizionali, in particolare quello automobilistico. All’inizio degli anni 2000 la situazione era la stessa negli Stati Uniti, ma ora è cambiata. Di fronte alle normative restrittive dell’UE, le start-up europee di successo si rivolgono ai venture capitalist statunitensi per ottenere fondi e si trasferiscono negli Stati Uniti man mano che crescono. Nell’era del rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale, l’Unione europea non può permettersi di rimanere bloccata alle tecnologie del secolo precedente.

Il secondo obiettivo è far coincidere gli obiettivi climatici dell’UE con un piano chiaro e coerente. Senza un piano di questo tipo, secondo il rapporto, invece di essere un’opportunità per l’Europa, la decarbonizzazione potrebbe essere contraria alla competitività e alla crescita. Un’affermazione incredibilmente schietta! Ciò significa, tradotto in parole povere, che l’UE ha intrapreso la sua transizione gemellare senza un piano chiaro, senza valutare correttamente tutti i costi e i benefici. E oggi, a distanza di cinque anni, non ha ancora un piano d’azione completo.

Draghi sottolinea che le imprese dell’UE devono far fronte a prezzi dell’elettricità due o tre volte superiori a quelli degli Stati Uniti e a prezzi del gas naturale quattro o cinque volte superiori. La ragione di questo divario di prezzo non si limita alla mancanza di risorse naturali in Europa; ci sono anche “problemi fondamentali” con il mercato comune dell’energia dell’UE, vale a dire tasse elevate e rendite catturate dai commercianti finanziari.

Il terzo obiettivo è aumentare la sicurezza e ridurre le dipendenze. L’economia dell’UE dipende da una manciata di fornitori di materie prime essenziali, tra cui la Cina. Inoltre, dipende in larga misura dalle importazioni di tecnologia digitale. Ciò significa che l’UE ha bisogno di una vera e propria “politica economica estera”. Questa sezione è piuttosto breve e riprende in gran parte i punti chiave della Strategia europea di sicurezza economica adottata nell’estate del 2023.14 Le nuove aggiunte riguardano l’industria della difesa e il settore spaziale.

Strumenti e prospettive di attuazione

Il rapporto indica chiaramente le potenziali conseguenze dell’inazione. Senza una crescita dinamica, l’Unione Europea dovrà ridimensionare almeno alcune delle sue ambizioni. Non sarà in grado di diventare leader nelle nuove tecnologie e nella responsabilità climatica, di essere un attore indipendente sulla scena mondiale e di finanziare il suo modello sociale tutto in una volta. Ma se l’UE non sarà più in grado di offrire ai suoi cittadini le opportunità e i diritti di cui hanno diritto, “avrà perso la sua ragione d’essere”.

Mentre la Parte A spiega cosa è necessario fare, la Parte B spiega in dettaglio come farlo. Vengono fornite analisi approfondite per dieci settori specifici e cinque questioni orizzontali e intersettoriali. I settori prioritari includono l’energia, le materie prime critiche, la digitalizzazione e le tecnologie avanzate, le reti a banda larga ad alta velocità/capacità, l’informatica e l’IA, i semiconduttori, le industrie ad alta intensità energetica, le tecnologie pulite, l’industria automobilistica, la difesa, lo spazio, la farmaceutica e i trasporti. Le cinque politiche orizzontali sono: accelerare l’innovazione, colmare il divario di competenze, sostenere gli investimenti, rinnovare la concorrenza e rafforzare la governance.

L’ultimo punto riguarda chiaramente le istituzioni dell’UE. L’eccessivo carico normativo e amministrativo rende più difficile fare impresa e incide sulla competitività dell’UE. Per rimediare alla situazione, il rapporto raccomanda sia strumenti tradizionali (un esercizio più vigoroso del principio di sussidiarietà e della procedura di cooperazione rafforzata) sia alcuni nuovi strumenti. Gli autori raccomandano di semplificare le regole, di sviluppare un nuovo quadro di coordinamento della competitività, di estendere o generalizzare il voto a maggioranza qualificata in Consiglio e di snellire l’acquis dell’UE in modo sistematico.

Quali sono le prospettive di attuazione di queste raccomandazioni?

Mario Draghi ha compiuto 77 anni pochi giorni prima di presentare il suo rapporto. Ha avuto una carriera così stellare che ora può permettersi di dire ciò che pensa veramente. Non ha nulla da perdere. Ha una buona conoscenza dell’economia e una profonda comprensione dell’integrazione. Già nel 1970, prima di laurearsi con lode alla Sapienza di Roma, scrisse una tesi su “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio”. Draghi ha conseguito il dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Economia del MIT, con la supervisione dei futuri premi Nobel Franco Modigliani e Robert Solow.

In seguito, Draghi ha conosciuto Tommаso Padoa-Schioppa, un economista italiano che è stato il principale sostenitore dell’Unione economica e monetaria, e hanno lavorato insieme, rappresentando l’Italia nei negoziati dell’UEM.

Draghi sa come funziona la “trinità impossibile” 15 e cosa potrebbe accadere se l’UE continuasse a trascurare la questione della crescita, essenziale per il normale funzionamento dell’UEM e, nello specifico, della sua governance economica.

Ma la competenza e il candore di Draghi si scontrano con una forza di natura diversa. A giudicare dal suo primo mandato, sembra che la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen abbia scelto di non affrontare tutti i problemi economici ereditati. L’agenda verde fornisce all’UE il fascino di un nuovo marchio, moderno e conveniente, che sottolinea la posizione di leadership dell’UE nel mondo e il suo potere normativo. La relazione di Draghi è in dissonanza con questa bella immagine. Pertanto, alcuni cercheranno sicuramente di sminuirne l’importanza. Questa è la natura umana e non bisogna sottovalutarla.

L’attuazione del programma dovrà affrontare una serie di ostacoli pratici. Il primo e più ovvio è che non è chiaro da dove verranno questi 750-800 miliardi di euro all’anno. Gli Stati membri che sono contribuenti netti al bilancio dell’UE sono riluttanti ad assumersi ulteriori impegni finanziari, soprattutto ora che i livelli di debito pubblico sono elevati. I tentativi di aumentare il bilancio dell’UE sono spesso sfociati in aspre dispute tra gli Stati membri, e ottenere progressi significativi in questo campo sarebbe un miracolo. Altrettanto problematico sarà garantire un importo così consistente dai bilanci nazionali, dai fondi internazionali o da fonti private.

Il secondo ostacolo è meno evidente. Ha a che fare con il “marchio di fabbrica” dell’integrazione europea, nato dal compromesso politico tra Germania e Francia. La Germania ebbe l’opportunità di rivitalizzare la propria industria, ma il prezzo imposto dalla Francia fu molto alto. La CEE adottò la protezionistica Politica Agricola Comune. Ancora oggi, la PAC contiene meccanismi che chiaramente non sono in accordo con il libero mercato e consuma una quota sproporzionata del bilancio dell’UE, fino al 30%. Avere una politica agricola comune è un fattore chiave che mantiene la Francia interessata all’integrazione europea. Il fatto che il rapporto Draghi non tocchi affatto il tema dell’agricoltura può essere un’indicazione della gravità del problema. Tuttavia, quando l’UE inizierà a ridistribuire il suo bilancio comune per promuovere l’innovazione, la questione dei sussidi all’agricoltura verrà inevitabilmente sollevata prima o poi.

Il terzo ostacolo potrebbe essere rappresentato dalle lobby verdi, che difficilmente vedranno di buon occhio l’emergere di una nuova priorità. Con una minore importanza attribuita all’agenda climatica, dovrebbero ridurre le risorse finanziarie, umane, politiche e amministrative. All’interno della burocrazia dell’UE ci sono molti funzionari che hanno lavorato al Green Deal negli ultimi cinque anni e il loro benessere e le loro prospettive di carriera sono strettamente legate a questa politica.

Infine, il quarto ostacolo è la rigidità dei meccanismi di governance. Le istituzioni europee sono, da un lato, molto prolifiche (a giudicare dal numero di atti legislativi che producono e dalla velocità con cui li emanano), ma, dall’altro, sono difficili da riformare. La proposta di Draghi di estendere o generalizzare il voto a maggioranza qualificata riguarderà un gruppo ristretto ma estremamente controverso di questioni economiche. Attualmente, il Consiglio delibera all’unanimità quando adotta decisioni relative all’armonizzazione dell’imposizione indiretta (che può avere ripercussioni sul commercio elettronico), agli aspetti fiscali della politica energetica dell’UE e al sistema delle risorse proprie dell’Unione, ossia il bilancio comune.

Sembra che il piano possa avere successo? Sì, è così. Negli ultimi cinque anni, mentre la Commissione europea si occupava dell’agenda verde, a Bruxelles sono cambiate molte cose. Le vecchie dispute tra gli Stati membri su vari aspetti della politica economica sono state dimenticate; molti dei funzionari che erano coinvolti in quelle dispute sono scomparsi. I dibattiti sulle violazioni delle regole di bilancio si sono placati. I ricordi della crisi della zona euro si sono affievoliti e le nazioni non puntano più il dito l’una contro l’altra, discutendo di chi sia la colpa, chi sia stato colpito più duramente e chi abbia salvato chi. La Direzione generale degli Affari economici e finanziari della Commissione europea, che per decenni ha plasmato la politica economica europea e ne ha curato l’attuazione insieme all’ECOFIN, è passata in secondo piano.

Sarebbe il momento giusto per riorganizzare gli elementi frammentati del sistema di governance economica dell’UE e configurarli in modo più adatto alle attuali esigenze dell’Unione e al nuovo paradigma globale. Se ciò accadesse, significherebbe che la politica di minimizzazione delle questioni economiche che abbiamo osservato negli ultimi anni è stata un atto di distruzione creativa con ramificazioni di vasta portata e magistralmente nascoste. In questo scenario, la Commissione europea si salverà la faccia di fronte all’opinione pubblica, compresi gli attivisti ambientali. Potranno sempre dire che questa disperata ricerca della crescita non è stata una loro idea; lo fanno solo perché la crescita è necessaria per preservare il modello sociale dell’UE, che è in pericolo a causa dell’aumento della concorrenza da parte dei due rivali globali dell’Europa, uno a Est e uno a Ovest.

Conclusione

Il rapporto Draghi, pubblicato ora, all’inizio di un nuovo ciclo politico, pone la Commissione europea di fronte a un difficile dilemma. Deve concentrarsi sulla crescita e sul rendere più competitivi i produttori dell’UE (attraverso massicci investimenti) ora? O dovrebbe conservare le riforme per il futuro? Quest’ultima ipotesi significherebbe rinunciare alla crescita e perdere la posizione globale dell’Europa insieme al Green Deal e al modello sociale europeo. L’attuazione delle raccomandazioni contenute nel rapporto richiederebbe il superamento di una serie di ostacoli: la mancanza di fonti evidenti per gli investimenti, la limitatezza del bilancio dell’UE, in gran parte riservato ad altre esigenze, l’opposizione della lobby verde che ha acquisito un notevole peso negli ultimi anni e la rigidità delle procedure decisionali.

Ciononostante, c’è la possibilità che l’Unione europea si imbarchi in un’opera di rinnovamento della sua politica economica, perché gli anni trascorsi a perseguire la doppia transizione (decarbonizzazione e trasformazione digitale) hanno portato nuovi volti negli organi di governo e le aspre dispute sulle questioni economiche sono in gran parte dimenticate. Entro un anno sapremo meglio se questo scenario è verosimile: se l’UE creerà gli organi di governo raccomandati nel rapporto, sarà un’indicazione che il piano ha ricevuto il via libera.

 

1 Il futuro della competitività europea. https://commission.europa.eu/topics/strengthening-european- competitiveness/eu-competitiveness-looking-ahead_en#paragraph_47059 (visitato il 12 settembre 2024).

2 Commissione europea, Direzione generale della Comunicazione, Leyen, Ursula von der, A Union that strives for more – My agenda for Europe – Political guidelines for the next European Commission 2019-2024, Publications Office, 2019, https://data.europa.eu/doi/10.2775/018127 (visitato il 10 settembre 2024).

3 UNCTADStat: Prodotto interno lordo totale e pro capite, annuale. https://unctadstat.unctad.org/datacentre/dataviewer/US.GDPTotal (visitato il 12 settembre 2024). Nel 2023, a causa del rallentamento dell’economia cinese, la sua economia si è ridotta a 17,8 trilioni di dollari, retrocedendo rispetto all’UE con i suoi 18,4 trilioni di dollari.

4      Commissione europea. Relazione sulle finanze pubbliche nell’UEM 2023. Documento istituzionale 295, settembre 2024. https://economy-finance.ec.europa.eu/document/download/0aaf8190-b9fe-46b2- 9dac912b98bef0da_en?filename=ip295_en_0.pdf (accesso 13 settembre 2024).

5      Commissione delle Comunità europee (1988), Europa 1992: la sfida globale, SEC (88) 524 def.

Bruxelles, 13 aprile. http://aei.pitt.edu/3813/1/3813.pdf (visitato il 12 settembre 2024).

6      Kondratyeva, Natalia (2020), European Model of Market Integration: Formazione e prospettive. RAS, Mosca (in russo).

 

7      Commissione europea (1995). Libro verde sulle modalità pratiche di introduzione della moneta unica, 31 maggio. COM/95/333 def.

8      Il futuro della competitività europea, parte A, pag. 1.

9     Tsibulina, Anna (2024). Nuove priorità di crescita della politica economica dell’Unione europea, Saint Petersburg University Journal of Economic Studies, vol. 40 (2), pp. 175-190 (in russo). doi.org/10.21638/spbu05.2024.202.

10 L’UE nel 2019. Relazione generale sulle attività dell’Unione europea. https://op.europa.eu/en/publication- detail/-/publication/66c4ad7e-6281-11ea-b735-01aa75ed71a1/language-en (visitato il 12 settembre 2024).

11 L’UE nel 2020. Relazione generale sulle attività dell’Unione europea. https://op.europa.eu/en/publication- detail/-/publication/f59f7b32-8084-11eb-9ac9-01aa75ed71a1/language-en (visitato il 12 settembre 2024).

12 Si veda, ad esempio, The  EU  in  2023.  General  report  on  the  activities  of the European  Union. https://op.europa.eu/webpub/com/general-report-2023/pdf/the-eu-in-2023.pdf (visitato il 12 settembre 2024).

13 Draghi, Mario (2012). “Testo integrale delle osservazioni di Mario Draghi. Discorso di Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, alla Global Investment Conference”, Londra, 26 luglio. https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/sp120726.en.html (visitato il 12 settembre 2024).

14 Comunicazione congiunta della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio sulla “Strategia europea di sicurezza economica”, Bruxelles, 20.06.2003. JOIN (2023) 20 definitivo. https://eur- lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52023JC0020 (visitato il 12 settembre 2024).

15 La trinità impossibile è un concetto che afferma l’impossibilità per uno Stato di perseguire contemporaneamente tre politiche macroeconomiche: (1) sovranità monetaria; (2) libero flusso di capitali; (3) tasso di cambio fisso. I meccanismi di mercato permettono di perseguire due di queste politiche contemporaneamente, ma non tutte e tre.

Olga Butorina

Dr. of Science (Economics), Corresponding Members of the Russian Academy of Sciences, Professor, Deputy Director for scientific work, RAS Institute of Europe, RIAC Member

CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI COPRONO UNA PARTE DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 3.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIO

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate:

postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704

oppure iban IT30D3608105138261529861559

oppure PayPal.Me/italiaeilmondo

oppure https://it.tipeee.com/italiaeilmondo/

Su PayPal, Tipee, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)