Troppo di non molto, di Aurelien_a cura di Roberto Negri

Troppo di non molto

Vincere la giornata perdendo la guerra.

 

AURELIEN

13 SET 2023

Vi ricordo che le versioni spagnole dei miei saggi sono ora disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta pubblicando anche alcune traduzioni italiane e Italia e il Mondo ha recentemente pubblicato una mia intervista, in inglese e in italiano. Grazie a tutti i traduttori.

 

Negli ultimi saggi ho avuto modo di parlare del disastroso declino delle capacità del governo, delle istituzioni e del settore privato nel mondo occidentale. Anche altri sono intervenuti, come John Michael Greer e Yves Smith di Naked Capitalism, che non solo ha creato un forum di discussione sul tema ma ha anche fornito alcuni importanti contributi. Questo saggio, tuttavia, non è un ennesimo sfogo o geremiade contro questa indubbia incompetenza dilagante, ma piuttosto un tentativo di comprendere e spiegare una delle sue caratteristiche più sconcertanti: perché i politici in Occidente oggi sono così incapaci di fare i politici?

Cosa intendo con “incapaci”? Considerando per il momento la politica come un’attività puramente tecnica, sembra ovvio che chi entra in politica dovrebbe avere o pianificare di acquisire una serie di competenze di base come in qualsiasi altro ambito. Da un falegname ci si aspetta che sappia segare con precisione il legno, da un commercialista che sia a suo agio con le cifre, da un attore che sappia entrare nella psicologia di diversi personaggi. Lo stesso vale per i politici. Cosa ci aspettiamo da loro?

Innanzitutto, un ragionevole livello di intelligenza innata e una ragionevole capacità di pensare, scrivere e parlare in modo coerente e comprendere concetti. Non intendo nulla di particolarmente eccezionale: per cominciare, il livello di intelligenza media di un diplomato sarebbe sufficiente. Ma la politica comporta anche altre abilità: fra queste, la capacità di comprendere e parlare di molti argomenti diversi, di affrontare in modo efficace dibattiti e interviste, di rivolgersi agli elettori per conquistare il loro voto, di stringere alleanze e  capire come trattare con gli avversari, di vedere i flussi sotterranei del potere e di capire e saper reagire ai cambiamenti delle tendenze politiche. Quando si è al potere è necessario avere un’idea di ciò che si vuole fare e almeno un’idea di massima su come farlo. Inoltre, i politici devono avere una solida  struttura fisica e psicologica per far fronte agli impegni di lavoro e sopportare infinite critiche, alcune delle quali personali, senza esserne influenzati.

Niente di tutto questo è tremendamente ambizioso o impegnativo, eppure ciò che mi colpisce, avendo osservato la politica dalla prima linea per circa mezzo secolo, è il modo in cui negli ultimi decenni queste competenze di base sono decadute nei Paesi occidentali. C’è una lunga lista di potenziali esempi, ma permettetemi di citarne solo alcuni fra i più evidenti. In quasi tutti i Paesi occidentali, i partiti politici sembrano non sapere più come farsi votare. Grandi percentuali dell’elettorato non votano, e quelli che lo fanno votano con riluttanza per la meno ripugnante fra le possibili alternative. L’idea di avere politiche e visioni che vadano oltre le slide di Powerpoint e gli slogan, o che siano destinate a essere realmente attuate, sembra completamente assente. (Emmanuel Macron è stato eletto due volte sulla base di un programma sintetizzabile in “non essere Marine Le Pen”). Allo stesso modo, pochi governi dei Paesi occidentali sembrano avere idea di come gestire i propri parlamenti, far approvare le leggi o persino convincere l’opinione pubblica e i media non allineati alle visioni della classe dirigente. E anche a livello individuale i politici si presentano ormai come creature vulnerabili che compiangono sé stesse per il fatto di essere perseguitate dai loro avversari. Ma “cattivo” o “incompetente” non sono critiche personali, piuttosto giudizi tecnici, non diversi da quelli sul lavoro di un idraulico o di un avvocato.

 

Non è sempre stato così. Certo, i politici sono sempre stati impopolari (“politico” era un insulto già ai tempi di Shakespeare) e non c’è mai stata un’età dell’oro in cui i politici erano in genere onesti e competenti e avevano a cuore gli interessi della nazione. Tuttavia. Tuttavia cinquant’anni fa, ad esempio, le campagne elettorali erano condotte in gran parte attraverso incontri pubblici, e a volte migliaia di persone si presentavano per ascoltare un personaggio popolare, applaudire o contestare. Alcuni politici e i loro programmi erano veramente popolari e suscitavano un entusiasmo reale, non finto. E quando venivano eletti cercavano di mantenere l eloro promesse.

Nel 1951, il governo conservatore di Winston Churchill fu eletto anche sulla base della promessa di costruire 300.000 alloggi popolari all’anno. Non si trattava di una cifra calcolata da un gruppo di lavoro, né di una promessa vana che sarebbe stata dimenticata dopo le elezioni. Si trattava di una promessa che fu sostanzialmente mantenuta, sotto la guida di Harold Macmillan, il Ministro per gli Alloggi (immaginate, un Ministro per gli Alloggi!). Le Municipalità locali, spesso utilizzando la propria manodopera, ne costruirono due terzi. Oggi, nonostante la consapevolezza della necessità di risolvere la disperata carenza di alloggi che affligge la Gran Bretagna, il numero di nuove case popolari costruite ogni anno è nell’ordine delle migliaia. Ma in passato mantenere tali promesse era considerato normale: era l’epoca della ricostruzione del sistema ferroviario, della costruzione delle prime autostrade e di molte nuove università. Lo stesso accadde in Europa, dove la ripresa dalla guerra avvenne rapidamente, in gran parte grazie alle risorse e alle capacità locali che erano sopravvissute ai combattimenti. E poi c’è stata la modernizzazione. Si racconta che all’inizio degli anni ’60 De Gaulle e il suo primo ministro Georges Pompidou stessero sorvolando Parigi in elicottero, osservando i caotici ingorghi che l’era dell’automobile aveva portato. “Dobbiamo fare qualcosa per questo caos”, disse De Gaulle. Nel giro di pochi anni fu aperta la prima linea di metropolitana ad alta velocità (RER) e la circonvallazione intorno a Parigi, già iniziata, fu rapidamente completata. Poco dopo arrivò la crisi petrolifera e il governo francese decise, più o meno da un giorno all’altro, di espandere massicciamente l’industria nucleare del Paese: il responsabile dell’industria energetica (allora di proprietà statale) fu convocato e gli fu ordinato di provvedere. Nel giro di pochi anni i reattori cominciarono ad entrare in funzione. Poco dopo, il governo decise di introdurre il Minitel, un antesignano di Internet, semplicemente regalando una macchina a tutti coloro che ne volevano una. Fu un successo strepitoso e permise ai francesi, ad esempio, di acquistare i biglietti ferroviari on line un decennio prima che ciò fosse possibile nella maggior parte degli altri Paesi.

 

Ma forse pensate che tutto questo sia un po’ banale e limitato alla politica interna. Che dire dei grandi affari di Stato, gli Esteri e la Sicurezza, per esempio? I governi erano ugualmente attivi in questo campo? Ecco un esempio molto significativo. Sia la Gran Bretagna che la Francia uscirono dalla Seconda guerra mondiale con la consapevolezza che, se non fosse stato per i loro imperi, eserciti, materie prime e profondità strategica le cose sarebbero probabilmente finite molto peggio di come sono andate. Il primo pensiero fu quindi quello di mantenere i loro imperi coloniali per conservare lo status di Grandi Potenze e, nel caso della Gran Bretagna, una sorta di parità con gli Stati Uniti. Ma divenne rapidamente chiaro che mantenere gli Imperi avrebbe rappresentato un onere finanziario troppo gravoso per essere sostenibile e, dopo la disfatta di Suez, il loro valore strategico divenne molto più aleatorio. In pochi anni il governo britannico cambiò completamente rotta e la maggior parte dei possedimenti inglesi divenne rapidamente indipendente. In poco più di un decennio non rimase praticamente nulla e l’intero focus strategico si spostò sull’Europa e sull’Atlantico. La transizione francese fu ancora più rapida: salito al potere, De Gaulle non solo uscì dalla palude della guerra d’Algeria ma decise che l’onere di mantenere le altre colonie superava gli eventuali benefici: tutte divennero indipendenti in un paio d’anni.

Ma questo non è dovuto alla sola presenza in quegli anni di veri e propri giganti, anche se lo erano. Fino a una generazione fa, la maggior parte dei leader occidentali mostrava ancora un ragionevole grado di competenza politica. Prendiamo ad esempio il 1991. In quell’anno, Washington fu in grado di aggregare una forte coalizione internazionale per la guerra in Kuwait, con una diplomazia capace e intelligente e con obiettivi politici definiti. (Più tardi, nello stesso anno, durante i negoziati per l’Unione politica di Maastricht, i britannici, isolati su molte questioni e sotto la non brillante guida di John Major, raggiunsero comunque molti dei loro obiettivi. Questo in parte perché Major aveva davanti a sé un manuale di istruzioni con il testo di ogni clausola che doveva essere concordata, un commento sugli obiettivi britannici e, se necessario, una controproposta. Secondo persone che hanno partecipato a quei negoziati nessun altro leader nazionale ha avuto questo livello di supporto, e del resto i britannici sono stati uno dei pochi Stati in quel contesto ad aver definito degli obiettivi politici, anche se non li hanno raggiunti tutti. Il paragone con la Brexit è quasi troppo doloroso per essere evocato.

Nel raccontare questi episodi si tende a soffermarsi sulle competenze tecniche, sui livelli di istruzione e qualificazione, sul reclutamento di specialisti, sull’organizzazione del governo e così via, tutti aspetti senz’altro importanti. Ma mentre un Paese può funzionare con una burocrazia decente e un settore privato capace, per raggiungere davvero degli obiettivi occorre una classe politica in grado innanzitutto di definirli e perseguirli. Questi obiettivi non devono necessariamente essere decisi esclusivamente dalla classe politica: possono anche essere ampiamente condivisi dalle élite nazionali, come ad esempio avviene in molti Paesi asiatici. Ma è essenziale che i politici in carica definiscano e perseguano tali obiettivi, se si vuole che il Paese vada avanti. Chiunque abbia lavorato in una struttura di Governo vi dirà quanto sia esasperante trovarsi di fronte a leader politici che non sanno cosa vogliono, o non riescono ad articolarlo.

Vorrei ora analizzare brevemente alcune delle possibili spiegazioni di questa situazione – paragonabile all’impossibilità di trovare un falegname che sappia segare in linea retta – prima di passare a parlare dell’influenza catastrofica che essa ha avuto sulla gestione della crisi ucraina da parte dell’Occidente attraverso un paio di altri esempi significativi.

I politici sono ovviamente il riflesso della società da cui provengono e del serbatoio di talenti disponibili. I cambiamenti nella società implicano quindi  inevitabilmente che coloro che entrano in politica portino con sé l’impronta di questi cambiamenti, i problemi e le debolezze, come ad esempio il deterioramento degli standard educativi. È certamente vero che l’atmosfera frivola e frenetica della cultura popolare occidentale di oggi è molto diversa dal mondo serio e rigoroso in cui Macmillan o De Gaulle facevano politica. Dall’altra parte, le ricerche dimostrano che nella maggior parte dei Paesi occidentali la classe politica è più privilegiata e più acculturata che mai. I suoi membri provengono generalmente da famiglie con un reddito più elevato, hanno ricevuto un’istruzione lunga e costosa presso istituzioni prestigiose e beneficiano di estese reti di relazione familiari e professionali. Sono quindi mediamente più istruiti e preparati dei loro predecessori di cinquant’anni fa: non hanno scuse. Pensiamo a un caso come quello di Ernest Bevin, uno dei più grandi segretari agli Esteri britannici e l’uomo che più di ogni altro è stato artefice della nascita della NATO, che è nato in povertà, non ha avuto alcuna istruzione formale e ha fatto carriera nel movimento sindacale. Eppure ha impressionato tutti, compresi i diplomatici di Oxbridge, per la sua innata intelligenza e la sua straordinaria capacità di lavoro, oltre che per la cura per il suo staff.

Un altro fattore è costituito dalle caratteristiche connaturate della attuale classe politica. Un rapido esame delle principali figure politiche fino al 1990 circa mostra un’ampia varietà di background, istruzione ed esperienze di vita. In tutti i principali parlamenti occidentali, fino a pochi anni or sono, erano presenti politici che avevano iniziato la loro vita come lavoratori manuali. Oggi non ce ne sono più. Il declino dei partiti politici di massa, soprattutto a sinistra, ha prosciugato il serbatoio di coloro che sono cresciuti in condizioni difficili, spesso attraverso scioperi e picchetti e i feroci contrasti interna dei sindacati, e le cui convinzioni sono state formate in modo preponderante dall’esperienza. (La profonda avversione di Bevin per il comunismo, ad esempio, non era una astratta posizione di principio ma il risultato delle sue esperienze sindacali e dell’antagonismo di classe contro gli intellettuali che dominavano il Partito Comunista in Gran Bretagna: del resto, non era nemmeno un ammiratore tout court degli Stati Uniti o dell’Impero). Ma i politici provenivano anche da carriere borghesi standard: avvocati, insegnanti e conferenzieri, medici, militari, piccoli imprenditori, persino contabili. Ma la loro caratteristica comune era quella di aver esercitato una professione prima di entrare in politica, scelta che in ogni caso tendevano a compiere non prima della mezza età. Molti erano stati attivi anche nella politica locale, dove non si potevano certo evitare le questioni quotidiane.

Al contrario la classe politica di oggi, sotto la bandiera del “professionismo”, è diventata sempre più dilettante nella sua capacità di fare cose che contino davvero, in parte a causa della limitatezza del proprio background ed esperienza. Un aspirante politico al giorno d’oggi inizia con una laurea in una materia teorica presso un’università prestigiosa (“relazioni internazionali”, magari) e si dedica alla politica studentesca, creando contatti e preparandosi per il futuro. Dopodiché, un master in Diritto dei diritti umani, per esempio, e un paio di stage prestigiosi e un indirizzario sempre più ampio. E poi un lavoro di base in un think-tank o in un gruppo di pressione, un periodo come assistente parlamentare in patria o a Bruxelles, un lavoro nell’apparato del partito, un lavoro nell’ufficio di un ministro, un lavoro di gestione in un think-tank e poi, forse, molto precocemente, la possibilità di essere eletti. Esperienza totale in tutto ciò che non sia puro carrierismo: praticamente zero.

Ma ci sono altre due caratteristiche dei sistemi politici odierni, collegate tra loro, che a mio avviso hanno maggiore importanza, anche se sono meno evidenti. Una (conseguenza di questo tipo di “professionismo”) è che oggi le carriere politiche si fanno quasi esclusivamente all’interno dell’apparato del partito politico cui si appartiene. Un corollario ovvio, anche se perverso, è che i vostri nemici sono in primo luogo membri del vostro stesso partito piuttosto che di partiti avversari. La depoliticizzazione della politica e il restringimento dello spettro di idee politiche accettabili che hanno caratterizzato l’ultima generazione fanno sì che le differenze autentiche con gli altri partiti politici siano spesso di poco conto e possano diventare davvero importanti solo quando ci sono le elezioni e quando è necessario trovare qualche argomento plausibile per cui l’elettorato non dovrebbe votare per un altro partito.

Ma la carriera non si fa battendo l’opposizione nel paese o in uno scontro parlamentare, bensì legandosi a persone importanti, individuando e aderendo alla tendenza che si pensa possa prevalere nei dibattiti interni al partito, attenendosi scrupolosamente alla linea del partito in ogni occasione ed essendo pronti a tradire i propri amici e alleati, per non dire le proprie convinzioni, quando è opportuno farlo. Ora, la politica è sempre stata un po’ così e la maggior parte dei politici, anche se non tutti, hanno avuto una vena carrieristica. Ma negli ultimi anni la politica è sempre più diventata solo carrierismo. Come è prevedibile in una società liberale, la politica è egoriferita al singolo, alla sua carriera, prospettive e futuro dopo aver lasciato la politica. Il quale può anche prendere parte a una lotta tra fazioni per il controllo del partito, ma l’idea che il partito stesso possa avere degli interessi, o che qualche gruppo esterno al partito possa avere una qualche importanza, gli risulta completamente estranea. È questo, più di ogni altra cosa, a spiegare perché oggi la politica interna ai partiti è così feroce e perché i politici usano così spesso i social media per attaccare i propri teorici alleati piuttosto che i loro avversari.

Se tutto questo vi ricorda vagamente la politica in uno Stato monopartitico, forse è perché è proprio così. In uno stato del genere, la politica funziona esattamente in questo modo: aspre lotte interne tra fazioni, scarso interesse per le opinioni di chi è al di fuori del partito e continui tentativi di scalarne le gerarchie alla ricerca di più potere e dei vantaggi che ne derivano. Una delle ragioni del catastrofico collasso della Bosnia nel 1992, fra le altre, consiste nel fatto che nessuno dei partiti politici presentatisi alle elezioni che l’Occidente ha imposto al neonato Stato aveva una reale esperienza di politica democratica, del logorante processo di discussione, dibattito, costruzione di coalizioni e convincimento dell’opinione pubblica. Il vecchio Partito Comunista Jugoslavo non funzionava così. Così, da un lato i politici in cerca di voti hanno giocato l’unica carta che avevano a disposizione, l’etnia, e dall’altro, quando si è trattato di costituire un parlamento, non avevano assolutamente idea di come farlo funzionare. All’epoca pensavamo di avere qualcosa da insegnare loro. Ora non è più così evidente.

E naturalmente in uno Stato monopartitico esiste una nomenklatura che identifica non solo coloro che detengono il potere politico e governativo, ma anche coloro che hanno influenza sui media, i think tank, l’industria e persino le professioni, e che si muoveranno facilmente in questi ambienti. Abbiamo visto questo sistema insinuarsi lentamente anche nei Paesi occidentali. Al giorno d’oggi un ministro del Governo ed ex consulente manageriale potrebbe essere sposato con un noto giornalista politico, avere un fratello con una posizione di rilievo nel settore privato che finanzia varie ONG, una sorella che dirige un influente think-tank e che sta cercando di entrare in politica, essere il migliore amico di un diplomatico di alto livello ritiratosi per lavorare in una banca, che è sposato con il direttore di un’azienda di servizi privatizzata, il cui fratello è un alto funzionario della Banca d’Inghilterra… la rete è potenzialmente infinita. (Se pensate che stia esagerando, leggete alcuni dei commenti su Naked Capitalism del columnist Colonel Smithers e alcuni dei loro reportage sulle relazioni incestuose della nomenklatura negli Stati Uniti. E non fatemi parlare della Francia ….).

L’ultimo elemento, riflesso della precedente, è il trionfo assoluto dell’immagine sulla sostanza. Se i partiti non si preoccupano più di avere una base di massa, se si affrontano le elezioni parlamentari solo assumendo consulenti per diffamare l’opposizione, se l’unico obiettivo personale è salire nella gerarchia del partito, allora è inevitabile che l’immagine sia tutto. Ciò che si dice è più importante di ciò che si fa, soprattutto se si è interiorizzata l’idea che il governo non può in ogni caso fare molto, e si cerca piuttosto il consenso dei propri pari, dentro e fuori dal partito. (Questo tipo di politica è iniziato negli anni Novanta e nel Regno Unito è associato soprattutto al governo Blair, in particolare negli ultimi anni. A quell’epoca si era già sviluppata una nomenklatura e le decisioni del governo venivano prese sempre più spesso in riunioni informali, alle quali partecipavano persone che non erano state elette e che non avevano le necessarie qualifiche professionali. C’era un numero crescente di “consiglieri”, essenzialmente apprendisti politici, cui non era richiesta alcuna qualità personale se non l’ambizione e l’assoluta fedeltà al loro sponsor e protettore. L’avanzamento di carriera non derivava dalla competenza o dall’onestà ma dal sapere, per dirla nel gergo dell’epoca, “cosa vuole Tony”. All’epoca di quel disastro che fu il governo di Boris Johnson era difficile dire chi fosse influente e responsabile di qualcosa nel governo, ammesso che qualcuno lo fosse.

È stato sotto l’azione del chief spin doctor di Blair, Alastair Campbell, che l’enfasi si è spostata decisamente dalla politica all’apparenza. Il governo divenne ossessionato dall’immagine e dal controllo della percezione pubblica, e garantire una copertura positiva nei media divenne un obiettivo importante in sé, se non il più importante. Come in uno Stato monopartitico, il controllo di ciò che era ammesso nel discorso pubblico era l’unica cosa che contava davvero e, per un certo periodo, l’opposizione Tory si trovò in uno stato di tale disgregazione che vincere le elezioni era comunque facile. L’espressione che riassume questo approccio (che Campbell l’abbia coniata o meno) è “win the day “, letteralmente “vincere la giornata”: in sostanza, l’idea che alla fine di ogni giornata ciò che contava davvero era che i media riflettessero la linea del governo su una determinata questione. E tale linea poteva avere solo un rapporto incidentale con la realtà. Le statistiche ufficiali, ad esempio, erano in definitiva ciò che il governo sosteneva che fossero, purché i media vi credessero.

Penso che sia già ovvio che la trasformazione della vita politica occidentale in un passatempo amatoriale, carrieristico, ripiegato su sé stesso, elitario, guidato dall’ego e ossessionato dall’immagine non avrebbe avuto un esito felice. E infatti non lo ha avuto. Voglio quindi esaminare brevemente due casi, e poi l’Ucraina, per vedere come tutto questo si è tradotto nella vita reale.

Forse ricorderete il malcontento in Francia all’inizio dell’anno per le modifiche volte a far lavorare più a lungo i francesi per avere pensioni più basse. Non mi occupo qui del merito della questione (dubbia, e questo era uno dei problemi politici), ma della gestione politica, da parte di un governo senza maggioranza, di una politica profondamente impopolare. La prima reazione di qualsiasi politico saggio sarebbe stata quella di dire: “Non fatelo”. Dopotutto, i dati ufficiali evidenziavano che verso i sessant’anni di età una frazione significativa della popolazione attiva francese già era economicamente inattiva perché disoccupata (i giovani costano meno) o invalida dal lavoro. In effetti, con la nuova età pensionabile fissata a 64 anni, la classe operaia francese media si troverebbe già in cattive condizioni di salute e in molti casi defunta. Un bel risparmio. Inoltre, l’argomento dell’equilibrio finanziario evocato dal governo era difficilmente conciliabile con la spesa senza limiti per combattere il Covid, per non parlare dei miliardi inviati in Ucraina.

Quindi chiunque con un briciolo di sensibilità politica avrebbe detto a Macron: se non vuoi ritirare questa sciocca proposta, rendila più presentabile. Ad esempio, un’età pensionabile generalizzata di 64 anni significava che l’operaio che aveva lasciato la scuola a 16 anni avrebbe lavorato forse dieci anni in più rispetto al giornalista o al banchiere che avrebbero studiato fino a venticinque anni. Perché non utilizzare invece un sistema a punti, in modo che quando si è lavorato per un certo periodo di tempo si possa andare automaticamente in pensione? D’altronde, questa idea si ritrova in altre parti del sistema francese. La posizione del governo, al contrario, è stata di assoluta rigidità.

Il che equivale a dire che il vero problema era l’ego di Macron e il suo desiderio di imporsi platealmente su questi francesi recalcitranti e, appunto, “vincere la giornata”. Il tema, alla fine, non era importante: ciò che contava era la prospettiva dell’eroica vittoria sul popolo francese. A questo ha contribuito il fatto che si trattava di un argomento che Macron poteva effettivamente comprendere e su cui (a differenza del Covid o dell’Ucraina) aveva il potere di influire. Tuttavia, anche se alla fine Macron ha fatto approvare la legge con una procedura costituzionale concepita per affrontare emergenze eccezionali, ciò ha allontanato ancora di più l’elettorato dal sistema politico e il suo partito probabilmente subirà danni enormi in termini di consenso nelle elezioni 2027. E per quale motivo? A che pro, si sarebbe chiesto qualsiasi politico esperto della vecchia scuola?

Si è scritto molto sulla Brexit, ma, a parte le argomentazioni astratte, voglio focalizzarmi su quella che ritengo essere la questione chiave: la pura incompetenza. Da Primo Ministro con una maggioranza risicata David Cameron si è concentrato esclusivamente, come il presidente di un qualsiasi Politburo, sulla propria sopravvivenza e posizione nel partito.  Una piccola ma rumorosa fazione anti-Bruxelles stava creando problemi, quindi perché non lanciare loro l’osso di un referendum che il governo sapeva avrebbe vinto? Questo avrebbe risolto il problema. (In realtà non l’avrebbe fatto, poiché queste persone erano dei veri fanatici che non si sarebbero mai arresi: e questo è la prima valutazione politica totalmente errata). A differenza dell’accurata gestione del referendum europeo del 1975 da parte di Jim Callaghan, Cameron non ha fatto alcun tentativo di definire e attuare una strategia, né di contattare i governi europei per rassicurarli su ciò che stava accadendo. L’arroganza e l’incompetenza hanno impedito al governo di condurre una campagna credibile per il Remain, cercando solo di spaventare e costringere la popolazione a votare a favore: il tipico comportamento di un governo che non sa più come vincere le elezioni se non con gli insulti. Il risultato è stato il più grande disastro politico evitabile dei tempi moderni, anche se quello che è seguito è stato anche peggiore. Cameron, fedele allo spirito egoriferito e ripiegato su sé stesso della politica contemporanea, non ha avuto esitazioni quando i risultati sono stati resi noti: è scappato, e ora pare stia facendo fortuna consigliando altri. La povera vecchia satira sta rimanendo senza lavoro ultimamente.

Theresa May ha ereditato una situazione disperata ma non impossibile. Tutto sommato, qualsiasi politico della vecchia scuola avrebbe saputo cosa fare. Un’attenta valutazione della situazione, colloqui con tutti i partiti, nodi legali da risolvere, discussioni con i partner europei, dibattiti in parlamento… avrebbero potuto passare anni e portare a un cambio di governo o a un consolidamento della maggioranza.  E anche se, alla fine, la Brexit fosse risultata inevitabile, un governo competente si sarebbe preparato adeguatamente. Un principio basilare di qualsiasi negoziato è che non si iniziano mai i colloqui senza obiettivi chiari, senza una buona conoscenza di ciò che vuole la controparte e senza un quadro di massima su ciò che si è disposti a scambiare con cosa. Ma la Brexit è stato il primo vero esempio del nuovo stile della politica occidentale. Tutto ciò che contava per la May era la sua posizione all’interno del partito (inizialmente era contraria alla Brexit) e il preservare tale posizione uscendo dall’UE il più rapidamente possibile, anche se non c’era stata alcuna preparazione preliminare e il governo non aveva obiettivi oltre all’uscita. La sua attenzione era interamente concentrata sul fronte interno: mantenere i media dalla sua parte, “vincere la giornata”, tenere unito il partito e concedere qualsiasi promessa o compromesso necessario per mantenere la sua posizione. Dopo il disastroso fallimento di un’elezione generale indetta appositamente per rafforzare la sua posizione all’interno del partito si è ritrovata ostaggio di un gruppo di fondamentalisti protestanti irlandesi, ai quali ha prestato molta più attenzione di quanta ne abbia riservata ai suoi “partner” negoziali a Bruxelles. Al contrario, sembra che sia stato fatto ben poco per definire una strategia, e i britannici sono passati da una crisi all’altra, battuti in ogni fase da una Commissione che aveva un mandato chiaro e lo ha rispettato. Quando Johnson ha preso il potere, il trionfo della “nuova” politica è stato completo: nulla contava se non “vincere la giornata”. Non importava quante bugie fossero state dette, quanti problemi fossero stati nascosti, quanta fantasia fosse stata messa in campo: la vita reale passava in secondo piano e i futuri problemi che si accumulavano avrebbero potuto essere risolti, beh, in futuro. Il sistema britannico, un tempo solido, era ormai l’ombra di sé stesso, ma anche il sistema migliore è impotente quando i politici sono ossessionati da questioni interne e mediatiche e si chiedono non “cosa vogliamo”, ma “come apparirà”.

A questo punto dovrebbe risultare chiaro come l’Ucraina sia semplicemente l’epitome di questo fenomeno, solo su scala molto più ampia. La “politica” occidentale è gestita da una nomenklatura ormai internazionale, che guarda a sé stessa con orgoglio e approvazione ma è limitata nella sua libertà individuale di espressione e azione come lo era il Comitato Centrale del Partito Comunista Rumeno. I leader nazionali non sono preoccupati dalla crisi in sé, che a malapena comprendono, ma dalla gestione della loro immagine all’interno del proprio Paese e del proprio partito politico, per non parlare del confronto con i colleghi internazionali. Nessuno può permettersi di apparire meno determinato, meno impegnato nei confronti dell’Ucraina, meno antirusso del proprio vicino o del proprio avversario politico. Come la Stasi di un tempo, i media e i social media di oggi esaminano ogni dichiarazione, e persino ogni silenzio, su ogni questione alla ricerca di segni di deviazionismo ideologico. Non sorprende quindi che la nomenklatura passi così tanto tempo a negoziare con sé stessa ciò che potrebbe accettare come esito della crisi: ciò che conta non è ciò che i russi accetteranno, ma ciò che è accettabile per i media, per il proprio partito politico e per i colleghi internazionali, e in ultima analisi per il proprio ego.  Incontrandosi e parlandosi incessantemente, assicurandosi continuamente che la guerra è quasi vinta e Putin sta per cadere, non c’è il tempo o la voglia di cercare di scoprire cosa pensano realmente i russi. Perché dovrebbe essere importante, dopo tutto?

Inoltre, questi leader nazionali sono generalmente impopolari presso i loro elettori, o sono arrivati al potere di recente per inerzia, sostituendo leader che lo erano diventati. Non hanno la minima idea di come gestire l’opinione pubblica se non con minacce e spacconate, il che spiega forse la loro estrema sensibilità alle critiche o addirittura al pensiero indipendente. Abili nel manovrare all’interno del loro partito e abituati a un’attenzione mediatica su tutte le questioni importanti, non riescono a gestire la necessità di convincere gli altri con prove e argomentazioni razionali, poiché non hanno mai dovuto apprendere questa abilità. Ricorrono a minacciare le nazioni non occidentali perché non hanno più le capacità di persuaderle e, in effetti, nella maggior parte dei casi non sanno più cosa stanno facendo o perché, se non che è la stessa cosa che fanno tutti gli altri. Non hanno una visione strategica e nemmeno obiettivi razionali a medio termine, ma solo una serie di totem simbolici: sono come un gruppo di pellegrini che si dirigono alla cieca verso una meta favolosa, tenendosi per mano, sperando in un miracolo.

Queste persone hanno perso il contatto con la realtà anni fa. L’unica cosa che conta è produrre un’informazione d’impatto, vera o meno non importa, che domini la copertura mediatica dell’oggi. Se la storia di domani contraddice quella di oggi, non importa: la gente avrà già dimenticato. Forse ricordate le ridicole storie di un paio di mesi fa sui soldati russi che usavano le pale in combattimento. È stata una notizia divertente per un giorno o poco più, ma ovviamente non è mai stato pensata per essere presa sul serio, né tanto meno per essere verificata. È servita a “vincere la giornata”, dopodiché ha potuto essere gettata. L’incriminazione di Vladimir Putin da parte della Corte penale internazionale ha avuto un grande effetto propagandistico, che era l’unico scopo che si prefiggeva. Le storie di avanzate e ritirate, di vittime russe e di equipaggiamenti distrutti non sono destinate a essere prese alla lettera: sono semplicemente espedienti per vincere la guerra propagandistica di giornata. (E questa guerra non è con i russi, cosa che potrebbe essere almeno comprensibile, ma con l’opinione pubblica occidentale). Questa scuola politica vive di una forma di magia: le cose annunciate accadranno automaticamente, senza che sia necessario fare nulla. Alla fine, questa riduzione delle tasse produrrà X mila nuovi posti di lavoro, Y mila medici saranno assunti nell’arco di X anni, quindi cosa c’è di male nel dire che il Paese Z fornirà all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno per sempre? Dopo tutto, nessuno prende sul serio questo tipo di promesse, giusto?

E questo ci porta al lento, angosciante inizio della consapevolezza che alla fine sarà necessaria una qualche forma di accordo politico, e al modo surreale, dilettantesco e completamente incentrato sul fronte interno con cui se ne sta discutendo ora. È difficile sfuggire all’idea che la Brexit possa essere un buon indicatore della confusione, dell’ignoranza, dell’arroganza e della disunione con cui l’Occidente potrebbe cercare di affrontare la fine della crisi ucraina. Ma questo è un argomento per un altro articolo. Nel frattempo, l’epitaffio di questa scuola politica potrebbe essere: non importa quante volte si vince la giornata se si finisce per perdere la guerra.

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