BREVE STORIA DELLA GUERRA GIUSTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

Nota

All’epoca – vent’anni fa, all’incirca – del fiorire di guerre per la
pace, i diritti, la giustizia, era pubblicato su Palomar questo breve
saggio, con una sintesi della concezione della guerra giusta.

Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza, anzi
dell’incremento di simili “sfide” giustificate, come prima, con la
giustizia.

BREVE STORIA DELLA GUERRA GIUSTA

  1. Ad analizzare il concetto di guerra giusta ci si deve guardare dal cadere nell’ovvietà, perché, prima facie, appare contraddittorio un aggettivo che attribuisce la giustizia ad un’attività la quale di per sé, mancando di un terzo superiore – e decisore – è priva del presupposto prioritario perché possa aversi una decisione, cioè una giustizia concreta ed imparziale. Per cui in sommaria analisi, e contrariamente a quanto possa scriversi sui rotocalchi, la guerra non può essere “giusta”[1]. Tuttavia dato che tale concetto si ripresenta nel pensiero occidentale, e nell’ultimo decennio è stato utilizzato ripetutamente dalla propaganda dei belligeranti, è necessario capire se possa esserci – al di là delle apparenze contrarie – una guerra se non “giusta”, quanto meno “legittima”.

La concezione criticata si fonda sul giudicare la guerra, di per sé fenomeno essenzialmente e squisitamente politico, in base a parametri non-politici, morali, religiosi o ideologici: dalle Crociate fino agli interventi nei Balcani degli anni ’90, la giustificazione delle guerre giuste è sempre stata la difesa di determinate idee o “valori”, fatti propri dai “giusti” combattenti e negati (o che si pretendevano negati) dai loro nemici. E’ evidente che valutare fenomeni e istituzioni politiche con criteri non pertinenti, e soprattutto con quei parametri ideologici e morali, è, a dir poco, destabilizzante e contrario a gran parte del pensiero politico moderno. Da Machiavelli a Croce è stato ripetutamente stigmatizzato come decidere tali questioni in base a canoni morali è non solo ipocrita e polemogenetico – perché serve, nel caso specifico, alla giustificazione della guerra diventando, con ciò, uno strumento di guerra psicologica – ma soprattutto è foriero di inconvenienti superiori ai benefici. Non solo sul piano internazionale, perché legittima e fa salire l’intensità della guerra, ma anche in politica “interna”, ove serva a consolidare dei mediocri governanti che hanno l’unico pregio di apparire “buoni” (per lo più solo quello di predicare bene), con scarse – o punte – capacità e risultati politici; d’altra parte, a seguire l’ironia di Croce, se qualcuno sceglie il chirurgo confidando nelle sue qualità morali – e non in quelle professionali, come si fa di solito – e poi muore sotto i ferri, in definitiva il proprio destino se l’è cercato.

Sotto un diverso profilo il concetto di guerra giusta – intesa secondo tali criteri – implica una contraddizione e una conseguenza. La contraddizione, già ricordata, è che, in teoria, ambo le parti belligeranti  credono di avere giuste ragioni, ed in tal caso non c’è un terzo che possa giudicare: alla giustizia manca, cioè, il giudice.

La seconda è di tendere a criminalizzare il nemico, come sottolineato ripetutamente da Carl Schmitt: al nemico “ingiusto” diventa naturale – anzi “giusto” – riservare un trattamento da criminale. Il fatto che sia uno justus hostis, cioè in termini moderni uno Stato sovrano, non serve: lo “justum bellum” finisce per annichilire così lo “justus hostis” cioè il (primo) requisito con cui i tardoscolastici (che tanto hanno contribuito al diritto internazionale moderno), avevano elaborato la concezione dello jus belli (la quale, nel loro pensiero è, in primo luogo, una guerra limitata, nei soggetti, nei motivi, nei modi e nell’intenzione)[2].

  1. D’altra parte, come noto, è proprio lo justus hostis il binario (principale) di legittimazione della guerra su cui hanno proceduto il diritto (e le relazioni) internazionali moderne.

Questo è, come sopra scritto, un concetto limitativo, strettamente (ancorché non esclusivamente) connesso alla nascita (e allo sviluppo) dello Stato moderno, col conseguimento progressivo – e rapido – da parte di questo del monopolio della violenza legittima, di cui la guerra è l’aspetto “esterno”. Il che significava negare legittimità alle guerre non statali, alle guerre “feudali” tra Comuni, vassalli, signorotti e vescovi-conti, tutti subordinati all’autorità del Sovrano (nascente) e quindi privati dello jus bellandi. Tale concezione rappresentava un indubbio progresso, perché limitava il numero dei soggetti giustamente belligeranti e così delle guerre “lecite”. I conflitti nati all’interno dell’unità politica erano riservati e risolti dalla giustizia dello (Stato) sovrano.

E’ noto a tale proposito, che il primo – e quasi esclusivo carattere che connota il concetto di justus hostis – è quello, negativo, di non avere un superiore. È justus hostis – scrive Francisco Suarez – quel principe, che, non avendo un superiore, non ha i mezzi, né la possibilità di avere giustizia da questi: e quindi può conseguirla solo facendosela da solo. Si noti come nella concezione della Tarda Scolastica, conseguente a quella di S. Tommaso, la guerra è strettamente correlata alla giustizia, sia come aspetti di una medesima funzione, di tutela e/o protezione (contro i malviventi all’interno; contro i nemici all’esterno), sia come mezzo per ripristinare il diritto leso. Di converso, non è justus hostis, scrive Suarez (anche qui, derivandolo dalla distinzione tomista tra persona “privata” e principe) colui il quale, vassallo, ha il “diritto” che sia il sovrano a fare giustizia o decidendo – se superiore a entrambi i contendenti – la controversia; ovvero dichiarando guerra per la tutela delle giuste pretese della comunità e dei sudditi. Per il sovrano, fare la guerra nel caso di violazione dei diritti della comunità o dei sudditi, è un dovere. Con la conseguenza, apparentemente sorprendente, ma logica in un gesuita spagnolo del “Siglo de Oro” che nel caso il principe non difenda i sudditi, sia cioè trascurato “in vindicanda et defendenda republica” allora può “tota respublica se vindicare, et privare ea auctoritate principem,…si princeps officio suo desit”[3]: che è l’eccezione alla regola. Il concetto di justus hostis è dunque correlato e presuppone l’assenza del terzo “superiore” e quindi la parità tra i contendenti. Senza questa non c’è né justus hostisjustum bellum.

La guerra del suddito contro il sovrano è rivoluzione o ribellione; quella del superiore verso il suddito è un’operazione di polizia. In ogni caso non è “guerra” nel senso del diritto interstatale. Col tramonto del feudalesimo viene meno anche il “diritto di resistenza”.

  1. La parità comporta – e presuppone – il riconoscimento del nemico e l’assenza di un’autorità temporale universale, o quanto meno, sovrastatale. Non a caso la Relectio de Indis di de Vitoria inizia la trattazione dei “titoli” con la negazione dei poteri “universali” del Papa e dell’Imperatore. Con ciò era riconosciuto quel carattere del mondo politico per cui questo costituisce un pluriverso e non un universo. E, parità, riconoscimento e assenza di terzo superiore, comportano altresì che il giusto nemico non possa essere confuso col criminale.

D’altra parte, tutti tali caratteri si rovesciano specularmente nei rapporti interni all’unità politica: lo Stato sovrano non è “pari” ai sudditi, non “riconosce” nemici interni (ma solo criminali o, tutt’al più, ribelli, cioè criminali politici); è il “terzo superiore”. Il che contribuisce a determinare la prima delle caratteristiche dello Stato moderno, che lo differenziano da altre forme politiche, in particolare quelle feudali-medievali: la distinzione rigida, e per così dire, l’impermeabilità, tra interno ed esterno, e quella, contigua, tra potere pubblico  (che è, in linea di principio, unico e monopolizzato) ed altri poteri, generalmente, non riconosciuti come pubblici. Tra questi, un particolare riguardo, nella forzata “privatizzazione” del medesimo, era rivolto al “potere spirituale”, specificamente a quello ecclesiastico. Dalla plenitudo potestatis medievale si passava alla negazione di qualsiasi intromissione di quello nel potere temporale: la stessa dottrina dei cattolici più intransigenti  diventava quella della potestas indirecta, che, avversata da Hobbes, è comunque la negazione – quasi totale – delle teorie sul potere papale, correnti nel Medioevo. L’ impermeabilità dello Stato moderno, rivolta doppiamente sia verso lo justus hostis, cioè il nemico possibile ma pari come soggetto politico, sia verso coloro cui non è riconosciuto lo status di “pari”, è uno dei caratteri che più lo differenziano dalle concezioni medievali: secondo le quali i poteri erano diffusi, spesso confusi e permeabili. Rigida delimitazione riflessa anche sulla guerra. Non solo nel senso della monopolizzazione dello jus belli, ma anche nella non interferenza nell’ordinamento interno degli Stati, ancorché belligeranti (o sconfitti). Nelle guerre “in merletti” dell’Ancièn règime, istituzioni, diritto, classi dirigenti dei paesi in guerra, e perfino, in larga misura, di quelli conquistati, erano completamente e reciprocamente indifferenti ai belligeranti. Situazione che cambiò, notoriamente, con la Rivoluzione francese. Già Brissot affermava “non potremo essere al sicuro se non quando l’Europa, e tutta l’Europa, sarà in fiamme” (le fiamme della rivoluzione che si voleva esportare); per cui un giacobino come Chaumette auspicava “Il territorio che separa Parigi da Pietroburgo e da Mosca sarà presto francesizzato, municipalizzato, giacobinizzato”. Con l’approvazione nel dicembre 1792 da parte della Convenzione della mozione di Cambon, all’indifferenza si sostituiva l’opposto principio dell’ingerenza sulle istituzioni e (le classi dirigenti) delle popolazioni “liberate”. Come corollario della “giusta guerra”, trasformatasi in guerra rivoluzionaria, si aveva che la justa causa belli era costituita (almeno in linea teorica) dalla diversità dell’ordinamento del nemico dai principi rivoluzionari. Con ciò tale concetto, richiamato pure nelle recenti vicende, era rivitalizzato (mutando i caratteri) da nuova linfa. Quella che dalla dichiarazione  dei diritti dell’uomo arriva ai “diritti umani” nostri contemporanei: e, per la quale, di conseguenza, nemico è chi viola i “diritti” proclamati in qualche dichiarazione, e contro il quale, pertanto, la guerra è giusta.

  1. Carl Schmitt ritiene che nel ritorno dalla discriminante degli justi hostes a quella della justa causa vi sia il riemergere di una dottrina pre-statale.

Occorre aggiungere a ciò che, comunque, ancorchè precursori-fondatori del diritto internazionale moderno (cioè interstatale) come de Vitoria, non si svincolassero dalla “justa causa”, avevano ragioni in qualche misura da considerarsi ancora valide. Teologi-giuristi come de Vitoria o Suarez, partivano da una visione tomista, da un concetto di diritto come ordinamento concreto, come “istituzione”. Il diritto che deve essere ripristinato nel caso di guerra giusta offensiva non è quello astratto contenuto in dichiarazioni solenni, ma quello prodotto dall’esistenza politica (e giuridica) di entità statali e dai loro rapporti.  Suarez scrive che occorre una “gravis iniuria” come motivo di guerra; e nel classificarne le specie, ricorda: l’appropriazione di “cose” d’altri; la lesione dei “communa jura gentium” (come il diritto di transito o di libero commercio), e infine la grave lesione nella reputazione o nell’onore. Cioè diritti in larga misura verificabili, consuetudinari e consolidati nel tempo e dai fatti, tutti caratteri di cui è privo, per lo più, un “diritto” come quello delle solenni dichiarazioni. Il che ridimensiona, senza eliminarlo, il problema reale – e principale – che consiste nel quis judicabit? ovvero del chi decide sulla giustizia della guerra. In uno schema come quello sotteso alla teoria criticata della “guerra giusta” sarebbe, di converso, sufficiente redigere una dichiarazione colma di principi edificanti, accusare il proprio confinante di violarla, giudicarlo di conseguenza, ed eseguire la “sentenza” con aerei e carri armati: con ciò divenendo il legislatore, il giudice e l’esecutore del “teoricamente” pari. Il quale è pari, per l’appunto, proprio perché leggi, sentenze e atti esecutivi del vicino non costituiscono obblighi per il medesimo.

  1. Non è quindi possibile derivare il concetto di guerra giusta da norme morali e giuridiche (secondo una concezione normativista del diritto, neppure supportata dalla “positività” di un ordinamento statale), né derivarne allo stesso modo i concetti – e le applicazioni – che ne conseguono, come colpevolezza, pena e condanna: è la mancanza di uno justus judex a costituire l’ostacolo principale: moltiplicato, nel caso, dal far appello a un diritto normativisticamente fondato.

Tuttavia, a cambiare prospettiva, partendo cioè dalla concretezza storico-politica degli ordinamenti, invece che dalle astrattezze “morali” di certe norme, è possibile costruire un concetto di guerra giusta che sia meno estraneo al diritto internazionale “tradizionale”.

Il diritto si caratterizza, anzi è tale, perché è (richiede di essere) effettivamente applicato. E’ la possibilità concreta d’applicazione e coazione, ovvero in termini weberiani (di definizione della potenza) quella di far valere con successo i propri comandi in un gruppo sociale, a costituire il criterio, di gran lunga più importante, della legittimità di un ordinamento (o, in diversi termini, del potere). Santi Romano, con la sua concezione desunta dal diritto sia interno che internazionale, ne ha data una formulazione, a un tempo, decisiva e coerente ai tempi. Secondo il giurista siciliano “esistente e per conseguenza legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno sicuro che questa corrispondenza esista, che non sia un’illusione o qualcosa di artificialmente provocato, si rinviene nella suscettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito”. In altre parole, secondo Santi Romano, legittimo è l’ordinamento vitale. La vitalità deriva dalla corrispondenza dello stesso ai bisogni, alle aspettative, ai “valori” condivisi; prova ne è la durata.

Di fronte a ciò ha importanza secondaria la corrispondenza del regime politico ad una formula “ideale” (o ad un insieme di norme) astratte. D’altra parte nel diritto internazionale è riconosciuto uno Stato, non perché conforme a norme (neanche alle proprie, altrimenti non sarebbero riconosciuti gli Stati sorti da una rivoluzione), ma perché dimostra di spiegare un potere efficace sul territorio. Tale concezione si può dire, in qualche misura, tributaria del pensiero di Hobbes. Secondo il filosofo di Malmesbury la ragion d’essere dello Stato è giustificata (e già quindi legittimata) attraverso la capacità del sovrano e dell’organizzazione statale a mantenere la pace all’interno e difendere la comunità dai nemici esterni. L’autorità politica si legittima, nel pensiero di Hobbes, per la capacità di assolvere tale funzione. L’unico dovere del Sovrano è di osservare la regola “salus populi suprema lex esto[4]. Il dovere di obbedienza dei sudditi viene meno non quando il sovrano non è quello “legittimo” (absque titulo) e tanto meno  se prende delle decisioni difformi dalle leges fundamentales (dato che è fonte della legge); cessa solo quando l’autorità non è più in grado di offrire protezione. Il protego ergo obligo è così la sostanza del rapporto politico, il primo fondamento del diritto di comandare e quindi di una legittimità svincolata da valori e tradizioni, e ricondotta ad un nesso funzionalistico.

Solo l’incapacità del sovrano a difendere i sudditi – l’inadempienza al dovere di protezione – fa venir meno quello d’obbedienza.  Legittimo così in buona sostanza è l’ordinamento vitale ed efficace; lo Stato moderno è tale, in primo luogo, in quanto esplica il proprio potere (esclusivo) su una determinata popolazione (e territorio); corrispettivo di ciò è il dovere di protezione; potere, protezione, (consenso) creano e mantengono la situazione di pace all’interno dell’unità politica. Come scriveva Hauriou , l’obbligo di protezione è il fondamento della “idea direttiva” dell’istituzione – Stato, che così definiva “attività protettiva di una società nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale”. Quando uno Stato non riesce più ad assolvere tale funzione, come nel caso di guerra civile, non protegge più la comunità, e anzi diviene anch’esso “parte” di una guerra contro i propri cittadini, possono riprendere vigore le norme internazionali. Come scriveva Santi Romano, sulla prassi di riferire tali diritti agli insorti, la ragione ne era “l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purché anche gli insorti adottino uguale comportamento”[5]. Per cui le norme internazionali divengono, spesso, vigenti all’interno del territorio statale, quando il rapporto protezione/obbedienza e il potere di comandare vengono meno di fatto. È il caso di notare che nessuno dei concetti impiegati in situazioni simili ha carattere normativo. Non serve la “legalità” del potere (come procedimento/i di deduzione/applicazione di norme), perché porterebbe inevitabilmente alla negazione di tali diritti a una delle parti in causa. Di converso, concetti come ordinamento, unità politica, effettività del potere e del comando e “normalità” servono a discriminare in modo opportuno la sussistenza delle condizioni per considerare finiti (o “sospesi”) potere statale ed unità politica. A seguire il pensiero di Kant, sopra ricordato, erano “legittimi” sia l’intervento sovietico che, in particolare, quello nazi-fascista nella Spagna del 1936, subito dopo l’alzamiento, perché dato il controllo di buona parte del territorio spagnolo dei generali golpisti, erano venuti meno sia l’unità politica che il potere statale repubblicano (quest’ultimo nelle zone dominate dalla junta)[6]. Resta il fatto che concetti come effettività del potere statale o unità politica non possono essere deducibili o rapportabili a norme, statali o internazionali che siano, perché attengono alle concrete condizioni di esistenza, politica e sociale, di gruppi umani (al sein) e non alla validità di comandi legalmente statuiti e correttamente applicati (al sollen).

Lo Stato è il “defensor pacis” – di una pace concreta. Forza e consenso sono gli strumenti (e i presupposti) per mantenerlo. Non un qualsiasi potere statale è quindi legittimo; ma solo quello che, in qualche misura accettato dai sudditi, fa valere la propria volontà spiegando la forza sufficiente.

Per verificare la misura di tale consenso – e quindi dell’effettività del potere – non basta che vi sia un esercito, dei Tribunali, una polizia. Occorre anche che l’impiego della “violenza legittima” sia limitato, proporzionato ed “episodico”; quando questo diviene eccessivo, costituisce la più evidente (e decisiva) prova che il potere non è accettato; e che tale “Stato” non corrisponde alla propria “idea direttiva”. Lo Stato, prodotto del razionalismo occidentale, non è Ubu né Attila, e neppure l’Imperatore Teodosio a Tessalonica : si serve della forza, ma con misura. Se lo fa, all’inverso, a dismisura, significa che non è accettato e comunque non  assolve al compito di proteggere l’esistenza e i diritti della comunità e degli individui. In tal caso può essere definito “Stato” nel senso indicato da Hobbes, e dal pensiero politico moderno? O non piuttosto, e richiamandoci a S. Agostino, mancando la “justitia” (nel significato, per così dire, “hobbesiano”) apparati di potere siffatti non sono che “magna latrocinia”? In questi termini, e non ricorrendo a giudizi morali o a normativismi vari, ma basandosi sull’effettività, la vitalità ed il consenso di un ordinamento e su una situazione concreta – si può rivisitare il concetto di “justa causa belli”. Non nel senso della violazione di norme astratte – anche se condivisibili – ma perché la comunità non accetta la violazione di certi diritti, e l’apparato statale, che li viola, diventa così uno strumento di coazione violenta, privo di consenso. Oltretutto legittimare la guerra in base al mero illecito, alla meccanica violazione di norme, significa moltiplicare – e non ridurre – i possibili casus belli, per tutte le disposizioni contenute nei trattati internazionali (o sancite da consuetudini, ma queste sono molto meno numerose). Significherebbe fare guerre “giuste” per la secchia rapita.

  1. Nel caso specifico, l’ultimo che ci si è posto, cioè la guerra del Kosovo – la quale da un altro angolo visuale, non è altro che una guerra aggressiva contro uno Stato sovrano -, secondo i criteri esposti, ispirati al realismo politico (e giuridico), è assai dubbio che il regime di Milosevic possedesse quei caratteri, almeno nel territorio Kosovaro.

Non solo c’era una situazione di aperta volontà secessionista della stragrande maggioranza albanese della popolazione, non solo una repressione massiccia, con massacri e stupri di massa, ma anche l’esodo di buona parte della popolazione di etnia albanese. In tale situazione il despota di Belgrado appariva ed appare non come il “difensore della pace” (e del diritto) ma l’attizzatore della guerra (contro i sudditi). Cioè di quel mezzo, di per se – e in diverso contesto – legittimo, che comunque un ordinamento internazionale deve cercare di contenere.

E in questo senso, la guerra della Nato alla Serbia può anche considerarsi giusta.

Teodoro Klitsche de la Grange

Teodoro Klitsche de la Grange, giurista, politologo, direttore del trimestrale di cultura politica Behemoth e collaboratore di riviste di politica e di diritto (tra le quali Nuovi studi politici, Il Consiglio di Stato, Il Foro Amministrativo, Cattolica, Ciudad de los Césares, La Gironda).

Ha pubblicato di recente con altri autori Lo specchio infranto (Roma 1998); Il salto di Rodi (Roma 1999); Il doppio Stato (Soneria Mannelli 2001).

[1] Com’è noto, la guerra è stata spesso considerata uno strumento di giustizia, di realizzazione di diritti e riparazione dei torti (v. S. Tommaso, Summa Theol. II, II, q. 40 art. 1, anche citando S. Agostino; F. Suarez De charitate, disp. 13: De Bello; S. Roberto Bellarmino, v. nota seguente; Lutero Sull’autorità Temporale in Oeuvres Tomo IV, p. 23 ss, Ginevra 1975 e I soldati possono essere in stato di grazia? ivi pp. 231-233; Calvino L’institution chrétienne, lib. IV, cap XX, 11); ma oltre alla funzione di realizzazione e tutela del diritto, la guerra può avere, con questo, un’altra analogia. Quella che risulta dalla prima definizione della guerra di Clausewitz secondo il quale “La guerra è un atto di forza che ha per scopo di costringere il nemico a fare la nostra volontà”. Tale definizione non è inutile a chi vada  alla ricerca dei fondamenti del diritto, pubblico in particolare. Ad un giurista è naturale ricordare che diritto e Stato sono necessari “ne cives ad arma ruant”; onde chi voglia connotarli secondo la funzione difficilmente può prescindere dallo scopo di regolazione e pacificazione dell’uno e dell’altro (sul che ci permettiamo rinviare alla più diffusa trattazione di chi scrive nel saggio “Guerra e diritto” ora ne “Il salto di Rodi”, Roma 1999 p. 57 ss.).

[2] v. S. Roberto Bellarmino, ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 259; rispetto a S. Tommaso, ciò che abbonda è il modus, dato che l’Aquinate poneva solo tre condizioni allo justum bellumSumma Theol. II, II,q. 40, art. 1.

[3] F. Suarez “De charitate” disp. 13: De Bello; Josè Lois Estevez ricorda come la tesi che ricorrere alle armi nelle lotte intestine non è mai ammesso trova non pochi sostenitori; ma è contrastata dal pensiero teologico e giuridico classico da Sant’Agostino e San Tommaso fino a Molina e Soto, per non ricordare i monarcomachi sia cattolici che riformisti, “cuyo peso especifico està incomparablemente por encima de los que hoy se les oponen”  (v. Josè Lois Estevez in Razon española n. 101 mayo – junio 2000 p. 267).

[4] v. Th. Hobbes, De Cive trad. it., Roma 1981, p. 193

[5] v. Corso di diritto internazionale, Padova 1935, p. 73; è da notare che Kant, in “Per la pace perpetua”, ha una posizione a questa coerente, perché mentre ritiene che “Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”; giudica che è ben diverso il caso di guerre intestine; nel qual caso l’aiuto prestato a uno degli “Stati” “non potrebbe considerarsi come ingerenza nella costituzione di un altro Stato, perché non di Stati si tratta, ma di anarchia” v. Antologia degli scritti politici a cura di G. Sasso, Bologna 1961, p. 110.

[6] Carl Schmitt in Theorie des Partisanen (trad. It. Milano 1981) sostiene che  il carattere politico del partigiano e la presenza, a fianco e/o alle spalle di un terzo interessato (uno Stato, cioè una potenza “regolare”), che aiuta il movimento partigiano, sono connotati peculiari dei movimenti di resistenza e li distingono dai tipi “criminali”, cioè non politici, di combattenti come i pirati (v. op. cit. p. 16 ss. e 57 ss.). Sotto un altro profilo, tale connotato è speculare alle considerazioni di Kant (v. sopra): come la perdita dell’unità politica e la guerra civile legittimano l’intervento di una terza potenza, così conferiscono lo status di soggetto politico all’organizzazione di resistenza

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559

oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo