La riforma dello Stato, di Giancarlo Elia Valori

In calce un articolo particolarmente interessante di Giancarlo Elia Valori che affronta il tema della riforma dello Stato, di fatto il tema della modalità di selezione di una classe dirigente e di esercizio del potere in un contesto altro rispetto al bipolarismo, fase nella quale di fatto si è formata la classe dirigente emersa, già in stato abortivo al suo sorgere, dalle pesanti scorie di una tangentopoli mai terminata, ormai a trenta anni di distanza dal suo inizio. L’uscita di Valori ha coinciso con la drammatica crisi del coronavirus. La concomitanza non è detto che sia voluta, ma non è certo casuale. La crisi pandemica, sia pure ancora incipiente, già colpisce emotivamente le popolazioni e le stesse classi dirigenti, destruttura ulteriormente, in maniera ormai irreversibile, i residui equilibri geopolitici e il sistema di relazioni economiche fondati su una visione unipolare e multilaterale dei rapporti internazionali. Una visione accantonata formalmente dalla Russia di Putin sin dall’importante discorso alla conferenza di Monaco del 2007, ma che verrà ormai sancita definitivamente ob torto collo anche dalle élites dominanti della Cina e degli Stati Uniti lungo un percorso al cui traguardo non si può prefigurare al momento un vincitore certo. Non si deve mai trascurare in politica l’aspetto emotivo di una crisi, specie se dal carattere così dirompente, legato alle modalità stesse di esistenza delle persone e delle formazioni sociali. Accresce le esigenze di efficacia e centralizzazione del potere. Se le formazioni sociali sono sufficientemente articolate ma provviste di una identità forte la realizzazione di questa esigenza produce formazioni e soggetti coesi in grado di navigare con sufficiente autonomia nelle incertezze del multipolarismo; al contrario si rischia la formazione di élites arroccate nelle proprie cittadelle e sempre più dipendenti dal volere degli agenti esterni. Dall’articolo di Valori appare chiaramente questo sentimento. L’esigenza, però, di una redifinizione dei centri e delle modalità di esercizio non può prescindere ed è connaturata agli obbiettivi strategici e alla collocazione geopolitica delle aspiranti nuove élites di potere. La collocazione politica e specificatamente geopolitica di Valori, strettamente e indefettibilmente atlantista e filoisraeliana, tanto per stigmatizzarne un aspetto che da adito a tali perplessità da far temere la mutazione di una azione di trasformazione delle dinamiche di esercizio magari ben intenzionata in quella di una classica operazione trasformistica. Il richiamo alle grandi virtù della tradizione liberale senza citarne i macroscopici difetti, messe a nudo soprattutto nella fase politica di fine ‘800 e di fine ‘900, propedeutiche alle crisi stagnanti e logoranti successive, destano più di qualche sospetto. Una visione di “bene pubblico” insita nell’azione politica di una possibile nuova classe dirigente troppo neutra, tipicamente propria del punto di vista liberale. Non vi è cenno nell’articolo sulla funzione positiva di un conflitto sociale ben indirizzato e sulla funzione di coesione delle associazioni, in un contesto però agli antipodi di quello parassitario, remissivo e decadente dell’Italia presente; manca una caratterizzazione e distinzione tra le figure politiche trainanti ed espressive di una strategia politica e l’azione dei centri strategici più o meno presenti negli ambiti nevralgici di esercizio del potere, nonché un disvelamento delle dinamiche di conflitto interno ai centri e di relazione con i centri esterni al paese; come pure viene sottovalutata colpevolmente la funzione regressiva e ammorbante di gran parte di quei centri accademici e di elaborazione che dovrebbero formare altrimenti élites alternative. La via di formazione di queste ultime si prospetta purtroppo molto più tortuosa, defatigante, approssimativa e avulsa dai centri istituzionali principalmente preposti. Forse è chiede troppo ad un semplice articolo; l’impressione, però, è che queste omissioni svelino il limite di un tema sollevato meritoriamente. Ciò nonostante l’articolo mette in evidenza aspetti, dinamiche virtuose e punti di crisi decisivi, corroborati coraggiosamente dalla rievocazione di figure politiche, quali Cossiga, da riconsiderare e ricollocare storicamente. Buona lettura_Giuseppe Germinario

tratto da https://formiche.net/2020/03/stato-cossiga-costituzione-italia-governo-presidente-del-consiglio/

La riforma dello Stato si può fare. Le istruzioni di Valori

La riforma dello Stato si può fare. Le istruzioni di Valori

A partire dal 1991 la nostra Costituzione è cambiata. Ora si può ancora riformare lo Stato centrale. Ma bisogna stare attenti a…

Fin dal suo messaggio alle Camere del 26 giugno 1991, Francesco Cossiga ebbe chiarissimo che il sistema degli equilibri costituzionali, nel dopo-Guerra fredda, stava inevitabilmente per saltare.
Nella sua visione, c’era un insieme di processi positivi e di altri potenzialmente pericolosi, che avevano messo entrambi in crisi il grande progetto iniziale della Costituzione repubblicana: l’aumento della partecipazione popolare non direttamente politica, poi la trasformazione dei partiti, da non dimenticare nemmeno la fine dell’equilibrio bipartitico della suddetta guerra fredda, poi ancora la diversa collocazione, dopo la “caduta del Muro”, delle forze politiche, infine una ulteriore differenza del ruolo dell’Italia rispetto a quello del mondo dei due blocchi contrapposti.
La Costituzione nasceva dalla Guerra fredda. Finita quest’ultima, doveva cambiare anche la Carta fondamentale e lo Stato.

Poi, per Cossiga c’era un altro elemento strutturale da notare: tutti i partiti immaginavano, in fase costituente, di poter essere, un giorno, collocati all’opposizione, e non si sa nemmeno quanto democratica, quindi programmarono di concerto un sistema di controlli e contrappesi quasi paralizzante.

Niente esecutivi forti e stabili, quindi, solo continue e successive maggioranze deboli, temporanee, e con un grande partito di opposizione, da dover essere escluso, per ovvi motivi internazionali, dal potere: ma che comunque era presente con un meccanismo ad consociandum nelle amministrazioni locali, negli apparati (tutti) poi nel sistema economico, nel potere territoriale.
Un equilibrio paradossale tra centro e periferia che disegnava anche il flebile potere, garantito dalla Costituzione, di poter rimanere nella Nato e in Occidente.

Salvo, poi, dare al Pci e ai suoi alleati il potere di fatto di destabilizzare lentamente il Governo, ma senza destabilizzare, per quanto possibile, il Paese. Ognuno dei due schieramenti si presentava con la capacità di interdire la realizzazione dell’egemonia, termine gramsciano, all’altro. Questa, la destabilizzazione dico, la fecero altri, amici e nemici.

In quegli anni ero molto vicino a Francesco Cossiga, e di queste cose ne parlammo appassionatamente per mesi, prima del suo straordinario messaggio alle Camere. Per il presidente, finita la Guerra fredda, e trasformatasi l’entità, la natura e la forma del sistema politico italiano, occorreva riformare subito la Costituzione e l’intero Stato. Aveva ragione, come spesso gli è capitato, ma oggi siamo davvero alla morte cerebrale e fisica del nostro sistema politico.

Non mi riferisco, ovviamente, a questo o quel partito, ma l’incapacità patologica di reggere le sorti del Paese è ormai evidente in tutti i gruppi parlamentari. Dopo la crisi della fine della Guerra fredda, che parlava di noi, soprattutto di noi, con la trasformazione rapida dell’Est e dei Balcani, la nuova dimensione politica e militare del mondo arabo, la crisi programmata dei vecchi alleati africani e islamici dell’occidente, con le “primavere arabe”, poi il jihad della spada, la conclusione delle nostre alleanze nel Mediterraneo, infine la fine di un automatismo fin troppo facile, nella Nato, e anche tra noi e gli Usa, tutto doveva far pensare, nella povera testa delle nuove classi politiche, che occorreva cambiare soprattutto una cosa: l’architettura costituzionale.
Per evitare, almeno, di entrare nel XXI secolo con un vecchio automezzo degli anni ’60. Ora, siamo alla fine definitiva del sistema politico incompleto che ha seguito, rabborracciato e spesso inane, la fine della Guerra fredda.

Ed è stata la lunga epoca, invece, il post-Guerra fredda italiano, dei modesti succedanei.
Invece di pensare, le classi politiche successive alla guerra fredda si sono baloccate soprattutto con la “comunicazione”. Che non è un sostituto del pensiero, anzi. Chi sa non parla, chi non parla sa, come diceva il saggio cinese Lao-Tzu. Ovvero, abbiamo assistito, dopo la crisi del 1994, generata dall’operazione Tangentopoli, alla creazione del partito-brand pubblicitario, con il solito uomo solo al comando che, però, comanda ben poco e si annoia a far politica, che lascia fare ad altri, ma che poi seleziona i parlamentari con il criterio del casting Tv; poi abbiamo anche avuto il riciclaggio del vecchio Partito democratico Usa, in un lungo remake, con tanto di asinelli e di primarie, e ci mancavano solo gli hot dogs e la pessima senape.

Sembrava un vecchio film di Bud Spencer e Terence Hill. Quando ci si vende, in politica, è bene mascherare l’identità del compratore. Ed è morto, invece, caduto sempre nella rete della operazione Tangentopoli, che operazione infatti fu, il Centro democratico e liberale, in ossequio alla vecchia battuta, detta proprio in Assemblea Costituzionale, di Togliatti: “fuori i pagliacci”. E si perse così, nella cultura politica italiana attuale, il senso della tradizione risorgimentale, liberale, statuale.
Ed è morta proprio la tradizione risorgimentale, asse dello Stato unitario, che era stata inserita nella Costituzione Repubblicana sia dai cattolici che da socialisti, con figure del calibro di Don Sturzo, Costantino MortatiFanfaniMoroLa PiraVittorio FoaMario ZagariPaolo Rossi.

Il cattolicesimo politico è stato certamente anti-risorgimentale, ma non ha distrutto la tradizione dello Stato unitario, questo lo si deve ad altri. Ogni fenomeno politico del post-guerra fredda, in Italia, è quindi stata la continuazione, con altri mezzi, come la guerra in Von Clausewitz, della vecchia guerra fredda, ma a polveri bagnate. Il meccanismo della inutile litigiosità da spot pubblicitario è oggi lo stesso, il livello di scontro è ancora elevatissimo, ma il reale meccanismo costituzionale è figlio di una fase storica definitivamente passata e, anzi, produttrice di sventati anacronismi e inutili, pericolosi, impedimenti.

Cossiga scrisse, dopo i tentativi dell’on. Aldo Bozzi, di De Mita e di Nilde Iotti, fino alla intelligente e sfortunata operazione della Bicamerale di Massimo d’Alema, nel 1997, che venne dopo, un tracciato chiaro e inevitabile: l’uso dell’art.138 Cost. per il rinnovamento della Carta Costituzionale, la fine della sciocca diminutio capitis dell’Esecutivo, che non è un luogo di transazioni, infine il ripensamento, militare, geopolitico, economico del ruolo italiano nel Mediterraneo.

La fine, in altri termini, del vecchio sistema derivato dal Trattato di Parigi del 1947. Chi aveva vinto con il solo eroismo litigioso di De Gaulle, ma che aveva patito la vastissima Repubblica di Vichy, chi poi aveva sofferto il dramma del frazionamento della patria tedesca, con il controllo alleato perfino della emissione dei francobolli, chi aveva patito la dittatura spagnola, tutti si ritrovavano, nel post-guerra fredda, in un nuovo contesto, privo delle leve strategiche del mondo diviso in due blocchi. Era, questa, la riedizione del documento di Camaldoli, insomma, a cui partecipavano anche, lo ricordiamo, laici e cattolici. E che fu poco ascoltato, anche all’inizio. Ritornare lì è ancora essenziale. Leve, quelle strategiche, che allora si trovavano ovunque, peraltro. La pervasività della lotta tra i due blocchi non permetteva una concentrazione del potere e dell’esecutivo.

Cosa fare, allora?
a) garantire la stabilità dell’esecutivo, non tramite alchimie elettorali, ma con garanzie costituzionali, poi b) evitare il frazionismo estremo delle rappresentanze regionali, provinciali, comunali, consortili, o comunque altrimenti ordinate, c) incentrare nel duopolio presidente del Consiglio-presidente della Repubblica, senza eccessive mediazioni, la responsabilità strategica e militare della politica estera italiana, che opera a contrappassi parlamentari post-factum, ma non di più di quelli, d) riformare i servizi, ancora una volta, in modo che siano strumento efficientissimo e potente dell’esecutivo; e anche capaci di azioni efficacissime e immediate, senza inutili noie parlamentari, che casomai lavorano, lo abbiamo detto, ex post, d) riformare il comando dell’economia, che è oggi troppo policefalo e, talvolta, anche acefalo.

Il mondo è fatto di velocità, di decisioni quasi immediate, di mediazioni, quando ci sono, con entità che poco hanno a che fare con i vecchi partiti politici. Altro che Aula: oggi, chi manovra il potere reale, ha a che fare con ben altri gruppi di potere. Occorre uno Stato capace di parlare e talvolta imporsi a questi nuovi attori geopolitici, finanziari, tecnologici. Il mito del mercato che si autoregola va bene per gli studenti di economia che leggono, annoiati, certi manuali che, ai miei tempi, avrebbero fatto ridere generazioni di studiosi.

Occorre dunque velocità e accuratezza insieme dell’esecuzione dell’atto di governo, la cui verifica di legittimità, qualora occorra, è demandata ad altri organi tecnici, non solo a intermediazioni politiche. Che arrivano, se arrivano, in seconda istanza. Cosa proporre, quindi, come riforma dello Stato, dopo che la nostra Repubblica soggiace a una torma di ragazzini che credono di salvare il mondo, come in un vecchio romanzo di Elsa Morante?

1. Un sistema elettorale con una soglia accettabile e razionale per l’entrata in Parlamento, ma non è poi questo il vero problema. Occorre, invece, un sistema elettorale che possa selezionare automaticamente i “campioni” rappresentativi. Ma non è nemmeno questo il punto, addirittura. Occorre, alla fine, che il governo non possa essere sciolto da una serie di costrizioni parlamentari che riprendono il vecchio modello della guerra fredda, ma senza motivo alcuno. Per esempio, la questione militare, che è troppo “commissionata”. Oppure, la inevitabile longa manus dell’Esecutivo sulla Banca d’Italia, al di là di chiacchiere illuministe sull’autonomia, peraltro mai verificatesi nella realtà.

a) La durata del governo liberamente eletto deve essere davvero di cinque anni, con un meccanismo come la tedesca sfiducia costruttiva. Lo so bene che, in questo caso, si arriva rapidamente alla conta (o al mercato) delle vacche, ma questo è sempre l’applicazione di un vecchio detto di Voltaire, “un piccolo male per un grande bene”. Al governo devono arrivare tutte le decisioni essenziali della politica, dell’economia, della strategia globale, senza mediazioni inutili, poi esso deve trattarle, ma com grano salis, e solo quando occorre, in Parlamento. Basta con le mediazioni infinite tra commissioni, sottosegretari avversi, lobbies, apparati burocratici. Chi decide è solo il governo liberamente eletto, poi si vedrà.

b) La regolamentazione delle lobbies. 200 sono oggi le organizzazioni di interessi registrate in Parlamento dal 2017 a oggi, ma in Parlamento Europeo sono 11.882 con ben 7526 persone fisiche accreditate. Se un parlamentare non sa farsi una idea dei problemi da solo, allora vada a casa.
c) Quindi, regolamentazione durissima dei “rappresentanti di interessi”, ma anche una raccolta dei dati di prima mano che sia a disposizione di tutti i parlamentari. Certo, già Costantino Mortati riteneva che il Parlamento futuro fosse soprattutto “in Commissione”, dove si lavorano i particolari e si tralascia la retorica ufficiale, ma qui siamo arrivando a una vera e propria privatizzazione della rappresentanza politica eletta.
d) L’autonomia relativa dei corpi separati, che va sostenuta. Che saranno comandati solo dai vertici politici e non da una infinita mediazione parlamentar-partitica. Basta con la vecchia tradizione per la quale i Servizi di Sicurezza, per esempio, erano obbligati a eseguire gli ordini del Presidente del Consiglio, o alcuni gruppi del Consiglio di Stato per questa o quella corrente politica. Possibilità di interlocuzione, riserva di scelta al ministro o al presidente del Consiglio, responsabilità tecnica e anche politica (Mortati parlava di alta burocrazia come politica) delle burocrazie.

e) Espansione dei settori che davvero contano: Intelligence, controllo delle transazioni finanziarie, ordinamenti di pubblica sicurezza, Forze Armate, Ricerca & Sviluppo, politica tecnologica e di investimenti. Il resto va bene per i consorzi agrari, detto senza offesa per i Consorzi stessi.
f) Ogni scelta futura verso la stabilità del sistema politico italiano avrà a che fare soprattutto con l’ideologia europeista. Anche l’Italia, Paese fondatore, deve utilizzare l’UE à la carte, per quel che gli serve, e rendere tranquillamente inutile quello che non gli serve. Come fanno gli altri Paesi europei, peraltro.

g) La nostra naturale direzione strategica è disegnata dalla geografia: il Mediterraneo, il Medio Oriente, il Maghreb, perfino certe aree dell’Estremo Oriente. Altro non v’è. Quindi, la nostra espansione commerciale, pacifica, in accordo non necessariamente ovvio con gli alleati Nato e Ue deve essere in queste zone, non nel Nord Europa dove, come diceva Napoleone per l’Europa dell’Est, “c’è troppo pieno”. Quindi, mano libera, nei limiti del possibile, in queste aree, ma anche capacità di spostare i limiti del possibile, quando occorra.

h) Una selezione diversa delle cariche pubbliche. Basta con il gioco degli sherpa che, dopo aver fatto i ghost writers, divengono burocrati, ma iniziare a creare burocrati tramite le normali filiere che tutti i Paesi moderni usano. Ovvero le grandi università, le Scuole di eccellenza, i Centri di Ricerca, i think tank di qualità. La porta girevole tra Pubblica amministrazione e professioni, alta cultura, burocrazia, scienza, deve funzionare stabilmente. Basta con questa sceneggiata russoviana e assolutista del Concorso pubblico, si inizi la chiamata ad personam di chi ha amplissimi titoli. La burocrazia, che va riformata ab initio, deve diventare il passaggio naturale, stabile o meno, delle migliori intelligenze del Paese. Quindi, molti posti senza lista di riferimento e indipendenti (lo fa già il mercato, con le società di recruiting) e, poi, una carriera possibile dentro o fuori lo Stato. Magari, tutto questo lo potrebbe fare la presidenza della Repubblica.

i) Basta con la “immonda anzianità”, come la chiamavano i Futuristi. Chi è bravo, verificabilmente bravo, va avanti, chi è solo vecchio rimane dove è. I meccanismi giuridici si possono fare in un attimo, basta volerlo.
j) Elezione dal basso del presidente della Repubblica, che deve avere un peso politico tale da obbligare parti del sistema politico a tacere, quando occorra.
k) Unica Camera. Ma le Regioni avranno, per i loro interessi, le varie strutture di settore che già operano benissimo. Le quali comunicheranno con la presidenza del Consiglio. Se riforma dello Stato dovrà essere, sarà certamente meno ossessivamente regionalista/localista della ormai pluridecennale tradizione politica post-guerra fredda, che credeva di risolvere tutti i busillis del sistema distruggendo lo “Stato centrale”, mostro puerilmente pericoloso. Una ingenuità davvero pericolosa. Il problema è la riforma dello Stato centrale, non la sua diluizione in piccole Patrie. La Svizzera è, infatti, esattamente il contrario: una federazione fortissima e centralizzata che devolve ai Cantoni solo quello che intralcerebbe la Grosse Politik di Berna.