parole chiave del nuovo corso: identità, di Alessandro Visalli
Della parola d’ordine “sicurezza”.
Come avevo scritto nel precedente post sulla parola d’ordine “integrità”, e in quello sulla “onestà”, credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che è diretta alla formazione di un nuovo corpo sociale. I termini che riassumono questo dispositivo discorsivo sono: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”.
Nel suo insieme mi pare fondamentalmente una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio. E, con riferimento al tema della sicurezza, anche e soprattutto a quell’acceleratore che è l’Unione Europea.
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
- Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, n.9, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.
‘Sicurezza’ è una parola che deriva dal non avere. In latino “sine cura”, senza preoccupazione, pervenuto a noi da ‘sinecura’, termine ecclesiastico medievale che si riferiva all’esenzione dalla ‘cura’ delle anime (ovvero ad un beneficio che non imponeva l’obbligo curiale), e successivamente trasposto in ogni occupazione remunerata con poco impegno. La ‘sinecura’ era normalmente un privilegio aristocratico.
Come tale deve averla intesa Tommaso Padoa-Schioppa quando il 26 agosto 2003 sul Corriere della Sera, scrive, lui che viene considerato in quegli anni di sinistra ed è il marito della Spinelli, una difesa a spada tratta delle “riforme strutturali”, arrivando a rigettare l’estensione del privilegio aristocratico anche ai plebei che si era avuto nei trenta anni tra il 1945 ed il 1975. Per lui bisogna, infatti, “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione” (una frase ascrivibile interamente alla tradizione della destra aristocratica e reazionaria); e, continua, in esplicito riferimento alle riforme appena lanciate in Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) ed a pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola, bisogna: “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.
Ecco, bisogna avere preoccupazioni, altrimenti si potrebbe pretendere addirittura di essere davvero eguali.
Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”.
Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale liquidazione dello Stato Sociale, dei diritti di dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa-Schioppa arriva ad esprimere in questa direzione una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.
“Sine cura”, senza preoccupazione.
Intorno a questa parola d’ordine si configura la frontiera dell’ultimo scontro tra il mondo per come è, e il tentativo di costruire un ‘popolo’ che rimonti le rovine lasciate dall’angelo della storia (e dai suoi agenti interessati).
Ma mentre bruscamente si sposta l’agenda pubblica (attraverso politiche simboliche di impatto, ma di scarsa effettività per ora, come quelle sulla sicurezza personale e l’immigrazione dalla destra leghista, e quelle sul lavoro debole che dovrebbe ‘abituare alla povertà’, come disse Taddei, o sul reddito di cittadinanza) verso la protezione con lo stesso gesto politico si individua anche una conformazione di questo ‘popolo’. Perché se su parole come ‘onestà’ e ‘integrità’ (quest’ultima in misura minore, per effetto della polarità multiculturale) possono trovarsi quasi tutti, sull’estensione alla plebe del privilegio di essere ‘sine cura’, si trova – se si fa sul serio – solo quest’ultima, e su altre accezioni del termine ‘sicurezza’ (quelle autoritarie e fondate sull’inasprimento del controllo a protezione della proprietà) si trovano, invece, altri. La differenza tra aristocrazia e plebe passa per come si trattano questi conflitti.
Bisogna da considerare, infatti, che le politiche di protezione e sicurezza, al loro meglio (quando non sono solo nascondimento demagogico, come pure possono essere e spesso sono), implicano un riconoscimento, un prestare ascolto e offrire dignità a chi da solo, individualmente, non è in grado di darsi ‘cura’. Al loro peggio implicano una estensione del controllo sociale sensibile alla differenza di classe e volta a consolidarla.
Ma qui passa la contraddizione di cui parlavamo in “Diversioni”, le due forze al governo guardano a ‘popoli’ diversi e tendono ad articolare il solito discorso interclassista degli ultimi quaranta anni, pur cercando di aggirare alcune delle sue necessarie conseguenze.
La parola d’ordine “sicurezza”, come le altre, nella sua accezione di protezione come in quella di controllo, contribuisce dunque alla costruzione della posizione populista del governo e delle due diverse forze che lo compongono. Qui bisogna capirsi, perché se si perde di vista che si tratta di una costruzione retorica, volutamente vaga, si rischia che “catturi” il parlante ed anche l’ascoltatore. Ma, anche ove ciò accada, il “fondo” delle problematiche nella loro materiale fatticità non si dissolve per il fatto di non essere nominato; le fratture costitutive continuano ad operare dietro le spalle. Queste sono dotate di una propria logica, attraversano diagonalmente i corpi sociali, creano meccanismi di creazione/cooptazione subalterna, strutture di collaborazione ed espulsione. Si presenta quindi, comunque in particolare attraverso parole e politiche così potenti nel catturare il consenso e determinare delle nuove equivalenze sociali ed opposizioni (la creazione immediata del ‘popolo di Genova’, unito contro alcuni tanto quanto speranzoso di ricevere attenzione e protezione da altri) l’ombra dell’accomodarsi al possibile e più semplice “populismo di sistema” (che abbiamo visto nella rapida parabola renziana) la cui matrice non è esterna al corpo dei possibili ‘popoli’, ma, inscritta, e che nella sua potente e concreta egemonia, cattura e pervade già il “senso comune” senza essere ‘innocente’; questa soluzione, capace di ripresentarsi inaspettata, è in effetti, in altre parole, costituita ed intrappolata nelle strutture e nelle cornici funzionali alla produzione e riproduzione degli assetti che creano le diverse socialità. La mancata tematizzazione e ricerca di un punto di connessione e compromesso verbalizzato (e dunque democraticamente conformato) della base plurale e contraddittoria tra le due forze al governo può favorire questo esito.
A titolo di esempio l’egemonia neoliberale sui due temi indica che l’immigrazione deve essere lasciata del tutto libera, mentre la sicurezza garantita con mezzi di polizia, due posizioni entrambe costruite per avvantaggiare il ceto dominante dell’assetto sociale della “grande moderazione” (rentiers, ceti garantiti e proprietari, capitale finanziario e produttivo internazionalizzato). Se ci si posiziona, però, su una struttura meramente reattiva, incapace di andare alla radice dei problemi posti dalla fatticità del reale lo sforzo controegemonico, apparente, dei populismi di destra, in quanto mimetico dei mondi vitali che vengono a scontro con le ondate immigratorie in modo dissimetrico, predicherebbe chiusura radicale su linee nazionali e ancora più controllo di polizia.
Offrire, invece, autentica “sicurezza” implicherebbe la ridefinizione del senso comune in modo aderente ai problemi per come questi si realizzano sul campo e per come determinano pressioni dalle quali proteggere. La linea dovrebbe essere piuttosto di proporre l’avanzamento del valore della “responsabilità” (sia verso i cittadini sia verso gli immigrati) che la società deve assumere, e per essa il sistema istituzionale ed economico, nella gestione dell’epocale fenomeno dell’immigrazione. Non si possono accogliere indiscriminatamente persone, affidandole alle proprie sole forze ed al mercato, senza assumere per esse la responsabilità di garantire lo stesso set di diritti sostanziali che va garantito a tutti. Dunque, lungi dal prevedere una rincorsa verso il basso, per via di competizione tra poveri (che scatena anche la spinta alla protezione con mezzi repressivi ed apre un inseguimento senza fine), bisogna che si faccia un grande investimento, commisurato alle risorse mobilitabili, per garantire una vita dignitosa. Per tale via nella stessa mossa limitare i nuovi arrivi in base ad una programmazione, sensibile ai doveri umani, ma non cieca alle conseguenze, e investire queste ultime, facendosene carico, con un programma guidato dal pubblico ed adeguatamente finanziato. Se si fa diminuirà anche la necessità di protezione senso della securizzazione.
Da una parte (“onestà”) abbiamo dunque la ripresa della sanzione collettiva per i comportamenti individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano invisibile”, ed il richiamo implicito a più profonde strutture di socializzazione percepite come più umane.
Dall’altra troviamo la parola d’ordine polisemica della “sicurezza”, declinata come protezione ben calibrata all’altezza dei problemi enormi che l’occidente in questa fase ha davanti (in USA, oggi, l’equivalente della popolazione di Italia, Francia e Spagna insieme, vive solo perché riceve i “food stamp”), e infine troviamo il desiderio di “integrità”, che lavora a distinguere e caratterizzare il corpo sociale della democrazia dall’imperiale sopraffazione da parte del meccanismo del governo sistemico, incardinato nel governo a più strati europeo che abbiamo di fronte.
Si tratta per intero, sia chiaro di operatori, significanti vuoti con il linguaggio di Laclau, che contengono il rischio di maggiore violenza (di fronte al ‘freddo’ governo liberale), potendosi tradurre in moralismo escludente, esclusione e sicurizzazione, nazionalismo, ma tracciano una via di uscita concreta dall’ambiente neoliberale nel quale siamo cresciuti negli ultimi anni.
Mettere in equilibrio questo grande tema di protezione e sicurezza, ben inteso, con l’integrità e con l’onestà nel senso detto potrebbe, insomma, rappresentare un reale avanzamento.
Qualcuno dovrebbe farsi avanti e prendere questa torcia, prima che si spenga.