David Galula, il teorico della contro-insurrezione, di Driss Ghali

A proposito di guerre ibride e guerre asimmetriche. Uno scenario attualissimo_Giuseppe Germinario

David Galula, il teorico della contro-insurrezione

Driss Ghali è un consulente internazionale. È autore di un libro su David Galula e la teoria della controinsurrezione. Parliamo del pensiero di Galula e di come la sua visione di controinsurrezione possa rispondere alle sfide poste dall’islamismo.

 

Intervistato da Jean-Baptiste Noé

David Galula (1919-1967) è poco conosciuto in Francia, ma molto popolare negli Stati Uniti, l’esercito americano lo vede come uno degli strateghi della contro-insurrezione. Durante i suoi vari incarichi, è stato in contatto con diverse guerre di insurrezione, in particolare in Cina e Algeria. In che modo ha contribuito a modellare il suo pensiero?

Tutto è iniziato in Cina dopo la seconda guerra mondiale. Galula fu inviato lì come deputato dell’addetto militare francese a Pechino. Aveva 26 anni. A quel tempo, la guerra civile tra comunisti e nazionalisti era in pieno svolgimento. Un bel giorno del 1947, Galula prende la sua jeep e parte per una scopa. Alla fine ritorna nella zona comunista, un po ‘senza accorgersene, e viene rapito dagli insorti maoisti. Immediatamente l’ostaggio Galula (che parla il mandarino) simpatizza con il capo dei guerriglieri che lo tratta correttamente e lo fa girare intorno al proprietario. Nota la disciplina dei combattenti comunisti e l’attenzione prestata all’indottrinamento di soldati, quadri, ma anche prigionieri. Osserva inoltre che la popolazione ha obbedito senza lamentarsi e che le strade sono sicure, senza banditismo o ostacoli, a differenza della zona nazionalista. Rilasciato pochi giorni dopo,Mao divora quindi tutto ciò che riguarda i guerriglieri comunisti e di indipendenza (Malesia, Filippine, Indocina, Grecia, tra gli altri).

Dieci anni dopo, Galula si offrì volontario per comandare una compagnia di fanteria in Algeria. Avrebbe potuto rimanere allo stato maggiore a Parigi, ma ha insistito (infastidendo la moglie) per andare sul campo. Il suo obiettivo finale era quello di testare sul campo le lezioni apprese in dieci anni di osservazione del fenomeno insurrezionale.

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Qual è la contro-insurrezione di Galula e come ruota la sua teoria sulla sua esperienza vissuta?

Galula prende la strategia degli insorti al contrario. Capisce che derivano la loro forza e la loro unica possibilità di vincere dalla loro relazione di fusione con la gente. In effetti, gli insorti costringono i civili, con terrore e persuasione, a fornire loro riparo, cibo, denaro e intelligence (anche donne).

Bene, Galula propone all’esercito di privare l’insurrezione del suo ossigeno, cioè della popolazione. Offre una metodologia pratica ed estremamente chiara per tenere i civili lontano dagli insorti. Si tratta di un programma in tredici passaggi che combina azioni di shock (uccisione o imprigionamento virulento), intelligenza (identificazione della popolazione e identificazione di cellule dormienti) e iniziative politiche (delegando competenze a élite locali).

Questo è un approccio olistico che va ben oltre il classico ruolo del soldato. Con Galula, la missione dell’ufficiale acquisisce una dimensione politico-amministrativa che ricorda il ruolo di prefetto. L’unica cosa degna di Galula è il terreno umano: quello dell’equilibrio del potere e delle credenze che strutturano una data popolazione.

Galula testò e adattò le sue teorie in vivo in Algeria tra il 1956 e il 1958. Durante questo conflitto, scoprì che l’esercito non aveva una metodologia unificata di pacificazione, ognuno fece ciò che voleva nel suo angolo. Galula ha formulato una dottrina ancorata al reale e che si basa su un senso comune. Questo rende molto facile l’accesso per i non addetti ai lavori, cinquant’anni dopo.

Che posto dovrebbe avere la repressione militare e la comunicazione con la popolazione nella controinsurrezione? 

Vanno insieme. Per Galula, ogni soldato è un comunicatore e ogni contatto con le persone è un’opportunità per comunicare con loro. È fuori discussione parlare male ai civili, flirtare con le loro mogli o usare le famiglie. L’idea di Galula è combinare fermezza ed empatia. Le forze lealiste, dice, devono punire quando necessario, ma in modo proporzionato e prevedibile. A Kabylie, ha pubblicato una sorta di codice penale e ha fatto una grande pubblicità tra la popolazione. Capì che la gente accetta di collaborare con un potere le cui reazioni sono prevedibili in anticipo: odiano i pazzi che per nulla esplodono e si vendicano dei civili. Per Galula, non ha senso distribuire dolci, vaccini o indennità se la popolazione non ha iniziato a obbedire alle forze lealiste. Questi servizi dovrebbero essere visti come una ricompensa in cambio della cooperazione con la forza di pacificazione.

Quindi vedi che la comunicazione è inseparabile dall’opera militare di pacificazione. Si nutre e vive in modo permanente.

Galula è andato oltre al punto di proporre un canale radio per i musulmani che trasmetteva in arabo e cabilo. Secondo lui, la comunicazione non dovrebbe essere un tabù: devi parlare la lingua della popolazione target. Radio Galula avrebbe coperto l’Algeria, ma anche la Senna-Saint-Denis, la regione di Lione e il nord della Francia, come molti settori con forte immigrazione algerina. Ti rendi conto? Ha fatto questa proposta nel 1962! Se fosse vivo oggi, avrebbe sollecitato la Francia ad acquistare Al Jazeera o creare una copia che fosse anche di grande impatto e professionale.

Oggi abbiamo France 24. Parla un arabo caotico che nessuno capisce in periferia … Si rivolge (e lo fa bene, credo) alle élite che vivono nel Maghreb, ma gira le spalle alle masse musulmane situate dall’altra parte della “periferia “. Questi parlano i dialetti Wolof, Kabyle, Maghrebi e il francese. Galula avrebbe creato una web-TV in ciascuna delle sue lingue e adattato la loro linea editoriale all’universo mentale delle popolazioni target.

Galula morì molto giovane di un cancro veloce. Per quarant’anni, le sue tesi sono state dimenticate e i suoi scritti sono stati dimenticati. Perché è tornato all’inizio degli anni 2000?

La risposta porta un nome: il divino “Baraka”.

Più seriamente, Galula esce dall’oblio grazie al lavoro di una manciata di ufficiali e ricercatori americani estremamente curiosi della RAND Corporation. Finirono per presentare le idee di Galula al generale David Petraeus che, nel 2005, aveva appena preso il comando di un centro di eccellenza dell’esercito (Fort Leavenworth, Kansas). Riattaccò immediatamente e decise di includere gli scritti di Galula nella dottrina insegnata ai cadetti degli ufficiali!

Il fatto che i due libri principali di Galula siano stati scritti in inglese ha avuto un ruolo decisivo in questo risveglio. Petraeus è anche un francofilo, un ex paracadutista che ammira Bigeard . Ha trovato a Galula un quadro teorico che gli ha permesso di scrivere le sue intuizioni sulla guerra degli insorti. Infatti, Petraeus ha toccato quest’area in Bosnia, Haiti e in America Centrale.

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Di fronte al terrorismo islamista oggi, quali potrebbero essere le soluzioni derivate dal pensiero di Galula per combatterlo e conquistarlo?

Se Galula fosse vivo, sarebbe sgomento per la nostra triplice negazione.

Prima di tutto, ci rifiutiamo di ammettere che siamo in guerra. Quindi ci rifiutiamo di nominare il nemico. Ci perdiamo tra salafiti, jihadisti, takfiristi, islamisti e altri wahhabiti. Di conseguenza, stiamo combattendo la guerra contro il terrorismo, vale a dire una metodologia e non nemici, il che è ridicolo. Infine, non conosciamo la natura di questa guerra che è insurrezionale. Crediamo ingenuamente che i nostri droni e sottomarini ci possano essere utili contro Merah, Abdeslam o Mokhtar Bel Mokhtar (aka Marlboro ).

L’unica cosa che conta è la popolazione, contiene la chiave per la vittoria. Quando verrà il giorno, lo consegnerà alle forze lealiste (diciamo che la Francia e i suoi alleati vanno veloci) o agli islamisti.

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La guerra di insurrezione non è principalmente una questione di volontà delle persone e non di mezzi tecnici? Saranno le persone a guidare un occupante o una festa per prendere il potere? In questo caso, come dare la volontà di superare l’islamismo alle popolazioni musulmane che soffrono?

Hai ragione. Alla gente non piace essere occupata e dominata dagli stranieri. È vecchio come il mondo. Tuttavia, a volte si scopre che gli stranieri sono guerrieri migliori dei locali al punto di sottomettersi e vivere in mezzo a loro. Questo è esattamente ciò che è accaduto in Iraq tra il 2003 e il 2008, quando i combattenti stranieri di Al Qaeda hanno messo sotto tutela le aree tribali sunnite attorno a Ramadah e Fallujah. La stessa cosa accade oggi quando i combattenti arabi si trasferiscono nel nord del Mali per fare jihad. Alla gente non piacciono, ma preferiscono sottomettersi a loro per salvare la vita. Sii consapevole della facilità con cui Gao e Timbuktu sono stati portati! Ci vogliono solo cento ragazzi per dominare una città e immergerla nella barbarie.

Galula offre i mezzi per liberare una popolazione dalla morsa del violento, perché da sola non ci riuscirebbe.

Hai anche ragione nel porre la domanda sulla “volontà” delle popolazioni musulmane di sconfiggere l’islamismo. Hanno davvero la volontà? Voglio dire che la jihad fa parte della grammatica della storia dei paesi musulmani. Per noi musulmani è il nostro modo di rinnovare le élite senza inventare ideologie su misura. Questo è un modo a basso costo per provocare cambiamenti. Non c’è bisogno di inventare l’Illuminismo o aspettare che Rousseau o Voltaire si mettano in moto: la jihad è disponibile sullo scaffale per 1400 anni.

Nel Maghreb, ad ogni grande cataclisma politico, troverai sempre una chiamata alla jihad per scacciare la dinastia “empia” o per sottomettere i vicini “eretici”. Anche in Africa nera, il jihad è stato utilizzato per sconvolgere gli equilibri politici (Imamate Fouta Jalon in Guinea, XVIII ° secolo).

La buona notizia è che il ricorso alla jihad è ciclico. Siamo certamente al culmine, al massimo della spinta. Ci sarà un reflusso. Uno buono è quello che saprà quando si verificherà questo reflusso. Sfortunatamente per noi, questo picco coincide con l’esplosione demografica. La Jihad può contare su decine di milioni di giovani scontenti e desiderosi di combatterla.

Per le élite dei paesi musulmani, due scelte sono presentate secondo la mia modesta opinione. Diventa opportunisticamente islamista per evitare che il potere cada nelle mani degli estremisti o per produrre un’alternativa al discorso jihadista. Tuttavia, questa alternativa non esiste, perché le élite del Sud hanno peccato per pigrizia e conformismo dall’indipendenza degli anni 1950-1960. Non hanno nulla da opporsi al discorso jihadista se non un vago progetto neoliberista o una sorta di nazionalismo sbiadito.

Pochi paesi musulmani hanno la possibilità di uscire. Tra questi, il Marocco. Non lo dico perché sono nato lì o perché Galula è cresciuto lì, ci credo profondamente. La società marocchina ha inventato i propri meccanismi di difesa contro il jihadismo. Lo ha fatto spontaneamente nel corso dei secoli. Abbiamo creato un Islam popolare e radicato nelle nostre terre. Mi riferisco all’Islam dei Marabouts, un Islam che unisce il femminile, quello di mia nonna che occupa letteralmente il mausoleo di un santo per pregare e pregare per giorni. È un atto rivoluzionario quando sappiamo che le donne sono nascoste nelle moschee (occupano uno spazio separato, lontano dalla vista degli uomini). L’Islam di Maraboutique è genuino e intenso, prende in giro il jihadismo e le sue storie kamikaze.

Un simile Islam esiste sicuramente in Senegal, quello delle grandi confraternite. Deve essere aiutato a sopravvivere e prosperare. È l’unica linea di difesa contro il jihadismo nell’Africa occidentale.

Chiedete cooperazione tra nord e sud. Questa politica è stata provata per diversi decenni e non sembra davvero avere successo. Quali sarebbero le condizioni affinché la cooperazione sia efficace?

In ogni caso, l’Europa non ha altra scelta. Corre davvero il rischio di essere circondata da una cintura di teocrazie sul suo fianco meridionale. In questo caso, sarà necessario dimenticare le vacanze a Ibiza o in Grecia. Domani, i gommoni dei contrabbandieri saranno sostituiti da veloci corazzati che sbarcheranno sulle spiagge europee per consegnare droga, rimuovere le donne e commettere attacchi. E i nostri sistemi di rilevamento elettronico non faranno nulla. Guarda come l’Europa (con tutto il suo denaro e la sua tecnologia) sta lottando per rilevare i traballanti traffici che lasciano la Libia con tempo sereno e mare calmo …

Secondo me mancano due cose a questa cooperazione Nord-Sud: un po ‘più di Serieux e un po’ più di Amore.

graveè riconoscere che l’islamismo occupa tutti gli spazi lasciati dalle élite meridionali. Ha invaso il campo sociale (scuole materne, cliniche) e poi le scuole e oggi prospera nei media e nei sindacati professionali (giornalisti, medici, ingegneri, tra gli altri). Non ha senso organizzare grandi conferenze a Nizza o Zurigo se le élite meridionali non sono preparate a resistere allo scontro dell’islamismo. Non abbiamo bisogno di un equivalente di Ghandi nel Maghreb, ma di diversi Reagan che combinano carisma naturale e volontà di lottare per le idee. La priorità per l’Europa è di armare le élite del sud affinché siano più robuste, più aggressive e soprattutto rimangano sul posto. Oggi, una parte significativa del Maghreb e dell’intelligence saheliana vive a Ginevra, Londra e New York. Non è così che vinceremo la battaglia contro l’islamismo!

Infine, ci vuole amore. Continuiamo a parlare di sicurezza e immigrazione. Parliamo di prosperità. Nella pulsione di morte che è l’islamismo, opponiamoci a una pulsione di vita! Non vedo l’ora di aprire un arco di prosperità che andrà da Dakar a Lisbona passando per Algeri e Madrid. Un paese come il Marocco ha tutto in comune con il Senegal o il Portogallo mentre non ha quasi nulla da dire all’Estonia o alla Finlandia. Tuttavia, l’Unione Europea richiede ai paesi del fianco meridionale (Francia, Spagna, Italia, ecc.) Di sottoporsi a procedure e politiche che guardano ad est (vale a dire verso l’entroterra tedesco). ). Faccio la domanda: è tempo di liberarsi dalle catene dell’UE? Penso di sì, sì. Non sto chiedendo di smantellare l’UE,

A.A.V.V. (a cura di Chantal Mouffe) La sfida di Carl Schmitt, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V. (a cura di Chantal Mouffe) La sfida di Carl Schmitt, Novaeuropa, € 23,00, pp. 346.

Questo libro è stato pubblicato nel 1999 e tradotto ed edito in Italia solo due mesi fa. Preme sottolinearlo per due ragioni.

La prima, che l’attualità del pensiero di Schmitt, morto nel 1985, è stata confermata proprio dagli eventi succedutisi al collasso del comunismo e del (conseguente) mondo bipolare; e in particolare da quelli del secolo corrente.

La seconda che i vent’anni trascorsi tra l’edizione inglese e quella italiana del libro confortano anche le (polifoniche) interpretazioni di aspetti delle concezioni politico-giuridiche di Schmitt raccolte nel volume: da quello filosofico (Dotti e Zizek) a quello politico-istituzionale (Mouffe, Dyzenhaus, Ananiadis) giuridico (Carrino e Preuss), solo per citare parte dei contributi raccolti nel volume.

Ricordiamo a titolo d’esempio il contributo di Chantal Mouffe, sul confronto di Schmitt con la democrazia liberale. Parte dell’esigenza del confronto: “i teorici politici, in modo da portare avanti un concetto di società liberal-democratica capace di ottenere l’attivo supporto dei propri cittadini, devono essere disponibili a  confrontarsi con le tesi di coloro i quali hanno sfidato le dottrine fondamentali del liberalismo… La mia intenzione… è quella di contribuire ad un simile progetto attraverso l’esame della critica schmittiana alla democrazia liberale. Infatti, sono convinta che un confronto con il suo pensiero ci permetterà di riconoscere – e, pertanto, essere in una migliore posizione per cercare una negoziazione – un importante paradosso inscritto nella reale natura della democrazia liberale”. Analizzando in specie l’esigenza di omogeneità nella cittadinanza, sostenuta da Schmitt, la politologa belga scrive “la sua teoria è che la democrazia richiede una concezione di uguaglianza come sostanza , e che non può soddisfare se stessa con concetti astratti come quello liberale. Dato che l’uguaglianza è politicamente interessante ed inestimabile solo fintanto che ha sostanza, egli pone la questione del rischio e la possibilità dell’ineguaglianza. In modo da essere trattati come uguali, i cittadini devono, così dice, essere parte di una sostanza comune”.

Di conseguenza l’idea di uguaglianza (in primo luogo) politica di tutti gli uomini non fornisce alcun criterio per stabilire delle istituzioni politiche. “Nella sua prospettiva, quando parliamo di uguaglianza, dobbiamo distinguere tra due idee differenti: quella liberale e quella democratica. La concezione liberale postula che ogni persona è, in quanto persona, automaticamente uguale ad ogni altra persona. La concezione democratica, però, richiede la possibilità di distinguere chi appartiene al demos e chi gli è estraneo; per questa ragione, essa non può esistere senza il necessario correlativo dell’ineguaglianza”. Si è uguali (politicamente) se si appartiene allo stesso demos, che fonda anche la differenza rispetto a coloro che non ne fanno parte. Il concetto democratico di uguaglianza si fonda su tale distinzione. “Ecco perché dichiara che il concetto centrale di democrazia non è «umanità» ma il concetto di «popolo», e che non ci potrà mai essere una democrazia del genere umano. La democrazia può esistere solo per un popolo”. Prosegue confrontando il pensiero di Schmitt con quella della “democrazia deliberativa” (in particolare di Habernas).

Tanto per ricordare un evento che (clamorosamente) conferma la tesi “sostanzialista” di Schmitt, decisiva nelle democrazie politiche, questo fu proprio il collasso del comunismo e il fallimento del “Trattato dell’Unione” proposto da Gorbaciov per l’URSS, nel quale si prevedevano istituzioni democratiche al posto del centralismo oligarchico comunista. Dato che i tanti popoli dell’URSS erano poco o punto omogenei come un baltico protestante può esserlo con uno slavo ortodosso o un turco ottomano, conciliarli  in una democrazia politica era impresa mai riuscita (e neppure – che ci risulti – tentata). Di guisa che, più realisticamente, Eltsin con la CSI dette il “rompete le righe” alle repubbliche ex-sovietiche.

Passiamo ad un altro saggio: quello di Carrino che riguarda la concezione giuridica di Schmitt. Carrino parte dal saggio Dic Lage der europaischen Rechtswissenschaft: “il saggio mostra la fondamentale importanza della struttura giuridica del pensiero schmittiano – vale a dire, il ruolo centrale dello jus nella struttura dei lavori di Schmitt che non sono basati su una dottrina giuridica ma, piuttosto, sulla realtà concreta”. Per molti anni, non solo in Italia, lo studio di Schmitt è stato lasciato a politologi, filosofi e storici, mentre Schmitt, ancora poco prima di morire, diceva “sarò un giurista finché morirò”. Scrive Carrino “Proprio per questo motivo il suo saggio sulla scienza giuridica europea dovrebbe essere letto en juriste, nella consapevolezza del fatto che egli fu un grande giurista, e che non fu interessato meramente alle meccaniche del diritto; ma, al contrario, era anche aperto ad una prospettiva più ampia della cultura giuridica e della civiltà legale”. Carrino nota che la critica alla modernità del giurista di Plettemberg comincia con l’opposizione alla metodologia cartesiana “Schmitt è un realista, un uomo per il quale le cose hanno una loro durevole realtà” onde “Il decisionismo schmittiano (che in questo senso mai fallisce) è il suo proprio realismo perché è la realtà che decide in favore o contro il soggetto, a volte frantumandolo o superandolo…Il diritto è parte di questa realtà – o, piuttosto, è identificato con la realtà, che lo stesso Schmitt ha definito come «l’ordine giuridico concreto» o jus (successivamente conosciuto come nomos), che è, a sua volta, il diritto separato dalla legge positivista. Schmitt concepisce il diritto non come un obbligo, puro Sollen, ma come un modo di essere. Il Sein nel pensiero di Schmitt non è in contrasto con l’obbligo (Sollen), come nel caso del pensiero di Kelsen; ma è, tuttavia, in contrasto con il Nicht-Sein”.

L’esistenza della comunità politica e la necessità (assoluta e prevalente) di proteggerla è la suprema lex, e non il positivismo di norme, scivolato poi nel positivismo di valori, che ha connotato la dottrina costituzionalista italiana (e non solo) del secondo dopoguerra, e in parte continua ancora.

Anche qui, se la decisione concreta diventa quella di Machiavelli tra serbare gli ordini e rovinare, o per non rovinare, romperli, normativismi, codici, commi e così via devono essere (almeno) sospesi – al fine di conservare l’esistenza – e il modo di esistenza della comunità. Ne abbiamo avuto conferme anche recenti. E si potrebbe continuare così per gli altri contributi, alcuni dei quali relativi ad aspetti dell’opera di Schmitt poco frequentati, almeno in Italia (come i saggi di Ananiadis e Colliot-Thélène.). Al lettore, cui si consiglia, il compito (e il piacere) di scoprirli.

Teodoro Klitsche de la Grange

SOVRANITÁ E DIRITTO GLOBALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

SOVRANITÁ E DIRITTO GLOBALE

Tra le novità che il pensiero unico anti-sovranista ci dispensa per esorcizzare l’avversario in crescita ce n’è una poco trattata nei mass-media. Ovvero che il sovranismo (meglio la sovranità) degli Stati sarebbe uno strumento superato perché il “diritto globale” (e globalizzato) avrebbe escogitato un sistema più raffinato per diminuire i conflitti: istituire dei Tribunali internazionali. I quali, in effetti, nel secolo passato sono aumentati. Non tanto e non solo quelli penali, quanto le Corti che giudicano su particolari materie (dalla pesca, all’ambiente, dalla concorrenza alle scorie radioattive).

Va da se che a questo si associa il consueto disprezzo/deprecazione per il sovranista che non avrebbe compreso (o non vuole comprendere) come non vi sia bisogno di attizzare conflitti e deciderli autonomamente: basta istituire (o, se c’è, adire) un Tribunale internazionale che giudichi delle pretese delle parti. Qualsiasi tipo di ostilità (e al limite, di guerra) e controversia, o almeno gran parte, sarebbe così justiciable, cioè conoscibile e decidibile da un giudice (si spera anche “terzo”). Il vantaggio di tale “sistema” consisterebbe nell’eliminazione/riduzione dei conflitti e, in certi casi, delle guerre. La decisione del Tribunale sarebbe così alternativa a quella della guerra.

Tale tesi è per lo più esposta da giuristi di sinistra, i quali non sembrano imbarazzati dal ripetere così quel che scriveva De Maistre “Partout où il n’y a pas sentence, il y a combat[1]. Tesi che esprimeva nel libro II° del Du Pape, una delle più razionali (ed appassionate) trattazioni della ineluttabilità (e degli inconvenienti) della sovranità[2].

Gli argomenti che si adducono a favore della tesi in esame hanno però più di un limite, che li rende contraddittori. Vediamo quali.

In primo luogo si adduce l’argomento il quale coniuga la competenza agli interessi..

Come a livello locale gli interessi locali sono attribuiti al Comune (alla Provincia, Regione ecc.) laddove vi siano interessi a livello planetario o almeno sovrastatale devono, proprio perché eccedenti  l’ambito nazionale, essere regolati a livello sovrastatale.

Se si può essere d’accordo che una regolazione statale d’interessi eccedenti il territorio dello stato corre il rischio di essere poco efficace e al limite inutile, altro è farne conseguire che per avere quelle regole occorra un ente (organo, ufficio) internazionale che le detti e giudichi le relative controversie. In effetti la regola può essere posta o consensualmente (tramite un accordo) o unilateralmente (con un comando dell’uno all’altro soggetto).

Quanto al primo – normale nel diritto internazionale (e, ovviamente, non solo in questo) – si realizza con trattati, il fondamento dei quali è proprio che a negoziarli, deciderli, applicarli sono degli Stati sovrani. I quali se non fossero sovrani, non potrebbero né obbligarsi né essere responsabili dell’esecuzione. O quanto meno avere una capacità internazionale limitata, corrispondente alla propria sovranità.

Come scriveva Santi Romano “effetto della mancanza di sovranità è la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati”[3].

E il tutto si ripercuote non soltanto sulla capacità internazionale ma anche sulla responsabilità per eventuali illeciti. Lo Stato dipendente (protetto, federato) il quale non gode di (piena) sovranità risponde, soltanto nei limiti delle attività che può svolgere, nei confronti (anche) degli altri soggetti internazionali; ma per i rapporti di competenza dello Stato protettore, a seconda dei casi può (o deve) rispondere quest’ultimo.

Contrariamente a quanto pensano certi globalisti è proprio la sovranità a fondare la capacità di obbligarsi e il dovere di responsabilità. È ad essa quindi che dobbiamo la possibilità di esistenza (ed applicazione) di norme giuridiche pattizie.

In secondo luogo, e strettamente connesso al precedente, le regole possono emanarsi sia con accordi liberamente assunti dai soggetti che con comandi che un soggetto da agli altri. Per cui se una dimensione d’interessi è di competenza di più Stati la relativa regolazione può essere data con accordi tra gli Stati coinvolti, proprio in forza di quella – tanto disprezzata e deprecata – sovranità. In alternativa uno Stato (o un’altra istituzione) che si trova a esercitare poteri di comando sugli altri, può ordinare che valga la regolazione da esso imposta; non è vero quindi che la sovranità ostacoli la regolamentazione; ma è verissimo che impedisce che sia imposta una normativa non pattizia.

In terzo luogo, si ritiene che i globalizzatori sono coloro che sostengono gli interessi dell’umanità, mentre i sovranisti quelli particolari degli Stati.

Tale affermazione è assai discutibile in fatto, perché presuppone che chi afferma di sostenere quelli dell’umanità, abbia il potere di comandare a coloro che dicono di sostenere quelli dei popoli. Ma questo a sua volta presuppone che gli uni e gli altri siano in buona fede. Il che, a quasi cinque secoli dalla pubblicazione del “Principe” appare un atto di fiducia (e credulità) foriero di molte delusioni. Avete mai sentito parlare di propaganda?

E sostenere che un soggetto concreto debba essere sottoposto alla decisione di un altro soggetto concreto – nella specie un organismo internazionale ovvero (forse) una coalizione di Stati – perché questo tutela (interessi, valori o quant’altro) di carattere superiore ripete, mutatis mutandis la controversia tra Hobbes e i teologi cattolici della controriforma sul rapporto tra autorità spirituale (il Papa) e temporale. Come scrive Schmitt, il filosofo inglese “mette in discussione la pretesa che il potere statale debba essere soggetto al potere spirituale, poiché quest’ultimo costituisce un ordinamento superiore”[4].

La tesi di Hobbes era in polemica con quella di S. Roberto Bellarmino, il quale difendeva la concezione della potestas indirecta in temporalibus del Pontefice. Il filosofo di Malmesbury la contestava con pluralità di argomenti: che manca il consenso dei governati[5], ma solo la pretesa di aver avuto tale potere da Dio[6] ed il potere, a parte il fondamento, è sempre lo stesso[7]. Quando poi controbatte l’argomento del Bellarmino sulla gerarchia dei poteri (che si riflette in gerarchia delle persone), applica in un certo senso il rasoio di Ockam: il rapporto di potere – ossia di comando/obbedienza è relazione tra persone concrete e non entità astratta[8].

Se si fanno discendere dal cielo alla terra le argomentazioni del teologo e del filosofo, la somiglianza tra la concezione del primo con quella dei globalisti è evidente.

Entrambe sono volte a provare il diritto di chi detiene (o sostiene di possedere) un potere superiore a comandare coloro che ne esercitano uno inferiore. Là per volontà divina e per il bene delle anime, qua per coinvolgimento di un numero maggiore di esseri umani – fino all’intera umanità ed al suo territorio, il pianeta – e per la bontà delle intenzioni. La novità di questa concezione, rispetto a quella, oggigiorno enormemente più invocata, dei “diritti umani” è di argomentare più dagli interessi che dai valori.

Ma le fallacie in cui incorre solo le stesse: la non necessità di istituzioni apposite (sia che si tratti di Stato che di enti, Tribunali ed altro) per regolare ciò che è comune a più popoli, e la ineluttabile necessità, di converso, se si vuole imporre la decisione (maggioritaria?) ai dissenzienti. Il problema poi sotteso è di  come imporre ai recalcitranti sia le istituzioni globali sia le di esse decisioni. Si fa loro la guerra? E giacché col farlo si viola il buonismo/irenismo imperante – oltre che essere gravemente contraddittorio con lo stesso -, le si deve cambiare nome.

Escamotage già usato con le operazioni di polizia internazionale -, ossia le guerre promosse e condotte da coalizioni di Stati benintenzionati contro Stati canaglia dissenzienti e malintenzionati. Così violando i principi del diritto internazionale Westphaliano, in primo luogo che par in parem non habet jurisdictionem. Che invece in nome di un interesse superiore si pretende di avere. Meglio allora un sistema  che, con tutta le sue crepe, si basa ancora sulla sovranità. E, di conseguenza, sul diritto dei popoli a scegliere il proprio destino.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Du Pape II, 1

[2] Il popolo è fatto per il sovrano, come il sovrano per il popolo; e l’uno e l’altro esistono (son faits) perché ci sia una sovranità … Nessun sovrano senza nazione, come nessuna nazione senza sovrano”. Op. loc. cit..

 

[3] Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 117 e prosegue “limitazione che si ha non solo verso lo Stato protettore o la Società delle nazioni, ma anche verso i terzi, il che conferma che non si tratta di semplici obbligazioni, ma di una posizione personale… data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire”

[4] Teologia politica in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 57; e prosegue “Ad una argomentazione del genere egli risponde: se un «potere» (power, potestas) dev’essere sottoposto all’altro, ciò significa soltanto che colui che ha il primo potere dev’essere sottoposto a colui che ha l’altro potere… Ciò che gli è incomprensibile («we cannot understand») è che si parli di sopra-ordinato e di sub-ordinato, preoccupandosi però nello stesso tempo di rimanere sul piano astratto. «Infatti soggezione, comando, diritto e potere riguardano non poteri ma persone»”. Cosa che invece i globalisti ritengono opportuno fare.

[5] v. Leviathan parte III, c. XLII “Quando si dice che il Papa non ha – nel territorio degli altri Stati – il supremo potere civile direttamente, noi dobbiamo intendere che egli non pretende ad esso – come gli altri sovrani civili – in virtù della originale sottomissione di coloro, che debbono essere governati, poiché è evidente, ed è stato già sufficientemente dimostrato in questo trattato, che il diritto di ogni sovrano deriva originariamente dal consenso di ognuno di quelli, che debbono essere governati, sia che lo scelgano per comune difesa contro un nemico, come quando si accordano tra di loro, per eleggere un uomo od un’assemblea di uomini, affinché li proteggano; sia che lo facciano per salvare la propria vita, sottomettendosi ad un nemico conquistatore”.

[6] “ma non cessa tuttavia dall’invocare il suo diritto da un’altra parte, cioè – senza il consentimento di quelli, che debbono essere governati – per un dritto datogli da Dio” op. loc. cit.

[7] “Ma da qualunque parte egli lo pretenda, il potere è lo stesso, e – se fosse accolto come un diritto – egli potrebbe deporre principi e governi, sempre che ciò fosse per la salvazione delle anime, cioè sempre che gli piacesse, poiché egli pretende per sé anche l’assoluto potere di giudicare se ciò sia per la salvazione delle anime umane o no” e prosegue “Questa distinzione tra potere temporale e spirituale non è infatti che di parole; ed il potere vien realmente diviso, ed in modo altrettanto dannoso per tutti i riguardi, tanto col far partecipe altrui di un potere indiretto, quanto di un potere diretto” op. loc. cit.

[8] “Non vi sono che due modi, per i quali queste parole possano dare un senso; poiché, quando noi diciamo che un potere è soggetto ad un altro potere, il senso è o che colui, che ha l’uno, è soggetto a colui, che ha l’altro, o che l’un potere sta all’altro, come i mezzi al fine. Infatti noi non possiamo intendere che un potere abbia il potere sopra un altro potere, o che un potere possa avere il diritto di comandare sopra un altro, poiché la soggezione, il comando, il diritto ed il potere sono accidenti non dei poteri, ma delle persone…Quando il Bellarmino dice che il potere civile è soggetto allo spirituale, egli intende dire che il sovrano civile è soggetto al sovrano spirituale” op. loc. cit..

LO STATO DI INCERTEZZA, di Pierluigi Fagan

LO STATO DI INCERTEZZA. (Post domenicale) Esso è proprio del futuro o meglio, dello sguardo presente che tenta di catturare lo stato futuro. Ma nel secolo scorso, in fisica, si è arrivati a scoprire che esso è al fondamento della stessa realtà fisica, apparentemente, la più concreta e definita vi sia, per lo meno a livello particellare. Tale fatto è stato compendiato nel “principio di indeterminazione” a base di quella fisica che si chiama meccanica quantistica. Del principio, un fisico austriaco, volle dare un esempio che voleva popolarizzare la questione o meglio dare evidenza paradossale della interpretazione dominante che non condivideva, al pari di Einstein. Ne nacque il “gatto di Schroedinger”, metafora assai popolare, abusata, quasi sempre usata a sproposito. La metafora voleva esemplificare, in forma di paradosso e non di fatto, il fatto che i tanti futuri possibili propri della realtà micro-fisica, uno solo diventerà realtà di fatto, solo laddove c’è una presenza umana. La presenza umana, la semplice osservazione della realtà fatta da un umano, collassa l’ampio ventaglio delle molteplici possibilità nell’unica possibilità che diventa attualità. Dei futuri possibili uno solo diventerà attuale per noi.

In questo giorni, per ragioni di studio, sto studiando un campo prima frequentato a-sistematicamente: lo studio dei futuri. Dalle sibille, àuguri, indovini, pizie, profeti e divinatori, si è passati ai produttori di utopie, distopie, retropie, estropie, ucronie. Poi a tentativi di previsione, lungimiranza, prospettive, prognostica, anticipazioni nel mentre si sviluppava la fanta-scienza, genere letterario nato poco dopo la Rivoluzione industriale ed i piani quinquennali. Oggi, gli anglosassoni hanno compendiato gli sforzi previsionali applicati al mondo, l’economia, la geopolitica, la politica, la tecnologia, la condizione ambientale, in una vera e propria disciplina i “futures studies”.

Non sapevo, ma vi sono cattedre universitarie sparse in giro per il mondo di tali futures studies, da Seul a Teheran, da Sidney a gli USA, passando per la Cina e l’Europa, una anche in Italia, a Trento (Corso di “Previsione sociale” e ricordo che Sociologia, a Trento, è storicamente una facoltà di punta. Vi si laureò Renato Curcio e Mara Cagol, tra gli altri). La versione anglosassone, trae spunto dall’idea di sviluppare tale disciplina in forma più seria, diciamo tendenzialmente anche se non precisamente “scientifica”, avuta da un tedesco Ossip K. Flechtheim, inventore del termine “futurologia” nel 1943. Flechtheim aveva anche ambizioni di filosofia politica e propugnava una terza via tra capitalismo e comunismo che ridotta all’osso era un socialismo democratico rinforzato, per come si esprimeva il tedesco “ecologico, frugale, femminista, umanistico”.

Ma il grosso dei futures studies è nei think tank che abbondano in America, ma cominciano a svilupparsi in ogni Paese dotato di ambizioni. Come già vi riferii, sono molti i Paesi che hanno prodotto la propria “Vision”, di solito traguardata al 2030 o 2050 (mi sa che anche Renzi ne ha annunciata una alla Leopolda per il 2029). Ve ne sono anche di dimensione parlamentare come in Finlandia o mondiale. Delle previsioni discusse ogni anno a Davos al World Economic Forum vi diedi già precedentemente conto ma vi è un altro rapporto giunto oggi alla 19° edizione, lo State of the Future del The Millenium Project. Siamo sulla scia di molti altri rapporti quali quelli del Club of Rome o il Sierra Club o il russo Club Valdai. La pre-visione, è qui classicamente rivolta all’individuazione di rischi e possibilità, più rischi che possibilità invero. Colpa del pessimismo della ragione o di una reale ragione anticipante o dell’unione tra la grande mole di dati e conoscenze che oggi abbiamo e l’oggettivo moltiplicarsi di contraddizioni e rischi nel mondo complesso, tali rapporti sono una non allegra e sempre meno terminabile elencazione di vere e proprie disgrazie. Negli anni ’90, il Dipartimento della Difesa USA,a proposito del futuro aspettato, coniò l’acronimo VUCA – Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous, nel tentativo di acchiappare i sfuggenti contorni.

A solo titolo esemplificativo, un primo elenco di disgrazie è questo: cambiamento e riscaldamento climatico, eventi fuori scala e disastri naturali, fallimento nella mitigazione climatica, aumento livelli mare, isole e coste sommerse, migranti ambientali, carenze e crisi alimentari e di acqua, siccità, inondazioni, salinizzazione, perdita di biodiversità e di specie cruciali (ape), colassi ambientai locali (eutrofizzazione), volatilità costante, terrorismo, rivolte, moltiplicazione delle richieste di sovranità, stati falliti, crisi debitorie (mondiali, locali, bancarie), crisi fiscali, bolle e scoppio di bolle a ripetizione, Inflazioni – deflazioni, diseguaglianze economiche-sociali –tecnologiche, epidemie globali, pandemie, salute mentale (ansia biologica, tecnologica, sociologica, ambientale + depressione “seconda causa di disabilità al mondo”), resistenza antibiotici, transumanesimo, problemi energetici, condizione delle donne, fallimenti nella pianificazione urbana, crimine organizzato, rivolta delle macchine (Hawking, Bostrom, Musk), codice etico delle macchine, perdita di lavoro, armi nano-bio-tecnologiche, cyberattacchi, frode o rapina di dati, guerre locali – Interstatali – d’area – mondiali – elettromagnetiche – biologiche – climatiche, nucleari a vari livelli. In più: Rischi sistemici (sistema e sotto-sistemi – mondo) non lineari, Eccesso di complessità (tra totalitarismi e caos), Effetti farfalla a gò-gò. I poco avveduti, quando vengono citati questi rischi, pensano siano una invenzione delle élite per perpetrare il loro dominio. E’ invece il fatto che le élite li prevedono a farle preparare alla gestione. Non si confonda l’interpretazione col fatto, i fatti -anche se in ipotesi- prescindono per molti versi le interpretazioni.

In 1984, Orwell sosteneva che “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato” una chiave concatenata che va letta come dominio delle narrazioni. Il potere in carica oggi, domina il racconto storico, sia quello della cose avvenute, sia quello delle cose che debbono avvenire. Ma quelle che debbono avvenire sono anche una finestra aperta sull’oggettivo stato di incertezza dello sguardo rivolto al futuro. Ed è in vista di questo previsionato futuro che poi si fanno molte scelte, introiettando il “poi”, di modo da condizionare l’”adesso”. I futuri sono possibili, probabili o desiderati. Se i poteri disegnano i loro, i contro – poteri dovrebbero parimenti disegnare i loro, siamo tutti gatti di Schrodinger che debbono pianificare la rivincita. Il pensiero critico più che levarsi sul far della sera come la nottola di Minerva (o civetta di Atena), ultimamente si sveglia con qualche decennio di ritardo, c’è un ritardo di attenzione, visione e pre-visione, la critica è schiacciata sul presente.

I futuri possibili, collasseranno nel presente che sarà, solo quando la presenza umana lo abiterà determinandone gli esiti. Il futuro non è scritto e politica è la lotta per possedere la penna che lo scriverà. Ma il futuro si scrive nel presente perché per l’essere umano è la previsione ad animare l’intenzione.

tratto da facebook

le guerre di Israele e il nomos della terra secondo Fabio Falchi

Da sempre il richiamo della terra, la sedimentazione dello spirito, della cultura e dell’anima di un popolo in un particolare territorio hanno suscitato l’interesse di studiosi ed analisti entrando a pieno titolo tra i fattori che determinano le dinamiche geopolitiche, il confronto e il conflitto tra stati e popoli. La retorica sulla globalizzazione in primo luogo e la tesi delle dinamiche del conflitto politico dettate dalla lotta di classe sembravano aver messo definitivamente in secondo piano questo interesse sino a prevederne la totale rimozione. Con il suo ultimo libro “le guerre di Israele e il nomos della terra” Fabio Falchi ci offre un esempio concreto di quanto sia illusoria questa rimozione e di come sia una che l’altra non possano prescindere dalla forza delle radici. Ne discutiamo in questa conversazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Jean-François Kervégan Che fare di Carl Schmitt?, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Jean-François Kervégan Che fare di Carl Schmitt? Ed. Laterza, Bari 2016, pp. 235, € 24,00

La frase che sintetizza questo saggio è come “pensare con Schmitt contro Schmitt”. La contraddizione che ne emerge è quella consueta: tra un pensiero tuttora fecondo e in grado di spiegare – almeno in parte – il nostro presente politico e l’adesione del giurista di Plettemberg al nazismo che lo rende maledetto al “pensiero unico”.

Contraddizione particolarmente avvertita in Italia e in Francia.

In Italia il pensatore tedesco era stato “cancellato” prima della renaissance avviata dalla pubblicazione nel 1972 a cura di Miglio e Schiera della silloge dei suoi scritti “Le categorie del politico” seguita nei decenni successivi dalla traduzione e pubblicazione di (quasi) tutti gli scritti di Schmitt. Di guisa che nel “coccodrillo” di Maschke pubblicato da Deer Staat dopo la morte di Schmitt, si ascriveva all’Italia il merito di aver svolto la parte più importante nel recupero del pensiero schmittiano – spesso ad opera di studiosi marxisti.

Valutazione che l’autore condivide “Non è azzardato affermare che in Italia, a partire dagli anni Settanta, sono stati pubblicati alcuni dei migliori contributi alla letteratura critica su Carl Schmitt”. Kervégan sostiene che “Se esiste un «caso Schmitt» è proprio perché questo autore, insieme alle sue divagazioni naziste, ha scritto opere che sono da annoverare tra le più importanti e potenti della teoria giuridica e politica del XX secolo”. E ciò che rende la sua opera utilizzabile “in modo perverso” per legittimare l’aggressività nazista è ciò che la fa spesso interessante e fertile “Non ci sono due Carl Schmitt, il buono e il cattivo Schmitt, ma c’è uno spirito brillante che si è sforzato, con la stessa agilità intellettuale, di rilevare le contraddizioni del pensiero liberal-democratico e di giustificare la politica di Hitler”. E soprattutto la fecondità e l’attualità di molte intuizioni di Schmitt, spesso in grado di spiegarne cause e dinamiche.

Tra questi ne ricordiamo tre.

La prima è la situazione del mondo dopo il crollo del comunismo.

Scrive Kérvegan “Tra il 1991 e il 2001 si è voluto – e fino a un certo punto si è potuto – credere che l’umanità vivesse finalmente in un mondo comune, unificato dalle medesime aspirazioni e scelte fondamentali. L’autore di La fine della storia e l’ultimo uomo, Francis Fukuyama è stato il corifeo di questa convinzione …. scomparsi i concorrenti (fascismo, comunismo), non c’è più che un solo paradigma di vita buona: quello offerto dalla democrazia occidentale (o più esattamente nordamericana)” ma gli attentati dell’11 settembre hanno posto fine a queste speranze passeggere e ci hanno messi dinanzi al fatto che la morte di un nemico non comporta la scomparsa dell’ostilità; e dobbiamo ricordarcene ancor più dopo l’eliminazione di Bin Laden”. Schmitt già negli anni ’30 notava che con il concetto di guerra giusta, e la moralizzazione del nemico, si andava di pari passo verso la tendenza contemporanea alla “moralizzazione delle questioni giuridiche (e) alla destabilizzazione delle relazioni internazionali. Il deperimento dello Stato come justus hostis, titolare esclusivo dello Jus belli e del pari del principio internazionalistico par in parem non habet jurisdictionem, sono ora tutti nella concezione globalista-mercatista (e imperialista) della universalità dei diritti umani, della criminalizzazione di governi recalcitranti e relative operazioni di “polizia internazionale”. Agli albori di questa evoluzione Schmitt contrapponeva il concetto di grossraum, di grandi aree geopolitiche in cui l’egemonia di una potenza manteneva – nello spazio planetario – il pluralismo anche se non nella forma dello jus publicum europaeum. Che questa sia poi la configurazione che sta assumendo il pianeta è evidente: l’idea di un universalismo incentrato sull’egemonia USA è venuta meno; non foss’altro (basta e avanza) perché Cina e Russia non sono d’accordo, ma anche l’India e non pochi altri Stati.

Il secondo è la brillante analisi di Schmitt sulla successione, nello spirito europeo, di zone centrali “zentragebiet” di riferimento spirituale, che comporta corrispondenti discriminanti dell’amico-nemico.

Anche qui il diffondersi nell’area euroamericana una nuova scriminante del politico, segnata dalla crescita di leader e movimenti populisti anti-globalisti, dopo il venir meno della vecchia contrapposizione borghesia/proletariato, conferma la tesi di Schmitt, sulla neutralizzazione delle vecchie scriminanti e la (ri)-politicizzazione con le nuove. Neutralizzata la scriminante borghesia/proletariato, è succeduta la nuova identità/globalizzazione.

Il terzo punto è il rapporto tra politico e diritto. La tendenza a neutralizzare il diritto, basata sulla separazione tra momento fondativo (sicuramente politico) che viene dai normativisti occultato nella successiva situazione di normalità dell’ordine costituito. Così il normativismo “concepisce la Costituzione come un ordine in sé chiuso, avendo la pretesa di ignorare quanto essa dipenda non dal diritto ma dalla politica”. Di conseguenza l’elisione positivistica dell’atto costituente “è insostenibile sotto ogni punto di vista: la Costituzione non è «nata da se stessa», contrariamente a quanto le finzioni normativistiche fanno credere”. Un normativista crede “in modo ingenuo che una decisione maggioritaria del Parlamento basti a trasformare l’Inghilterra in una Repubblica dei Soviet, il decisionista ritiene che solo un atto politico del potere costituente … può abrogare o modificare le decisioni politiche fondamentali che formano la sostanza della Costituzione. Onde “nessun atto che emani da un potere costituito (da un organo costituzionale) potrebbe modificarla, a meno che non si verifichi una rivoluzione che implichi la distruzione dell’ordine costituzionale esistente”. La connessione stretta tra politico e diritto impedisce o almeno ridimensiona gli idola diffusisi nel secolo scorso, che proprio sulla elisione/sottovalutazione del politico si fondano: l’esaltazione del ruolo dei Tribunali internazionali con competenze di carattere penale e civile; la “sacralizzazione” dell’articolato costituzionale, che dall’elisione del potere costituente guadagna in staticità (giustamente Hauriou criticava Kelsen perché la di esso concezione  del diritto era essenzialmente statica); la crescita dell’importanza delle Corti Costituzionali divenute  – attraverso  meccanismi interpretativi ed anche per le antinomie normative – le uniche competenti a “aggiornare” la Costituzione.

Tali esempi, tra altri, dimostrano le fecondità del pensiero di Schmitt per interpretare il presente, che Kervégan sottolinea pur con l’avvertenza del “cattivo uso” che se ne può fare, soprattutto da parte di un potere totale. Per chi, come oggi, vive la fase estrema di un potere di classi dirigenti decadenti non può far altro che adattare a Schmitt l’omaggio che questi faceva a Hobbes nel concludere il saggio sul Leviathan “non jam frustra doces, Carl Schmitt”.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, di Pierluigi Fagan

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO. Esistono diverse definizioni e letture del “sistema totalitario”, un termine -pare- inventato nel 1923 dall’italiano G. Amendola. Quasi tutte però, si riferiscono a sistemi socio-politici del Novecento, come se il “totalitarismo” fosse una invenzione recente. Amendola, ne dava questa definizione: “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato –del sistema totalitario- nel campo della vita politica ed amministrativa”.

Lasciando il campo della sintetica ovvero della forma con contenuto e retrocedendo a quello dell’analitica, ovvero della forma pura, il totalitarismo è un irrigidimento del potere politico e sociale (economico e culturale). Tale irrigidimento è evidentemente chiamato da minacce di disordine a cui si risponde con più ordine. Quando dosi incrementali di ordine non riescono a mettere ordine, la forma ordinante diventa sempre più rigida ed imperativa. Questa è l’origine del totalitarismo, origine che nulla a che fare in esclusiva col Novecento e che si ripete in vari modi e forme sin da quando sono nate le società complesse, cinquemila anni fa. Naturalmente poi la forma pura, avrà diverse applicazioni storiche in cui variano sia le società, sia i loro contesti, ma ha scarsissima utilità se non negli studi storici del Novecento dare sproporzionata attenzione a questa declinazione, dimenticandosi che essa è appunto una declinazione di un tipo ideale che ha storicità millenaria.
Ma quali sono le fonti del disordine a cui il totalitarismo reagisce?

Primo, il disordine può provenire da un ben individuato esterno di una data società. Un contesto geo-storico, presenta attori in competizione le cui azioni premono contro l’ordine di una certa specifica società o civiltà, nella quale si formano risposte ordinative sempre più rigide com’è in ogni strategia di sopravvivenza biologica.

Ma, secondo, il disordine può provenire da un esterno non ben individuato e precisato. Si tratta in questo caso di una sorta di incipiente dis-adattamento. Le società umane sono veicoli adattivi, strategia socio-biologica di lunghissima data che ha trovato utile unire individui in gruppi perché “l’unione fa la forza”. La “forza” di tale unione, ha scopi adattativi, ci si adatta meglio e si resiste meglio alla selezione naturale (quindi ci sono ragioni di “difesa” e di “offesa” nella relazione gruppo-mondo), laddove gli individui si uniscono in “individui di ordine superiore” quali i gruppi. I gruppi o società animali e quindi umane, hanno finalità adattive. Quando questo adattamento è non problematico, le forme interne ai gruppi di rilassano e diversificano in varie possibilità, quando questo adattamento è problematico, le forme si irrigidiscono unificandosi. Lì, compare la coazione totalitaria.

Terzo, specificatamente alle società tra umani, nei cinquemila anni di società complesse, l’unica forma di ordine sociale, estesa nello spazio e nel tempo, è stata quella per cui Pochi comandano su Molti. Questi Pochi potranno essere anche un bel po’ quando l’adattamento è facile e positivo, mentre tenderanno ad Uno quando l’adattamento è più problematico. Qui allora, la nozione di “ordine” prende un duplice significato. Non si tratta solo di una astratto “ordine” nel novero di quelli possibili relativo al corpo sociale, si tratta più spesso di quella precisa ed unica forma di “ordine” che determina il potere di una precisa élite. A dire che il totalitarismo può anche essere una reazione di una élite che a fronte di una non decisiva pressione di forze esterne disordinanti o a fronte di semplici accenni di dis-adattamento o non più totalmente positivo adattamento, reagiscono irrigidendo le forme del proprio potere sull’intero sistema che vogliono dominare.

Ci sono dunque due tipi di pressioni esterne, quelle portate da forze concorrenti e quelle di contesto a cui ci si deve adattare ed una interna che può esser la reazione alla pressione esterna in una o entrambe le forze pressanti, ma anche la semplice reazione di una élite al rischio venga posto in dubbio la legittimità della sua interpretazione del potere sociale ovvero del suo “diritto di poter dare l’ordine”.

Nell’Occidente contemporaneo, a partire dalla società guida del sistema ovvero gli Stati Uniti d’America, si contano tutte e tre queste dinamiche che precedono irrigidimenti totalitari.

Ci sono pressioni portate da società concorrenti, quella cinese in sé ma anche a nome di una sorta di possibile fronte dei secondi livelli geopolitici che vorrebbero aprire il tavolo da gioco a dinamiche multipolari per giocarsela con, per loro, maggior condizioni di possibilità (unione spalleggiata dalla Russia con forza ma anche dall’India sebbene con più ambiguità che è poi strategia di bilanciamento). Si tenga conto che il peso percentuale degli occidentali sul totale mondo, negli ultimi centoventi anni di forte inflazione demografica, è sceso da più del 30% a meno della metà. Anche il loro potere qualitativo si sta -tendenzialmente- livellando.

Ci sono poi anche diversi segnali di dis-adattamento al contesto a partire dalle questioni ambientali, per proseguire con quelle demografiche, quelle economiche e finanziarie (ad esempio ruolo del dollaro ma non solo), quelle militari (relativa impotenza non di distruzione bellica ma di successivo potere amministrativo del “conquistato”). Financo quelle culturali che attengono ai sistemi di pensiero che riflettono forme concrete della vita associata, che ereditiamo da tempi del tutto diversi e verso i quali si mostra una pronunciata difficoltà alla revisione ma forse necessaria, sostituzione integrale.

Quanto all’ordine sociale interno alle varie società, ci sono evidenti segnali di fallimento ordinativo delle élite che da cinquanta anni, sembrano per alcuni non aver capito, per altri aver invece capito benissimo, a che tipo di molteplice dis-adattamento andava incontro la forma occidentale di vita associata, reagendo con un lento ma costante ed inizialmente sottile accentramento di potere nelle loro sempre più ristrette mani. Qui, quello che alcuni leggono come “recente”, altri leggono come relativa “lunga durata”, io tra questi.

La dinamica di fondo del potere occidentale, tanto quello delle società occidentali nei loro rapporti di gerarchia di sistema (ordine interno alla civilizzazione occidentale), che quello del rapporto Occidente vs Resto del mondo (West vs the Rest), che quello ordinativo di una ben precisa élite che corrisponde ad un ben precisa forma sociale internamente ad ogni singola declinazione di società occidentale, disegna scenari tipici dell’approssimarsi di una fenomenologia totalitaria.

Dannarsi dopo non ha alcuna utilità, pensarci prima sarebbe meglio.

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INTERVISTA A THOMAS HOBBES, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A THOMAS HOBBES

La riduzione del numero di parlamentari in uno Stato che non ha tendenza ad autoridursi, ha suscitato un dibattito caratterizzato da svariate posizioni, ad onta del voto parlamentare pressochè unanime. Abbiamo provato a chiedere un’opinione a Thomas Hobbes, che della rappresentanza politica è stato uno dei maggiori (e primi) teorici.

Che ne pensa della riduzione del numero dei parlamentari?

Come ho sempre sostenuto le forme di Stato si distinguono se il sovrano è uno, pochi o tutti, cioè col numero di coloro che prendono le decisioni più importanti. Penso che la migliore sia la monarchia, ma comunque che la vostra oligarchia sia esercitata da qualche centinaio di rappresentanti in meno, fa poca differenza.

E perché?

La scelta tra le forme di governo consiste più che nella differenza di potere, in quella di convenienza o attitudine a produrre la pace e la sicurezza del popolo, pel quale fine esse sono state istituite. Che siano più o meno coloro che comandano, ai sudditi interessano più i limiti entro cui devono ubbidire e quello che i governanti possono pretendere che il numero di questi.

Ma anche il numero lei considerava un tempo rilevante

Si, e sempre a favore della monarchia. In primo luogo perché ogni governante tende a favorire i seguaci. Ma mentre i favoriti di un monarca sono pochi, e non hanno altri da avvantaggiare che la propria parentela, i favoriti di un’assemblea sono molti, e quindi la parentela e l’aiutantato molto più numerosi che quella di un monarca. Perciò se riducete il numero dei rappresentanti dovreste risparmiare qualcosa, comunque molto di più degli stipendi, almeno se non ne aumentano gli appetiti. Ma finché chi comanda spende e chi obbedisce paga il problema sussisterà.

Cosa considera più importante del numero dei rappresentanti?

Quasi tutto. Ma, in primo luogo che siano prese delle decisioni congrue, durevoli e prevedibili. Un’assemblea è più incostante e quindi imprevedibile e, di conseguenza, spesso ne prende di incongrue: nelle assemblee, sorge un’incostanza dovuta al numero, poiché l’assenza di pochi, i quali, presa una volta una risoluzione, sarebbero fermi a mantenerla – il che può avvenire per sicurezza, negligenza o impedimenti privati – oppure la presenza diligente di pochi di opinione contraria distrugge oggi, quello che ieri fu concluso.

Proprio un paio di mesi fa, ne avete fornito altro esempio, così confermando quanto scrivevo, col cambiare governo e politica.

E cosa conta più della quantità dei rappresentanti?

Uno dei difetti delle assemblee è che spesso sanno poco o nulla degli affari, e in particolare di quelli dello Stato. Cercate di migliorare la qualità dei rappresentanti: è meglio che ridurne la quantità. Vero è che quando siete stati governati dai “tecnici”, sedicenti esperti, questi hanno fatto peggio dei governanti meno titolati. Ma perché quelli erano (forse) esperti di astronomia, letteratura, arte, ma digiuni di politica e governo dello Stato.

Cosa pensa della ventilate nuove riforme costituzionali, di cui questa sarebbe la prima?

Da quel che sento, non hanno capito bene. Vogliono istituire il vincolo di mandato. Ma un rappresentante politico è tale perché rappresenta l’unità e la totalità del popolo, e non può essere vincolato da qualcuno, anche il suo capo-fazione, com’è nelle intenzioni dei riformatori; ma neppure dall’ultimo degli elettori.

E quanto al resto?

L’unica cosa chiara e interpretabile con categorie politiche è che desiderano evitare o rendere più difficili, le decisioni politiche. Non si tratta tanto e solo di impedire che decidano coloro che godono della fiducia della maggioranza dei cittadini, ma d’impedire qualsiasi deliberazione, sia contraria alle proprie idee ed interessi, che, in genere, avente un notevole rilievo ed effetto politico, Quando parlano di “freni e contrappesi” non bisogna pensare a Montesquieu ma al Sejm polacco, dove il liberum veto portò  alla distruzione dello Stato. Il cui ridimensionamento radicale è proprio l’obiettivo del potere globale.

In definitiva cosa può consigliare agli italiani?

Di tenere sempre davanti agli occhi quello che è l’essenza della politica e dell’obbligazione politica: la mutua relazione tra protezione ed obbedienza.

Ha il diritto all’obbedienza chi assicura protezione ; non lo ha chi non può o non vuole darla, anche se per i motivi più nobili. Come il Paradiso, (un tempo) o oggi molto più terreni, che invocano in continuazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

WRESTLING, di Pierluigi Fagan

WRESTLING. “Forma di spettacolo nel quale si combina l’esibizione atletica, con quella teatrale, la cui origine risiede nelle esibizioni di compagnie itineranti in fiere di paese” così Wikipedia. Il wrestling venne creato in quanto cosa a sé da un americano dell’Iowa. Esso è quindi una forma tipicamente americana in cui convergono: 1) “spettacolo” che fa pubblico ed audience quindi occasione commerciale di profitto; 2) “violenza” quindi sfogo dell’istinto alla competizione; 3) “simulazione” quindi trasferimento della violenza ad un piano in cui la forma (violenta) si dissocia dalla sostanza (effetti del subire vera violenza); 4) “convenzione” in quanto i wrestler condividono una codice teatrale conosciuto solo a loro che li fa attori di una compagnia di giro che fa spettacolo rivolto al pubblico in cui si simula la violenza depurandola dagli effetti materiali, spettacolo che per loro significa lavoro, soldi, prestigio e fan.

L’americanizzazione della cultura occidentale ha ormai decenni di penetrazione e sebbene da alcuni criticata con le affilate armi dell’intelligenza vigile, viene il dubbio abbia colonizzato anche la stessa intelligenza vigile. Un po’ come in quei film dei morti viventi in cui il protagonista che è ancora vivo-naturale e col quale ci identifichiamo, scappa di qui e di lì finendo a volte in trappole di relazioni con personaggi che “sembrano vivi” ma poi si rivelano anche loro ormai passati dall’altra parte.

Il trasferimento della politica a wrestling è la cifra più pericolosa dell’americanizzazione culturale che subiamo da decenni. Nessuno ormai pensa alla politica avendo come obiettivo i componenti della polis (città-Stato) cioè i polites (cittadini), chi “fa” politica pensa di default a come diventare rappresentante dei cittadini. Tutto il discorso pubblico è orientato ai politici che critichiamo o appoggiamo, ai loro partiti, chi non trova soddisfazione nell’”offerta politica”, ne crea una nuova, cioè fonda un partito. Ognuno è posseduto dal richiamo del dover dare “voce al popolo”, il suo popolo, la sua porzione di popolo, la sua interpretazione personale della parte di un popolo, da cui fondare “partiti”, cioè istituzionalizzazione di forme particolari di rappresentanza. Il popolo è “dato”, un dato immodificabile, rimane solo da dargli “voce”. Ma il vero richiamo del wrestler politico è esser “eletto”, diventare un eletto, il partito è solo il mezzo.

E’ un po’ come nell’economia di mercato, si fa una indagine di mercato, si scopre che c’è un buco nella domanda ovvero gente che domanda confusamente cose del tipo “Ambrogio … avverto un certo languorino … la mia non è proprio fame, è più voglia di qualcosa … di buono” con misto di speranze contraddittorie tipo “goloso ma che non fa ingrassare”. Si fa allora un Rocher con carta stagnola luccicante che promette di tappare il buco. Per questa soluzione tappabuchi, in politica, non si chiedono soldi ma voti. I voti poi fanno eleggere il rappresentante del popolo che va a fare il wrestler in nome e per conto del suo pubblico-cliente.

La pubblicità dei Rocher politici spazia dalla promessa di più sicurezza, più lavoro, più ricchezza, più modernità, più sovranità, più libertà e molto altro, oppure la promessa di contro, contro il liberismo, contro l‘unione europea, contro i migranti, contro i pedofili, contro i populisti o altro. Si noti l’asimmetria logica: “più” nel positivo, “contro” nel negativo, non “meno” che non scalda gli animi, “contro!”. Se poi ‘oggetto dopo il contro è macroscopico come “il capitalismo” meglio ancora, in fondo mica si tratta di fare i conti con la realtà, è una sorta di sondaggio d’opinione quello che si fa alle elezioni.

I temi su cui si offrono i più o i contro , sono quelli del discorso pubblico, una agenda di solito istituita dal potere in atto, il quale decide e nomina non solo i “suoi” temi ma anche quelli avversari. Chi sceglie il fronte contro il potere prende il termine negativo imposto dal potere e lo rivernicia di positivo, fatica immane e qualche volta anche energia mal riposta poiché nominare è creare enti e se l’ente è creato in un certo modo lo spazio politico che tenta di ribaltarne il giudizio (da negativo a positivo) è pre-determinato proprio da coloro contro i quali si vorrebbe fare lotta politica. Grande parte di quei più o contro sono irrealistici, forme dicotomiche del pensiero semplificato che sussume cose complicate in un termine-concetto in cui le porzioni di popolo si identificano come le contrade fanno col loro totem odiando il totem avversario.

Si tifa il proprio wrestler che fa finta di prender a cazzotti il wrestler del proprio odiato vicino invece che prender direttamente a cazzotti il proprio vicino. L’importante è che i “cittadini” non facciano direttamente politica tra loro, facciano gli spettatori, senza spettatori paganti viene giù tutto. Vale per i giovani filosofi non meno che per gli imbroglioni seriali.

L’estrema ambiguità del tutto crea questo spettacolo che nulla a che fare con la politica, dove il mercato è fatto di “valori”, i totem sono tanto squillanti quanto irrealistici, i wrestler gareggiano urlando ma mai facendosi davvero male, sperando di finire in qualche assemblea pubblica in forma stabile che gli procurerà fama, successo, soldi e porzioni di potere. Quando poi falliranno, e falliscono tutti -sistematicamente poiché i presupposti tra promessa e realtà sono in genere infondati- avanti una nuova linea di aspiranti “diamo voce al popolo!”.

Il post non conclude, era solo per sfogare amarezza personale. Non ne posso più di veder fondare partiti oltretutto soprastanti un dibattito politico pubblico che sta raggiungendo vette di confusione, indeterminazione, falsa coscienza, irrealismo, presa per il culo sistematica, ormai su una tangente che punta all’infinto ed oltre. E non vale solo per i wrestler, vale anche per coloro che fanno da pubblico perché sono loro, siamo noi a tener in piedi lo spettacolo.

tratto da facebook

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE, di Emilio Ricciardi

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE.

A seguito del suo intervento del 6 settembre 2019 (d’ora innanzi “Intervento”) intitolato “Colpo di extrastato”, in cui Massimo Morigi attribuisce a questo sintagma dignità di categoria teorica atta a cogliere la presunta epocale novità rappresentata dal voto elettronico espresso mediante la Piattaforma Rousseau dagli iscritti (a ciò legittimati) del Movimento 5 Stelle in relazione alla recente formazione dell’attuale governo, lo stesso autore è tornato sulla questione una prima volta il 9 settembre 2019 per approntare una replica (d’ora in poi “Replica”) ad un mio commento (in appresso “Commento”) al suo Intervento e, ancora, il 14 settembre 2019, per operare ulteriori annotazioni, che tuttavia non aggiungono alcunché di sostanziale alla completa esposizione della propria tesi, difatti già compiuta nei suoi primi due testi.

Quindi, seppure non vada trascurato di soffermarsi sui passaggi pertinenti dell’ultimo dei tre testi citati, è prevalentemente sui primi due, ma con attenzione ancor maggiore sulla Replica (di cui ringrazio Morigi per il tempo e la cura ad essa dedicati), che conviene incentrare le presenti mie considerazioni. Anticipo comunque sin d’ora che la Replica (ed a maggior ragione anche l’ultimo scritto) non è stata in grado di convincermi sull’asserita utilità e consistenza concettuale della categoria di “colpo di extrastato”. E ciò per i seguenti motivi.

0. Occorre prendere le mosse dalla constatazione secondo cui Morigi finisce per darmi ragione quando nella Replica afferma che “Il vero punto è […] non tanto la più o meno esibita trasparenza dei partiti” giacché, aggiunge, “se i partiti fossero trasparenti svanirebbero come la neve al sole dalla notte al mattino”.

Difatti, il nucleo fondamentale della critica all’Intervento espressa nel mio Commento era così compendiato: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore. Anche perché, se si continua a rimarcare la scarsa trasparenza di questa operazione, dolendosene, si corre il rischio di accreditare implicitamente l’idea secondo cui finora i processi decisionali interni ai partiti politici (che, è bene ricordarlo, sono semplici associazioni private non riconosciute) si siano svolti all’insegna delle più luminose democrazia ed, appunto, trasparenza. Il che sarebbe, com’è ovvio, balla colossale oltreché offensiva dell’intelligenza quanto meno del lettore abituale di queste pagine”.

Sulla mancanza di “trasparenza” quale fattore ampiamente noto e preesistente nelle teoria e prassi politiche (italiane e straniere, passate ed attuali), dunque, nulla quaestio[1].

  1. La dimensione fortemente problematica della concezione di Morigi, piuttosto, comincia a far esplicitamente capolino nella Replica allorché in questa si soggiunge: “Il vero punto è, come rileva anche Ricciardi ma come stranamente Ricciardi sembra non attribuirmi una piena consapevolezza in merito, […] che questi partiti, un tempo tanto importanti e la cui esistenza veniva espressamente citata anche in Costituzione, oggi non sono più lo snodo principale del conflitto strategico che si svolge all’interno delle élite politiche nazionali impegnate nella lotta per la conquista del potere”.

Senonché, basta leggere il mio Commento per avvedersi che nemmeno mi pongo il quesito in merito alla piena consapevolezza o meno di Morigi circa la pretesa novità rappresentata dalla sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti politici.

E non me lo pongo perché già Morigi nel suo Intervento aveva in buona sostanza negato che questa fosse una novità, sostenendo ciò che ha poi confermato nella Replica (come segnalato sopra al paragrafo 0), ossia che “il punto importante per dare corpo alla categoria ‘colpo di extrastato’ non è tanto il fatto che la piattaforma Rousseau è tutto tranne che trasparente (in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata, quando questa etero direzione non era addirittura teorizzata, vedi centralismo democratico del vecchio PCI; e le lobby che da sempre manovrano le decisioni dei parlamenti delle moderne democrazie sono forse il fenomeno più studiato dall’attuale scienza politica, fino ad arrivare alla <postdemocrazia> teorizzata da Colin Crouch)”.

È indubbio, difatti, che sostenere che “in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata” e dunque assoggettata ad una “etero direzione”, equivalga a sostenere che i partiti non sono mai stati, non solo oggi ma anche in passato, “lo snodo principale del conflitto strategico”.

Di conseguenza, perché nel mio Commento avrei dovuto anche solo evocare o lambire la questione del se Morigi fosse pienamente consapevole o meno della sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti, quando egli stesso nel suo Intervento ha mostrato di ritenere che pure nel passato i partiti erano etero diretti e che, quindi, nulla, sul punto, è davvero sopraggiunto?[2]

  1. Semmai, rilevo in Morigi una contraddizione (non la prima, per vero, e comunque generatrice di un’impasse che egli ha tentato di eludere in un modo che esaminerò nel successivo intero paragrafo 4) tra, da un lato, il riconoscimento della etero direzione e nulla trasparenza caratterizzanti da sempre i partiti politici e, dall’altro lato, l’asserzione circa la novità costituita dalla totale intrinseca mancanza di trasparenza nel Movimento 5 Stelle.

Peraltro, mentre tale asserzione è contenuta, per lo meno esplicitamente (spiegherò i motivi di questa puntualizzazione nel successivo sottoparagrafo 3.1.), nella sola Replica, quel riconoscimento è stato operato sin da subito nell’Intervento (e di poi ribadito nella Replica).

Il fulcro dell’Intervento, in effetti, voleva essere esplicitamente altro rispetto all’opinione inerente la mancanza di trasparenza della piattaforma Rousseau: “il punto fondamentale è un altro, ed è cioè che tutti, dalla pubblica opinione, alle massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo hanno aspettato senza fiatare una esplicita e chiara decisione di un corpo, ma un corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”.

Quest’ultima proposizione è poi ripresa, onde ribadirne la correttezza, nel testo del 14 settembre 2019, laddove si ripete essere la Piattaforma Rousseau un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”.

Senonché, una volta riconosciute, come si è visto aver fatto Morigi, la mancanza di trasparenza ed anzi la totale etero direzione caratterizzanti l’azione (anche) dei vecchi partiti politici, deriva necessariamente che anche tale azione si ponga contro ed al di fuori della Costituzione, atteso che l’art. 49 di questa esige il “metodo democratico” di essa azione (laddove mancanza di trasparenza ed etero direzione risultano invece evidentemente incompatibili con detto metodo).

E deriva altresì’ necessariamente che è contraddittorio affermare che un’azione politica di tal fatta si sia sviluppata “sotto il mantello costituzionale”, perché una prassi politica priva di trasparenza ed etero diretta e quindi lesiva del “metodo democratico” dettato dalla Costituzione non può, per definizione, trovare legittimazione (ossia “copertura”, quale ”mantello giuridico”) in questa stessa Costituzione.

Pertanto, se si sostiene che la Piattaforma Rousseau (recte: l’insieme degli iscritti al Movimento 5 Stelle legittimati al voto elettronico mediante utilizzo di questo dispositivo telematico) è “corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”, ed insomma “del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”, allora si deve pure logicamente concludere che anche i vecchi partiti politici partecipano delle medesime caratteristiche che dunque non potrebbero non definirsi eversive.

Ciononostante, in costanza dell’esistenza dei vecchi partiti sia la “pubblica opinione, [sia] le massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo” aspettavano normalmente “senza fiatare una esplicita e chiara decisione” di organi decisionali di partiti che pure, per quanto rilevato, agivano in sostanziale spregio di quel “metodo democratico” prescritto dall’art. 49 della Costituzione.

Di conseguenza, la disamina svolta sino a questo punto delle considerazioni di Morigi sembra consentire di affermare che con la Piattaforma Rousseau non si è attuato alcun “colpo di extrastato”, in quanto asserita nuova forma della prassi politica rispetto a quella invalsa nella precedente fase storica.

Occorre ora, giunti a questo tratto del discorso che si sta conducendo, soffermarsi sull’ultimo argomento addotto da Morigi a favore della propria tesi.

  1. Prima devo tuttavia rendere una spiegazione, che mi consente anche di affrontare alcune affermazioni svolte da Morigi nel già menzionato suo testo del 14 settembre 2019.

In particolare, più sopra ho accennato alla circostanza per cui soltanto nella Replica viene sottolineata e stigmatizzata espressamente la mancanza di trasparenza del processo decisionale elettronico del Movimento 5 Stelle. Mi riferisco, precisamente, al seguente passaggio: “è la prima volta che si riconosce […] come fondamentale e fondante per la decisione politica […] una sorta di accrocchio tecnologico informatico dove la <trasparenza> non è che venga conculcata come nei vecchi partiti classici (ma ricordiamoci l’adagio <l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù>) ma è un concetto totalmente alieno proprio per il processo tecnologico e verificabile solo da esperti informatici nell’emissione dei suoi responsi”.

Ebbene, a parte il fatto che, sul piano degli effetti, sfugge la reale e sostanziale differenza tra conculcamento della trasparenza nei vecchi partiti politici ed eliminazione di essa già sul piano concettuale a causa dell’applicazione delle tecnologie informatiche al procedimento elettorale interno al partito de quo.

Ma soprattutto, ciò che preme rimarcare è che anche il procedimento elettorale incentrato sulla segretezza del voto cartolare risulta intrinsecamente privo di trasparenza, se per questa si intenda, come devesi e pur semplificando, l’insieme degli accorgimenti che garantiscono la certezza, per i votanti, dell’autenticità del voto espresso e del suo conteggio fino alla pubblicazione dei risultati. Difatti, è difficile negare che, se è vero che l’elettore che esprime un voto segreto conosce il dato (il suo voto) che così è immesso nel meccanismo ed il dato (aggregato) che ne è emesso, ossia il risultato elettorale, non ha invece modo di verificare l’iter che ha compiuto quel dato dal momento della sua immissione fino alla sua confluenza nel dato complessivo, o quantomeno non può avere la certezza di quale sia stato tale iter. Proprio perché nessuno potrà mai dargli la garanzia assoluta, nemmeno assistendo allo scrutinio, che nella fase di quest’ultimo il documento su cui ha apposto il suo voto sia davvero oggetto di conteggio, e di un conteggio corretto.

A ciò si aggiunga la difficile se non impossibile verificabilità della correttezza delle operazioni di conteggio del voto cartolare, e ciò a causa dell’effetto combinato dell’elevato numero di votanti (come sovente accade nelle elezioni politiche nazionali della stragrande maggioranza dei paesi a democrazia rappresentativa) e dell’esistenza di particolari regole costituzionali che devolvono la giurisdizione esclusiva inerente la contestazioni elettorali ai medesimi organi elettivi, con la conseguente assai ridotta capacità operativa di procedere ad un controllo di decine di milioni di schede elettorali in tempi fisiologici e ragionevoli, ossia tali da scongiurare un’eccessivamente prolungata incertezza riguardo la reale legittimazione popolare degli eletti[3].

Insomma, se trasparenza non c’è nel voto elettronico, con la connessa difficoltosa verificabilità della genuinità della relativa procedura, lo stesso deve dirsi per il voto cartaceo.

3.1.   Quest’ultima sottolineatura ben introduce la disamina della seguente affermazione contenuta nel testo di Morigi del 14 settembre 2019, in quanto anch’essa incentrata, come mostrerò più oltre, e sebbene Morigi non lo dichiari in modo esplicito, sul concetto di trasparenza (e con ciò giustifico l’individuazione, dianzi operata, di un legame fra essa affermazione e la critica, già analizzata, alla mancanza di trasparenza della Piattaforma Rousseau svolta nella Replica): una “procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario)”.

Qui Morigi non motiva espressamente l’implicito favore che sembra accordare al voto cartaceo rispetto a quello elettronico. Ed insomma non si perita di precisare in che modo e perché la procedura elettorale elettronica determinerebbe addirittura uno stravolgimento radicale della costituzione materiale dello Stato rispetto a quella vigente in costanza dell’omologa cartacea. Nondimeno, sembra di poter capire che, secondo Morigi, la presenza di schede elettorali cartacee, pur non eliminando il rischio di brogli elettorali, consentirebbe comunque di verificarne la perpetrazione, ciò che, invece, il voto elettronico non permetterebbe di fare. In altri e più concisi termini: per Morigi sarebbe la trasparenza, sub specie verificabilità di eventuali brogli elettorali, il tratto che differenzia il voto cartaceo da quello elettronico (dunque non trasparente, come quello della Piattaforma Rousseau, secondo quanto asserito, esplicitamente, nella Replica).

Tuttavia, così in thesi argomentando, Morigi trascura che, come illustrato più sopra, anche la procedura elettorale cartacea con voto segreto, soprattutto nella fase dello scrutinio (ma anche in quella della trasmissione centralizzata) dei voti, e quando si attua in paesi con decine di milioni di votanti, non può mai né garantire al votante certezza circa la correttezza delle operazioni né rendere possibile un controllo completo dell’intera procedura medesima, tanto meno in tempi tali da essere compatibili con l’esigenza dell’opinione pubblica di avere risposte celeri in merito all’esistenza o meno di una legittimazione democratica degli eletti.

Certo, nel voto elettronico la verificabilità dei brogli è più difficoltosa di quanto lo sia con il voto cartaceo, ma si tratta di una differenza di ordine quantitativo, ossia attinente al maggior rischio di brogli (perché minore è la possibilità di verificarli) che il primo esibisce, non già di una differenza di ordine qualitativo, idonea cioè, come invece sostiene Morigi, ad incidere addirittura, sfigurandola irreversibilmente, sulla “costituzione materiale dello Stato”.

3.2.   Eppure anche in altro passaggio del suo testo del 14 settembre 2019, Morigi esprime il convincimento che “è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet”, e lo fa in base all’assunto, introdotto immediatamente prima, “che nelle vicende sociali e politiche i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente”.

Senonché, il nesso causale che con tale assunto viene delineato su un piano generale risulta da una petizione di principio, enunciato e non dimostrato, ed allo stesso modo anche il nesso causale specifico, quello in virtù del quale la scoperta ed uso di internet non può non avere determinato un cambiamento della “costituzione materiale e forma di Stato”, risulta meccanico e proclamato in modo apodittico. Al punto da giungersi financo ad una concezione feticistica dell’innovazione tecnologica, quale potenza che plasma e trasforma la struttura e l’essenza dei rapporti poltico e sociali, a loro volta puri elementi passivi, inerti e direi neutri, che subiscono l’azione demonica ed incandescente della prima.

Per contro, non è affatto scontato che un elemento nuovo, nato in un ambito diverso dalle dimensioni politica e sociale in senso stretto, una volta trasmigrato in quest’ultime in virtù dell’uso che di esso elemento è fatto, debba divenire il fattore che trasforma la conformazione essenziale delle predette dimensioni qual era stata sino a quel momento. Insomma, può ammettersi perfettamente l’ipotesi che l’elemento sia immesso nel sistema esterno (a quello della sua genesi) e da esso assorbito senza subire, il sistema recettore, alcuna trasformazione o comunque modificazione rilevante.

  1. Terminata così la digressione resasi però necessaria per discutere le due soprariferite affermazioni contenute nel testo di Morigi del 14 settembre 2019. è possibile finalmente affrontare, come già avevo anticipato, l’ultimo argomento, stavolta svolto nella Replica del 9 settembre 2019.

In particolare, in quest’ultima viene introdotto ex novo un tema che non era stato oggetto del benché minimo accenno, nemmeno implicito, nell’Intervento: l’importanza dell’illusione.

Così al riguardo si afferma: “Ma il vero snodo, lo ripeto, della categoria di <colpo di extrastato>, non è tanto la trasparenza o l’opacità dei processi decisionali è che nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata”.

Ebbene, qui si ha l’impressione che Morigi sia stato costretto a ricorrere all’ulteriore argomento basato sull’assunto circa la passata esistenza dell’illusione della trasparenza dell’azione dei partiti politici, al fine di aggirare la difficoltà logica di continuare a sostenere il carattere di novità epocale della Piattaforma Rousseau in quanto enigmatica ed impersonale entità telematica non controllabile se non “da esperti informatici[4], ed allo stesso tempo nondimeno riconoscere che anche nei vecchi partiti politici la trasparenza era completamente assente.

Nella Replica si sostiene, difatti, che non già la mancanza di trasparenza dei e nei partiti politici segna la novità della presente epoca del presunto “colpo di extrastato” rispetto all’epoca precedente, bensì la caduta dell’illusione della trasparenza, in passato invece esistente.

È necessario, quindi, indagare motivi e legittimità dell’asserzione che attribuisce decisiva rilevanza a questa illusione.

4.1.   Al riguardo, nella Replica si indicano due esempi per tentare di dimostrare l’importanza delle illusioni nutrite circa l’esistenza della trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici.

Il primo esempio attinge al rapporto tra la Chiesa cattolica e la Democrazia Cristiana, affermandosi che “la Chiesa esplicitamente non ha mai fatto trapelare una esplicita e pubblica decisione a favore di questo o quel governo ma si limitava, in ottemperanza del suo alto magistero religioso e morale, a vietare ai cattolici, pena l’inferno, di votare per quei partiti che erano a suo giudizio l’espressione politica del cancro dell’ateismo e dell’irreligiosità”.

Vero; ma in questo caso non vedo dove e come avrebbe agito l’illusione sull’esistenza della trasparenza nelle decisioni della Democrazia Cristiana, atteso che all’epoca per qualsiasi osservatore ed elettore minimamente attrezzati era chiaro e palese il penetrante condizionamento vero e reale esercitato costantemente dalla Chiesa cattolica sulla prima.

Il secondo esempio riguarda più nello specifico la trasparenza dei partiti ed anche su questo punto il ragionamento fa leva sull’importanza delle false rappresentazioni, o meglio la concreta modalità di come queste possono essere rappresentate. Nei vecchi partiti per arrivare ad un decisione e/o prevalere nello scontro politico venivano messe in atto le più ignobili manovre ma se queste manovre non avevano in concreto nulla di democratico e trasparente avevano un grande pregio. Queste manovre erano condotte da uomini in carne ed ossa e chi avesse voluto vedere un po’ più a fondo avendone la formazione e l’intelligenza riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”.

Ma è proprio il contenuto del testé riportato secondo esempio a dirci in maniera inequivocabile come anche in questo caso non siano all’opera “false rappresentazioni” in ordine alla trasparenza. Difatti, posto che era nelle manovre oscure interne ai partiti che si sostanziava la mancanza di democrazia e trasparenza; e posto che, nonostante il carattere nascosto e letteralmente osceno di tali manovre, si “riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”; allora ne consegue che era possibile vedere chiaramente la vera realtà delle lotta politica interna ai partiti, senza farsi irretire, appunto, da alcuna illusione.

Peraltro, l’affermazione secondo cui sarebbero state sufficienti volontà e capacità intellettuali per lacerare il velo dell’apparenza ed identificare addirittura gli oscuri “manovratori” delle decisioni dei partiti politici, mi pare pecchi di ottimismo se non di una sorta di onnipotenza del pensiero. Si considerino, difatti, a confutazione e comunque forte ridimensionamento della portata della soprarichiamata affermazione, tutti quegl’importanti e gravi accadimenti della nostra vita politica nazionale i quali, seppure ascritti (in tutto o in parte) alle decisioni manifeste dei partiti politici, non è stato possibile ricondurre ai responsabili ultimi “con tanto di nomi e cognomi”. Laddove, in quei pochi casi in cui ciò si è verificato, lo è stato comunque a distanza di decenni, ed il più delle volte a seguito dell’emersione di circostanze e documenti, avvenuta di rado casualmente, più spesso deliberatamente, in vista del perseguimento, in quest’ultima evenienza, di scopi ulteriori poiché funzionali a nuove strategie, naturalmente ignote alla generalità della popolazione nel momento del loro dipanarsi in atto.

In definitiva, i due esempi riportati nella Replica non mi paiono così calzanti e persuasivi.

4.2.   Però nel contesto dell’esposizione del primo esempio è operato un fugace accenno al ruolo delle illusioni in generale, il quale sembra poter fornire qualche indizio utile per capire la funzione che gioca questo elemento nell’impianto argomentativo di Morigi.

Precisamente, si afferma che “in politica, come nel resto di tutte le altre faccende della vita, le illusioni contano e quando queste cadono non si può far finta di nulla pensando che siccome si trattava di illusioni la loro scomparsa conta meno di nulla e non vale nemmeno la pena di segnalarle e di cercare di elaborare un pensiero non banale a proposito”.

Ora, affermare che “le illusioni contano”, in questo contesto discorsivo, sembra voler significare che le illusioni non sono nulla, e che producono effetti reali. Se questa mia interpretazione è corretta, allora deve dirsi che tali effetti saranno pure reali, ma i pensieri e le azioni inclusi nella cerchia di tali effetti saranno irrimediabilmente inficiati dall’esser derivati da una percezione errata (qual è appunto l’illusione) della realtà vera, e dunque, in definitiva, da erroneità e falsità.

Se poi si traslano queste considerazioni generali nell’ambito del discorso che si stava conducendo, ne viene che l’asserito diffuso convincimento, presente nella precedente epoca storico-politica, circa la trasparenza delle decisioni dei partiti politici era un’illusione e, in quanto tale, un falso convincimento.

Libero, quindi, Morigi, naturalmente, di elaborare “un pensiero non banale” sulla suddetta illusione (e sulla sua presunta caduta). Ma mi permetto di osservare che se il pensiero vuole conoscere la realtà e le determinazioni vere di una presunta nuova era politica e le sue differenze rispetto alla precedente (e non v’è dubbio che Morigi voglia applicarsi alla produzione di un pensiero di tal fatta), non può accontentarsi fermandosi alla considerazione delle false rappresentazioni che sulle corrispondenti epoche storiche si sono formate, assumendole quali dati di realtà di ultima istanza. E non può perché in questo modo non sarebbe in grado di nemmeno tentare di conseguire quello scopo prefissosi (ossia l’acquisizione della conoscenza delle vere determinazioni di una nuova epoca politica).

Di conseguenza, e per tornare specificamente al discorso centrale di questo scritto, può affermarsi ciò: posto che la totale mancanza di trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici e dunque la loro etero direzione sono dati caratterizzanti sia la precedente sia l’attuale fase storica, ne discende che l’utilizzo della piattaforma Rousseau non integra alcuna novità inerente i predetti processi, con il corollario per cui il ricorso alla nozione di “colpo di extrastato”, per qualificare tale utilizzo ed evidenziare così tale presunta novità, non pare rivestire utilità teorica. Anzi, ribadisco che, a mio avviso, il convogliamento delle energie intellettuali individuali e collettive nell’elaborazione di tale nozione può essere financo dannoso poiché rischia di distogliere l’attenzione dal tentativo di cogliere le vere configurazioni dei processi politici reali.

  1. Vergo, infine, due ordine di notazioni inerenti il seguente, in parte già riportato, passaggio: “nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata e non segnalando la caduta di quest’illusione non si riesce a vedere un fatto di primaria importanza: e cioè che si riconosce piena titolarità politica e decisionale a corpi del tutto inediti ed extracostituzionali”.

Il primo ordine di notazioni si risolve in un unico rilievo di natura logica. In particolare, se si assume essere intervenuta “la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali”, vuol dire che questi “tutti”, ossia i soggetti portatori di tale illusione, sono consapevoli della caduta di questa, del suo venir meno. Difatti, una volta svanita una determinata illusione, i soggetti di essa si avvedono di ciò che era stata, proprio perché, essa svanendo, non ne sono più irretiti e la possono riconoscere in quanto tale. Di conseguenza, non può porsi un problema di mancata evidenziazione da parte delle “pubblica opinione”, “pubblicistica politica” e “scienza politica” della caduta, del dileguarsi di questa illusione, proprio perché il suo svanire ha segnalato ciò che essa stessa era ai soggetti che ne risultavano avvolti.

Il secondo ordine di notazioni è di natura fattuale. Contrariamente a quanto si sostiene nella Replica, esponenti di quelle istanze e discipline dianzi menzionate, ossia la pubblica opinione nonché la pubblicistica e la scienza politiche, hanno, in occasione della nota recente consultazione telematica, levato dolenti e pensosi ammonimenti di fronte al presunto nuovo ed esiziale pericolo generato dall’asserita inaudita anomalia extracostituzionale della piattaforma Rousseau[5].

D’altronde, questi ammaestramenti vanno ad alimentare una serqua di allarmi rivolti ormai da tempo sullo stesso tema da molte voci della stampa[6]. Cosicché la Piattaforma Rousseau finisce per essere ormai largamente additata, segnalata e riconosciuta all’opinione pubblica come la scatola nera che inghiotte le velleità di democrazia diretta sbandierate dai suoi fautori. È dunque la mancanza di trasparenza che si rivela in modo trasparente. O, riprendendo il titolo di questo scritto, l’innocuo paravento che tenta senza esito di mascherare l’ampiamente consolidata realtà di forze che agiscono dietro le formazioni politiche operanti sulla scena.

Peraltro, gli argomenti adoperati dai menzionati critici della recente votazione elettronica in questione esibiscono tutti quale sfondo comune la salda fede nella democrazia rappresentativa, architrave della legalità costituzionale ed anzi eterna garanzia di trasparenza messa a repentaglio da quell’inedita procedura decisionale telematica.

Ecco, il tenore di tali argomenti, ma anche la biografia pubblica dei personaggi che se ne sono resi fautori, mi pare comprovino ampiamente la fondatezza di quanto da me paventato nel Commento riguardo al rischio (che investe anzitutto il piano culturale e della consapevolezza) generato dalla concentrazione dell’analisi politica sulla ritenuta novità rappresentata dal carattere malefico ed oscuramente extracostituzionale della piattaforma Rousseau: si finisce per accreditare l’idea che questo dispositivo abbia infranto il preesistente paradiso terrestre della trasparente democrazia rappresentativa incentrata armonicamente sui partiti politici in quanto operanti con “metodo democratico”.

Idea falsa e risibile, naturalmente[7].

Ma su ciò Morigi suppongo convenga senza riserve.

 

 

[1]   Semmai sollevo un rilievo, anche se non essenziale e quindi da collocarsi non nel testo ma appunto in questa nota, il quale mira ad evidenziare una perplessità riguardo il “consiglio” di Morigi di non “avventurarsi a cuor leggero in merito alla natura più o meno privata dei partiti, i quali nella nostra Costituzione vengono citati anche se poi riguardo al loro <dover essere> ci si limita ad una vacua retorica democratica che dice tutto e il contrario di tutto”. Difatti, quale che possa essere stato lo spirito con cui nel Commento mi sono accostato (non già avventurato) a siffatto tema, e dunque se con colpevole spensieratezza (come pare ritenere Morigi) oppure con animo gravido di timore e tremore, il dato certo ed incontestabile è che la natura giuridica dei partiti politici nell’ordinamento italiano è, come segnalavo, quella di “semplici associazioni private non riconosciute”. Ed è dato la cui solidità non viene scalfita di un ette dall’accenno ai partiti che opera la Costituzione, rientrando, tale accenno, nel novero delle tanto belle quanto vacue dichiarazioni di principio o programmatiche di cui è infarcita la Carta, secondo quanto, del resto, riconosce lo stesso Morigi. Ma allora poco si comprende la congruenza di uno schema argomentativo che contempla, in un primo momento, a ritenuto sostegno della propria tesi, il richiamo alla rilevanza di un elemento che io avrei omesso di considerare (e cioè il riferimento costituzionale ai partiti politici) e, subito dopo, la radicale squalificazione dell’elemento medesimo. Non è la prima volta, peraltro, che Morigi indulge ad una simile modalità argomentativa di stampo palinodico.

[2]   Tant’è che di questo, del fatto cioè che nell’Intervento la c.d. assenza di trasparenza nei partiti non è presentata in realtà come una novità e quindi non fa problema, ho dato puntualmente atto nel mio Commento: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore.

[3]   A questo proposito, la vicenda delle elezioni politiche nazionali italiane del 2006 è paradigmatica. Esse videro la vittoria della coalizione di centrosinistra, ma con un esiguo scarto di voti alla Camera dei Deputati. La coalizione avversaria chiese allora inizialmente di procedere al riconteggio di tutte le schede elettorali, per poi accettare, a seguito di un accordo politico, di contare solo le schede del 10% dei seggi (https://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/politica/polemica-schede/riconteggio-totale/riconteggio-totale.html). La Giunta per le elezioni, tuttavia  unico organo munito di giurisdizione al riguardo ai sensi dell’art. 66 della Costituzione, riuscì a ricontare soltanto le schede relative a 180 seggi, di contro ai programmati 6000 seggi, ossia l’equivalente del suddetto 10%, e calcolò che per ricontare il totale ci sarebbero voluti due mandati addizionali di 5 anni (traggo questi dati da http://paduaresearch.cab.unipd.it/6293/1/carlotto_paolo_tesi.pdf).

[4]   D’altronde, va pure di molto stemperata l’enfasi sulla presunta natura “malefica” di questa “sorta di accrocchio tecnologico informatico” dispensatore di “responsi” ordalici. Difatti, in base allo statuto del Movimento 5 Stelle, la devoluzione alla “consultazione in Rete degli iscritti” dell’assunzione della generalità delle decisioni politiche del Movimento stesso, tra cui è rientrata infatti anche quella riguardante la costituzione del nuovo attuale governo, non è affatto obbligatoria, ma è rimessa alla scelta totalmente discrezionale del suo “Capo Politico ovvero, in sua assenza od inerzia, d[e]l Garante” [v. art. 4, lettere a), comma 2°, ultimo alinea e b), comma 1°, dello Statuto, visionabile qui: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/associazionerousseau/documenti/statuto_MoVimento_2017.pdf]. Pertanto, se pure si volesse dare rilevanza all’apparenza (o illusione) della trasparenza, e dunque in definitiva sapere – per riprendere le parole usate nella Replica – “con chi dobbiamo prendercela”, la responsabilità della decisione di costituire il nuovo governo, ove per responsabilità si intende la causa prima che ha consentito agli iscritti di esprimersi, sarebbe ascrivibile formalmente e sostanzialmente a Luigi Di Maio quale “Capo Politico” ed a Giuseppe Piero Grillo quale Garante del Movimento 5 Stelle (come del resto rilevato dalla stampa: https://www.ilpost.it/2019/09/03/piattaforma-rousseau-voto-oggi).

[5]   Di seguito, riporto una breve silloge di alcune delle opinioni espresse al riguardo, tutte da me tratte dall’articolo https://www.ilfoglio.it/politica/2019/09/09/news/la-soffitta-dei-simboli-inutili-272931/. Ferruccio de Bortoli: “<#Rousseau, uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa>”; Francesco Storace: “<La democrazia italiana nelle mani della piattaforma #Rousseau. Decide #Casaleggio senza alcuna trasparenza se il governo deve partire o no. Ora #Mattarella potrà nominare i ministri>”; Mara Carfagna:<Ah, quindi il Conte-bis non sarà legittimato dalle Camere, ma dalla piattaforma #Rousseau? Eppure non mi pare che i Padri Costituenti, nella loro saggezza e nel ruolo di rappresentanti del popolo italiano, avessero previsto di inserire la Casaleggio Associati in Costituzione>”; il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick: “<non è incostituzionale in sé, ma mi sembra contro lo spirito della Carta far diventare la piattaforma Rousseau, o un’altra simile, uno strumento per l’esercizio della sovranità>”, Cesare Mirabelli: “<Il presidente incaricato, sulla base del voto di un numero ristretto di persone, sia pure iscritte al partito M5s, si ritira e restituisce il mandato nelle mani del presidente della Repubblica? Non è quanto stabilisce la Costituzione>”.

[6]   Tra gli innumerevoli interventi giornalistici, cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/il-lato-oscuro-rousseau-hacker-bilanci-e-votazioni-non-certificate-ACDjgeg.

[7]   È significativo, al riguardo, che già nel 1966 un intellettuale come Lelio Basso, convinto assertore dell’imprescindibile funzione storica dei partiti e certamente distante da un estremismo antiparlamentare, dopo aver negato “che il parlamento sia veramente o possa essere la sede effettiva del potere e che tutti i problemi possano risolversi con la semplice azione parlamentare”, evidenziava il compimento di un “processo di progressivo svuotamento di un’autonoma funzione del parlamento a beneficio dell’esecutivo e dei partiti”, che riconosceva contestualmente essersi “rivelati strumenti politici più adeguati, anche se largamente insufficienti, alla democrazia di massa”, avendo cura però di soggiungere immediatamente che i reali beneficiari di tale processo di progressivo svuotamento erano “dietro di essi [ossia “dell’esecutivo e dei partiti”], [la] burocrazia, [i] gruppi di pressione e [le] forze economico-sociali” (http://leliobasso.it/documento.aspx?id=5b7a6827d18ca804ef8249e24302aaed).

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