FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA (pubblicato nel 2008)

1. Nella prima metà del XIX secolo due grandi pensatori europei, Hegel e Tocqueville si posero il problema di come potesse conservarsi uno Stato federale, come gli Stati Uniti d’America, senza che l’Unione godesse di tutti quei poteri che il “centro” delle monarchie europee – cioè il governo monarchico – aveva nel proprio territorio,

Scriveva Hegel:

“Se paragoniamo poi l’America del nord con l’Europa, troviamo laggiù l’esempio costante di una costituzione repubblicana. Cioè l’unità soggettiva, perché vi è un presidente a capo dello Stato, eletto, per prevenire ogni possibile ambizione monarchica, solo per quattro anni. La protezione universale della proprietà e la quasi totale assenza d’imposte sono fatti che vengono continuamente elogiati. Ma con questo è già determinata anche la caratteristica fondamentale di questi Stati. Essa consiste nella tendenza del privato all’acquisto e al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare, che si volge all’universale solo in servigio del proprio godimento. Vi sono, naturalmente, rapporti di diritto, ed una formale organizzazione giuridica: ma questa conformità al diritto è senza dirittura, e così i commercianti americani hanno la cattiva riputazione di ingannare sotto la protezone del diritto”, e prosegue “l’America del nord non va considerata come uno Stato già formato e maturo ma come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito, da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra. I Nord-americani non poterono conquistare il Canadà, e gli Inglesi poterono bombardare Washington, perché la tensione fra le provincie impedì ogni vigorosa azione. Inoltre, gli stati liberi nordamericani non hanno nessuno stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli stati europei sono reciprocamente, uno stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canadà e il Messico non incutono loro timore, e l’Inghilterra ha fatto ormai esperienza da cinquant’anni che l’America le è più utile libera che dipendente”i.

Quindi da un lato Hegel connetteva la forma istituzionale dello Stato federale alla prevalenza, negli USA, del “privato” sul “pubblico” dall’altro, e più ancora, all’assenza di nemici “credibili” ai confini che consentiva di mantenere un governo debole. Considerazioni simili, e nello stesso periodo di tempo, faceva Tocqueville nella “Démocratie en Amérique”.

Sosteneva Tocqueville: “La più importante di tutte le azioni che possono far riconoscere la vita di un popolo è la guerra. Nella guerra un popolo agisce come un solo individuo di fronte a popoli stranieri: esso lotta per la sua stessa esistenza… Di qui deriva che tutti i popoli, che hanno dovuto sostenere grandi guerre, sono stati condotti, quasi loro malgrado, ad accrescere le forze del governo. Quelli che non sono riusciti a farlo, sono stati conquistati. Una lunga guerra pone quasi sempre le nazioni in questa triste alternativa, che la loro disfatta li consegna alla distruzione, e la loro vittoria al dispotismo.

Perciò, in genere, è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli.

Nel sistema federale, non solo non c’è affatto accentramento amministrativo o qualcosa di simile, ma lo stesso accentramento politico esiste solo in modo incompleto; e questo è sempre una grave causa di debolezza, quando ci si deve difendere contro popoli nei quali è completo”. E ad esempio ricorda lo stesso episodio storico: la guerra con l’Inghilterra bel 1812ii.

Ambedue i pensatori si sono (forse) ispirati a quanto pochi anni prima, aveva cennato De Maistre sulle istituzioni europee ed inglesi in particolareiii.

Per cui la particolare conformazione della Costituzione e del diritto pubblico inglese era ricondotto, in gran parte, alla situazione geo-politica dell’Inghilterra: in analogia con Hegel e Tocqueville per l’America.

D’altro canto il rapporto tra sovranità all’esterno ed all’interno era considerato da Hegel anche nei Grundilinieniv.

2. Peraltro Hegel sottolineava il carattere politico – in quel senso . – del rapporto tra assetto interno e esterno (nemico e guerra), e lo distingueva da un mero decentramento amministrativo. Nell’opera giovanile Verfassung Deutschlands già lo scriveva, in relazione alla “costituzione” dell’Impero tedesco. Sosteneva a dimostrazione della tesi iniziale “La Germania non è più uno Stato” che “Il potere legislativo, quello giudiziario, quello spirituale, quello militare, mescolati nella maniera più disordinata e in parti le più disuguali, sono separati e congiunti, proprio variamente come la proprietà dei privati.

Attraverso dimissioni della Dieta, trattati di pace, capitolazioni elettorali, contratti domestici, deliberazioni della Corte suprema, ecc. la proprietà politica di ciascun membro del corpo statale tedesco è determinata nel modo più accurato”v, per questo ha il diritto di andare in rovinavi. Sosteneva peraltro che l’unità dello Stato non è data dall’uniformità del dirittovii né della religioneviii; ma l’essenziale per aversi uno Stato è che “una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale” e “L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoliix.

Le argomentazioni di Hegel e Tocqueville, comuni ad altri pensatori, si possono riassumere nei seguenti punti:

Che l’assetto dei rapporti o poteri pubblici – cioè la forma politica – è condizionata dalla situazione geo-politica, e, in particolare, dai nemici e dalle guerre possibili.

Che a costituire l’unità politica non è la comune religione, la lingua, e neanche le leggi ed i costumi o i commerci (cioè fattori in se non riconducibili al politico, anche se rilevanti, e spesso assai rilevanti, sul politico), ma è l’unità del popolo sotto un governo.

Che, quindi, ciò che rende debole il governo non è tanto la diversità di legge o di religione, costumi – spesso, si può aggiungere, “superata” grazie al federalismo o al decentramento – ma la divisione del potere politico. Per definire il quale occorre distinguerlo da quello non politico, ancorché pubblico: e in entrambi il criterio di distinzione è, per l’appunto, la guerra, cioè il rapporto estremo con l’hostis. È questo che può porre in gioco l’esistenza della comunità organizzata in Stato, così costituire l’extremus necessitatis casus ed essere la cartina di tornasole della vitalità di uno Stato.

Che, potenzialmente – le diversità ed i gruppi di interesse che sussistono in ogni comunità umana possono, nelle situazioni di crisi, se prevalenti, mettere in forse l’unità politica (e la capacità di difendersi). Se queste così diventano decisive, passano dal privato al pubblico – o meglio al politico (come gli interessi dei mercanti del Massachussets e del Connecticut nella guerra con l’Inghilterra).

3. La progressiva “tecnicizzazione” del diritto pubblico, cui probabilmente ha contribuito non solo il clima generale – di “onnipotenza normativa” – ma anche la specializzazione accademica, ha fatto si che quei rapporti, sopra elencati, tra situazione concreta e forma politica, fossero smarriti e, quel che più conta espunti dalle concezioni (e trattazioni) del diritto pubblico.

Ciò è stato l’effetto di due idola theatri diffusisi negli ultimi secoli.

In primo luogo l’onnipotenza del legislatore o (meglio ancora), del potere costituente. La frase di Sieyès, ricalcata da Rousseau, che la Nazione è “tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” è stata, a dir poco, mal interpretata. Un sottile politico come Sieyès, oltretutto largamente tributario nelle sue concezioni della teologia cristianax non avrebbe mai pensato di poter prescindere nella fase “costituente” da ogni riferimento concreto e reale, a partire dalla situazione geopolitica, passando per i condizionamenti (e le determinanti) storici e naturali, per finire, in certi casi, alle leggi di “natura”, intendendole se non nel senso dell’ironia di Spinozaxi, come quelle della storia.

Ancora nell’insegnamento di Montesquieu lo “spirito” delle leggi (e a maggior ragione delle costituzioni) erano quei “rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”xii, e capire le leggi, penetrarne lo “spirito”, era capire quei rapporti concreti e reali; onde, tra l’altro, scriveva che le leggi sono adatte al popolo che le ha “sviluppate” e non ad un altro.xiii Tutto il contrario quello che avvenne dopo, a partire dal tardo illuminismo fino all’età post-rivoluzionaria.

Ironizzava de Maistre che nel secolo XVIII ogni giovane acculturato, appena diplomato, aveva scritto almeno un trattato sull’educazione, una costituzione e un mondo. Incominciò a diffondersi non solo l’immagine del legislateur provvido e onnipotente, ma pure che all’onnipotenza (in diritto) del sovrano corrispondesse, in qualche misura, quella di fatto: la comunità politica era così considerata la materia da plasmare a piacimento dal legislateur. Tradizioni, costumi, condizionamenti politici, culturali e sociali erano conformabili a discrezione: la retta ragione e la bontà dei fini avrebbero creato istituzioni razionali, condivise e legittimate dal consenso generale di esseri razionali (nel senso dell’illuminismo). Gli sviluppi successivi, dalla Vandea agli insorgenti italiani ai guerrilleros spagnoli dimostrarono che la questione non era così semplice, ma il sogno utopico di costruire una società senza rispondenza alle situazioni (e ai problemi) concreti continuò; in particolare inverandosi nell’utopia radicale del marxismo collassato in pochi decennixiv.

Pertanto l’idea di poter elaborare costituzioni a tavolino (diversamente da quanto pensava Cicerone che fondava la superiorità politica di Roma sulla sua costituzione perché frutto delle esperienze e del lavoro di tante generazioni) sopravviveva e si sviluppava, anche per ragioni scientifiche, anche in un ambiente diverso: quello dei giuristi. Levatrice di ciò è stato, in gran parte, l’ideale “avalutativo” della scienza e, del pari, l’idea che, per il giurista interpretare tenendosi distante da tutto ciò che è politico (anche quando, come nel caso, l’oggetto – da studiare – è politico) è la via migliore per essere scientificamente “oggettivi”.

A leggere un manuale di diritto costituzionale o internazionale del periodo del positivismo affermato (cioè da metà del XIX secolo) i presupposti e i condizionamenti politici dell’assetto costituzionale sono di solito appena cennati; ciò che assume rilievo, pressoché esclusivo, è il dato positivo dell’elaborazione della costituzione in (un) atto organico, che il giurista può interpretare a guisa di un super codice. Come se le costituzioni fossero parti dei giuristi che contribuivano a stenderle (su carta). In questo orizzonte, largamente se non totalmente prevalente, la nota forse più stonata fu quella di Lassalle – non a caso un politico e non un giurista – che in una celebre conferenza formulava il concetto (moderno) di costituzione materiale, contrapponendolo a quel “pezzo di carta” (cioè i testi considerati dai giuristi) la cui funzione principale è, secondo Lassalle, di formulare e confermare i rapporti di forze realixv.

L’altro fatto rivelatore del mutato spirito è che se, ancora nel ‘700, si cercava lo “spirito” delle leggi, e la “forma” (in senso aristotelico-tomista, e non procedurale) dello Stato, col positivismo dalla forma – come oggetto d’interesse prevalente – si passa alle norme. Funzione del giurista è d’indagare sulle norme e su come si possa ricostruire l’unità di un sistema partendo dalle norme. Invece nel ‘700 un giurista come Vattel costruiva un sistema di diritto (interno ed internazionale) basandosi sulla forma: guerre in forma, soggetti (del diritto internazionale) in forma, rapporti formali.

Nel rapporto tra diritto interno ed internazionale il raccordo tra le due sfere (interna ed esterna) non si regge più sulla forma della struttura statale pubblica, ma si ricorre ad armamentario ed a principi e concetti propriamente giuridici. Scrive Triepel in un’opera “classica” sulle relazioni tra diritto interno e diritto internazionale: “La natura delle relazioni intercedenti fra questo diritto ed il diritto internazionale può essere molto varia. Vi possono essere norme di diritto interno la cui esistenza ovvero il cui contenuto dipende da norme di diritto internazionale; può darsi che le prime tutelino anche dalle seconde; le dette norme talora operano con concetti che si possono chiamare “di diritto internazionale”; di tutto ciò non mi è dato far qui che un semplice cenno, poiché sono appunto queste relazioni che dovremo esaminare minutamente nelle pagine che seguono”xvi. Per ricostruire queste relazioni tra norme è centrale il concetto d’ “impenetrabilità” dello Stato ( e cioè il monopolio territoriale della decisione su ciò che debba essere diritto – un elemento della forma-Stato) come di “recezione” o di “rinvio”. E’ chiaro tuttavia che impenetrabilità, rinvio, recezione presuppongono una struttura – una forma – dello Stato in grado in fatto prima che in diritto di “chiudere” il proprio territorio ad ogni potere esterno. Cioè (in primo luogo) eserciti stanziali e permanenti, flotte, efficienti difese delle frontiere e delle coste: strumenti per assicurare il monopolio della decisione politica e della forza legittima (e di conseguenza, anche se meno rilevante, del diritto applicato).

Ed è tale forma che garantisce non solo l’impenetrabilità, ma anche l’osservanza, ad esempio del diritto internazionale (cioè del diritto esterno): una tribù o anche uno Stato feudale ha probabilità assai minore di assicurare l’applicazione delle norme di un trattato internazionale di quanto ne abbia uno Stato moderno, anche un po’ malmesso come la Repubblica italiana. In uno Stato “fallito” (come ad es. la Somalia) la possibilità di far osservare il diritto internazionale (ed anche quello “interno”) è minima. Il tutto conferma l’immagine con cui Santi Romano sintetizzava il rapporto tra ordinamento e norme paragonando il primo al giocatore di scacchi, le seconde alle pedine mosse dallo stesso.

Ciò che è evidente è che quel rapporto tra norme è possibile solo se i soggetti tenuti ad applicarle hanno una forma ed esercitano un potere effettivo senza i quali il rapporto tra interno ed esterno può anche essere giuridicamente regolato e valido, ma è del tutto inutile. All’inizio del secolo scorso Schmitt, Hauriou e Santi Romano invertirono i termini del problema: è l’unità dell’ordinamento (l’istituzione) a dare unità al sistema normativo e non l’inverso.

4. Ad applicare alla situazione del mondo (contemporanea) le tesi desunte da Hegel e Tocqueville ne derivano conseguenze interessanti.

In primo luogo che a costituire una federazione, non è tanto necessaria l’omogeneità culturale delle comunità federate, ma l’unità politica. Ne deriva che la costituzione di super-Stati (differenti su tutto) sarebbe possibile ove vi fosse una effettiva unità politica. Dato che il criterio di quell’unità sono per l’appunto il monopolio della decisione sul nemico e la guerra (e la competenza a identificare il primo e dichiarare la seconda), ne consegue che occorre che la federazione per essere tale e non una mera unione di Stati anche se molto vicini culturalmente (come l’Unione europea), deve avere il monopolio dell’una e dell’altraxvii.

Pensare di realizzare un’unità di Stati, senza politico, è fermarsi all’anticamera dell’unità, senza raggiungerla mai.

Del pari l’entusiasmo politicamente corretto che accompagna ogni nuova istituzione, Ente, Tribunale purchè internazionale (Sabino Cassese ne ha contati oltre duemila) è mal speso e non vale a promuovere l’unità politica. Fin quando lo jus belli e le forze armate apparterranno agli Stati (e, in certi casi, ai movimenti di guerriglia) che vi siano Tribunali, agenzie (e monete) internazionali potrà essere edificante e spesso anche utile, ma non costituisce un fatto politico decisivo e tantomeno impedirà la guerra.

Neppure l’unità del diritto serve a produrre l’unità politica. A parte che per unificazione del diritto per lo più s’intende quello privato (o comunque non politico), è indubbio che una omogeneizzazione della normativa applicabile può essere d’aiuto agli scambi internazionali. Ciò che viene meno notato è come il diritto pubblico, e in particolare quello per essenza politico, non è oggetto di quasi nessun intervento. Si emanano norme e sottoscrivono trattati per i titoli di credito, società, strumenti finanziari e così via, ma non ci risulta che l’U.E. (ad esempio) abbia mai dato direttive sui poteri dei parlamenti, sulle competenze delle regioni degli Stati membri, sulle leggi elettorali, tanto meno sulla competenza a dichiarare la guerra. L’unico ambito del diritto pubblico su cui vi sia qualche normazione “internazionale” (oltre a quello amministrativo) è quello penale. Ma è troppo poco – e troppo evanescente – perché possa inficiare la regola che si omogeneizza il diritto privato ma non quello pubblico. Proprio perciò politicamente l’ “omogeneizzazione” giuridica è poco (o del tutto) irrilevante; per il suo carattere non-politico investe quello che Hauriou chiamava il diritto comune (Dike), contrapponendolo al diritto disciplinare (Thémis)xviii: il primo esterno ai gruppi (sociali), ai clan e alle famiglie e aggiunge “noi diremmo, oggigiorno, internazionalexix,il secondo interno a quelli.

Per cui la (comune) Dike non serve a mutarla in Themis e tantomeno a farla trasformare in qualcosa di politicamente decisivo. Piuttosto il confondere gli indubbi vantaggi che sul piano economico (degli scambi) e anche per altri ambiti dell’esistenza umana (aventi carattere privato) può avere l’omogeneità giuridica significa non percepire la peculiarità del politico e la distinzione tra pubblico e privato.

5. Un’altra considerazione occorre dedicare al problema in che modo i principi sopra ripetuti possano operare in un contesto che non è più quello “classico” degli Stati moderni (o dei di essi “tipi” come quello federale).

I “tipi” di relazioni con cui le unità politiche possono limitare la sovranità e/o l’indipendenza nella produzione ed applicazione del diritto sono diversi.

In particolare, se, come scrive Schmittxx “la federazione è un’associazione permanente, che serve al comune fine di autoconservazione politica di tutti i membri della federazione”, occorre considerare anche quei tipi di rapporti non riconducibili ad una federazione (o ad uno Stato federale).

Fatta questa premessa, occorre distinguere tra limitazioni alla sovranità, e limitazioni all’indipendenza.

Tra le limitazioni alla sovranità, tra la fine della seconda guerra mondiale a oggi, ve ne sono state (frequenti), anche a quella interna non riconducibili a quei rapporti e modelli già conosciuti e “classici” (ad esempio il protettorato). Caso clamoroso quello del quale fu “esternata” la dottrina della “sovranità limitata” degli Stati aderenti al “Patto di Varsavia”. Ma una menzione particolare (anche per gli effetti) compete alla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata dove, tra le molte limitazioni enunciate v’è la seguente “Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione”.

Il senso e gli effetti di tale dichiarazione sono chiari: i vincitori si riservavano il diritto d’intervento all’interno dei singoli Stati occupati, diritto ovviamente indefinito nei presupposti e nel contenuto (delle misure) e quindi determinabile a discrezione degli Stati vittoriosi : tale affermazione costituisce una limitazione alla sovranità interna, quella cioè che in molti Stati membri di una federazione, compete di solito ai medesimi e non alla federazionexxi.

Diversamente da una federazione le limitazioni alla sovranità come quelle sopra ricordate non comportano la garanzia dell’esistenza politica e della sicurezza degli Stati (federati), che Schmitt ritiene una delle conseguenze del “contratto federale”xxii.

Mentre nel patto costitutivo della federazione c’è ancora un “sinallagma” come garanzia di protezione (e obbedienza) che giustifica anche la forma “pattizia” o “contrattuale”, nelle dichiarazioni di Yalta tutto si risolve nella volontà dei vincitori (quindi egemoni in forza della vittoria e della conseguente occupazione militare) i quali dettano le condizioni di sviluppo politico degli Stati occupati, si riservano la facoltà di interpretarle/applicarle e di intervenire di conseguenza.

Non meraviglia che con la firma dei trattati di pace alcune limitazioni alla sovranità (interna) divenissero clausole del trattato stesso, come notò Vittorio Emanuele Orlando nel discorso alla Costituente contro l’approvazione del trattatoxxiii. Ciò non esclude che con un Trattato possano accordarsi quelle garanzie: tuttavia mentre nel caso della federazione ineriscono alla natura dello stesso e sono, come scrive Schmitt, la conseguenza dell’esistenza associata sia degli Stati membri che dello Stato federalexxiv, nel caso del trattato dipendono totalmente dalla volontà degli Stati contraenti (e sono soggette alle riserve comuni a tutti i trattati).

Spesso connesse alle limitazioni alla sovranità vi sono quelle all’indipendenza nell’esercizio del potere normativo o in quello di “polizia” e giudiziario. La recente normativa internazionale finalizzata alla lotta al terrorismo ce ne offre diversi esempi in cui taluno, non senza fondamento, ravvisa la formazione di una sorta di controllo degli Stati Uniti sugli altri Stati del pianeta, sviluppantesi – e questo è il carattere “originale” – non tramite eserciti e occupazioni militari ma con forme di dipendenza delle burocrazie giudiziarie e amministrative degli Stati “soggetti” al potere “imperiale”xxv dello Stato-guida.

Il che costituirebbe una forma di egemonia esercitata in un’epoca in cui si fa un gran parlare di governance, termine che difetta di quella chiarezza e distinzione di solito comune alla terminologia del periodo statale “classico”.

6. È difficile definire un’impero. Il termine è stato applicato a tante diverse forme politiche, dall’impero persiano achemenide a quello romano, dal Sacro romano Impero a quelli coloniali degli Stati europei dalla Rinascenza al secolo scorso, solo per citare quelli più familiari alla nostra cultura.

Trovare forme e tratti comuni tra Dario e Carlo Magno non è facile: tuttavia un primo tentativo di delinearne i caratteri si può iniziare partendo dai connotati tipici e salienti dello Stato moderno e notare le differenze: delimitando cioè l’Impero, in modo negativo, da ciò che è Stato.

In primo luogo nell’Impero non vi è il monopolio della decisione politica e della violenza legittima, invece connotati fondamentali dello Stato moderno, come sostenuto da Max Weber e Carl Schmitt. L’individuazione/designazione del nemico e l’esercizio dello jus belli è distribuito tra il centro e le periferie dell’Impero.

L’Anabasi offre una rappresentazione di ciò che avveniva nell’Impero achemenide: Artaserse non percepisce come ostili i preparativi del fratello Ciro di muovergli guerra perché crede che lo stesso volesse far guerra a (un altro satrapo) Tissaferne e ciò oltre a sembrargli normale non gli dispiaceva “affatto che si facessero guerra tra loro”xxvi (probabilmente perché così erano troppo impegnati per farla a lui). Ciro, per raggiungere il centro dell’impero e combattere col fratello attraversa territori, ottenendo aiuti da una parte e combattendo dall’altra; lo stesso aveva giustificato la spedizione militare come rivolta contro i Pisidi, altri sudditi dell’impero Persiano; tutta la posizione e la politica di Tissaferne nei confronti dei mercenari greci in ritirata è dominata dalla preoccupazione che possano fargli guerra nei suoi domini di satrapo.

In altre parole né monopolio dello jus belli né una situazione di pace all’interno e guerra all’esterno (l’aspirazione/situazione “statale”) facevano parte della normalità dell’Impero persiano. Lo stesso per altri imperi, segnatamente per il Sacro Romano Impero e in genere la società feudale, dove le guerre tra vassalli, comuni, e di questi (e del Papa) contro l’Imperatore costituivano la situazione normale. Contrariamente a quanto accade anche negli Stati federali, lo jus belli non è monopolizzato dal centro; si ha una situazione simile a quella descritta da Grozio, quando distingue le guerre pubbliche da quelle privatexxvii.

La seconda distinzione, tipica dello Stato moderno, è quella “spaziale” tra interno ed esterno, che ha un connotato del tutto specifico il quale delinea due “status” o situazioni differenti e, in molti casi, opposti: quello tra ordinamento (e quindi diritto) interno ed esterno.

Quello interno si basa sul potere-dovere (e le correlative responsabilità, interna ed internazionale) di mantenere la pace (e l’ordine) all’interno dello Stato; a tale scopo la sovranità è irresistibile (c’è una volontà prevalente) dai poteri “interni” e ha quindi il potere (e il dovere) per mantenere la pace. All’esterno coesistono più unità politiche, in principio uguali (non c’è una volontà prevalente) e il mezzo per far valere, realizzare far riconoscere (e regolare) i propri diritti ed interessi è il trattato e, in caso di disaccordo, la guerra. Questa, che all’interno è in linea di principio vietata e considerata attività criminale, all’esterno dell’unità politica è, in linea di principio, legittima se esercitata tra Stati sovrani. In molti imperi non è così: il legame pace-interno e guerra-esterno non è netto: non c’è uno spazio pacificato, qualitativamente opposto a quello d’oltre confine. La distinzione è, al massimo, quantitativa: le guerre interne sono, per le forze relative dei contendenti, meno pericolose e dannose (ma non è sempre sicuro) di quelle esterne. Il confine tra interno ed esterno consegue a questa separazione netta: diversamente dalle società feudali (dove i rapporti di vassallaggio e i conseguenti diritti e doveri attraversavano i confini per cui il Re d’Inghilterra era vassallo – ed aveva propri vassalli – nel Regno di Francia), nello Stato moderno il confine significa l’esclusività e l’irresistibilità (all’interno) del potere sovrano che ne esclude ogni altro della stessa natura.

In terzo luogo il rapporto tra comando/obbedienza e il connesso dovere di protezione (quest’ultimo costituente, secondo Hobbes, il fondamento dell’obbligazione politica)xxviii: nello Stato la sovranità esclude che vi sia un rapporto comando/obbedienza tra i sudditi ed altri poteri che possa prevalere sullo stesso rapporto con lo Stato. Nell’impero ciò non appare definito, onde vi possono essere diversi rapporti, potenzialmente (e spesso in atto) conflittuali tra loro.

Nella società feudale si poteva essere vassalli di più signori e quindi obbligati alla fedeltà ad entrambi: in caso di conflitto politico, o di guerra tra i seniores, la situazione che ne derivava era, a dir poco, confusa. Anche il rapporto di protezione/obbedienza conseguentemente ne veniva incrinato.

Quanto alla sovranità, chiave dello Stato moderno, in conseguenza di quanto sopra, negli imperi non appare dotata dei connotati costruiti da alcuni secoli di dottrina dello Stato moderno. Dei quali, i più importanti sono: l’illimitatezza (o irresistibilità)xxix e la generalità nel senso che il sovrano è competente a provvedere su tutto e “giudice” di tutto, anche della propria competenza.

Il primo peraltro, come scriveva Romagnosi, è un carattere essenziale che distingue nettamente e qualitativamente la sovranità da ogni altro potere di comando (tutti in qualche modo limitati e resistibili); mentre il potere “imperiale” appare differire dagli altri poteri pubblici essenzialmente per dimensioni (spaziali) e per collocazione (sta “sopra” agli altri, ma essenzialmente è un primus inter pares), cioè per differenze “quantitative” (è più potente, non è illimitatamente potente).

Del pari il potere imperiale, nato generalmente come sovrapposizione a precedenti poteri e organizzazioni politiche, ha una competenza non generale, né è giudice della propria competenza (come nella società feudale).

Raymond Aron distingue di conseguenza tre tipi di pacexxx, e, correlativamente tre tipi di guerrexxxi, anche in relazione alla esistenza di imperi.

7. La lezione desumibile da Hegel e Tocqueville è quindi utilmente applicabile alla situazione contemporanea.

In primo luogo né il diritto, né l’economia (e neppure altri “ambiti” dell’esistenza umana, come la morale o l’arte) possono costituire ex se il fondamento per l’unità politica. Anzi nel pensiero di Hegel il privato (nei passi sopra citati rapportato all’attività economica) è una causa di dissoluzione dell’unità politica: è l’ordinamento privatistico (e patrimonialistico) dell’Impero germanico a determinarne la rovina, sì da soccombere a Napoleone. La stessa tendenza del privato “all’acquisto ed al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare” è l’attitudine spirituale meno idonea a costituire e consolidare uno Stato; nei Grundinien des philosophie des Rechts il concetto viene ribaditoxxxii.

Neppure l’esistenza di un’amministrazione nè di una burocrazia (e di regole per il funzionamento dell’una e dell’altra) è, di per sé, decisivo per l’unità politica: l’utopia di Saint-Simon di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose si rivela fallace anche in ambito “internazionale”. Il moltiplicarsi di Enti, istituti, funzionari internazionali non ha fatto progredire affatto la pace, né eliminato e forse neppure ridotto le guerre. La spiegazione l’aveva già data Tocqueville quando nel passo sopra citato parla di debolezza dello Stato federale in relazione all’accentramento amministrativo (non all’amministrazione in genere, men che mai “autonoma”, come va di moda).

È l’amministrazione accentrata cioè l’apparato burocratico gerarchicamente organizzato e dipendente dal vertice politico a costituire fattore e garanzia di unità. In altre parole è un’amministrazione organizzata intorno al “presupposto” del politicoxxxiii del rapporto di comando/obbedienza, (cioè a servizio di un potere politico), a poter realizzare lo scopo, e non una qualsiasi amministrazione, solo perché dotata di bolli, timbri e registri. Senza “governo” la burocrazia (di un potere razionale-legale) porta in se solo l’idea di “regola”, ma non quella, necessaria, di “coazione”.

E del pari sia Hegel che Tocqueville attribuiscono carattere decisivo alla guerra (ed all’esistenza – ed alla scelta – del nemico). E’ questo, se ne desume, anticipando Schmitt (o seguendo Hobbes) a rivestire carattere decisivo per l’unità politica – e per l’esistenza della medesima. E’ il rapporto tra interno ed esterno, forma istituzionale e situazione concreta, in particolare geo-politica, a modellarla come vitale; ciò fino a determinare, in molti casi, la scelta tra rafforzamento del governo (per esistere come unità politica) e perdita (o compressione) delle libertà sociali ed individuali, con ricaduta nel dispotismo.

Ove si costruisca un’unità politica superiore non si sfugge al “criterio del politico”, il quale è decisivo: federazioni o unioni di Stati costruiti su burocrazie zelanti e regolamentazioni economiche (e sociali) non sono unità politiche, proprio perché mille funzionari non fanno un buon esercito.

Quanto all’altro aspetto – dell’impero o meglio degli imperi prossimi venturi – appare sicuro che, per esistere politicamente, devono avere anch’essi quel carattere anche se – a differenza dello Stato – distribuito tra centro e periferia, e perciò non monopolizzato.

Le conseguenze della “costituzione” di un potere imperiale, cioè di un potere non esclusivo ma prevalente, oscillante tra mera superiorità ed egemonia, si intravedono già nelle “nuove forme” di guerra, site al confine (concettuale) tra operazioni di polizia e guerra (vera e propria), e spesso caratterizzate da un confronto tra una potenza enorme e proprio perché tale molto vulnerabile e potenze minime e di conseguenza quasi invulnerabili: costituenti il tipo ideale (ed estremo) della guerra asimmetrica.

Il tutto non lascia intravedere uno sviluppo sicuramente pacifico: se lo jus publicum europeaum aveva ridotto le occasioni di justum bellum privandone gran parte dei soggetti “legittimati” alla guerra (dai grandi feudatari ai Comuni, alle compagnie di ventura), e costruendo lo Stato moderno come produttore di pace, non appare confortante l’idea di una “redistribuzione” dello jus belli tra diversi soggetti “regolari”e “irregolari”: una situazione neo-feudale.

Augusto dispose tre volte la chiusura del Tempio di Giano come simbolo della conseguita pax imperiale. Difficilmente in un’età imperiale, come quella che si profila nel futuro, si potrà procedere ad un atto analogo.

Teodoro Klitsche de la Grange

i V. LFS trad. it. Firenze 1941, p. 229-231 (i corsivi sono nostri).

ii “La costituzione dà al Congresso il diritto di chiamare in servizio attivo la milizia dei diversi Stati, quando si tratta di reprimere un’insurrezione o di respingere un’invasione; un altro articolo dice che, in questo caso, il Presidente degli Stati Uniti è il comandante in capo dell’esercito.

All’epoca della guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il Connecticut e il Massachussets, i cui interessi erano danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente.

La costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi delle milizie territoriali in caso di insurrezione o di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava all’Unione il diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne deriva, secondo loro, che in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie, eccetto il Presidente in persona. Ora, si trattava di servire in un esercito comandato da un altro.

Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle Corti di giustizia di questi due Stati” e prosegue “Per quale ragione, dunque, l’Unione americana, per quanto protetta dalla relativa perfezione delle sue leggi, non si dissolve in mezzo a una grande guerra? Per la semplice ragione che non ha grandi guerre da temere.

Posta al centro di un continente immenso, in cui l’industria umana può estendersi senza limiti, l’Unione è isolata dal mondo quasi come se fosse circondata da ogni parte dall’Oceano.

Il Canada non conta che un milione d’abitanti: la sua popolazione è divisa in due nazioni nemiche. I rigori del clima limitano l’estensione del suo territorio e chiudono per sei mesi i suoi porti.

Al sud l’Unione tocca l’Impero del Messico; probabilmente è di qui che, un giorno, potranno venire grandi guerre. Ma, per lungo tempo ancora, il grado poco avanzato di civiltà, la corruzione dei costumi e la miseria impediranno al Messico di occupare un posto elevato tra le nazioni. Quanto alle potenze europee, la loro lontananza le rende poco temibili” concludendo “La grande fortuna degli Stati Uniti non è, dunque, quella d’aver trovato una costituzione federale, che permetta loro di sostenere grandi guerre, ma quella di avere una posizione geografica tale da non dover temere grandi conflitti.

Nessuno saprebbe apprezzare più di me i vantaggi del sistema federale. Vi vedo una delle più valide combinazioni in favore della prosperità e della libertà umane. Invidio la sorte idi quelle nazioni alle quali è stato permesso d’adottarlo. Ma, nondimeno, mi rifiuto di credere che dei popoli confederati possano lottare a lungo, a parità di forze, contro una nazione, dove il potere di governo è centralizzato” (i corsivi sono nostri) – v. La Démocratie en Amérique, libro I, parte I, trad. it. Torino, p. 200 ss.

iii “…il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo.

Si fa presto a dire: «Ci vogliono delle leggi fondamentali, ci vuole una costituzione». Ma chi istituirà queste leggi fondamentali, e chi le farà attuare? Il gruppo o l’individuo che ne avesse la forza sarebbe sovrano, poiché sarebbe più forte del sovrano, di modo che, per l’atto stesso dell’istituzione, lo detronizzerebbe. Se la legge costituzionale è una concessione del sovrano, il problema si ripresenta. Chi impedirà che uno dei suoi successori la violi?… D’altra parte, si sa che i numerosi tentativi fatti per ridurre il potere sovrano non sono mai riusciti a far venire la voglia di imitarli. L’Inghilterra sola, favorita dall’Oceano che la circonda e da una carattere nazionale che si presta a queste esperienze, ha potuto fare qualcosa del genereDu pape, Lib. II, cap. II, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 158 (i corsivi sono nostri).

ivL’idealità che fa la sua comparsa nella guerra, venendosi così a trovare come in un rapporto accidentale con l’esterno, è in realtà identica all’idealità secondo cui i poteri statuali interni sono momenti organici del Tutto.

Sul piano dei fenomeni storici, questa identità si presenta, tra l’altro, nella figura per cui guerre fortunate hanno impedito irrequietudini interne e hanno consolidato la forza interna dello Stato.

Un fenomeno che rientra appunto in questo ordine è quello dei popoli che, non volendo oppure paventando sopportare una sovranità all’interno, sono stati soggiogati da altri popoli, e che si sono impegnati per la loro indipendenza con tanto minore successo e onore quanto meno si è potuto produrre al loro interno un primo serio assetto del potere statuale – popoli la cui libertà è morta per la paura di morire” (i corsivi sono nostri) LFD § 325 di V. Cicero, Milano 1996, p. 545.

v E proseguiva “da un lato questa legalità di mantenere ogni parte nella sua separazione dallo Stato, dall’altro le necessarie pretese dello Stato sul singolo membro di esso stanno nel più completo contrasto. Lo Stato richiede un centro comune, un monarca e degli stati in cui si riuniscano i diversi poteri, i rapporti con potenze straniere, le potenze militari, le finanze che hanno con esso relazione ecc.; un centro che avrebbe anche per la direzione, la necessaria potenza di affermare se stesso e le sue decisioni e di mantenere le singole parti in dipendenza da se. Atraverso il diritto invece è assicurato ai singoli Stati un’indipendenza quasi totale o addirittura totale… L’edificio statale tedesco non è null’altro che la somma dei diritti che le singole parti hanno sottratto al tutto; e questa legalità che veglia sollecitamente a che allo Stato non rimanga più alcun potere è l’essenza della costituzione” Op. cit. pag. 19.

vi E così prosegue “la Germania può essere saccheggiata e ingiuriata: il teorico del diritto statale saprà mostrare che tutto ciò è del tutto conforme ai diritti e alla prassi e che tutti i casi di infelicità sono piccolezze nei confronti dell’uso di questa legalità. Se il modo infelice in cui la guerra è stata condotta risiede nella condotta dei singoli stati, dei quali l’uno non inviò alcun contingente, moltissimi inviarono, invece che dei soldati, delle reclute arruolate appena ora, l’altro non pagò nessuna «mensilità romana», un terzo al tempo del più grande bisogno ritirò il suo contingente, molti conclusero trattati di pace e contratti di neutralità, la maggior parte ognuno alla sua maniera, annullò la difesa della Germania: allora il diritto statale dimostra che gli Stati hanno il diritto di una siffatta condotta, hanno il diritto di portare il tutto al più grande pericolo danno e sventura; e poiché questi sono diritti, i singoli e le comunità devono salvaguardare e difendere rigorosissimamente questi diritti di essere mandati in rovina. Per questo edificio giuridico dello Stato tedesco forse non esiste dunque nessuna insegna più adatta di questa: Fiat justitia, pereat Germania!”op. cit. trad it. in Scritti politici, Bari 1961 pp. 21.

vii Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” perché “ i più potenti degli Stati effettivi hanno leggi assolutamente non uniformi. La Francia aveva prima della Rivoluzione una tale molteplicità di leggi che, oltre al diritto romano che valeva in molte province, in altre dominava quello burgundisco, quello britannico, ecc. e quasi ogni provincia, anzi quasi ogni città aveva una particolare legge tradizionale; uno scrittore francese disse a ragione che chi viaggiasse lungo la Francia doveva cambiare leggi tanto frequentemente quanto i cavalli dei servizi postali.

Non meno fuori dal concetto dello Stato giace la circostanza dello stabilire da quale particolare potenza, o secondo quale rapporto di partecipazione dei diversi stati o dei cittadini in generale devono essere date le leggi; Op. cit. pp. 32-22 (i corsivi sono nostri).

viii Quanto poco, prima e in sguito, la somiglianza delle religioni nella separazione in popoli potè impedire le guerre e riunirli in uno Stato, altrettanto poco nei nostri tempi la diversità della religione sgretola uno Stato. Op. cit. p. 36

ix Op. cit. p. 44 (i corsivi sono nostri)

x Mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, p. 25 ss.

xi v. Trattato politico, trad. it. Torino 1958, p. 205.

xii Montesquieu, Esprit des lois I, 1, 1

xiii Montesquieu, Esprit des lois, 1. I, 3: le leggi «doivent être tellement propres au peuple pour lequel elles sont faites, que c’est un trés grand hasard si celles d’une nation peuvent convenir à une autre».

xiv Era cioè proprio il contrario di quanto sosteneva Montesquieu. Ovvero che le leggi “devono essere in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili.

Queste leggi debbono essere in relazione col carattere fisico del paese, col suo clima gelato, ardente o temperato; con la qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione, col genere di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori: esse debbono essere in armonia col grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero, i loro commerci, costumi, maniere. Finalmente, esse hanno relazioni reciproche; con la loro origine, col fine del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali esse sono state costituite. Noi le dobbiamo considerare sotto tutti questi vari aspetti, ed è appunto ciò che intendo fare nella mia opera. Esaminerò tutte queste relazioni: esse, nel loro insieme, formano ciò che viene chiamato lo spirito delle leggi”. Lo spirito delle leggi deriva quindi dalle relazioni con i condizionamenti concreti e reali (tra cui i nemici e le guerre possibili) che erano considerati nei libri IX e X, che costituicono una vera miniera di intuizioni sul rapporto tra fattori geo-politici e istituzionali.

xv V. Über verfassungswesen, trad. it. in Behemoth n. 20, p. 5 ss.. E’ da notare che Lassalle muoveva una critica penetrante ai giuristi suoi contemporanei “tutte queste definizioni giuridiche formalmente simili aono altrettanto lontane quanto la precedente risposta in ordine alla costruzione di una risposta effettiva alla mia domanda. Perché tutte queste risposte contengono sempre e solo una descrizione esterna del come una costituzione viene ad esistenza e di ciò che una costituzione fa, ma non l’informazione: cosa una costituzione è. Esse indicano criteri, segni di riconoscimento, da cui si riconosce una costituzione dall’esterno e sul piano giuridico” per cui concludeva “ Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogmi società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” i corsivi sono nostri. V. op. cit. p. 5-6.

xvi H. Triepel Völkerrecht und Laudesrechts, trad. it. Torino 1913 pp. 4-5. (i corsivi sono nostri)

xvii Montesquieu considerava con favore le repubbliche federate perché federarsi è l’unico modo per dei piccoli Stati, di difendersi. “Furono queste associazioni a render fiorente per così lungo tempo la Grecia. Grazie ad esse i Romani attaccarono il mondo intero, e grazie ad esse sole il mondo intero si difese contro di loro. Quando Roma raggiunse il massimo della propria grandezza, fu per mezzo di simili associazioni poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della paura, che i barbari poterono resistere… Le associazioni tra città erano in altri tempi più necessaria di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa correva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la perdita non soltanto del potere esecutivo e legislativo, come avviene oggi, ma anche di tutte le proprietà individuali”. Poco dopo specificava che il non poter contrarre alleanza significa per l’appunto di non poter condurre una politica estera diversa dalla federazione Esprit des lois, Lib. IX, cap. 1-3.

xviii “Tutte le istituzioni generano un diritto disciplinare che resta al loro interno, si caratterizza per essere gerarchico e perché, davanti ai Tribunali che lo applicano, le parti non sono in posizione d’eguaglianza” Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 98.

xix Hauriou op.loc. cit., e aggiunge “Mentre Thémis ha la propria fonte nell’organizzazione sociale, Dike trova la propria nella socievolezza umana che non perde i propri diritti neppure di fronte agli stranieri, e del pari di fronte ai nemici”.

xx Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo, p. 477, Milano 1984.

xxi v. sul punto C. Schmitt op.cit.p. 493: “Ma poiché le questioni dell’esistenza politica possono presentarsi diversamente nei diversi ambiti, specialmente in politica estera ed interna, allora è possibile che la decisione su una specie determinata di siffatte questioni, per esempio le questioni dell’esistenza in politica estera, abbia luogo nella federazione, mentre la decisione di altre questioni, per esempio il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica all’interno di uno Stato membro, rimanga nello Stato membro. Questa non è una divisione della sovranità, ma deriva dalla coesistenza della federazione con i suoi membri: non si verifica una divisione, perché il caso di un conflitto, che determina la questione della sovranità, riguarda l’esistenza politica in quanto tale e la decisione nel caso singolo spetta sempre interamente all’uno o all’altro”

xxii v. op. cit., p. 480.

xxiii V. in Palomar n. 18, pp. 49 ss.

xxiv Op. cit., p. 480-481.

xxv v. gli articoli di Jean Claude Paye in Behemoth nn. 35, 37, 38.

xxvi Anabasi, I, 2.

xxvii In effetti in tali guerre, essendo “distribuito” lo jus belli, non c’è il criterio distintivo delle auctoritas cioè il diritto di dichiarare e muovere guerra, indicato da S. Tommaso e dai teologi-giuristi della Tarda Scolastica come una delle condizioni dello justum bellum.

xxviii V. Leviathan (conclusione); scrive Hobbes “E così sono giunto alla fine del mio trattato sul governo civile ed ecclesiastico, al quale hanno data occasione i disordini del tempo presente, e che è stato composto senza parzialità, senza prevenzione e senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservaznza inviolabile”, (il corsivo è nostro) trad. it. di Mario Vinciguerraq, vol. II, Bari 1974, p. 661.

xxix V. la definizione di G. D. Romagnosi in Scienza delle costituzioni, Firenze 1850 (tra i tanti che l’hanno ripetuto) v. V.E. Orlando nel discorso sopra citato alla Costituente.

xxx “Distinguo tre tipi di pace, equilibrio, egemonia, impero: in un dato spazio storico, le forze delle unità politiche o si controbilanciano o sono dominate da quelle di una di esse, oppure infine sono superate da quelle di una di esse in modo che tutte le unità, salvo una, perdono la loro autonomia e tendono a sparire in quanto centri di decisioni politiche” Paix et guerre entre les nations, trad. it. F. Airoldi Namer, Milano 1970, p. 188 (i corsivi sono nostri).

xxxi “La classificazione ternaria delle paci ci fornisce nello stesso tempo una classificazione, la più formale e la più generica, delle guerre: le guerre «perfette», conformi alla nozione politica della guerra, sono interstatali: in esse si affrontano unità politiche che si riconoscono reciprocamente esistenza e legittimità. Chiameremo soprastatali o imperiali le guerre il cui oggetto, o rigine o conseguenza, sia l’eliminazione di certi belligeranti e la formazione di un’unità al livello superiore. Chiameremo infrastatali o infraimperiali le guerre la cui posta è il mantenimento o la decomposizione di un’unità politica, nazionale o imperiale” op. cit., p. 191; si noti che Aron attribuisce allo Stato imperiale il monopolio della violenza legittima. Si può concordare a patto di chiarire che quando c’è uno Stato imperiale, questo è più Stato che Impero, e che l’essenza “statale” può essere prevalente in certe aree, e più sfumata in altre (come in molte colonie extraeuropee degli Stati europei).

xxxii Op. cit., v. (tra gli altri) §258 “Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale”, mentre “L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido”, trad. it. di V. Cicero, Milano 1996, p. 417-419.

xxxiii V. Julien Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 94 ss.

Transizione energetica e dogmatismo, di Alessandro Visalli

Si parla di leggi inesorabili del mercato; in realtà la condizione di sofferenza dei paesi europei nelle forniture energetiche è il frutto della sudditanza geopolitica e di scelte scellerate sulle modalità di fornitura e sulla gestione delle scelte di conversione ecologica. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Dati ed informazioni.
Transizione energetica.
Settore fotovoltaico.
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Nel 2021 a livello mondiale si prevedono 180.000.000 di kW di nuova potenza installata (3 kW sono la potenza media installabile per i consumi di una famiglia) e nel 2022 se ne prevedono pochi di più. Equivalente quindi alla capacità per i consumi domestici di 60.000.000 di famiglie, una nazione come l’Italia o la Corea del Sud.
La spinta ad installare viene dagli Usa e Australia, in misura minore dall’Europa, ma soprattutto dalla Cina, nel paese asiatico si installano 25.000.000 di kW con una crescita del 60% sul 2020.
Ma molti progetti in questo momento sono rinviati per la dinamica dei prezzi delle componenti. I moduli sono cresciuti di prezzo del 15% negli Usa, ma, soprattutto, c’è molta incertezza nella catena logistica che si traduce in difficoltà a rispettare tempi e qualità delle consegne. Chiaramente per i grandi cantieri questo è un problema enorme ed un fattore di costo molto rilevante. In un impianto il costo della manodopera incide almeno al 30%.
Il prezzo dei moduli dipende da un vertiginoso incremento del costo del polisilicio con cui sono costruiti, che è aumentato da 6,3$/kg del 2020 a 37 $/kg del 2021. Si spera che comincino a scendere dal 2023-24, in concomitanza con l’aumento della produzione cinese (fuori dello Xinjiang) e la riapertura degli stabilimenti americani e tedeschi o malesi che erano stati chiusi per la concorrenza cinese.
Altri fattori di rallentamento ed incertezza sono le difficoltà di spedizione ed i relativi costi. Nel 2020 e 2021 sono aumentati del 500%, arrivando a 0,03 $/Wp (ovvero 17,5 $ per un pannello da 585 Wp), prima erano circa 3 $.
Quindi l’incremento dei costi delle altre materie prime (argento, rame, alluminio, vetro) che in alcuni casi sono letteralmente fuori controllo.
D’altra parte la stessa congiuntura mondiale (che non sono convinto essere passeggera, potendo essere invece un punto di svolta di sistema) determina alti costi dell’energia in tutto il mondo. Quindi la riattivazione di investimenti potrebbe avvenire anche rinegoziando i precontratti di vendita (per lo più gli impianti di grande taglia sono ‘bancati’ avendo in pancia un contratto di vendita di lungo periodo a sconto sul prezzo medio atteso, che con i prezzi in vertiginosa crescita di questi mesi è diventato estremamente svantaggioso per loro).
II
Mi dicono che nel libro (che non ho letto) di Diego Zanetti “Adam Smith a Mosca”, nel quale è analizzata la politica russa degli ultimi venti anni la tesi sia che nel sistema del grande paese euroasiatico sia stato sviluppato un modello a-capitalistico nel quale la salda presa dello Stato si esprime nella predominanza delle imprese statali (70% del Pil), con il monopolio della produzione ed esportazione energetica che è stata la grande battaglia di Putin al suo esordio (ricordare la lotta senza esclusione di colpi ai satrapi energetici privati) altamente tassato, e la presenza complementare di piccole e medie imprese che operano in mercati tenuti in stato molto concorrenziale (per cui i profitti sono bassi, la composizione organica del capitale non supera certi livelli e l’occupazione è alta). La conclusione sarebbe, appunto, che questo modello assomiglia a quello cinese e allo ‘sviluppo naturale’ smithiano (su questo torniamo leggendo “La ricchezza delle nazioni” prossimamente). E quindi sarebbe propriamente ‘non capitalista’ (se con questo termine si intende il dominio del capitale mobile, ovvero dell’alleanza tra alta finanza e grande industria internazionalizzata).
La politica della nazione russa sarebbe quindi rivolta essenzialmente a garantirsi un sentiero di sviluppo autonomo dal grande capitale internazionale e dalle intromissioni dell’imperialismo occidentale.
In questa direzione assume qualche interesse la vicenda che ci sta colpendo (e ci colpirà) ogni mese quando paghiamo e pagheremo le nostre bollette elettriche (e del gas). Il prezzo del gas, dopo mesi di tensione causati dalle strozzature distributive frutto dello shock pandemico mondiale, è andato in sofferenza per la ripresa delle produzioni e dei consumi in questo rimbalzo mondiale nel ’21. Alla ripresa post estiva (quando i prezzi calano per effetto della chiusura delle fabbriche) Gazprom (società monopolista pubblica russa) ha ridotto in una misura che per alcune fonti è del 70% le forniture di gas all’Europa. In parte perché le ha aumentate alla Cina e perché i contratti di lungo periodo, che garantivano la fornitura, erano stati sostituiti da contratti “spot” durante la crisi. Ciò è accaduto sui gasodotti che passano per la Bielorussia tra settembre ed ottobre, quando sono scese da 112 milioni di mc a 30. Ma anche quelle attraverso l’Ucraina sono scese da 110 ml a 85. Infine le forniture tramite l’oleodotto Yamal, che sbocca in Polonia, sono scese della metà. Quindi i prezzi ‘future’ sul mercato TTF olandese sono saliti del 100%.
La Russia si è dichiarata pronta ad aumentarle e, nello stesso momento, ha assicurato che le forniture a lungo termine sono state sempre rispettate (ma, appunto, ormai erano ridotte ad una frazione del necessario perché la Commissione uscente aveva deciso di comprare “spot” il necessario di volta in volta, per lucrare sul basso prezzo di mercato nella fase di debolezza).
Che succede?
Se ricordiamo l’analisi prima condotta, sulla centralità delle grandi aziende estrattive e distributive di Stato nella strategia di assunzione di controllo del proprio percorso di sviluppo (e, quindi, in ottica chiaramente geopolitica), si apre una chiave.
Ma, prima, ci vuole un altro tassello: la Russia ha appena completato l’allaccio del gasodotto North Stream che ha provocato negli scorsi anni le più fiere battaglie con gli Usa e i suoi alleati e le tensioni degli stessi con la Germania (terminale e quindi principale beneficiario della infrastruttura).
Il gasodotto fornisce energia direttamente dalla Russia alla Germania senza passare per la delicata regione bielorussa o ucraina. E ha la potenzialità di fornire 1/3 del fabbisogno europeo, risolvendo d’un sol colpo qualsiasi problema di forniture e, quindi, riportando i prezzi del gas (e quindi dell’energia elettrica) sotto controllo. Ciò mentre arriva l’inverno.
Facile, no?
Non proprio, perché la Ue tiene ferma la cosa in quanto vuole imporre ai Russi “l’accesso non discriminatorio alla rete” per tutti i concorrenti. Ovvero imporre che il proprietario dell’infrastruttura non possa praticare prezzi diversi ai diversi clienti, inibirne l’accesso, (il gas si può comprare, ad esempio, da un operatore o distributore italiano, anche alla fonte e far passare sui tubi pagando il servizio, se viene consentito). Ma la Russia vuole gestire il gasodotto come un proprio monopolio, avendolo costruito. La Bundesnetzagentur all’inizio del mese ha quindi minacciato multe.
La battaglia vede quindi, semplificando, la Russia che tiene sulla corda l’Europa con le forniture di gas per ottenere una piena capacità di vendita discrezionale sulla infrastruttura del North Stream. La Ue, probabilmente d’accordo con il Dipartimento di Stato, che vuole imporre allo Stato estero il rispetto della normativa europea sulla concorrenza, e quindi disattivare il potenziale geopolitico della fornitura.
Noi che, per ora, siamo in mezzo paghiamo i rincari del 40% delle
bollette.
In ogni piccola cosa non si capisce niente del mondo se non si considera quanto è interdipendente, e quanto sono grandi i conflitti per diminuire la dipendenza (ed imporla agli altri).

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome, di Alastair Crooke

Casa

11 dicembre 2021 // Le crisi

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome

L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente, scrive Alastair Crooke

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke
Tradotto dai lettori del sito Les-Crises

© Foto: REUTERS / Kevin Lamarque

Parlando all’Aspen Security Forum due settimane fa, il generale Milley ha ammesso che il secolo americano è finito, una consapevolezza che avrebbe dovuto essere presa molto tempo fa, si potrebbe dire. Eppure, che sia tardi o meno, questa dichiarazione sembra segnalare un importante cambiamento strategico: “Stiamo entrando in un mondo tripolare, con Stati Uniti, Russia e Cina come grandi potenze. [e] Solo mettendo tre su due aumenta la complessità “, ha detto Milley.

Più recentemente, in un’intervista alla CNN, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, ha affermato che è stato un errore cercare di cambiare la Cina: “L’America non sta cercando di contenere la Cina: non è una nuova guerra fredda. Le osservazioni di Sullivan arrivano una settimana dopo che il presidente Biden ha affermato che gli Stati Uniti non stavano cercando un “conflitto fisico” con la Cina, nonostante le crescenti tensioni. “Questa è una competizione”, ha detto Biden.

Questo in effetti sembrava segnalare qualcosa di importante. Ma è davvero così? L’uso della parola “competizione” è una terminologia un po’ strana e richiede un po’ di decrittazione.

L’intervistatore della CNN Fareed Zakaria ha chiesto a Sullivan: cosa è stato ottenuto dalla Cina dopo tutto il tuo duro discorso, cosa è stato negoziato? Si potrebbe immaginare una risposta che descriva come Biden pensa di gestire al meglio questi interessi in competizione in un complesso mondo tripolare. Beh, quella non era la linea di Sullivan. “Brutta domanda”, ha detto senza mezzi termini: non chiedere informazioni sugli accordi bilaterali, chiedi cos’altro abbiamo.

Il modo corretto di guardare a questo, ha detto Sullivan, è: “Abbiamo stabilito i termini per una concorrenza effettiva in cui gli Stati Uniti siano in grado di difendere i propri valori e promuovere i propri interessi, non solo nella regione indo-pacifica, ma anche Intorno al mondo. Quando si tratta dei nostri alleati in tutto il mondo, gli Stati Uniti e l’Europa sono allineati su questioni commerciali e tecnologiche per garantire che la Cina non possa “abusare dei nostri mercati”; e poi sul fronte indo-pacifico, siamo andati avanti in modo da poter ritenere la Cina responsabile delle sue azioni. “

“Vogliamo creare la situazione in cui due grandi potenze opereranno all’interno di un sistema internazionale per il prossimo futuro – e vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori americani: è più di una disposizione favorevole in cui il Gli Stati Uniti e i suoi alleati possono modellare le regole di condotta internazionali sui tipi di questioni che saranno fondamentalmente importanti per il popolo del nostro paese [America] e per i popoli del mondo “, ha affermato. -aggiunge.

L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era cercare una trasformazione politica in Cina, ha detto Sullivan, ma modellare l’ordine internazionale in un modo che servisse i suoi interessi e quelli di altre democrazie che la pensano allo stesso modo: “Vogliamo le condizioni per questa coesistenza in il sistema internazionale favorevole agli interessi e ai valori americani. Vogliamo che le regole del gioco riflettano una regione indo-pacifica aperta, equa e libera, un sistema economico internazionale aperto e il rispetto dei valori e degli standard fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nelle istituzioni internazionali, ha dichiarato. . Sarà una competizione mentre andiamo avanti. “

Sullivan propone molto chiaramente un ordine mondiale basato su “regole di condotta internazionali” che si svilupperebbe attorno ad un interesse strategico centrale (quello dell’America), senza preoccuparsi delle conseguenze che potrebbero derivarne per gli altri. Questo “sistema internazionale aperto, equo e libero” è solo uno strumento per la globalizzazione del sistema neoliberista occidentale finanziarizzato. Josh Rogin ha scritto questa settimana: “L’internazionalismo a guida americana, nonostante i suoi difetti e i suoi passi falsi, rimane l’ultima, la migliore speranza per l’umanità. “

E per intenderci, quando sentiamo parlare di un sistema economico aperto e libero favorevole agli interessi americani, non sono gli “interessi del 99%” a essere sanciti nel sistema, ma quelli della classe finanziaria dell’1%. , che pretendono il diritto di spostare denaro e beni ovunque, in qualsiasi momento, senza restrizioni.

Il riferimento di Sullivan ai diritti umani riflette lo “spirito” dell’UE, dove la dottrina dello stato di diritto europeo è servita come dispositivo pratico per estendere l’autorità centrale dell’Unione senza riscrivere i trattati. O, in questo caso simile, che gli Stati Uniti espandano la propria autorità e procedano senza dover concludere accordi bilaterali con la Cina (o la Russia) o chiunque altro. Sullivan è stato molto chiaro su questo punto: gli accordi negoziati con la Cina non erano il “parametro di riferimento” giusto per giudicare il successo della politica statunitense.

Inizialmente, nessuno in Europa si è preoccupato molto quando la Corte europea ha “scoperto” che nei trattati dell’UE era nascosta una supremazia generale dei valori e del diritto dell’UE (sebbene a prima vista non fosse così evidente). Questa tranquilla reazione, tuttavia, è in gran parte dovuta al fatto che la competenza dell’UE era ancora piuttosto limitata all’epoca.

Successivamente, il trasferimento graduale della sovranità nazionale a un interesse strategico centralizzato (Bruxelles) divenne il principale motore di quella che è stata definita “integrazione attraverso il diritto”. Nel tempo, una lettura approfondita dei trattati (per i trattati europei, leggi la “consacrazione” di Sullivan della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) ha offerto nuove ragioni per sottoporre le politiche nazionali democratiche a una lettura sovranazionale. “

Allo stesso modo, la Dichiarazione universale dei diritti umani offrirà probabilmente a Sullivan nuove ragioni e possibilità per armare il testo e piegare alleati e “avversari” alla disciplina di interesse strategico centrale (altrimenti nota come Washington).

Quindi, quello che sembrava segnalare un cambiamento significativo nel pensiero americano, dopo un po’ di decrittazione, si è rivelato nulla del genere. La competizione tra le grandi potenze non è altro che l’ordine globale globalista, incentrato sugli Stati Uniti e basato su regole. Gli Stati Uniti si astengono dal “trasformare” (cioè fomentare una rivoluzione colorata) il Partito Comunista Cinese, perché non possono; questo strumento si applica ancora ai piccoli pesci (es. Nicaragua).

Da un lato, abbiamo visto le conseguenze di questo approccio centralizzato alle “regole” – praticato a Bruxelles oa Washington: ne deriva una sorta di torpore soporifero. Tutte le energie sono dedicate a mantenere a galla il fragile sistema (che si tratti delle regole del gioco dell’UE o degli Stati Uniti), piuttosto che trovare soluzioni reali. Si aprono divisioni che politicamente è impossibile contenere; il risentimento aumenta; le crisi sono gestite e non risolte; giochiamo con il tempo; le riforme sono graduali e poi improvvisamente unilaterali; e, alla fine, regna l’immobilità. In Europa si chiama Merkelismo (dal nome del Cancelliere tedesco).

Dopo il tranquillo vertice del G20 a Roma e la COP26 a Glasgow, sembra che stiamo iniziando a vedere la Merkelizzazione del mondo. La sensazione che rimane è quella di un meccanismo (due in realtà se includiamo l’UE), che produce suoni convincenti di macchine ruggenti e che fa sperare in qualche risultato, ma che non porta alla fine a poco o nulla – ad eccezione di un crescente deficit democratico, con il trasferimento a una tecnocrazia sovranazionale di decisioni che prima erano di competenza dei parlamenti.

D’altra parte, per quanto grave sia (date le crisi economiche che affrontiamo), il suo più grande ” peccato ” (come ha detto Sullivan) è la sua richiesta di ” regole ” globali, il cui fondamento è semplicemente “Gli interessi e i valori degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner”. Sullivan sostiene che gli Stati Uniti non cercano più di trasformare il sistema cinese (il che è positivo), ma insiste sul fatto che la Cina operi all’interno di un “ordine” costruito attorno agli interessi e ai valori degli Stati Uniti – in breve[in francese nel testo, ndr]. E come ha sottolineato Sullivan, lo sforzo diplomatico americano deve mirare a costringere la Cina a conformarsi a questo sistema. Da nessuna parte si parla dei costi per gli alleati, che dovrebbero rinunciare ai rapporti con la Cina o la Russia, per compiacere Biden.

Il peccato più grande , molto semplicemente, è che il tempo di queste ambizioni arroganti sia passato. L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente. Cina e Russia – le altre due componenti del mondo tripartito del generale Milley – lo hanno detto abbastanza chiaramente: rifiutano le lezioni dell’Occidente.

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke, 15-11-2021

DEL DISCORSO LUNGO E DI QUELLO CORTO, di Pierluigi Fagan

DEL DISCORSO LUNGO E DI QUELLO CORTO. Ho finito ieri di leggere “Il capitalismo della sorveglianza” di S. Zuboff, eletto fondamento della tradizione critica degli ultimi decenni assieme a Primavera silenziosa, No Logo, Impero, Il Capitale del XXI secolo etc (questo ultima lista la riferisco come di altri, non è mia). La tesi del libro è condensata -in parte- nel titolo e declinata secondo quanto riportato dalle principali recensioni che troverete facilmente sui motori di ricerca.
Ma del libro mi interessa rilevare un altro aspetto. Il libro sviluppa 539 pagine nette, al netto cioè delle note. Non è né noioso, né difficile da seguire, anzi, merito dell’autrice è quello di dipanare la matassa con accorta lentezza ritornando più volte sui punti precedenti di modo da costruire nel tempo, la struttura di ciò che intendeva comunicare. Sono quindi 539 pagine “necessarie”. Necessarie all’autrice per dirci ciò che aveva da dirci, necessarie al lettore per assorbire informazioni, tesi, concetti e struttura del discorso. Discorso riferito a fatti, molti fatti, interpretati e giudicati con parziale giustificazione del sistema mentale dell’autrice quanto ad interpretazione e giudizio. L’autrice è docente di psicologia sociale ad Harvard, ma si è immersa a fondo nell’argomento riportandoci non solo analisi ma fatti con analisi. La parte della sua immagine di mondo dedicata a questo lavoro di analisi, dichiara esplicitamente il debito di conoscenza con Marx, Durkheim, Weber, Arendt, Polanyi forse più di ogni altro.
Il punto è che, in auto-analisi, debbo rilevare una differenza di conoscenza tra quello che sapevo prima di leggerlo e dopo. La tesi mi era nota, mi era nota a grandi linee la tesi specifica della Zuboff ma mi era nota la faccenda più in generale avendone letto in più di una dozzina di testi oltre la marea di articoli che turbinano nell’argomento, già da parecchio tempo. Tuttavia, solo la lettura delle 539 pagine mi ha dato tutti i livelli del discorso fatto dalla Zuboff. È un po’ come coi concetti.
Se provenite da una vasta e profonda conoscenza di un argomento, il concetto vi permette di zippare tutta la conoscenza che risiede nella vostra mente, in un sintetico. Quel sintetico agile e limitato, lo potrete usare con altri sintetici per costruire nuovi pensieri. Nella vostra mente ci sarà l’argomento vasto ed approfondito da una parte e per certi usi, la sua condensazione nel concetto che userete per costruire altri argomenti dall’altra. Tutto ciò ha base però nella conoscenza del discorso lungo.
Dopodiché potrete scrivere una recensione per chi non ha letto il libro o addirittura citarne il concetto dentro altri discorsi. L’informazione di massa, nei media moderni o in quello ultra-moderno di Internet (social, blog etc.), veicola solo i concetti. Spesso neanche quelli, si va direttamente al giudizio. Ma cosa capisce la gente dei concetti se non è stata esposta al processo di condensazione del discorso lungo in quello breve che è appunto il concetto? O peggio cosa capisce di un giudizio se non ha neanche il concetto per non dire del discorso lungo che questo vorrebbe zippare?
Prendiamo l’ultimo Rapporto Censis. Viaggiano articoli di commento e tabelline postate sui social con commenti vari. Chi usa il testo per sostenere A, chi per sostenere B, chi per invalidare quello che sostiene B e viceversa, chi per invalidare alla radice la credibilità del Censis e dei suoi dati statistici sintetici. Stamane sono andato su loro sito ed ho letto una sintesi meno sintetica di una tabellina sul tema dell’irrazionalità, che allego. Be’ la sintesi che pure è sintetica rispetto al testo del Rapporto è molto diversa nel senso e significato rispetto ai commenti che girano nell’informazione e nella suburra social.
Di nuovo, il discorso lungo io non l’ho neanche letto visto che non ho letto il Rapporto (per anni, quando lavoravo, andavo a comprare e poi leggere il Rapporto Censis perché era la fonte principale di una vasta analisi sociale, un tipo di analisi che cinquanta anni fa facevano in molti ed in molti modi ed era parte della cultura medio-alta diffusa con fonti plurali. Negli ultimi decenni s’è fatta sempre meno, comunicata ancora meno e da ultimo, per niente, senza che nessuno se ne lamentasse). Potrei dire di conoscere abbastanza l’argomento per varie ragioni di studio e di interesse, ma ciò che mi sembrava emergere esponendomi al flusso delle informazioni, non corrisponde neanche un po’ alla pur limitata sintesi dell’articolo pubblicato dallo stesso Censis che ho letto stamane. Di nuovo, quali sono i rapporti tra i nostri discorsi brevi e quelli lunghi nel dibattito pubblico?
Oggi abbiamo folle che credono alla scienza ed altri che non ci credono a priori. Cinquanta anni fa era consenso diffuso almeno nelle vaste platee critiche (che erano più vaste delle attuali) il concetto di “non neutralità della scienza e degli scienziati”. Il che però non significava pensare a priori che qualsiasi informazione scientifica fosse una bufala ideologica. Di nuovo, il discorso lungo predispone ad assorbire informazioni, schemi interpretativi, riferimenti su cui applicare la lente critica per filtrare il tutto e discernere il grano dal loglio, facendosi una opinione. Il discorso breve invece dà l’illusione di avere un concetto, quindi una conoscenza, ma in realtà dà solo un geroglifico il cui senso e significato non si ha. Tale geroglifico inserito nel giudizio dato dalla fonte a cui prestiamo credibilità a priori, determina la nostra illusione di conoscenza.
Farò un altro esempio. Tempo fa mi sono concesso qui nel mattatoio dell’intelligenza che è facebook, un cinque minuti di polemica con una signora che sosteneva l’evidenza della bufala del problematico problema climatico, rilanciando il concetto che la CO2 era la “molecola della vita”. Come poteva la molecola della vita insidiare la vita? La signora non sapeva che non è la qualità intrinseca della CO2 ma la sua quantità il problema. La signora spedita sulla superfice di Venere dove l’eccesso di CO2 crea un effetto serra tale che al suolo ci sono 400°, si sarebbe letteralmente squagliata in pochi secondi anche se prima, per sua fortuna, sarebbe morta di collasso per colpa della sua “molecola della vita”.
Quello climatico è un discorso lungo, come quello economico, ambientale, geopolitico, politico e sociale, tecno-scientifico, filosofico o qualsivoglia altro. Questi discorsi lunghi richiedono tempo, tempo per conoscere, digerire, elaborare, sintetizzare, costruire sintesi di sintesi, dibattere con altre menti. Tempo che mediamente nessuno ha poiché nel nostro ordinamento il tempo è denaro ed il denaro è la fiche del gioco, gioco sociale che non possiamo non giocare sebbene il casinò non l’abbiamo scelto noi, ci siamo stati “gettati”.
Noi viviamo in una società che si dice dell’informazione, ma il sottostante è una società dell’ignoranza. La società dell’informazione è una società dei discorsi brevi, dei concetti (se ti va bene, più spesso delle sole “asserzioni”), dell’illusione di sapere ciò su cui esprimiamo giudizi. Questa grande illusione della società dell’informazione, che scambia la conoscenza con l’informazione, il discorso lungo con quello breve, copre una società profondamente ignorante, siamo nella palese diseguaglianza della conoscenza da cui ogni altra sopravviene.
La società è profondamente ignorante per il semplice fatto che i discorsi lunghi presuppongono il tempo ed il tempo è una risorsa scarsa passibile di usi alternativi, ma non scelti in libertà perché il contratto sociale (oggi derogato sistematicamente da élite strette tra ignoranza ed irrisolvibile conflitto di interessi) impone che più della metà del tempo di veglia sia dedicato a procurarsi le fiche del gioco, che poi è la nostra stessa esistenza; quindi, un gioco “che non si può non giocare”.
Il rischio adattivo che corriamo perché siamo capitati in un mondo sempre più complesso ovvero fatto di questioni molteplici la cui conoscenza presupporrebbe molto tempo, è che questo mondo va da una parte e dall’altra va la nostra illusione di partecipare al discorso pubblico, alimentata da asserzioni senza concetto o concetti senza conoscenza nel turbinio informativo a cui ci dedichiamo quando non abbiamo altro da fare, oltretutto convincendoci che l’informazione del discorso breve possa surrogare la conoscenza del discorso lungo.
Il che ci porterebbe ad una istanza politica prioritaria: rivendicare il tempo. Le teorie politiche critiche, ma direi “alternative allo stato di cose” perché sono svariati decenni che avremmo dovuto capire che la critica è un passivo mentre il mondo è un attivo e l’attivo non viene all’essere dal passivo (dal non essere), dovrebbero avere in cima al proprio elaborato il punto: senza il tempo non c’è conoscenza, senza conoscenza non c’è democrazia, senza democrazia falliremo l’adattamento e ne patiremo lungamente e dolorosamente le conseguenze.
Con una società dell’ignoranza dentro un’era in cui aumenta vistosamente la complessità, la predizione è facile, ma non confortante. Scusate la lunghezza.
[A chi mai interessasse, il paper del Censis: https://www.censis.it/rapport…/la-societ%C3%A0-irrazionale. Una breve aggiunta sul tema del giorno: l’irrazionale. Il concetto è ingannevole, il ragionamento irrazionale non rinuncia affatto alla razionalità, solo, la applica ad una insufficiente conoscenza. Non c’è una epidemia di illogica, c’è una epidemia di ignoranza. ]

Che succede tra la Francia e l’Egitto?, di giuseppe_gagliano/

Qui sotto un interessante articolo di Giuseppe Gagliano, tratto dalla rivista https://www.startmag.it/ riguardante un episodio di informazione pilotata in grado di condizionare ed alterare gli indirizzi di politica estera francese in tutta l’area mediorientale e mediterranea. La lettura spinge ad alcune considerazioni a più livelli di astrazione. Ci suggerisce che limitare l’analisi geopolitica al mero rapporto può essere riduttivo e fuorviante. Chi agisce non è lo Stato in quanto tale, ma sono i soggetti, siano essi individui o soprattutto gruppi, in conflitto e cooperazione tra di essi, dotati di poteri decisionali e di condizionamento, in grado di rappresentarlo, di detenere le leve operative e di influenzarle. La titolarità dell’autorità è un fattore importante di agibilità se ad essa corrisponde una coerenza ed un controllo effettivi e sostanziali degli apparati. L’impegno ufficiale e formale va di pari passo con le azioni sotto traccia, rivelatrici dei legami trasversali che attraversano la dinamica di questi centri. Nella fattispecie l’articolo rivela le dinamiche di confronto e cooperazione tra alcuni centri decisionali francesi e turchi nel plasmare i rapporti con l’Egitto e i paesi del Golfo, anch’essi attraversati da spinte e controspinte. Il tutto in logiche ancora più estese che fanno riferimento alle fazioni statunitensi, una, quella obamiana, sostenitrice delle primavere arabe, l’altra ad esse ostile. Definire per altro in questo contesto Jamal Khashoggi giornalista, non rende bene la natura di questo scontro e di quell’assassinio. Rivela altresì la permeabilità e la fragilità di quelle formazioni socio-politiche che hanno aperto indistintamente, in nome di una “società aperta” apparentemente priva di identità, i propri spazi a vere e proprie comunità chiuse in grado di condizionare pesantemente e destabilizzare all’interno l’azione politica. Ad un livello ancora inferiore di riflessione deve portare a considerare la portata del Trattato del Quirinale tra l’Italia e la Francia nelle sue implicazioni nell’area mediterranea, in particolare la Libia e l’Egitto. Il trattato in qualche maniera vorrebbe mettere molto parzialmente al riparo l’Italia dalle mire turche nel vicinato prossimo della Libia e dei Balcani, in particolare l’Albania e la Bosnia. La postura, però, è talmente subordinata da farle perdere quasi ogni capacità di mediazione, sostenendo le poche figure, tra queste il figlio di Gheddafi in grado di ricomporre il mosaico libico; l’ultima possibilità di ricostruire in tal modo una nuova capacità di influenza diretta in quell’area. Lo stesso dicasi dei rapporti con l’Egitto di Al Sisi dove l’Italia, grazie all’affare Regeni, è ridotta più o meno consapevolmente a strumento di trame altrui. La liberazione di Zaki sarà probabilmente il contentino per far cadere in ombra l’omicidio Regeni; il prezzo della gestione “dell’affaire” è stato comunque già molto pesante anche per oche giulive artefici di tal fatta di questa tragicommedia. La posta in palio più significativa riguarda la Turchia di Erdogan ed il tentativo di trasformare il suo rapporto di collaborazione conflittuale con la Russia in ostilità dichiarata; di ridurre quindi i suoi margini di iniziativa autonoma e ricondurli nell’alveo del confronto strategico con la Cina e la Russia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Ecco perché il fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R) non condivide quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo Disclose. L’articolo di Giuseppe Gagliano

 

Secondo quanto sostenuto da Eric Denécé, fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R), quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo francese Disclose sarebbe viziato da numerose deficienze informative oltre che da un’impostazione palesemente unilaterale e faziosa.

In primo luogo l’autore osserva – non senza amarezza – come i documenti che sono stati forniti al sito francese provengano dal ministero delle Forze armate e, in particolare, dalla Direzione dell’intelligenza militare e dal ministero degli Affari esteri. Insomma, una vera e propria fuga di notizie fatta probabilmente da analisti che non condividono le scelte poste in essere dall’attuale amministrazione francese in relazione alla vendita di armi e al sostegno al regime egiziano di Al-Sisi.

Data la gravità della condotta posta in essere da questi informatori verrà avviata un’indagine da parte del controspionaggio soprattutto perché chi ha dato questi documenti al sito investigativo francese lo ha fatto con premeditazione cioè con la volontà di danneggiare esplicitamente le relazioni bilaterali tra Francia ed Egitto. Che lo si voglia o no queste informazioni avvantaggeranno i concorrenti della Francia.

In secondo luogo, l’autore sottolinea come il sito dei giornalisti investigativi non sia certo neutrale ma sia relativamente noto in Francia per le sue posizioni antimilitariste e soprattutto per aver sostenuto le rivoluzioni arabe in particolare quelle egiziane.

Un altro aspetto sottolineato dall’autore è il fatto che secondo il sito non vi sia alcun legame tra contrabbando e terrorismo al confine occidentale con l’Egitto. I trafficanti, invece, trasportano come e quando vogliono armi, droga, migranti e vari prodotti di contrabbando come il riso per rifornire il mercato nero.

Il quarto aspetto sottolineato dall’autore è di natura squisitamente geopolitica: egli infatti afferma che l’Egitto stia vivendo in questo momento una grave minaccia terroristica determinata anche dai numerosi traffici di armi sui confini che alimentano diversi gruppi di jihadisti.

Per tutte queste ragioni – che lo si voglia o meno – non si può escludere che questa indagine sia un vera e propria opera di destabilizzazione di natura informativa. Bisogna infatti interrogarsi sullo scopo di questa indagine.

Citiamo le parole dell’autore: “Oltre allo scooping e all’attivismo politico, Disclose mira a interrompere la vendita di armi all’Egitto… a vantaggio conscio o inconscio dei nostri concorrenti. Si tratta innegabilmente anche di un attacco diretto al regime egiziano di Al-Sisi che ha posto fine alla nefasta parentesi dei Fratelli Musulmani e che ha saputo ricostruire stretti rapporti con la Francia. Non ho alcun ricordo di Disclose e dei suoi giornalisti che difendevano i copti egiziani vittime di attacchi terroristici e persecuzioni da parte dei Fratelli musulmani o che hanno riferito come Morsi stava consegnando segreti di Stato egiziani ai suoi padrini turchi e qatarioti che lo hanno sostenuto per destabilizzare il paese, ecc. La loro indignazione è quindi molto selettiva”.

Perché in definitiva le osservazioni di Denécé sono di estremo interesse?

In primo luogo perché i lettori comuni non hanno gli strumenti né per poter verificare quanto sostenuto dal sito investigativo ma neppure per poterlo smentire. In secondo luogo è molto ingenuo pensare – come fanno molti lettori in assoluta buona fede – che da un lato ci sia la verità e che quindi le informazioni debbano essere lette come oro colato e dall’altra parte invece ci sia solo ed esclusivamente la ragion di Stato e le logiche perverse della politica internazionale.

In secondo luogo perché la vendita fatta recentemente dal presidente francese Emmanuel Macron di Rafale ha suscitato la durissima reazione del giornalisti investigativi del sito francese Disclose?

Il sito dei giornalisti investigativi francesi ricorda che dal 2015, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono stati coinvolti nella guerra in Yemen, che ha causato quasi 400.000 vittime. Nonostante la gravità degli abusi commessi e le accuse di crimini di guerra, il tema non è stato all’ordine del giorno della visita di Macron nel Golfo venerdì 3 e sabato 4 dicembre.

Tuttavia, le armi vendute dalla Francia alle due monarchie del Golfo vengono utilizzate direttamente nel conflitto, come rivelano i documenti di “confidenzialità-difesa” ottenuti da Disclose. Queste note scritte dal Segretariato generale per la difesa e la sicurezza nazionale (SGDSN), organizzazione posta sotto l’autorità di Matignon, rivelano che lo Stato francese ha autorizzato, nel 2016, la consegna di quasi 150.000 proiettili all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Pur sapendo che queste munizioni sarebbero state utilizzate nella guerra in Yemen.

Il 12 maggio 2016 si è tenuta a Parigi una riunione della Commissione interministeriale top secret per lo studio delle esportazioni di materiale bellico (CIEEMG), alla presenza dei rappresentanti del ministero degli Affari esteri, della Difesa, dell’Economia e del palazzo dell’Eliseo, poi occupata da François Hollande.

Al centro dei dibattiti, la proposta di rafforzare i controlli sulle esportazioni di armi verso i Paesi coinvolti nella guerra in Yemen. Il ministero degli Esteri, allora guidato da Jean-Marc Ayrault, è favorevole. Si interroga, in particolare, sulle consegne in corso di armi Caesar all’Arabia Saudita.

“La Francia è oggetto di interrogatorio da parte del Parlamento europeo e delle Ong per presunte violazioni del Trattato sul commercio delle armi”, ha avvertito un diplomatico.

Qualunque sia l’avvertimento, il gabinetto di Jean-Yves Le Drian si oppone a ogni forma di restrizione: “Un blocco doganale di apparecchiature già oggetto di un contratto sarebbe difficile da giustificare all’Arabia. I diplomatici sono costretti a concordare con questa opinione. Le armi verranno consegnate”.

Nel dettaglio, si tratta di 41.500 proiettili della compagnia Junghas, sussidiaria di Thales, destinati alla guardia saudita; 3.000 proiettili anticarro, 10.000 proiettili fumogeni, 50.000 proiettili ad alto potenziale esplosivo e 50.000 razzi di artiglieria prodotti da Nexter all’esercito degli Emirati, nonché 346 missili anticarro dalla società MBDA all’esercito del Qatar. Importo totale dei contratti: 356,6 milioni di euro.

Non importa di quali crimini siano accusati i “partner” della Francia. Come l’assassinio dell’ottobre 2018 del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Sabato 4 dicembre, Macron sarà il primo leader occidentale a rimettere in sella il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, sospettato dalla comunità internazionale di aver ordinato l’omicidio.

https://www.startmag.it/mondo/che-succede-tra-la-francia-e-legitto/?fbclid=IwAR3RSddir9W7FO8m42LHWF4En0qe0RfyoDzLgOuooPaNOs9cQyC-kev7KpI

L’oceano mondiale contro il continente, di  Jacek Bartosiak

L’oceano mondiale contro il continente

La potenza marittima dominante sta acquisendo forza per una contesa con una crescente potenza terrestre.

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Per secoli, il potere che controlla i mari – il “World Ocean” – ha ostacolato con successo i rivali continentali e dettato le regole del commercio mondiale. Il geografo tedesco Friedrich Ratzel descrisse questo conflitto come uno tra il Leviatano e il Behemoth, rispettivamente. Il Behemoth cerca di fare a pezzi il Leviatano usando le corna e i denti, mentre il Leviatano cerca di soffocare il Behemoth in modo che non possa respirare, mangiare o bere. Classicamente, questo si riferisce ai blocchi navali, ma nel mondo moderno il Leviatano – gli Stati Uniti – ha altre opzioni meno rischiose, come tagliare l’accesso del Behemoth alla valuta di riserva globale. Questo era di progettazione.

Halford Mackinder credeva che nel tempo il continente avrebbe ottenuto un chiaro vantaggio sull’Oceano Mondiale perché l’Heartland eurasiatico, sebbene inaccessibile alle navi mercantili, è inaccessibile anche alle navi da guerra, ed è quindi immune all’autorità dell’Oceano Mondiale. Allo stesso tempo, le innovazioni nei trasporti ferroviari, stradali e aerei migliorerebbero notevolmente i collegamenti terrestri. La massa terrestre eurasiatica, sosteneva Mackinder, possedeva tutti gli elementi per la mobilità economica e militare (quella che oggi chiameremmo la libera proiezione del potere) su distanze molto lunghe. Come ulteriore vantaggio, il continente godrebbe di linee di comunicazione interne in tutta la massa terrestre eurasiatica, in contrasto con le inefficienti linee di comunicazione esterne del potere che controlla l’Oceano Mondiale intorno all’Eurasia.

Oggi, la Cina sta implementando le idee di Mackinder per il consolidamento eurasiatico tramite la sua Belt and Road Initiative. Autostrade, ferrovie, collegamenti aerei, porti, cavi, 5G e flussi di dati sono tutti sintomi del consolidamento eurasiatico. I decisori di Pechino non hanno dimenticato gli insegnamenti di Nicholas Spykman – anche la loro Belt and Road corre lungo la costa e attraverso i mari costieri eurasiatici – ma il continente verrà necessariamente prima.

L'iniziativa cinese Belt and Road

clicca per ingrandire )

La firma del patto di investimento UE-Cina nel dicembre 2020 è stato un segnale che l’unità transatlantica che ha definito gli equilibri di potere dal 1945 potrebbe scomparire molto rapidamente e che l’Eurasia potrebbe diventare un sistema per la prima volta. Il sistema eurasiatico sarebbe molto complesso e la concorrenza per i mercati e il denaro sarebbe intensa. Una tale svolta degli eventi sarebbe una minaccia per lo stato dell’Oceano Mondiale, una minaccia che gli Stati Uniti non possono tollerare.

La battaglia per la supremazia ha sempre riguardato le catene del valore e la conseguente divisione globale del lavoro. Questi determinano nuove tecnologie e cicli di investimento, che conferiscono denaro e potere a coloro che entrano nel mercato per primi o in una posizione strutturale migliore. L’arbitro ultimo è la potenza militare in grado di dominare la scala dell’escalation, che per la maggior parte è determinata dalla ricchezza.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti godettero di un dominio indiscusso (o, come preferiscono chiamarlo gli americani, leadership o primato). È stata l’unica egemone negli ultimi 30 anni di globalizzazione, sostenuta dal dollaro, dalla Marina degli Stati Uniti e dalle sue portaerei, dal GPS, dalla Silicon Valley, dalla Borsa di New York, da Hollywood, dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Gli Stati Uniti stabiliscono le regole, che gli conferiscono un’influenza massiccia sulla divisione del lavoro nella produzione, nei servizi e nelle catene del valore; prezzi e flussi strategici; la valuta in cui avvengono le transazioni; la direzione e gli obiettivi di investimento; cicli tecnologici e nuove scoperte scientifiche; e regolamenti che modellano il mercato.

La ricchezza e il potere degli Stati Uniti si basano sulle dimensioni della classe media americana, sulla sua immensa capacità di domanda e sulla forza del mercato interno degli Stati Uniti, ma tale potere non sarebbe sorto senza il commercio marittimo nell’Oceano Mondiale. Né gli americani avrebbero il primato senza il controllo dell’Oceano Mondiale, dove ha luogo la maggior parte dei flussi strategici mondiali. Le regole dell’Oceano Mondiale sono fatte in America e difese dalla US Navy, che domina i suoi nemici con la sua flotta ammiraglia di portaerei in grado di proiettare forza lontano dalle coste del Nord America.

Nel mondo moderno, la proiezione di potenza globale attraverso gli oceani e il controllo del traffico marittimo fanno sempre più uso di molti sistemi di osservazione e comunicazione spaziali che aiutano sia la navigazione che la guerra. Ciò riduce notevolmente la nebbia di guerra, che era la rovina del dominio marittimo, soprattutto in mare aperto. Ha aiutato gli Stati Uniti a controllare il corso della globalizzazione e a promuovere i principi del commercio mondiale che hanno funzionato a loro favore, il tutto mentre gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro posizione dominante nella finanza internazionale e il dollaro funge da valuta mondiale. Gli Stati Uniti sono stati in grado di diffondere la propria influenza attraverso gli investimenti e il mantenimento di alleanze militari vantaggiose per Washington, come accordi bilaterali con Giappone, Australia e Corea del Sud e accordi di sicurezza collettiva come la NATO.

Negli ultimi 500 anni, il Nord Atlantico è stato il fulcro geostrategico del mondo. Il controllo del Nord Atlantico nel XIX e XX secolo ha aiutato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna a coordinare e attuare congiuntamente le politiche durante le principali guerre europee dell’epoca. Durante entrambe le guerre mondiali e la guerra fredda, la comunicazione ininterrotta dalla costa orientale degli Stati Uniti all’Europa occidentale è stata la base della forza della NATO e il fondamento della presenza avanzata dell’America nel continente, che ha reso credibili le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti in Europa contro il Vecchio Continente.

L’obiettivo fondamentale della strategia di entrambe le potenze è proteggere i loro interessi e la loro sicurezza e garantire la stabilità e la prevedibilità di un sistema internazionale che serva i loro interessi. Gli elementi chiave di questo sistema sono le linee di comunicazione, anche transfrontaliere, che garantiscono stabilità sociale ed economica e, ove necessario, assistenza militare. Esistono differenze significative tra i confini terrestri e marittimi, e quindi tra le linee di comunicazione. Le linee di comunicazione terrestri sono sempre meno sicure perché le persone vivono sulla terraferma e le loro azioni e interazioni (flussi di capitali, rimesse, migrazioni, ecc.) significano che i confini terrestri sono molto più inclini a cambiare, specialmente in assenza di barriere naturali come le montagne , paludi o foreste.

Inoltre, bilanciare i comportamenti contro la pressione dei poteri terrestri è molto più comune perché a terra ogni minaccia è più immediata. La storia dell’Europa ne è un esempio lampante. I confini terrestri generano più conflitti, che era un’altra ragione per cui l’Eurasia era strutturalmente più debole dell’Oceano Mondiale.

Alfred Thayer Mahan è famoso per aver affermato che le potenze navali che controllano le rotte marittime sono intrinsecamente più potenti delle potenze terrestri. Questo è vero, ma c’erano e ci sono ancora importanti vie di terra. In effetti, per alcuni paesi eurasiatici, come il Kazakistan, non c’è alternativa. Uno di questi percorsi era l’antica Via della Seta, che collegava la Cina all’Europa e attraversava il Medio Oriente e il Levante. Una rete di oleodotti e gasdotti, ferrovie e autostrade essenziali per il funzionamento dell’economia globale garantisce ancora la connettività tra le aree ricche di risorse.

L’Eurasia – abitata da molte nazioni, stati, imperi, gruppi etnici e persino tribù legate insieme in una rete di interessi conflittuali – è estremamente volatile, soprattutto su lunghi orizzonti. Le alleanze sono mutevoli e la fiducia è scarsa. Al contrario, la stabilità delle rotte marittime può cullarci nella falsa sensazione che la navigazione degli oceani sia libera e aperta, al di là del controllo di qualsiasi potenza. Questa percezione persiste in tempi di dominio di un’unica potenza marittima, prima la Gran Bretagna e ora gli Stati Uniti. Ma l’egemonia del mare può in qualsiasi momento negare ad altri il diritto alla navigazione libera e indisturbata, interrompendo i flussi marittimi strategici. Il commercio marittimo tedesco è stato interrotto durante la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti hanno interrotto Cuba durante la crisi missilistica cubana. Lo stesso potrebbe essere tentato in qualsiasi momento lungo gli approcci a Malacca o nel Mar Cinese Meridionale,

Jacek Bartosiak è un esperto di geopolitica e geostrategia e analista senior di Geopolitical Futures. È fondatore e proprietario di Strategy & Future. Il Dr. Bartosiak è l’autore di tre libri: Pacific and Eurasia: About the war (2016), che tratta dell’imminente rivalità delle grandi potenze in Eurasia e della potenziale guerra nel Pacifico occidentale; Il Commonwealth tra terra e mare: On war and peace (2018), sulla situazione geostrategica della Polonia e dell’Europa nell’era della rivalità tra le potenze in Eurasia; e Il passato è un prologo sui cambiamenti geopolitici nel mondo moderno. Inoltre è Direttore del Programma Giochi di Guerra e Simulazione della Fondazione Pulaski; Senior Fellow presso The Potomac Foundation a Washington, co-fondatore di “Play of Battle”, che prepara simulazioni militari; socio della Nuova Confederazione e del New Generation Warfare Center di Washington; membro del gruppo consultivo del Plenipotenziario del governo per il porto di comunicazione centrale (2017-2018), presidente del consiglio di amministrazione della società Centralny Port Komunikacyjny Sp. z oo (2018–2019). Il Dr. Bartosiak interviene a conferenze sulla situazione strategica nell’Europa centrale e orientale, nel Pacifico occidentale e in Asia. Laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza e Amministrazione dell’Università di Varsavia, è socio amministratore di uno studio legale che si occupa di servizi alle imprese dal 2004.

COMUNITÁ, DIRITTO, STATO: IN MARGINE AD UN SAGGIO DI HÖHN, di Teodoro Klitsche de la Grange

COMUNITÁ, DIRITTO, STATO: IN MARGINE
AD UN SAGGIO DI HÖHN
1. L’Aja, agosto 1937, secondo congresso di diritto comparato. I vari paesi
mandano un proprio rappresentante per illustrare la condizione del diritto in
ciascun Stato. La Germania invia Theodor Maunz e Reinhard Höhn, che
illustra il contributo che qui viene commentato e proposto: Popolo, Stato e
diritto. La memoria va subito al saggio di C. Schmitt di quattro anni prima,
Stato, movimento e popolo, ma, nonostante l’assonanza dei titoli, il taglio
esprime due prospettive diverse.
Il saggio di Höhn conserva un tratto profondamente giuridico ed illustra in
modo magistrale le modalità con cui la nuova scienza del diritto dell’epoca
stesse cercando di superare la precedente impostazione di stampo
individualistico, con il risultato che il diritto viene inserito ora nel concetto
più ampio di comunità e perde la precedente primazia.
Nella Germania nazista emergeva una concezione che, nel momento in cui
provvede a livellare sul piano della comunità tutte le differenziazioni ed i
particolarismi (società, diritto, Stato, i suoi rappresentanti e via dicendo),
toglie autonomia a queste singole componenti e soprattutto alla relativa
premessa: l’individuo. In questa visione vanno buttati al macero istituti
fondamentalissimi del diritto moderno come il diritto soggettivo, la persona
giuridica dello Stato e quant’altro, ossia i fondamenti della civiltà giuridica
occidentale. Tutto viene spazzato via ora e prevale solo l’avvolgente e anzi
totalizzante concetto di comunità, tale da assorbire non solo l’individuo, ma
naturalmente anche le sue derivazioni, ossia il diritto e lo Stato, la società e
gli interessi organizzati.
2
Il saggio è diviso in cinque parti più una sintesi, di cui sono di seguito
trascritte alcuni passi per agevolarne la comprensione. L’interesse che
presenta, al di là di concezioni assai datate e per nulla condivisibili (in
particolare i richiami alla razza e alla “biologia” politica) è ancora notevole
per la coerenza con cui si contrappone ad una visione liberale. Tuttavia ora
che il liberalismo è inteso nel senso più depotenziato possibile – un
liberalismo “debole” e spoliticizzato – il richiamo a certi parametri realistici
e comunitari può servire a riflettere e riportare la democrazia
(asseritamente) liberale, sempre più simili al “dispotismo mite” descritto da
Tocqueville nella Démocratie en Amerique, a presupposti più concreti e
percorsi più utilmente praticabili.
2. All’inizio della relazione Höhn scrive “Il sistema giuridico
individualistico deve essere compreso sulla base del generale sviluppo
storico europeo. Si possono cogliere in pieno i suoi effetti solo se si
riconosce in esso un prodotto di decomposizione1
, debitore per la propria
nascita nei confronti della progressiva dissoluzione delle comunità di vita,
diventate salde, delle precedenti epoche storiche. La concezione
individualistica si è sviluppata storicamente dalla caduta dell’ordinamento
del mondo e della vita medievali e compare per la prima volta in modo
chiaro e senza dubbi, nei suoi principi di base, nello Stato sovrano del
principe. Si tratta qui di un sistema sociale fondato sul confronto tra
individui, di cui uno, il principe, è chiamato all’esercizio del potere su una
massa di sudditi. Il diritto appare in quest’epoca come un sistema di

1
Il corsivo è nostro.
3
relazioni possibili che si possono egualmente sviluppare tra il principe e
alcuni dei suoi sudditi o anche tra diversi sudditi.
La rivoluzione francese comportò l’emancipazione dei cittadini
dall’assolutismo e diede inoltre al cittadino il diritto di collaborare
all’esercizio del potere. Da qui si determinò allora la possibilità di sviluppi
sul piano costituzionale e democratico. Dal punto di vista del diritto
pubblico ciò ha reso più profondo ed ulteriormente consolidato il sistema
giuridico individualistico attraverso l’introduzione di diritti di base, di diritti
pubblici soggettivi e soprattutto della persona giuridica dello Stato, che
subentra alla personalità del principe sovrano. Con il che trovò allora
compiutezza il sistema giuridico individualistico in quanto sistema di
relazioni tra individui. Sebbene solo in epoca più recente ben sotto l’influsso
di idee marxiste, possa essere fissato in molti Stati un tratto complessivo di
tipo collettivo, questo sistema giuridico si è però mantenuto invariato nei
suoi fondamenti fin direttamente ad oggi… In Germania si è ora attuato, nei
tempi più recenti, il distacco consapevole dal sistema giuridico
individualistico. La scienza giuridica tedesca ha intrapreso, nello spirito
della sua visione del mondo, il cui principio di base è la “comunità di
popolo e la guida [Führung]”, la verifica di tutti i precedenti concetti
giuridici di diritto pubblico sulla base della loro utilizzabilità. Essa intende
superare il dissidio sussistente tra la formazione di una comunità che si attua
nella prassi della vita, da un lato, e, dall’altro, la scienza del diritto pubblico
e della dottrina dello Stato.
L’odierno diritto tedesco si basa su una nuova concezione della comunità
che si pone in termini problematici nei confronti del sistema giuridico
tradizionale nella sua totalità. Questa nuova concezione della comunità parte
4
da un nuovo sentire quale si è acceso nel popolo tedesco intorno
all’esperienza della guerra mondiale e che ha trovato la propria
caratterizzazione politica nel movimento nazionalsocialista.
Il principio di comunità richiede, ai fini della sistematica scientifica, un
nuovo orientamento di base. Diviene necessario per la scienza tedesca
rivedere le idee sul diritto e sullo Stato sulla base della loro conciliabilità
con l’idea della comunità2
, distanziarsi dai concetti e dalle costruzioni
individualistiche e andare oltre, verso la nuova conformazione del diritto.
La nuova scienza giuridica si confronta oggi con un sistema e con una
dogmatica emersi in un’epoca che si basava su una visione del mondo
completamente diversa. Un tale confronto presuppone però che si riconosca
la dipendenza del sistema individualistico dalle condizioni storiche e che si
intraprenda un chiarimento dell’intera sistematica giuridica a partire dal
punto di vista storiografico implicato dal concetto tradizionale di diritto. La
scienza giuridica tedesca parte infatti dal riconoscimento del fatto che
concetti scientifici non esistono mai di per sé, ma possono essere
considerati sempre e solo espressione del loro tempo. Trova così
progressivamente attuazione l’abbattimento delle idee giuridiche
individualistiche e deve essere visto come evidentissima caratteristica di ciò,
per esempio l’allontanamento dei concetti generali tradizionali nonché del
relativo pensiero giuridico, come la presa di distanza dalle costruzioni
relative ai diritti di base, ai diritti pubblici soggettivi e alla persona giuridica
dello Stato”. È interessante notare tuttavia come il giurista tedesco apprezzi
proprio la patria storica del liberalismo, cioè la Gran Bretagna e la sua

2
Il corsivo è nostro.
5
diversità dai sistemi giuridici occidentali “Lo sviluppo giuridico in
Inghilterra, che è stato poco toccato da quel processo storico, si pone in
opposizione con questo sviluppo europeo continentale. Qui non si è potuta
sviluppare perciò neanche la dottrina giuridica individualistica nella forma
con cui si manifesta nel continente. Qui il diritto si muove piuttosto
nell’ambito di antiche tradizioni, abitudini ed usi, quali sono saldamente
radicati nell’anima popolare inglese”.
Quindi comunità versus individualismo; a prescindere si noti, entro certi
limiti, dai valori fondanti. Ciò che più rileva appare che l’ordinamento (e
l’istituzione) siano conformi al sentire (e all’operare) comune.
3. Nel primo capitolo Höhn tratta di un tema assai frequentato, allora più di
ora: il rapporto tra diritto e sociologia. «Per comprendere il diritto è
importante ritornare ai suoi fondamenti nella vita sociale. Nelle dottrine
internazionali sullo Stato e sul diritto viene perciò trattata, quasi dappertutto
in modo approfondito, la questione di quali reciproci rapporti intercorrano
tra diritto e sociologia. Nella misura in cui si ponga attenzione ai fondamenti
sociali, sulla base della concezione finora dominante, sembra sussistere un
dissidio indissolubile tra diritto e realtà.
Esso si mostra anzitutto nella dottrina dello Stato, che rimane sottoposta ad
una duplice modalità di pensiero, quella normativa e quella sociologica…
Esiste ora però ancora un’altra differenza, che riguarda egualmente la vita
sociale e che spesso non viene considerata a sufficienza. La vita sociale può
essere rappresentata per una volta nelle forme di una vita chiusa di
comunità, così come però, se abbiamo davanti agli occhi le antiche relazioni
germaniche, può essere trovata d’altra parte anche nelle condizioni di un
allentamento, di uno scioglimento e di un dissolvimento. In opposizione alla
6
comunità chiusa viene allora assunto come punto di partenza l’individuo
libero, piantato in sé, che entra in relazione con altri individui. La sociologia
prima dominante corrispondeva ampiamente a quest’ultimo mondo di idee.
Essa osservava e sperimentava in gran parte solo il singolo uomo. Tipica era
per la Germania la dottrina di Georg Simmel, cui era legata in modo
particolare la scuola di sociologia di Colonia, e di Leopold v. Wiese, che
risolve l’intera vita sociale nelle relazioni tra uomo e uomo. La sociologia è
per Leopold v. Wiese «la scienza degli avvenimenti nello spazio sociale». In
essa viene mostrato come gli uomini si incontrino, fraternizzino e si evitino.
L’intero sistema della dottrina delle relazioni non è altro che
un’interpretazione della parolina «infra». Quale oggetto della sociologia v.
Wiese vede «la sfera dell’esserci che sussiste tra gli uomini, quello spazio
quindi in cui gli uomini vengono alleati reciprocamente ovvero divisi l’uno
dall’altro». Con il che egli riconduce la vita umana di comunità a «processi
infraumani», in cui si dispiega «il comportamento di uomini nei confronti di
uomini»… Questa specie di sociologia assunse una posizione considerevole
nella scienza tedesca prima della rivoluzione nazionalsocialista. Essa
dichiarava in tutta chiarezza che non esiste affatto per essa un modello
sociale come scienza. Perché secondo v. Wiese modelli sociali «possono
essere compresi solo dalle serie in esse prevalenti dei processi sociali». I tre
gruppi di modelli sociali da lui costruiti: massa, gruppo e corpo, vengono
poi differenziati sulla base della distanza in base alla quale essi sono
«lontani dal singolo uomo empirico». Una compagnia di soldati ad esempio
è «solo un complesso di relazioni organizzate tra uomini in vista di scopi».
Per Leopold v. Wiese non c’è lo Stato come realtà. La sociologia non «cerca
lo Stato né nel regno della natura né in quello dello spirito. Essa non cerca
7
affatto un tale modello, perché non lo troverebbe; perché esso come
sostanza non si trova da nessuna parte». Il popolo costituisce in ciò un
modello che, relativamente insignificante rispetto agli altri (massa, Stato e
classe), viene reso oggetto di relazioni sociologiche. Esso sembra allora, nel
sistema di v. Wiese dei modelli sociali, tale da insistere sulla «zona-limite
della sociologia», in cui l’elemento biologico si fa strada al di là del confine
e si mischia con una problematica scientifico-sociale. Irrompe così il
popolo, accanto alla famiglia e all’umanità, come «modello di generazione»,
con cui gli altri elementi più differenziati possono essere mischiati.
La scienza giuridico-sociale nazionalsocialista tedesca si confronta in
particolare con questa concezione unilateralmente individualistica
dell’oggetto della sociologia. Per essa il metodo di risolvere tutto l’accadere
sociale e giuridico in relazioni tra singole persone non è affatto valido in
generale. Quest’affermazione corrisponde piuttosto solo ad una visione del
mondo individualistica e a relazioni individualistiche. Essa diviene nulla
con il superamento dell’individualismo. Ciò accade nella scienza tedesca
con la dottrina del popolo. Popolo significa non somma di individui, ma una
comunità che poggia sulla razza, sullo spazio e sulla storia. Essa è stata
creata ex novo dal Führer e ci viene incontro visibilmente nella comunità dei
seguaci [Gefolgschaft] e nella guida [Führung]. La comunità di popolo va
ben al di là rispetto ad un puro spazio di relazioni infraumane e racchiude
l’aspetto biologico e spirituale dell’uomo nella sua esistenza complessiva.
La comunità di popolo non è, come noi stessi abbiamo sperimentato, un
dato e basta. Essa è realtà, ma anche scopo e compito. Essa è presente
proprio là dove uno spirito di comunità comprende uomini che stanno uno
di fianco all’altro e in effetti li comprende in modo tale che il singolo agisce
8
a partire da questo spirito di comunità e vive in questo spirito di comunità.
Proprio così il singolo diventa persona nella comunità. Persona e comunità
appartengono necessariamente l’uno all’altra così come si corrispondono
l’individuo e la massa… Il divenire dello spirito di comunità è ora vincolato
a certi presupposti, soprattutto all’eguaglianza di stirpe [Artgleichheit] di
quegli uomini che costituiscono la comunità. In conseguenza di ciò la
concezione giuridica teedesca si basa sulla dottrina della razza. Uguale
pensiero, sentimento e agire in un popolo sono necessariamente vincolati
attraverso impostazioni coerenti con la stirpe (artmässig). Solo in presenza
di questi fondamenti esiste anche la possibilità della nascita dello spirito di
comunità in un popolo. Lo spirito di comunità non va compreso con i
metodi usuali di una descrizione scientifica secondo natura. Si tratta
piuttosto qui di una realtà di altro tipo. Lo spirito di comunità si mostra in
particolare nell’esperienza della comunità che comprende gli uomini che
prima stavano l’un insieme all’altro come singoli e li cinge con un vincolo
comune riguardante l’anima e lo spirito. Questa esperienza di comunità il
singolo ce l’ha non come singolo, ma come persona nella comunità. Non è
quindi come se l’esperienza della comunità fosse la somma delle esperienze
dei singoli consorziati nella comunità, ma si tratta di una esperienza che li
comprende tutti insieme e che viene vissuta da ciascuno non come singolo,
ma come persona all’interno della comunità. La dottrina della comunità e
della persona non ha pertanto nulla a che vedere con la contemplazione da
lontano del mondo da parte dei romantici, ma è l’espressione di una nuova
realtà della vita tedesca. Ed è a partire da questa concezione di fondo che si
determina per la scienza tedesca il punto di vista decisivo per tutti i campi
della scienza. In base ad esso sussiste anche la possibilità di superare
9
l’opposizione tra diritto e sociologia… Il diritto tedesco della comunità si
basa su questa dottrina della comunità.
Rispetto a ciò la divisione tra diritto e sociologia è destinata a stare in
primo piano se la vita sociale rimane ferma alle battaglie di interessi tra
individui. Questa è la concezione quale ancora oggi viene estesamente
rappresentata negli Stati fuori della Germania. In conformità a ciò, come
Dumas illustra approfonditamente per la Francia, oggetto della sociologia è
la vita in continuo movimento, in cui si contrappongono gli interessi degli
uomini. Dumas vede incombere il caos nel campo sociale e contrappone il
diritto alla vita sociale quale creatore di ordine. Solo la materia del diritto
viene sottratta alla sociologia. Il diritto è norma, ordinamento, forma e
istituzione, ad esso, come spesso viene rilevato, è proprio il momento della
durata. Le organizzazioni di diritto sono chiamate “ad essere durevoli
nonostante l’eterno divenire delle cose umane. Grazie a queste istituzioni
c’è stabilità nella vita sociale. I processi sociali, per contro, si
contrappongono alla norma e alla durata, essi si esprimono nella mobilità e
nella trasformazione delle forme sociali… Ma se si vede nella vita sociale
null’altro che un caos, si può assumere il diritto solo come una funzione che
dà ordine al caos. La nuova dottrina giuridica tedesca non ha più bisogno di
venire fuori dal caos e dai conflitti d’interesse, essa ha una solida base nella
comunità di popolo creata dal Führer, la quale significa il superamento della
società del XIX secolo. Essa può pertanto basare il diritto sulla comunità e
considerarlo come espressione dell’ordinamento di vita della comunità. Ciò
emerge chiaramente, nella determinazione della comunità d’impresa e nella
legge sull’ordinamento del lavoro nazionale… È interessante il fatto che il
problema: diritto e sociologia, appena esista per la dottrina giuridica
10
inglese. Qui lo Stato, il diritto e la società sono tanto buoni quanto identici.
Goodhart così dice: «Il diritto esiste poiché esso è una parte essenziale della
società che noi conosciamo come Stato». Il diritto consiste qui però non di
norme nel senso stretto quale viene inteso sul continente questo concetto.
Esso consiste ampiamente nell’osservanza di una generalità di principi che
vengono applicati nella giurisprudenza, anche se di recente può sussistere la
tendenza ad una più forte vincolatività della legge. «Poiché il diritto inglese
ha attraversato una crescita durevole sul piano storico nei passati nove
secoli, esso è diventato una parte inconscia della vita del popolo. Significa
perciò qualcos’altro il fatto che la dottrina giuridica inglese parli di
“signoria del diritto”. Tuttavia il problema qui è ancora completamente
diverso; in Inghilterra risultano contrapposti diritto e forza discrezionale di
decisione, non diritto e realtà. È infatti tipico che Goodhart dichiari che “la
differenza tra legge e comando discrezionale è stata riconosciuta con la
massima chiarezza».
Con una tale concezione non vi può essere neanche un settore particolare
della sociologia da porre alla base del diritto come “materia”. Il diritto è
basato sulla valenza e sul riconoscimento fattuale3
. “L’obbedienza nei
confronti della legge viene quindi determinata in ultima analisi attraverso la
premura di quanti fanno parte dello Stato e che hanno desiderio a che la loro
società possa risultare durevole”.
La distinzione tra sein e sollen, causa ed imputazione è ricondotta alla realtà
dalla comunità e dalla sua esistenza. Questa è un ordinamento di vita e il
diritto ne è l’espressione4
. La cosa più originale del pensiero del giurista

3
Il corsivo è nostro.
4
Il corsivo è nostro
11
tedesco è il “superamento” della impostazione hobbesiana caro al pensiero
borghese e al “tipo ideale di società di Tönnies” – che vede nello Stato il
creatore dell’ordine attraverso la risoluzione dei conflitti d’interesse (causa
principale del bellum omnium contra omnes)
5
.
4. Höhn passa poi a trattare il rapporto tra giustizia e diritto positivo
«Accanto al compito di comprendere la connessione tra diritto e relative
basi sociologiche, è inoltre necessario porre il quesito dei fini e delle idee
che il diritto positivo deve realizzare. In particolare, si tratta dell’idea di
giustizia, il cui rapporto con il diritto positivo è oggetto di un trattamento
approfondito nelle relazioni dei Länder. I positivisti di più stretta osservanza
– come chiarisce Dumas – “sono obbligati ad ammettere che le idee di
giustizia e di diritto, sebbene indivisibili, divergono l’una dall’altra”. Questa
contrapposizione tra “mondo e giustizia” sembra essere spesso
inconciliabile… La conciliazione tra giustizia e diritto positivo rimane però
ovunque un obiettivo, che non è mai da attuare in forma pura. Questo
dichiara Dumas: «al di sopra del diritto positivo esiste un ideale pieno di
mistero ed indefinibile: gli uomini non lo coglieranno mai, ma neanche vi
rinunzieranno mai».
Con questa concezione del rapporto tra idea di giustizia e diritto positivo le
idee in materia di giustizia danno attuazione ad un compito del tutto
determinato. Esse costituiscono la base portante di norme più stabili e
rappresentano in quanto tali una consapevole limitazione nei confronti di
una attività legislativa discrezionale. In esse dimorano rappresentazioni
etiche di valori che non possono trovare attuazione direttamente nella norma

5 V. sul conflitto d’interessi come base del diritto F. Carnelutti, Teoria generale del diritto,
Padova 1946, pp. 12 ss.
12
giuridica, ma che devono trovare considerazione nell’attività legislativa e
nell’attuazione del diritto. Per il diritto pubblico ne deriva il principio: salus
publica suprema lex esto, per il diritto privato il principio di fedeltà e di
fede. Ad esse il singolo deve essere vincolato anche allorquando il suo
comportamento non sia chiaramente determinabile con norma. Anche
quando, nel diritto privato, il singolo gode fondamentalmente di libertà
contrattuale ovvero può procedere, dal punto di vista del diritto pubblico,
nei confronti di un ufficio amministrativo per considerazioni di opportunità,
questo libero agire non può sostanziarsi in un abuso giuridico e non può
comunque apertamente contraddire le idee di giustizia. Tuttavia, queste idee
etiche di base non possono mai del tutto essere assorbite nel diritto positivo.
Esse rimangono solo regole per la conformazione del diritto in generale. Più
di tutte è l’idea di giustizia ad essere limitata ad una funzione negativa. Essa
offre la base per una critica. Mai riesce però, l’idea di giustizia, a pervadere
direttamente il diritto positivo.
Rispetto a ciò alla nuova concezione tedesca del diritto, che parte dal
popolo e dalla sua comunità concreta, è data la possibilità di superare la
spaccatura tra idea di giustizia e diritto legislativo. Diritto non è, secondo la
dottrina giuridica tedesca, né un sistema di norme né una somma di
rappresentazioni di valori, diritto è espressione dell’ordinamento della
società. La giustizia non si colloca al di fuori del diritto. Premessa del fatto
di potere vivere il diritto nella comunità è l’unità del sangue. Perciò la
dottrina giuridica si basa sul pensiero della razza. Nella razza si colloca,
secondo la concezione del mondo nazionalsocialista, la realtà di ogni unità
di ideali e di vita. Quando dunque la dottrina giuridica tedesca mette in luce
il fatto che la comunità non sta solo nel mondo delle idee, ma deve essere
13
vissuta e conosciuta come ordinamento concreto della vita, essa è
necessariamente costretta a rifiutare la limitazione della comunità di popolo
ad una pura comunità di diritto. Essa sente come insufficiente la comunità di
diritto, che rimane limitata ad un vincolo sentimentale in ordine a
determinate convinzioni generali. Perché anche la profonda frattura tra
diritto e moralità perde il proprio significato. Il diritto non è pura tecnica
per portare ad attuazione principi morali autonomi, diritto può solo
significare piuttosto la moralità stessa così come vissuta da un popolo…
Nella misura in cui il diritto si basa ancora ed in misura preponderante su
forme pervenute dalla tradizione e radicate nella vita, la questione del
rapporto tra rappresentazioni di valori e diritto positivo è piuttosto
irrilevante. Questo insegna il diritto inglese. Qui il concetto di legislazione
non si è sviluppato nella profonda misura in cui ciò è avvenuto nel diritto
continentale europeo come atto di volontà. La legge appare qui non
l’espressione della volontà della persona dello Stato, che può essere
riconoscibile solo se gli organi costituzionalmente chiamati alla costruzione
della volontà la esprimono nella forma della legge. In Inghilterra l’atto della
legislazione significa che fattori della politica da tutti riconosciuti, come il
re e il parlamento, si muovono all’interno di forme giuridiche, cioè
all’interno delle forme che risultano riconosciute in secoli di antico uso e
che pertanto risultano ancorate alla coscienza giuridica del popolo inglese. È
sulla base di questa circostanza che va chiarito anche il significato di fondo
della formula «King in Parliament» e «King in Council». Questa condizione
in cui versa il diritto inglese è essenzialmente da ricondurre al fatto che
l’assolutismo, che ha introdotto nel concetto di legge proprio quella
sottolineatura del momento della volontà, non si è mai realizzato del tutto in
14
Inghilterra. Tuttavia, ancora oggi il problema è qui ancora totalmente
diverso; con leggerezza vengono contrapposti diritto e potere di decisione
discrezionale, laddove per “discrezionalità” si intende più il comando
informale, cioè dato disconoscendo le forme tradizionali, che non la
mancata considerazione di certe rappresentazioni etiche di valori…La
questione del come possa essere superata la frattura tra idea di giustizia
diritto positivo riveste un significato fondamentale per una serie di questioni
giuridiche pratiche, in particolare ai fini dell’interpretazione e
dell’attuazione delle leggi. Per dare un fondamento alla differenza tra idea
di giustizia e diritto positivo sussistono due possibilità: o la preoccupazione
per un alleggerimento del diritto in vigore porta ad una rigida insistenza e ad
un rifiuto di punti di vista non giuridici e metagiuridici (ovvero)… Una
giurisprudenza intuitiva, che Georgasco fa passare come ideale per la
Romania, costituisce l’opposto al riguardo. Qui il giudice si cala nel caso in
esame e si sente “vicinissimo al calore e all’inesprimibile luce della
giustizia” e la giustizia “si colloca alla fine del processo dinamico della
intuitiva compenetrazione nel conflitto giuridico”.
In modo del tutto diverso si conforma il rapporto tra diritto e legge per la
dottrina giuridica tedesca sul terreno della concreta comunità di popolo. Il
nazionalsocialismo pone il diritto sopra la legge. Il diritto è per esso una
grandezza data con il popolo, nata dall’essenza del popolo, legata al popolo.
Questo diritto non può essere creato attraverso un atto di volontà
individuale. Esso viene vissuto nella comunità del popolo e può essere
vincolante anche senza normazione (il corsivo è nostro). La legge è per
contro solo l’espressione temporale dell’essere del popolo in ordine alla
soluzione di singoli compiti. Ciò significa una volta per tutte che legge non
15
è un atto di volontà di un individuo, ma un atto della collettività, che viene
ad espressione nell’agire del Führer. Ma significa d’alta parte che la legge
non costituisce la forma del diritto, ma un criterio di massima per lo
sviluppo del diritto. Corrispondentemente a ciò cade la profonda differenza
tra creazione e applicazione del diritto. Il giudice non è titolare individuale
della supremazia dello Stato, che deve attuare nei confronti del singolo,
nelle forme della conoscenza logica, l’ordinamento giuridico coattivo che si
colloca al di sopra dei concittadini ovvero rappresentazioni generali di
valori. Egli piuttosto deve tutelare, come persona della comunità, la vita
della comunità. Pertanto, egli è nella condizione di organizzare la nascita
della regolazione legislativa del campo [su cui si innesta] l’ordinamento
complessivo della vita”. Ma sul punto il giurista tedesco fa rilevare che,
contrariamente ai principi degli ordinamenti borghesi, il giudice deve
interpretare la legge “secondo la concezione del mondo nazionalsocialista”;
nel diritto penale ciò porta “all’annullamento del divieto di analogia”.
Sostiene Höhn “Con il che non c’è in nessun caso il pericolo della
incertezza giuridica. Esso esiste finché un ordinamento possa essere
pensato solo come tale da sostanziarsi in norme, come tale da evitare un
caos. Quindi la maggiore o minore libertà della magistratura (Richtertum)
dipende, in una tale concezione, dal se si ritenga un tale ordinamento come
il solo possibile. Prima della rivoluzione nazionalsocialista il giudice vedeva
dappertutto davanti a sé relazioni sociali non consolidate. Con una
configurazione giuridica autonoma egli stesso cadeva nel pericolo di
apparire come partito nella lotta tra i poteri della società, da un punto di
vista marxiano egli era inoltre osteggiato nella sua giurisprudenza come
esponente di una classe. In conseguenza di ciò, prima del 1933 non
16
rimaneva alla magistratura alcun’altra possibilità, in Germania, se non il
ritirarsi il più possibile in modo neutrale alla pura attuazione delle norme.
Solo la corte suprema si assegnava potere decisionale politico. Quando per
contro è l’ordinamento stesso ad essere vissuto in una comunità, la
normazione non gioca il solo ruolo decisivo. Su queste basi non è affatto
sorprendente se il giudice nazionalsocialista sia posto completamente in
libertà e spesso rileva solo il suo legame con i fondamenti in termini di
visione del mondo quali determinano l’intera vita del popolo6
.
Questa unità di visione del mondo per la magistratura costituisce oggi la
premessa autonoma, e da qui deriva anche la particolare posizione del
giudice nel popolo. L’essenza della magistratura va oltre il puro
funzionariato. La profonda opposizione tra attuazione del diritto e attività
che pone il diritto risulta qui addolcita. Entrambe fluiscono dalla fonte
unitaria della comunità di popolo. Ciò significa una riduzione della profonda
divisione che sussisteva prima sul piano scientifico tra il metodo della
politica in materia di diritto e quello dell’interpretazione giuridica. I modi di
pensare de lege ferenda e de lege lata presentano lo stesso orientamento
nell’ambito della realizzazione delle finalità programmatiche
nazionalsocialiste. Di conseguenza diritto e politica si contrappongono non
più come un rigido sistema di norme da un lato e un quadro discrezionale di
opinioni dall’altro. La politica è una continua creazione del diritto della
comunità con i mezzi della guida [Führung]”; il tutto richiede un nuovo tipo
di giurista il quale “deve trovare la propria realizzazione nel tipo del
difensore del diritto. Nel difensore del diritto vengono superate le profonde

6
Il corsivo è nostro.
17
ed in parte esagerate differenze tra l’attività che pone il diritto e i compiti,
per esempio, delle professioni giuridiche cosiddette libere ovvero a metà
dipendenti (per es. avvocato, notaio) e delle professioni giuridiche dei
funzionari (per es. giudici, pubblici ministeri), tra giudici e funzionari
amministrativi, giudici e per esempio amministratori fiduciari in economia.
Difensore del diritto è «ogni lavoro nel campo del diritto le cui funzioni
caratteristiche stanno nella cura e nella realizzazione del diritto in tutti i
campi della vita del popolo tedesco, senza che possa essere riconosciuta una
qualsivoglia degenerata differenza di valori», così viene detto nella
proclamazione dello stato del diritto [Rechtsstand] tedesco del dicembre
1933.
Difesa del diritto è dunque non solo l’esercizio della cosiddetta
amministrazione della giustizia, il campo del giudice indipendente e
dell’avvocato; a proposito della difesa del diritto sono in gioco tanto il
lavoro del funzionario amministrativo quanto la dottrina giuridica, ma
anche, per esempio, la funzione, che appare ad un primo esame puramente
economica, dell’amministratore fiduciario in economia».
5. Sostiene poi Höhn che «Nella dottrina dello Stato si incontrano i pensieri
in precedenza trattati in materia di sociologia e teoria del diritto… D’altra
parte, la dottrina tedesca dello Stato parte non dallo Stato, ma dal popolo,
come grandezza decisiva. Vista da questo punto di vista la più volte rilevata
opposizione tra Stato e diritto perde la propria profondità. Lo Stato come
comunità è il punto di partenza tanto della dottrina dello Stato quanto di
quella del diritto. Ciò si mostra anzitutto nella contrapposizione con il
concetto di personalità giuridica dello Stato. Proprio nel diritto tedesco del
18
XIX secolo il concetto della invisibile personalità giuridica dello Stato
costituiva la pietra miliare ed angolare dell’intero diritto pubblico.
La concezione dello Stato come persona giuridica discende dal mondo
ideale individualistico e in Germania rappresenta politicamente
l’espressione della lotta della borghesia contro lo Stato assoluto. Quando
non si poté più tollerare la personalità sovrana dei principi, si dovette, in
un’epoca in cui l’intero pensiero giuridico si muoveva solo nell’ambito di
relazioni tra individui, nuovamente porre una persona al posto della persona
del principe… Ma per l’odierna dottrina giuridica dello Stato, che aveva
sofferto lo sviluppo individualistico, in primo piano stava la
contrapposizione sul concetto della persona dello Stato. Questo era una
conseguenza necessaria del sistema giuridico individualistico. Il problema
di fondo del nuovo diritto pubblico tedesco suonava anzitutto così: persona
giuridica dello Stato ovvero popolo come punto di partenza di un nuovo
pensiero di diritto pubblico. È a partire da qui che si chiariscono le
contrapposizioni di dettaglio che aspirano ad una nuova concezione dei
rapporti tra Stato e popolo. Il concetto nazionalsocialista di popolo si
differenzia per motivi di fondo dalla concezione del popolo del XIX secolo.
Il popolo era qui determinato dallo Stato e risultava giuridicamente dalla
somma di tutti i singoli che comparivano innanzi alla persona dello Stato, in
parte ubbidendo come sudditi, in parte come cittadini dello Stato con pretese
giuridiche. Questo concetto di popolo proveniva dallo Stato assoluto ed è
rimasto in piedi anche nel diritto pubblico del XIX secolo così come nel XX
secolo con la costituzione di Weimar. Esso ha solo sperimentato un
ampliamento nella misura in cui il singolo è diventato titolare attivo di
diritto anche nei confronti dello Stato.
19
L’aspirazione ad elevare il popolo ad elemento portante del diritto pubblico
tedesco ha portato ai tentativi più disparati. Ciò si dimostra una volta per
tutte nella preoccupazione volta a includere più fortemente il popolo nello
Stato; collegato a ciò si pone un riallacciarsi alla dottrina organica dello
Stato di Gierke… caratteristica inoltre è la differenza tra un concetto più
ristretto di Stato e uno più ampio, laddove il concetto più ristretto di Stato
raccoglie l’essenza delle autorità e degli uffici, il concetto più ampio
descrive una sintesi concettuale tra Stato e popolo… Ma come oggi si
continua, nell’ambito del nuovo diritto pubblico, a portare avanti la
differenza tra i due concetti di Stato più ristretto e più ampio, si vuole allora
porre nello Stato individualistico il popolo al posto dei sudditi e lo si vuol
concepire, insieme all’organizzazione dello Stato, come una nuova totalità
per lo Stato in senso più ampio. Spesso si utilizza quindi il concetto di Reich
per questo più ampio concetto di Stato (così Heckel, Huber)… La differenza
tra concetto più ristretto e più ampio di Stato conduce spesso ad equivoci e a
scarsa chiarezza. Essa mostra però in ogni caso la chiara aspirazione ad
ammorbidire il concetto di Stato a partire dal popolo.
La soluzione conseguente a questi intendimenti sta però in una chiara
differenza tra popolo e Stato, laddove invece il popolo come comunità
rappresenta l’autonomo punto di partenza e il punto centrale della dottrina
del diritto e dello Stato, al cui servizio lo Stato è attivo come apparato di
uffici e di funzionari. Con il che, per la concezione tedesca, l’unità politica
dello Stato si colloca nel popolo. Il popolo, sottoposto ad una guida, non
acquista capacità giuridica e di agire con le modalità dello [auf dem Wege
über] Stato, ma è in sé una unità vivente e capace di agire. La funzione
dello Stato si limita con ciò ad una funzione al servizio della comunità di
20
popolo. Lo Stato perde il carattere di una grandezza propria e non può
essere più concepito in particolare come persona od organismo. In quanto
apparato di uffici e di funzionari lo Stato nelle mani del Führer serve alle
finalità della comunità di popolo. Con questa concezione dello Stato è
possibile superare la rappresentazione individualistica che domina lo Stato
liberale e assoluto. Viene qui solo portato ad espressione, con la descrizione
dello Stato come apparato, il fatto che lo Stato viene impiegato per scopi
determinati della comunità di popolo e non agisce come persona dotata di
signoria autonoma7
. Lo Stato come apparato non è neanche, per esempio,
un «puro» meccanismo con carattere puramente «strumentale»”. Si noti che
la concezione del giurista nazionalsocialista ha diversi tratti in comune con
la definizione di Hauriou del concetto d’istituzione, e con la di essa funzione
di protezione della comunità8
, comune a ogni Stato, di qualsiasi
orientamento ideologico (“valoriale”). E prosegue «I principi costituzionali
che ne derivano si basano su un altro principio rispetto alla relazione Statosuddito; al suo posto sono subentrati “comunità e guida” come principio del
diritto. In conseguenza di ciò la guida in quanto principio del diritto acquista
grandissimo significato. La legge non è un’emanazione del potere dello
Stato, ma un atto della guida. In quanto guida del movimento e del popolo il
Führer e cancelliere del Reich tedesco è al contempo capo dello Stato. Al
suo posto decisiva non è pertanto l’attivazione del potere dello Stato. Questa
è piuttosto solo la conseguenza necessaria della sua posizione di guida. Con
questa concezione della posizione del Führer si pone però la questione di

7
Il corsivo è nostro
8

21
come stiano in rapporto con il Führer le precedenti funzioni del potere dello
Stato, legislazione, amministrazione, giurisdizione. È evidente il fatto di
vedere nel Führer la sintesi di tutti i poteri pensabili. Con il che sarebbe però
disconosciuta l’essenza della guida quale si estende ben al di là della pura
attivazione dell’apparato dello Stato e dei suoi strumenti coercitivi. Il potere
del Führer non è subentrato al posto del potere di prima dello Stato. Se
oggi parliamo della legge come di un atto del Führer e quindi vediamo qui
una relazione Führer-comunità di seguaci, vediamo con ciò superata l’antica
rappresentazione del potere legislativo quale espressione delle autorità e
della possibilità di darvi attuazione… Questo lo dimostra particolarmente il
caso d’emergenza. Se tutto il popolo viene chiamato all’appello dal Führer
per la difesa nei confronti di un nemico esterno, la relazione Führercomunità di seguaci è destinata a dimostrare la sua grandissima forza. Il
potere dello Stato non comporta in sé quella forza che il Führer possiede
invece di una comunità. Essa, a differenza di quella del Führer che riesce a
collocarsi direttamente all’interno delle forze della comunità, si basa invece
ampiamente sul potere della costrizione. Con il che non si può più
giuridicamente concepire il Führer e cancelliere del Reich come organo
dello Sato. Il cuore della sua posizione sta piuttosto nel popolo e nel
movimento. A partire da qui si determinano impostazioni in ordine
all’attuazione di un nuovo principio costituzionale, che consiste nell’utilizzo
dell’amministrazione statale per gli scopi della guida. In questo legame tra
«guida e amministrazione» la dottrina giuridica tedesca fornisce una
possibilità di soluzione concreta ai fini della relazione tra statica e dinamica,
il cui contrario costituisce un problema permanente nella vita dello Stato”
22
con ciò la tripartizione di Montesquieu viene ovviamente meno, e con essa
la di essa funzione di proteggere la libertà (sociale e) individuale.
Invece il potere del capo, secondo Höhn serve all’unità politica e alla
capacità d’azione della comunità.
Lo stesso concetto di dittatura è superato “Molto spesso, soprattutto nella
letteratura straniera, si tenta di spiegare la posizione di diritto pubblico del
Führer nel Terzo Reich con il concetto di dittatura. Ciò risiede nel fatto che
specialmente le democrazie occidentali riescono a pensare solo nell’ambito
dell’opposizione tra democrazia e dittatura. Se si è ancora prevenuti da un
mondo rappresentativo individualistico si possono immaginare solo forme
di signoreggio grazie alle quali esercita il comando un insieme di singoli
organizzato da punto di vista parlamentare ovvero una singola personalità
sovrana. Tutto ciò che compone l’essenza del Führer, la sua posizione come
comunità e la concentrazione nella sua persona di tutte le forze della
comunità, viene pertanto ignorato”.
6. Come sopra scritto, l’impostazione comunitaria e antindividualista data
da Höhn al diritto nazionalsocialista si distingue decisamente non solo dalle
concezioni del diritto dello Stato borghese, ma anche da quelle di giuristi
non individualisti e perfino da quelle di teorici nazionalsocialisti – (o meglio
vicini al nazionalsocialismo) come Schmitt.
In effetti (la concezione e) l’esistenza effettiva della comunità, secondo
Höhn rende superflua tutta la ricostruzione teorica e la concatenazione
concettuale elaborata dalla dottrina dello Stato moderno, a cominciare da
Thomas Hobbes. Il quale, come scriveva Tönnies (così distinguendosi da
quanto ritenuto da gran parte di coloro che si sono occupati del filosofo di
Malhesbury) era un coerente anticipatore della società borghese e dello
23
Stato liberale, perché muoveva da una prospettiva individualistica, di
società e non di comunità. Anche se Höhn non cita Tönnies, se ne avverte
l’influenza.
Infatti Tönnies sosteneva descrivendo la concezione del “tipo ideale” della
società (borghese) “La società, aggregato unito dalla convenzione e dal
diritto naturale, viene quindi concepita come una massa di individui naturali
e artificiali, le cui volontà e i cui settori stanno in molteplici connessioni
l’una rispetto all’altra e l’una con l’altra, e tuttavia rimangono tra loro
indipendenti e senza influenze interne. Qui ci appare il quadro generale
della «società borghese» o «società di scambio», di cui l’economia politica
cerca di riconoscere la natura e i movimenti – una condizione in cui secondo
l’espressione di Adam Smith, «ognuno è un commerciante»”9
Il tutto lo differenzia anche da Schmitt. Il quale nella premessa alla seconda
edizione della Politische theologie scriveva distinguendo i tre “tipi” di

9 Comunità e società, trad. it. di P. Rossi, Milano 1979, p. 95, tale “visione del mondo” è
tendenzialmente illimitata “La società intesa come totalità al di sopra della quale deve
estendersi un sistema convenzionale di regole, è quindi, in linea ideale, illimitata; essa
rompe costantemente i suoi confini reali e accidentali. Nel suo ambito ogni persona tende al
proprio vantaggio, e afferma gli altri soggetti solamente in quanto e finché essi lo possono
favorire. Così, prima e al di fuori della convenzione – e anche prima e al di fuori di ogni
contratto particolare – il rapporto di tutti verso tutti può essere concepito come un rapporto
di ostilità potenziale o come una guerra latente, contro cui tutti quegli accordi delle volontà
spiccano poi come altrettanti trattati e conclusioni di pace. Questa è l’unica concezione che
sia adeguata a spiegare tutti i fatti del traffico e del commercio, in cui i diritti e i doveri
possono essere ricondotti a pure determinazioni patrimoniali e a valori: su di essa deve
quindi fondarsi, anche inconsapevolmente, ogni teoria di un diritto privato o di un diritto
naturale (socialmente inteso) puro” (op. cit.); quanto allo scambio “compratore e venditore
si trovano sempre, l’uno rispetto all’altro – pur nelle loro molteplici modificazioni – in
posizione tale che ognuno desidera e tenta di ottenere, in cambio della quantità minima del
proprio patrimonio, la quantità massima del patrimonio altrui” e alla concorrenza: “Questa
è la concorrenza generale che ha luogo in molti altri campi, ma in nessun modo così chiaro
e consapevole come in quello del commercio – al quale viene quindi limitato il concetto
nell’uso comune – e che è già stata descritta da più di un pessimista sul modello di quella
guerra di tutti contro tutti che un grande pensatore ha addirittura concepito come lo stato
naturale della specie umana” (op. cit., p. 96).
24
pensiero giuridico “Oggi distinguerei non più fra due, ma fra tre tipi di
pensiero giuridico: cioè, oltre al tipo normativistico e a quello
decisionistico, anche quello istituzionale… Mentre il normativista puro
pensa attraverso norme impersonali ed il decisionista stabilisce il giusto
diritto attraverso una decisione personale in una situazione politica
correttamente conosciuta, il pensiero giuridico istituzionale si articola in
istituzioni e conformazioni soprapersonali. E mentre il normativista nella
sua degenerazione fa del diritto una mera funzione di una burocrazia statale
ed il decisionista si trova sempre in pericolo di fallire, con la
puntualizzazione del momento, l’essenza implicita in tutti i grandi
movimenti politici, un pensiero isolatamente istituzionale conduce al
pluralismo di una crescita priva di sovranità, di tipo cetual-feudale. In tal
modo è possibile ricondurre le tre sfere ed elementi dell’unità politica –
Stato, movimento, popolo – ai tre tipi di pensiero giuridico”10
.
Sempre nella Politische theologie Schmitt sottolinea il carattere
personalistico quale componente insopprimibile di una concezione del
diritto e dello Stato11
.

10 E prosegue “Il cosiddetto normativismo e positivismo della dottrina tedesca del diritto e
dello Stato dell’epoca guglielmina e della repubblica di Weimar è un positivismo
degenerato – poiché, invece di essere fondato su un diritto naturale o razionale, dipende da
norme semplicemente «vigenti» di fatto – e perciò in sé contraddittorio, mescolato con un
positivismo che era soltanto un decisionismo degenerato, giuridicamente cieco, riferito alla
«forza normativa del fattuale» invece che ad una vera decisione. Questa commistione priva
e incapace di forma non era collegata a nessun problema di diritto statale o costituzionale”
(i corsivi sono nostri) v. Politische Theologie trad. it. di P. Schiera ne Le categorie del
politico, Bologna 1972, p. 30.
11 V. “Ciò corrisponde alla tradizione originaria dello Stato di diritto che è sempre partita
dal presupposto che solo una massima giuridica generale possa fungere da criterio di
giudizio… non è che chiunque possa eseguire e realizzare ogni possibile norma giuridica.
Quest’ultima in quanto norma di decisione dice solo come si deve decidere non anche chi
deve decidere. Chiunque potrebbe appellarsi alla giustezza del contenuto, se non vi fosse
un’ultima istanza. Ma l’ultima istanza non deriva dalla norma. Il problema dunque è quello
25
Nell’opera sul Leviatano, poi il giurista di Plettemberg ritorna più volte sul
carattere individualistico del pensiero di Hobbes e di fondazione della
concezione dello Stato borghese12
.
7. Altra conseguente cesura dal pensiero borghese sullo Stato e il diritto è
l’assenza nel saggio di Höhn di qualsiasi riferimento ai rapporti di scambio,
tipici di un tipo “societario” di aggregazione sociale. Il carattere organico
della comunità nazionale pone in secondo piano ogni legame di tipo
associativo-sinallagmatico. Perfino l’impresa è vista come una comunità
“minore” dove l’imprenditore non è (tanto) un datore di lavoro, ma il Führer

della competenza; un problema che non si può porre, né tantomeno risolvere, in base alla
qualità giuridica del contenuto della norma. Risolvere i problemi di competenza
rimandando al dato materiale, significa burlarsi della gente… Il rappresentante classico del
tipo decisionistico (se posso impiegare questo termine) è Hobbes… Hobbes ha anche
portato un argomento decisivo che riguarda il nesso esistente fra questo decisionismo e il
personalismo e che vanifica tutti i tentativi di sostituire alla concreta sovranità dello Stato
un ordinamento avente validità astratta” op. cit., pp. 56-57.
12 V. i saggi pubblicati in italiano col titolo Sul Leviatano a cura di C. Galli, Bologna 2011,
pp. 68-69; a p. 106 scrive “Hobbes in modo scientificamente oggettivo e neutrale, fonda lo
Stato come opera umana che nasce da un patto di tutti con tutti… Lo Stato
istituzionalizzato o «costituzionale» è infatti uno Stato ordinato nella forma di una
deliberazione di una «moltitudine di uomini», cioè da una «assemblea nazionale
costituente»”; a p. 112 Schmitt vi ritorna “Frattanto, soprattutto per merito dei lavori di
Ferdinand Tönnies, sono stati enucleati gli elementi di «Stato di diritto» presenti nella
dottrina di Hobbes, e quest’ultimo è stato riconosciuto come teorico dello «Stato di diritto
positivo». Ma per secoli Hobbes fu il malfamato rappresentante dello «Stato di potenza»
assolutistico; l’immagine del Leviatano fu enfatizzata come quella di un orrendo Golem o
di un Moloch, e ancor oggi ha la funzione di archetipo, in cui si vede tutto ciò che la
democrazia occidentale intende con lo spauracchio polemico di Stato «totalitario» e di
«totalitarismo»”; e p. 147 conclude “Hobbes è il padre spirituale del moderno positivismo
giuridico, il precursore di Jeremy Bentham e di John Austin, il pioniere dello Stato «di
leggi» liberale. È stato lui il primo a sviluppare con piena chiarezza sistematica il principio
«nullum crimen, nulla poena sine lege», essenziale per il diritto penale liberale”; si veda
invece che fine fa tale principio nel saggio di Höhn. La differenza principale sul punto tra la
concezione di Hobbes e quella di Schmitt è che nella prima sono pressocché assenti le
nozioni di popolo e di comunità, mentre nella seconda in specie il popolo è decisivo per la
sintesi politica.
26
della comunità di impresa, dove “il pensiero della comunità subentra al
pensiero degli interessi”.
Così il diritto (e lo Stato che lo pone (spesso) e deve applicarlo) non trova la
propria ragione fondamentale nel conciliare i contrapposti interessi
individuali e dirimere i relativi conflitti (cioè nello scongiurare il caos) ma è
espressione dell’ordine comunitario, così come la persona è tale nella
comunità. In questo senso la stessa distinzione tra uomo e cittadino (e
relativi diritti) perde senso (tant’è che Höhn non la tratta).
Di guisa che il diritto perde la primazia e la funzione di strumento del potere
per creare (e mantenere) l’ordine (Hauriou): è la stessa comunità quale
ordinamento di vita a costituire l’ordine e quindi ad esprimerlo. La
distinzione tra potere, ordine, diritto viene dissolta in quella di comunità
composta di capo e seguito, legati dal “sentimento” di appartenenza
comunitaria.
Tale prospettiva, a tacer d’altro, ha il difetto di mancare di realismo.
Che vi siano, pur nella stessa comunità, tanti individui (e relativi “gruppi”)
con diverse opinioni, interessi, credenze, è un dato reale ineliminabile. Che
poi la comunità sia una e abbia una “funzione” unificante di tante diversità
(anche a mezzo del diritto) è altrettanto reale. Il problema che si pone,
almeno nella dottrina dello Stato moderno, da Hobbes in poi, è quello come
fare e pluribus unum; compito sia politico che giuridico; e che consiste nel
punto centrale della costruzione dell’ordine e del potere. Affermare che la
comunità (e l’organizzazione che ne consegue) possa risolvere questo
problema è (forse) possibile: ma non che lo elimini, di guisa che il problema
non si ponga.
27
All’uopo basti ricordare ciò che ne pensavano Montesquieu, Hauriou e
Freund.
Il primo fa della distinzione dei tre poteri un fattore d’ordine e d’equilibrio
sociale, oltre che politico. Il secondo scrive che “Les equilibres sociaux sont
inviolables dans nos societés politiques”
13. Proprio per questo è necessario
contemperarli e equilibrarli. E regolarli giuridicamente. Anche se un
ordinamento costituzionale può limitarsi alla regola dell’ “appartenenza al
sovrano di tutti i poteri”14, tuttavia il sovrano (il capo, la guida) ha
comunque necessità di regolare il comportamento del “seguito” e ordinare i
poteri derivati e sottostanti. Pertanto anche se il regime nazionalsocialista
era sostanzialmente monista (e monocratico) ciò non implicava l’inesistenza
di una pluralità d’interessi e di poteri15
.
Sotto un altro profilo la concezione di Höhn si discosta vistosamente dal
“tipo ideale” del pensiero della scienza giuridica “borghese” tra il XIX e
l’inizio del XX secolo: nel sottovalutare la volontà e il potere. All’uopo è
utile confrontarlo con le concezioni, per certi versi emblematiche del
positivismo giuridico “classico”, di Max von Seydel. Secondo questi molti
errori hanno “condotto un falso idealismo del diritto. In nessun altro campo,
come in questo, finzioni fallaci hanno così facilmente pullulato rigogliose, e

13 Principes de droit public, rist. Paris Dalloz 2010, p. 11.
14 V. Santi Romano Principi di diritto costituzionale generale, Padova 1947, p. 3 e
prosegue “ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa
si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua indeclinabile
natura, lo Stato”; il passo citato è in antitesi alle teorie “restrittive” del concetto di
costituzione, tipiche del costituzionalismo liberale.
28
impedita la via alla verità… La finzione è solo un modo di esprimersi
specifico per parificare giuridicamente e trattare con gli stessi criteri
rapporti diversi. Quindi non si può… con l’aiuto di finzioni spiegare o porre
rapporti giuridici”16; ciò che è reale è che “Lo Stato sorge per ciò che un
numero di uomini, il quale occupa una parte della superficie terrestre, si
unisce sotto un supremo volere. Da ciò appare che lo Stato non è altro che
un prodotto della volontà umana, anziché il prodotto di una forza naturale o
di un processo di evoluzione naturale… la tendenza della volontà umana a
formare lo Stato è senza dubbio fondata sulla disposizione naturale
dell’uomo: l’uomo è uno zoon politikon”
17 e sostiene “il diritto non sorge
che per opera dello Stato”. Dove invece von Seydel è meno distante dal
giurista nazionalsocialista è nella netta distinzione-subordinazione tra Stato
e Sovrano “risulta chiaramente che lo Stato non è affatto il volere sovrano,
né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è

15 V. sul punto in una teoria dell’ordine e degli equilibri nello Stato moderno, Hauriou op.
cit., pp. 11 ss. il quale scrive “La Costituzione degli Stati è ordine introdotto nella loro
organizzazione, separazione dei poteri ed equilibrio”.
16 E prosegue “Dinanzi a un unico concetto chiaro deve dileguare il fantasma nebuloso
dello spirito del popolo del Puchta; ad esso tengon dietro i soggetti giuridici non
effettivamente esistenti, ma solo immaginati; le totalità che sono qualcosa di diverso
dall’insieme dei loro elementi, i diritti che non sono uguali alla somma delle facoltà ad essi
corrispondenti, e così – non vogliamo continuare la lista che si potrebbe facilmente
moltiplicare – molto ancora che non è mai esistito, ma solo è stato pensato, che non deve il
suo essere alla realtà, ma semplicemente all’immaginazione”.
17 E prosegue “Il singolo Stato è sempre prodotto dalla volontà umana. È quindi un pensiero
senza alcun valore giuridico e filosofico quello che lo Stato sia un organismo. Questa
espressione figurata riposa sopra un pensiero oscuro, che scambia la tendenza della schiatta
umana a produrre lo Stato con l’atto creatore che produce lo Stato reale” (i corsivi sono
nostri) op. cit, p. 1153.
29
sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità
di Stato. Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente
come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone. È quindi un
modo di esprimersi affatto riprovevole scientificamente quello che pone alla
pari lo Stato e il volere sovrano, e attribuisce allo Stato un volere. Stato e
sovrano sono diversi così come proprietà e proprietario”18. Potere (di
comando) e volontà sono gracili se non assenti nella ricostruzione di Höhn,
contrariamente a quello che avviene in una coerente costruzione del diritto
“borghese” (v. anche, in seguito, le critiche dei giuristi antinazisti).
D’altra parte la concezione comunitarista di Höhn può essere confrontata
con la tesi di Schmitt sull’evoluzione dallo Stato liberale dualista dal XIX
secolo a quello “totale” dei XX secolo; analisi sviluppata in particolare nel
Hüter der verfassung. Dove è centrale l’affermazione del giurista di
Plettemberg che “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato
neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La
potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico,
che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo
attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale
dell’identità di Stato e società”19
.
Tuttavia lo Stato (nella specie la Repubblica di Weimar) ancorché totale (in
senso quantitativo) e “autorganizzazione della società” era pur sempre
anche “teatro del sistema pluralistico” perché (tra l’altro) “Per il fatto che

18 Op. cit., p. 1155 (il corsivo è nostro).
19 Il custode della Costituzione trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1981, p. 125.
30
esiste una maggioranza di simili complessi, che entrano in concorrenza gli
uni con gli altri e si mantengono reciprocamente entro certi limiti, ossia uno
Stato pluralistico dei partiti, si impedisce che lo Stato totale in quanto tale si
ponga in risalto con quella stessa veemenza che ha già manifestato negli
Stati cosiddetti a partito unico, la Russia sovietica e l’Italia. Con la
pluralizzazione non è però eliminata la svolta verso il totale, ma è per così
dire soltanto parcellizzata, giacché ogni gruppo di potere sociale organizzato
– dalla società di canto e dal club sportivo dell’autodifesa armata – per
quanto possibile cerca di realizzare la totalità in se stessa e per se stessa”20
.
8. Nel saggio Staat, Bewegung, Volk, scritto dopo la presa del potere da
parte di Hitler, , Schmitt ricostruisce il regime nazionalsocialista come
sistema triadico21. Delle tre membra il movimento “sorregge lo Stato e il
popolo, penetra e conduce le due altre”22. Delle tre è il movimento (la cui
forma è il partito nazionalsocialista) ad essere il principio dinamico e ad
esercitare la direzione politica, a guidare da un lato lo Stato (inteso come
apparato di autorità ed uffici) e dall’altro il popolo. La sfera del popolo è
“lasciata all’amministrazione autonoma, che abbraccia tanto l’ordinamento

20 Op. ult. cit., p. 131
21 “L’unità politica dello Stato presente è l’unità di tre membra: Stato, movimento, popolo.
Essa si distingue radicalmente dallo schema statale liberaldemocratico pervenutoci dal
secolo decimonono, e non soltanto per i suoi presupposti ideologici e i suoi principii
generali, ma anche in tutte le linee essenziali della costruzione e organizzazione del
concreto edificio dello Stato. Ogni concetto essenziale e ogni istituzione importante risente
di questa diversità” trad. it. di D. Cantinori in Principi politici nel nazionalsocialismo, rist.
Settimo Siggillo, Roma 1996 p. 184.
22 E prosegue “Ciascuna delle tre parole: Stato, Movimento, Popolo, può essere usata da
sola per la totalità dell’unità politica. Essa designa però nello stesso tempo anche un lato
particolare e un elemento specifico di questa totalità. Così si può considerare lo Stato in
senso stretto come la parte politica statica, il movimento come l’elemento politico dinamico
e il popolo come il lato apolitico crescente sotto la protezione e all’ombra delle decisioni
politiche” op. cit. p. 185
31
economico e sociale a categorie di professioni come anche
l’amministrazione autonoma comunale”23. Lo Stato d’altro canto “nel senso
della classe statale dei funzionari e delle autorità perde il monopolio della
politica che si era acquistato nel secolo decimosettimo e decimottavo”24. La
legalità dello Stato borghese, formalizzata e meccanicizzata, per ciò stesso
“entra in opposizione al diritto, che permane buono nel contenuto”. Nello
Stato nazionalsocialista “ essa riceve il significato secondario che le spetta,
relativo perché strumentale; diventa il modo di funzionare dell’apparato
statale delle autorità. Questa legalità è tanto poco identica col diritto del
popolo quanto l’apparato statale con l’unità politica del popolo. Al diritto
nel senso sostanziale appartiene come prima cosa di assicurare l’unità
politica soltanto sulla base delle decisioni politiche incontestate, e in questo
senso positive, il diritto si può poi spiegare in tutti i campi della vita
pubblica in una crescita libera ed autonoma” (il corsivo è nostro).
Nell’opera suddetta il giurista di Plettemberg non insiste sul termine
comunità, ma utilizza il bagaglio concettuale e la problematica del pensiero
politico e giuridico “classico”. Manca il carattere pervasivo e “tentacolare”
della comunità espresso da Höhn. Schmitt distingue tra direzione politica ed
“amministrazione autonoma”; parla del Partito come élite (Pareto);
organizza la comunità in un sistema tripartito, con ambiti distinti, di cui una
delle “membra” è comunque decisiva rispetto alle altre (ed è l’élite a

23 Op. cit. p. 186
24 E prosegue “Esso viene riconosciuto come una semplice parte dell’unità politica e
precisamente una parte fondata sull’organizzazione che sostiene lo Stato. L’insieme delle
autorità e dei funzionari per sé solo non si identifica dunque più con la totalità politica né
con una autorità di “superiore” riposante su se stessa. Oggi non si può più determinare la
politica partendo dallo Stato, ma bisogna che sia determinato lo Stato partendo dalla
politica” op. cit. p. 189.
32
dirigere il “movimento”); distingue tra legalità (come modo di
funzionamento dell’apparato statale) e diritto (e così via): tutte dicotomie e
distinzioni “classiche” assenti nel saggio di Höhn.
9. Freund rileva che il “pubblico” è in primo luogo l’affermazione dell’unità
(in relazione al saggio di Höhn è la comunità a costituire l’essenza di ciò
che è pubblico) e fa notare l’esattezza del giudizio di Hegel relativo al
popolo il quale “considerato senza il suo monarca e senza l’organizzazione
necessariamente e immediatamente connettiva della totalità, è la moltitudine
informe che non è più Stato, alla quale non spetta più alcuna delle
determinazioni che esistono soltanto nella totalità formata in sé – sovranità,
governo, giurisdizione, magistratura, classi … Per il fatto che tali momenti
che si manifestano a un’organizzazione, alla vita dello Stato si presentano
…. cessa di essere quell’astrazione indeterminata”25. Nel pensiero di Hegel
la connessione tra poteri, uffici e organi e relativi rapporti con il vertice e la
base della sintesi politica è decisiva (per l’esistenza e la capacità d’azione
della collettività politica); e non può, come si legge invece in Höhn, essere
ricondotta al (solo) rapporto capo-seguito e al sentimento comunitario.
Freund sostiene anche, seguendo la tesi di Schmitt che “c’è sempre una
pluralità di gruppi di natura diversa all’interno di un’unità politica … anche
al tempo dello Stato assoluto esistevano gruppi dalle diverse funzioni:
chiese, corporazioni, confraternite, compagnie”26. I cui (potenziali, ma
certi) conflitti devono essere decisi, e ciò compete “al potere, ovvero al

25 Lineamenti di filosofia del diritto, prgrf 279 trad it. di F. Messineo, Bari rist. 1974.
26 L’essence du politique, Paris 1965 p. 211
33
Comando sovrano, che ha il compito di assicurare la concordia, di prendere
le decisioni opportune”27
.
A prendere le decisioni non è “la democrazia”, “la classe” o “la comunità”
ma un’autorità determinata; a doverle eseguire un’organizzazione da essa
dipendente. A fare la differenza tra l’una e l’altra forma o tipo di sintesi
politica, è a chi spetta di decidere e a chi d’eseguire le decisioni. Le altre
differenze, pur importanti, non hanno il carattere primario di queste.
Il carattere pervasivo della concezione di Höhn riduce o annulla la
distinzione tra pubblico e privato, e quella – avrebbe scritto Miglio – tra
obbligazione politica e obbligazione-scambio28; è illuminante leggere a tale
proposito il passo, sopra riportato, sulla concezione comunitaria
dell’impresa29
.
10. Anche nella dottrina politica e giuridica anti-nazionalsocialista le tesi di
Höhn erano (ovviamente) criticate. Franz Neumann scrive che: “I più
avanzati giuristi nazionalsocialisti, Reinhard Höhn e Gottfried Neesse,
respingono il concetto stesso di Stato e le loro idee sono ampiamente
approvate. Entrambi respingono il concetto della personalità dello Stato
come una mera costruzione liberale, poiché essi sostengono, se il concetto

27 Op. loc. cit.
28 V. Su detta distinzione G. Miglio, Lezioni di politica, Bologna 2011, pp. 153 ss.
29 È appena il caso di rammentare che il tutto ovviamente nega la (dualistica) lotta di classe,
riconducendola all’unità della comunità nazionale di destini. Sul punto è utile ricordare che,
come scriveva Tönnies “La storia della comunità muove – in conformità alle
determinazioni poste in luce – dalla premessa della perfetta unità delle volontà umane come
stato originario o naturale, che si è conservato nonostante e attraverso la separazione
empirica, atteggiandosi in forme molteplici secondo la natura necessaria e data dei rapporti
tra individui diversamente condizionati”, Comunità e società, Milano 1999, p. 51.
34
dello Stato venisse accettato, quelli che esercitano il suo potere sarebbero
semplicemente i suoi organi”30
.
Ernst Fränkel sostiene che la concezione giuridica nazionalsocialista, su
base biologica, “Si potrebbe definire nella teoria e nella prassi «biologismo»
politico, si basa sul riconoscimento e sulla cura di «forze» vitali…Al di là
del diritto naturale razionale e societario esiste un diritto naturale irrazionale
e comunitario, fondato biologicamente, che viene ad aggiungersi alla lunga
lista di varianti storiche del diritto naturale”31; la distinzione tra “diritto
naturale societario e diritto naturale comunitario fu formulata già dai
giuspubblicisti del XVII secolo mediante la contrapposizione dei concetti di
societas e socialitas”
32; tra questi Leibniz. Descrive poi i “tipi ideali” del
diritto naturale societario e del diritto naturale comunitario, i cui caratteri
si attagliano con notevole precisione a quanto esposto da Höhn nel saggio
qui commentato33
.

30 E prosegue “Secondo loro, invece, il potere politico in Germania si fonda sul Führer, che
non è un organo dello Stato ma è la comunità, e non agisce come il suo organo ma come la
sua personificazione” e “Questa teoria costituzionale nazionalsocialista avanzata, benché
attaccata persino da Carl Schmitt, ammette chiaramente che non è lo Stato a unificare il
sistema politico ma che vi sono tre (a nostro avviso, quattro) poteri politici coesistenti, la
cui unificazione non è istituzionalizzata ma solo personalizzata” e conclude che “le teorie
della comunità del popolo e il Führerprinzip siano semplici maschere che coprono i poteri
di apparati burocratici enormemente rigonfi. Ma, almeno un grano di verità può essere
contenuto in queste teorie; vale a dire che è difficile dare il nome di Stato a quattro gruppi
che entrano in trattativa. In effetti, eccettuato il potere carismatico del Führer, non vi è
alcuna autorità che coordina i quattro poteri, nessun luogo dove il compromesso fra di essi
può essere fondato su basi universali” v. Behemoth, trad. it. di M. Braccianini, Milano
1999, p.
31 Der Doppelstaat trad. it. di P.P. Portinaro, Torino 1983, p. 174.
32 Op. loc. cit.
33 “Il diritto naturale comunitario sostiene che fra gli individui singoli esiste un ordine
armonico fondato sugli istinti naturali, che scaturisce dalla «volontà essenziale» dei
componenti della comunità e ad essa corrisponde…Il diritto naturale comunitario vede nel
diritto soltanto una forma di manifestazione della comunità, la cui coesione è prodotta e
35
11. Dopo questa rapida esposizione occorre considerare quanto di ciò che
scrive Höhn appaia ancora rappresentativo non tanto di un modo concreto di
concepire il diritto da parte di un regime politico dato ma in quale misura sia
utilizzabile per la ricostruzione di connotati ed elementi costanti delle
istituzioni, indipendentemente dalla specifica ideologia politica che le
“conforma”. Se quindi la concezione comunitaria di Höhn, col suo carattere
pervasivo e totalizzante ma poco determinato e precisato presenti ancora
interesse per alcuni punti enunciati.
In primo luogo il concetto stesso di comunità: se quello di Höhn è un
ectoplasma così evanescente e dai contorni sfuggenti, l’assenza di quello in
buona parte della dottrina giuridica successiva al secondo conflitto
mondiale, è frutto di una concezione riduttiva e limitata del diritto, una
coperta corta che non considera la totalità dell’esperienza e (del fenomeno)
giuridico34
.

conservata da forze extragiuridiche. Il diritto svolge tutt’al più una funzione di
appoggio…Il diritto naturale comunitario è portatore di un potere delegato. Quanto al suo
contenuto, è determinato dalle forze terrene che lo hanno prodotto; da queste deriva la sua
autorità temporalmente e spazialmente limitata. Il diritto naturale comunitario rifiuta la
ragione non appena questa mette in questione la legittimità degli istinti, sulla cui
affermazione esso invece si fonda…Il diritto naturale comunitario possiede un limitato
ambito di validità cronologico, topografico come pure personale. La coscienza comunitaria,
a cui deve la propria esistenza, emerge soltanto nel processo di differenziazione da altre
comunità. Il diritto naturale conunitario è concepibile solo all’interno di un gruppo sociale
concreto. Il diritto naturale comunitario non è egualitario in analogia alla forma originaria
di tutte le comunità, la famiglia, che è fondata sulla disuguaglianza dei suoi membri …Per
il diritto naturale comunitario lo Stato è soltanto la secondaria espressione della primaria
unità di tutti i compagni di stirpe (Volksgenossen). La comunità di popolo è una
formazione biologica che esiste anche se non è organizzata in forma statale. Lo Stato è un
fenomeno organico derivato dalla comunità di popolo intesa biologicamente”, op. cit., p.p.
175-176.
34 Come scrive Carl Schmitt sul carattere “limitato” del positivismo giuridico “possiede nel
caso migliore, tanto e, nel caso peggiore, tanto poco valore quanto ne posseggono i trattati
fra stati e le leggi interne alle quali esso aderisce. Del resto, per la scienza del diritto, esso
non sta a significare altro che una funzione normativistica, il cui valore, come il valore
dell’intera prospettiva positivistica caratterizzante il XIX secolo, è relativo o storicamente
36
Ad esempio l’indeterminazione è un limite della concezione comunitaria di
Höhn,ma è tuttavia accostabile alla contrapposizione
nazione/costituzione/forma esposta da Sieyès in Qu-est-ce-que le Tiérs
État35. È chiaro che l’abate rivoluzionario calca la mano sulla volontà e
sull’associazione politica (di individui liberi ed uguali), concezione perciò
opposta a quella di Höhn, ma comune ad entrambi è che la comunità (la
Nazione) è superiore e decisiva rispetto alla forma costituita (e costituenda)
in cui si organizza. Al contrario di quanto ritengono in molti che la “forma”
(intesa peraltro in senso normativistico, cioè riduttivo) prevalga sulla
volontà e il consenso comunitario, di per sè elementi metagiuridici e perciò
espunti.
Peraltro la comunità di Höhn che è il fondamento (e la causa finale) e
dell’organizzazione dello Stato (sul punto v. anche E. Fränkel)36 ricorda
alcune considerazioni di Hauriou sull’istituzione-Stato; la quale “domata ed

determinato. Esso trascura intenzionalmente il significato dei contenuti e delle specificità
del diritto, cioè il senso politico, sociale ed economico delle istituzioni e degli ordinamenti
concreti e non può quindi pretendere, già per tale ragione, di possedere il monopolio del
pensiero giuridico e di dire l’ultima parola sul nostro tema. Un’interpretazione ed una
sistematizzazione di tipo scientifico-giuridico deve appunto tener conto del contenuto
concreto delle norme e del senso specifico delle istituzioni”v. Die Lage der europäischen
Rechtswissenschaft (il corsivo è nostro), trad. it. di L. Cimmino (con introduzione di A.
Carrino), Roma 1996, pp. 37-38.
35 “La comunità non si spoglia affatto del diritto di volere; si tratta di una proprietà
inalienabile, essa può solamente affidarne l’esercizio. Tale principio è sviluppato altrove” –
“La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre
conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il
diritto naturale” trad. it. di G. Troisi Spagnoli in Opere, Tomo I, Milano, pp. 254-255.
36 “Hitler ha sostenuto: «Lo Stato è un mezzo per raggiungere un fine. Il suo fine consiste
nella conservazione e nell’incremento di una comunità di creature fisicamente e
moralmente omogenee…Stati che non servono a questo scopo sono costruzioni mal
riuscite, anzi aborti. Ciò non cambia in considerazione del fatto della loro esistenza, così
come il successo di un’associazione di filibustieri non può giustificare la rapina»” op. cit.,
p. 176.
37
addomesticata” secondo Hauriou dal costituzionalismo post-rivoluzionario
deve svolgere tre funzioni essenziali:
1) proteggere la società individualista a mezzo del governo, assicurarle la
pace e l’ordine all’interno e all’esterno… 2) controllarla e renderle servizi
attraverso l’amministrazione 3) Reprimere gli eccessi dell’individualismo37
.
Anche se Hauriou scrive di società e non di comunità
38, l’istituzione-Stato è
quindi la forma in cui s’organizza la società, la protezione dell’esistenza
della quale è funzione essenziale di quello: il che vuol dire che lo Stato è
strumento della società.
Inoltre una seconda analogia (nella “funzione”) del concetto di comunità di
Höhn con concezioni del tutto opposte ma omologhe, è che quello ha, come
queste, l’effetto di depotenziare l’aspetto autoritario – e necessario – del
comando. Così in certe concezioni dello Stato di diritto, inteso quale
“governo di leggi, non di uomini”, o in quella di Rousseau della volontà
generale come “eliminazione” del comando, perché ognuno obbedisce a se
stesso, avendo partecipato a deliberare la legge, la comunità col suo idem
sentire de re publica (e anche di più) diventa un modo per minimizzare il
lato “discendente” del rapporto politico (dal capo alla comunità) a vantaggio
di quello ascendente (dalla comunità al capo).
Peraltro c’è un terzo punto di convergenza strettamente connesso al
precedente: il rapporto tra “capo” e “seguito”, richiamato più volte da Höhn.
Il quale è il più chiaro e determinato del saggio. E pour cause: perché il

37 V. Precis de droit consitutionnel, Paris 1929, p. 49.
38 Tuttavia il termine società di Hauriou è prossimo (e non contrapposto) al significato di
comunità (o più in generale, di “gruppo sociale” – ossia il genere). Al punto che quando si
riferisce alla società “borghese” l’accompagna con l’aggettivo individualista.
38
rapporto tra capo e seguito, ovvero tra vertice e base della sintesi politica è
la condizione essenziale dell’esistenza e della capacità d’agire della
comunità: questo perché il presupposto del comando/obbedienza in una
comunità (anzi in ogni gruppo politico organizzato) è insostituibile. Le
sintesi politiche possono assumere diverse forme e costituire vari tipi: ma a
tutti è essenziale che i comandi del vertice ottengano l’obbedienza e la
minore possibile resistenza alla volontà dei governanti39
.
Vale al riguardo quanto scriveva Hegel distinguendo tra ciò che è necessario
perché esista uno Stato e ciò che è, invece, accidentale40. Inoltre il richiamo
continuo di Höhn al diritto “espresso” dalla comunità rammenta da un lato
la distinzione tra diritto statuito e diritto consuetudinario; dall’altro lo jus
involuntarium, la cui importanza è stata messa in evidenza – tra gli altri – da
Santi Romano41
.

39 Nell’esposizione di Höhn mentre è chiaro il rapporto di direzione del Führer, non lo è
come sia organizzato, in particolare nel lato ascendente se non sulla base, per appunto
dell’idem sentire, dell’appartenenza, della storia. Mentre nei regimi democratici quello che
Smend chiama integrazione funzionale (votazioni, plebisciti, accesso a cariche ed impieghi
pubblici) è dettagliatamente prevista e regolata.
40 Chiedendosi cosa sia necessario perché “una moltitudine formi uno Stato “Dobbiamo
nella nostra considerazione, separare le due cose: ciò che è necessario, che cioè una
moltitudine sia uno Stato e un potere comune, e ciò che invece è soltanto una particolare
modificazione di questo potere e non rientra nella sfera del necessario, bensì appartiene, per
il concetto, alla sfera del più o meno bene, per la realtà invece alla sfera del caso e
dell’arbitrio” Verfassung Deutchlands trad. it. a cura di A. Plede, in Scritti Politici Bari
1961 p. 31
41 “Del resto, anche fra gli Stati moderni ce ne sono alcuni che, non alla legge, ma alla
consuetudine attribuiscono il primo posto nella produzione delle norme giuridiche. Così,
come è noto, l’Inghilterra, dove la «common law» è considerata la base di tutto il diritto e la
legge scritta interviene solo quando è indispensabile, con la figura di un «emendamento»
della prima” v. Principi di diritto costituzionale generale Milano 1947 p. 91
39
Verosimilmente la considerazione che Höhn ha del diritto inglese è
attribuibile al carattere consuetudinario (e quindi involontario, comunitario)
di questo42
.
Bisogna tuttavia considerare che la concezione di Höhn di una produzione
prevalentemente (o quasi totalmente) spontanea del diritto era ampiamente
contestata dai giuristi antinazisti, tenuto conto che nel Terzo Reich non
mancava certo potere statuente e momento “autoritativo” onde appare
forzata ed edulcorata, come sopra cennato. Anche se in ogni ordinamento
convivono sia l’aspetto autoritativo che quello spontaneo-consensuale cioè,
sotto un diverso profilo, il comando e l’obbedienza.
Piuttosto occorre considerare il saggio di Höhn uno dei contributi più
conseguenziali alla “spolicitizzazione” dello Stato, tipica del XX secolo,
espressa da Carl Schmitt nel Begriff des politischen; in particolare nella
“Premessa” al testo del 193243
.

42 Sul punto v. Santi Romano “Del resto, anche fra gli Stati moderno ce ne sono alcuni che,
non alla legge, ma alla consuetudine attribuiscono il primo posto nella produzione delle
norme giuridiche. Così, come è noto, l’Inghilterra, dove la «common law» è considerata la
base di tutto il diritto e la legge scritta interviene solo quando è indispensabile, con la figura
di un «emendamento» della prima. Contrariamente all’opinione del Bentham, che del resto
anche agli «statuti» del parlamento rivolse critiche acerbe, la dottrina inglese ritiene che
alla volontà del legislatore, che può essere arbitraria e sbagliare, sia da preferire la comune
convinzione giuridica, nella quale si esprime direttamente e genuinamente la saggezza del
popolo” op. loc. cit..
43 L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine: su ciò non è più il caso di spendere
parole… Lo stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più
straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, questa fulgida
creazione del formalismo europeo e del razionalismo occidentale, sta per essere
detronizzato… Vi fu realmente n tempo in cui era corretto identificare i concetti di ‘statale’
e di ‘politico’. Infatti allo Stato europeo classico era accaduto qualcosa di assai
improbabile: di creare la pace al suo interno ed eliminare l’inimicizia come concetto
giuridico” trad. it. di P. Schiera ne Le categorie del politicoi, p. 90, Bologna 1972.
40
Anche il connotato della volontà viene messo in ombra nel saggio di Höhn e
più ancora se riferito allo Stato; ad esempio a fare un confronto con il
pensiero di Gentile, tutto incentrato sullo Stato, sul suo rapporto con il
cittadino e sul diritto come volontà dello Stato44
12. Altre idee di Höhn sono comunque trasmigrate, o comunque presentano
analogie – sotto diversa veste ideologica, con differenti termini e scopi – in
alcune concezioni della successiva dottrina giuridica. Così l’affermazione
che il Giudice nel regime nazionalsocialista è “posto in libertà” e rileva solo
il suo “legame con i fondamenti in termini di visione del mondo quali
determinano l’intera vita del popolo”, a prescindere con i collegamenti con
le (precedenti) teorie del “diritto libero” può accostarsi alle concezioni,
successive, che vedono il Giudice quale interprete – più che di norme – di
principi, valori e anche interessi. Del pari il richiamo alla “visione del
mondo” comunitaria è analogo a quelli alla tavola dei valori, ai principi
costituzionali, e differisce da questi principalmente perché non si basa su un
supporto scritto, qual è la costituzione45
.
Quel che invece appare irrealistico (e quindi impossibile) è la – pressoché
assente – trattazione della forma politica, onde non è chiaro in che modo la
comunità agisce – se non attraverso il Führer (ma così si ritorna alla forma,

44 Che è in molte affermazioni incompatibile con quello di Höhn. Per Gentile, ad esempio
“Non è la nazionalità che crea lo Stato; ma lo Stato crea (suggella e fa essere) la
nazionalità. Che conquistando la propria unità e indipendenza celebra la sua volontà
politica, realizzatrice dello Stato”; la “volontà dello Stato è diritto (pubblico o privato,
secondo che regola i rapporti tra Stato e cittadini, o tra cittadini e cittadini); quanto al
rapporto governanti-governati “come il diritto positivo è negato nell’attualità dell’azione
etica, così ogni opposizione di Governo e governati cade nel consenso di costoro, senza il
quale il governo non si regge”: quindi coazione e consenso sono complementari e ambedue
necessari, v. Genesi e struttura della società, rist. Firenze 1987, pp. 57-60.
45 V. sul punto le interessanti considerazioni di L. M. Bandieri Dallo Stato di diritto al neocostituzionalismo in Behemoth online, n. 54.
41
sia pure ridotta all’osso, dei pieni poteri). Il problema della necessità della
forma, al di là del diritto a dare forma, è di rendere la comunità capace di
esistere ed agire. E senza quella l’una, ma ancor più l’altra sono impossibili:
a meno di non integrarle, come un po’ fa in sordina Höhn, con i
Führerbehfele.
Teodoro Klitsche de la Grange

http://www.behemoth.it/index.php?pag=news&id=1235499015_59&titolo=COMUNIT%C1%2C%20DIRITTO%2C%20STATO%3A%20IN%20MARGINE%20%20AD%20UN%20SAGGIO%20DI%20H%D6HN-Teodoro%20Katte%20Klitsche%20de%20la%20Grange

Il dibattito sull’America prima di tutto, di  George Friedman

Il dibattito sull’America prima di tutto

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Dagli anni ’30, c’è stato un dibattito negli Stati Uniti su una politica estera basata su “America First”, una politica nazionalistica che dà la priorità agli obiettivi degli Stati Uniti rispetto ad altri. È un’idea che in tempi diversi è stata centrale sia per i Democratici che per i Repubblicani. Le posizioni andavano dalla destra che esortava gli Stati Uniti a non assumersi la responsabilità del destino di altre nazioni, e la sinistra che condannava gli Stati Uniti per aver agito come la polizia mondiale. La sinistra ha sostenuto una strategia secondo cui gli Stati Uniti devono rimanere invischiati nel mondo attraverso alleanze. A destra, c’era la convinzione che gli Stati Uniti dovessero rimanere invischiati nel mondo per sconfiggere, ad esempio, il comunismo. Ha assunto il carattere di principio morale e di azione prudente in entrambe le tendenze ideologiche, e anche di obbligo morale in entrambe.

La questione del corretto rapporto degli Stati Uniti con il resto del mondo è stata una questione centrale sin dalla fondazione dell’America. Thomas Jefferson ha messo in guardia contro le alleanze intricate, mentre George Washington e Benjamin Franklin stavano manovrando per cercare di coinvolgere la Francia nella rivoluzione americana. L’America è stata fondata come alternativa all’Europa e un nuovo ordine dei secoli. Era anche una nazione tra tante e per un po’ molto debole. Il rapporto americano con il mondo è sempre stato ambiguo come questione pratica e morale e in tempi diversi per entrambe le parti.

La nozione moderna di America First è emersa negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti erano stati coinvolti nella prima guerra mondiale, in molti modi contro la loro volontà, e l’opinione generale e ragionevole era che poco si fosse guadagnato dalla guerra, che stava per riaccendersi. La sinistra vedeva l’intervento contro Hitler come un obbligo morale. La destra sosteneva che il principale obbligo morale degli Stati Uniti era il benessere degli americani e che se l’intervento fosse stato una necessità morale, Stalin sarebbe stato un bersaglio più appropriato.

Gli Stati Uniti presumevano che gli oceani che separavano gli Stati Uniti dall’Europa avrebbero protetto l’America dalle follie europee. Il problema con questo ragionamento era che non l’avrebbe fatto. Quando Hitler conquistò la Francia e lanciò una guerra contro l’Europa, apparve un vasto pericolo. La Gran Bretagna aveva la marina più potente del mondo. Se la Germania avesse sconfitto la Gran Bretagna, avrebbe potuto prendere il controllo delle sue navi, e ne sarebbe derivato il controllo del Nord Atlantico e avrebbe rappresentato una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. Il movimento America First ha visto l’intervento come un atto di beneficenza, non come un imperativo strategico. America First ha sopravvalutato la sicurezza degli Stati Uniti in un mondo pericoloso. L’isolazionismo era pericoloso.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’opinione americana era che il costo in vite americane fosse il risultato di un fallimento nell’agire prima contro la Germania e il Giappone. Di conseguenza, ha reagito al potere sovietico riducendo la sua forza bellica ma senza mai smobilitare. Gli Stati Uniti hanno creato l’alleanza più avvincente possibile, la NATO, e hanno intrapreso una politica per cui, come ha affermato il presidente John Kennedy, “pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualsiasi onere, affronteremo qualsiasi difficoltà, sosterremo qualsiasi amico, ci opporremo a qualsiasi nemico per assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà”. Questo era, ovviamente, l’impegno più estremo che una nazione potesse prendere. Fu la logica continuazione dell’interventismo liberale e aprì la porta a una serie di guerre, a cominciare dal Vietnam, che continuano ancora oggi. Ed è stato sostenuto nel complesso dalla destra.

In Vietnam la guerra non è andata né male né bene. È semplicemente andata. E mentre procedeva, lo stato d’animo contenuto nella dichiarazione di Kennedy svanì. La Dottrina Kennedy è stata attaccata dalla sinistra, che sosteneva che gli Stati Uniti, assumendosi la responsabilità del mondo, erano diventati un mostro imperialista, che conduceva una guerra spietata che non era affar loro. La visione andava oltre il Vietnam, fino all’idea che l’influenza e il potere americani in tutto il mondo stessero sfruttando e schiacciando i diritti di altre nazioni. La sinistra ha sostenuto il ritiro americano dal mondo, non come una dottrina America First, ma come una dottrina per la quale era immorale per gli Stati Uniti essere la polizia mondiale. Sfumature a parte, l’applicazione pratica era America First senza la celebrazione dell’America.

L’interventismo nel discorso di Kennedy era una reazione contro l’America First prima della seconda guerra mondiale. Sotto attacco da sinistra, il principio è sopravvissuto. Gli Stati Uniti hanno trascorso più tempo in guerra dal 2000 che in qualsiasi secolo precedente in totale. (E dall’11 settembre, ha condotto la guerra in gran parte senza successo.) Il tempo non è intensità, ma rimodella ancora la comprensione della nazione di se stessa.

America First è una dottrina evidentemente ragionevole se significa porre gli interessi americani al centro della considerazione. Ogni nazione del mondo mette al primo posto i propri interessi. Le alleanze devono servire l’interesse nazionale, così come l’isolamento. Nessuna sono dottrine strategiche in sé. Sono mezzi per un fine. Il governo ha l’obbligo morale di proteggere la nazione. A volte ciò richiede alleati ea volte la guerra, ma intraprendere la visione di Kennedy significherebbe creare una serie di obblighi che possono spezzare una nazione e in effetti è costato molto agli Stati Uniti.

E se l’idea che gli americani mettano l’America al primo posto è evidente, allora ciò che significa in pratica è sottile e complesso. Gli isolazionisti di destra pensavano che gli Stati Uniti fossero invincibili così com’erano. Gli isolazionisti di sinistra consideravano gli Stati Uniti un brutale oppressore. Entrambe le analisi erano semplicistiche, dannose e false. Ma al centro di ogni strategia nazionale deve esserci una comprensione dell’interesse nazionale, che non è mai semplice, né evidente. E sfida le ideologie semplicistiche. Il mondo è un posto pericoloso, e anche se non vogliamo la guerra, la guerra potrebbe volere noi. E un principio morale che richieda una guerra costante è insopportabile.

Il problema è sempre cosa faremo ora. Non quello che abbiamo fatto prima, e nemmeno quello che faremo dopo. Il futuro ci sorprende sempre. Il problema è essere riflessivi e sottili e mettere sempre l’America al primo posto, il che potrebbe portarci in molte parti del mondo. America First non è isolazionismo, è il nostro impegno morale nei confronti della nazione.

https://geopoliticalfutures.com/the-debate-over-america-first/

POLARIZZAZIONI, di Pierluigi Fagan

POLARIZZAZIONI. Il teorico di economia comportamentale Cass Sunstein, co-autore con R. Thaler di “Nudge” (2009) che in buona parte fu ragione del Nobel per l’economia a Thaler nel 2017, nel suo “Come avviene il cambiamento” (Einaudi, 2021), illustra il meccanismo sociale osservato ed indagato sperimentalmente della “polarizzazione”. Ve ne riferisco a titolo d’ipotesi su cui confrontarsi.
In breve, si tratterebbe di un meccanismo di precisazione delle opinioni nei gruppi per il quale chi è orientato verso un corno di un problema sociale, nel tempo, tende a precisare e polarizzare la propria iniziale tendenza, assumendo posizioni sempre più nitide, conformi a quelle del suo gruppo d’opinione, opposte radicalmente a quelle del polo avversario, per altro oggetto di pari dinamica.
Motivi della dinamica secondo il Sunstein, sarebbero: 1) ogni gruppo che si forma intorno una opinione, tende -nel tempo- a selezionare per lo più informazioni conformi alla propria opinione che, rinforzandosi, si polarizza; 2) il discorso svolto in una di queste enclave d’opinione diventa sempre più stilizzato e perentorio, centrato su verità ritenute acquisite, spostandosi su toni sempre più estremi (anche se questa estremizzazione è dovuta anche da pari progressiva estremizzazione dell’antitesi avversaria); 3) il tutto ha un dente d’arresto di irreversibilità in quanto l’opinione spesa ripetutamente e condivisa dal gruppo di riferimento diventa parte dell’identità e mostrare identità deboli depone in sfavore della reputazione sociale.
Si potrebbero aggiungere altri elementi sfuggiti al Sunstein, come il conformismo (che vale anche per il presunto anti-conformismo), l’allineamento a sovra-ideologie imperanti nel livello più fondamentale delle immagini di mondo, le strutture sociali che permettono e non permettono il confronto tra diversamente pensanti, la voglia di odiare un nemico costruito di tutto punto per meritarsi il nostro odio dovuto per lo più ad altre questioni sociali non proprie dell’argomento scelto per la polarizzazione.
Ma forse, il meccanismo più insidioso che spesso opera al di sotto della dinamica è il progressivo allontanamento dalla realtà, specie quando questa è, come spesso è, contradditoria. In verità sarebbero contradditori i sistemi di opinione, ma la volontà di pensare preciso, lucido, veritiero e condiviso, porta a sostituire la realtà con il sistema d’opinione in una forma di nevrosi che può sfociare nella psicosi. Quest’ultimo meccanismo diventa in realtà la convenzione del gioco sociale delle due polarizzazioni, unite nel progressivo allontanarsi dalla realtà, divise nel percorso scelto della direzione ideale cui tendere per rappresentarsi una realtà-verità nitida e non contraddittoria. Condividere nevrosi sociali, anche se poi si gioca ai guelfi e ghibellini, è pur sempre uno stare assieme. Non è che non siamo esistiti nei secoli i senesi, nonostante l’alta conflittualità rionale.
Ci sono poi altre dinamiche di contorno interessanti da indagare tra cui i polarizzatori professionali di cui sono ricchi i social e gli imprenditori della polarizzazione che tramite i media hanno infine scopi sempre politici o economico-politici, se non geopolitici. Vale per i poteri in atto come per quelli sfidanti.
Il tutto tende a diventare norma in tempi come questi in cui società sfibrate da almeno quaranta anni di deriva adattiva manifestatasi con globalizzazione, finanziarizzazione, crisi ripetute, terrorismi, migrazioni, discesa dei poteri d’acquisto, rottura dell’ascensore sociale, processi iniziati quarantacinque anni fa di esplicita “democrazia diminuita”, la poco analizzata profonda crisi di capacità che in questi decenni ha colpito le classi dirigenti generando una sfiducia ormai irrecuperabile, progressiva ed inquietante informatizzazione, de-socializzazione ed altro, si trovano sempre più spesso di fronte a vere e proprie sequenze di problemi inediti e minacciosi senza aver modo e tempo di almeno comprenderli.
La complessità intrinseca certi problemi come quello ambientale e climatico o quello pandemico o le contrazioni del sistema economico moderno occidentale in rapporto ai processi intenzionali di democrazia diminuita e lo stesso rapporto tra West vs the Rest, accresce l’ansia di ridurre questioni ricche di varietà ed interrelazioni, effetti e controeffetti non lineari, a quadri nitidi, tersi, confortevolmente polari. Si forma una sorta di condivisione dell’ignoranza in cui la convenzione è avere idee tanto più chiare quanta meno conoscenza ed informazione si ha di un fenomeno.
La certezza del poter aver un nemico da combattere, su un tema che assurge a “contraddizione principale” (come se un mondo contradditorio tale fosse perché c’è una contraddizione fondamentale quando in un sistema non c’è “un” fondamentale poiché l’intera sua struttura e funzionalità è fondamentale) è pur sempre meglio che l’incertezza totale, è un semplice fatto esistenziale.
A mio avviso tutto ciò non è socialmente un bene, depotenzia la coesione sociale che può esser anche basata su diversità ritenute necessarie ma ricordandosi che la vita biologica ha da 3,5 miliardi anni inventato come sua strategia adattiva il veicolo sociale o più banalmente “l’unione fa la forza” e forza per resistere alle intemperie adattive ce ne vuole sempre parecchia. Vero è che i senesi sono sopravvissuti e secoli di conflitto rionale, ma solo perché l’hanno sublimato in una innocua corsa di cavalli. Le polarizzazioni avvengono per lo più intorno interessi individuali o di gruppo, quasi mai rispetto al più importante interesse generale, l’interesse che tutti dovremmo avere verso il sistema di cui facciamo parte. Non si tratta di opporre una indesiderabile unipolarizzazione di gruppo alla bipolarizzazione di questo meccanismo. Si tratta di constatare che tra polo ed equatore, la vita si è maggiormente diffusa nelle fasce intermedie dove c’è del caldo ma anche del freddo.
In caso di polarizzazione assumere conoscenze ed informazioni in dosi massicce rafforza il sistema immunitario alle prese con questa sindrome tipica dei periodi storici di torsione adattiva profonda, quindi di crisi profonda. Lì dove tendiamo tutti a non fare più i conti con la realtà regalandoci momenti di confortevole certezza antagonista, viepiù se l’argomento su cui ci dividiamo è innocuo dal punto di vista del conflitto sociale basato sui più concreti rapporti di potere sociale.
[Nella foto, frame di “La parola ai giurati” del grande Sidney Lumet (1957), un film basato su un processo di inversione di polarizzazione che ben ne illustrava le dinamiche, sessanta anni prima di Sunstein]

UE, Italia, Francia, Germania! Il triangolo imperfetto_di Giuseppe Germinario

Grande emozione e tanta enfasi tra i protagonisti della firma del trattato del Quirinale. Peccato che a così grandi aspettative ostentate non sia corrisposta una corrispondente ed adeguata attenzione nella stampa italiana, relegata ben addentro alle pagine interne, alle spalle della scontata sequela su green pass e coronavirus; sorprendentemente almeno un qualche minimo accenno nella stampa transalpina. Un oscuramento che stigmatizza intanto un aspetto: la credibilità di Draghi, evidentemente, non coincide e non ha un effetto di trascinamento significativo su quella dell’Italia; il destino e le fortune politiche di uno sono evidentemente separati da quelli dall’altra. Il dubbio che il segno politico concreto dell’iniziativa si discosti pesantemente dall’immagine e dalla narrazione che si è voluto offrire si insinua nelle menti meno coinvolte dalla propaganda; tutto questo a cominciare dalla forma stessa adottata prima ancora di entrare ad esaminare i contenuti. Il valzer iniziato con il trattato bilaterale di Aquisgrana tra Francia e Germania nel 2019 e proseguito con quello odierno sottoscritto da Francia e Italia richiama l’immagine di un triangolo incompiuto.

Per essere un direttorio autorevole armato della volontà di imprimere una svolta al processo di costruzione della Unione Europea nella forma avrebbe dovuto concludersi con un accordo trilaterale o quantomeno con un ulteriore bilaterale tra Italia e Germania dai contenuti del tutto corrispondenti a quello di Aquisgrana; per essere un sodalizio latino-mediterraneo credibile in grado di sostenere il confronto con le altre due aree geopolitiche costitutive della UE avrebbe dovuto comprendere almeno la Spagna, per quanto ancora essa dibattuta storicamente tra Francia e Germania.

Nel primo caso la coerenza avrebbe richiesto tutt’al più un accordo tra capi di governo tale da definire le condotte nel Consiglio Europeo e in sede di Commissione Europea, quindi nelle sedi preposte; nel secondo avrebbe sancito definitivamente anche nella forma l’Unione Europea come il terreno di confronto e cooperazione tra stati nazionali raggruppati in sfere di influenza e di interessi più omogenei.

La scelta più o meno consapevole di adottare la forma così impegnativa e costrittiva del trattato tra stati sotto le spoglie del lirismo europeista avulso e nemico degli stati nazionali non fa che accentuare i limiti, i vincoli e le ambiguità della costruzione europea tali da rimuovere piuttosto che porre chiaramente sul terreno e possibilmente risolvere i problemi e i conflitti latenti, sino a renderli progressivamente dirompenti; con il risultato finale di rivelare finalmente nella NATO più che nella UE il reale fattore, per altro esogeno, di relativa coesione politica di gran parte del continente. In mancanza saranno i trattati stessi ad essere progressivamente svuotati di contenuti o dimenticati.

I rapporti di cooperazione rafforzata, pur nella loro ambiguità, sono qualcosa di diverso e di poco compatibile con la forma del trattato, checché ne dicano gli estensori di quest’ultimo, in quanto riconoscono implicitamente la trasversalità interna agli stati del confronto politico ed esplicitamente la loro coerenza e subordinazione agli indirizzi della Commissione Europea. I due trattati, in particolare quello più esteso e specifico tra Italia e Francia, di fatto formalizzano ed irrigidiscono il confronto tra stati all’esterno del circuito istituzionale.

Dubbi e riserve che non sono affatto attenuati dall’esame del merito delle clausole, pur avendo queste ultime più la forma di una dichiarazione di intenti che di impegni cogenti in entrambi i trattati, ma maggiormente in quello franco-tedesco.

Quest’ultimo deve pagare certamente pegno alla funzione di apripista, ma può permettersi di indugiare maggiormente nella retorica europeista grazie al ruolo di leadership locale dei due paesi.

Essendo carenti di aspetti cogenti e piuttosto pleonastici nella stesura, non rimane che individuare nell’enfasi attribuita ai singoli aspetti le diversità, le affinità e soprattutto le intenzioni riposte in questi due atti in attesa di conoscere i protocolli aggiuntivi, sempre che siano resi disponibili.

In quello di Aquisgrana prevale nettamente l’enfasi sul ruolo del sodalizio franco-tedesco nell’agone mondiale, con la ciliegina della richiesta velleitaria di un seggio alemanno all’ONU; nell’esplicita richiesta di coinvolgimento delle Germania nell’area subsahariana con un effetto solo secondario di trascinamento della UE.

Riguardo al contesto europeo la postura generale franco-tedesca è quella di due paesi impegnati a determinare genericamente gli indirizzi e l’organizzazione della Unione Europea; quella del trattato quirinalizio è piuttosto di due paesi impegnati ad adeguarsi all’indirizzo, specie giuridico, della Comunità, per quanto si possa parlare di indirizzo giuridico coerente di essa.

L’unico afflato europeista decisamente retorico presente in quello di Aquisgrana viene riservato alla collaborazione ed integrazione persino giuridica delle aree transfrontaliere, in particolare dei distretti; un vecchio cavallo di battaglia della retorica europeista non a caso più incisivo e pernicioso nei confronti dell’organizzazione statale francese che di quella teutonica.

Un ambito curato anche in quello italo-francese ma senza enfasi ed articolato in ambiti più definiti tra i due stati.

Un altro ambito comune trattato nei due accordi riguarda la forza e il complesso industriale militare.

In quello franco-germanico il tono è più generico ed enfatico; nell’altro è più scontato e precisato.

La ragione del primo risiede sicuramente nei trascorsi storici particolarmente drammatici tra i due paesi, come pure nella loro collocazione, con la Francia dibattuta in tre scenari geografici, dei quali uno prettamente terraneo dal quale sono arrivati i guai peggiori. Sono però il presente e le prospettive future a dettare le scelte. Al destino manifesto di duratura concordia verso una meta ed una casa comune annunciato nel patto corrisponde un percorso a dir poco contraddittorio se non controcorrente. A fronte di un paio di progetti industriali integrati in stato di avanzamento corrisponde lo stallo totale in materia di controllo e gestione dell’armamento strategico nucleare, di gestione delle comunicazioni, di indirizzo e addestramento comune delle due forze militari e di sviluppo di una logistica comune. Poca cosa rispetto a progetti più importanti (Gaia, il nuovo caccia europeo, semiconduttori, ect) in colpevole ritardo, ancora ai prodromi, con un divario terribile da colmare; troppo presto per distinguere il fumo dall’arrosto, la velleità dalla volontà. Il paradosso maggiore risiede in una Germania che di fatto predilige il coordinamento e l’integrazione militare con paesi come l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Danimarca e di un corpo militare francese assai poco disposto a condividere i propri asset strategici, specie nel nucleare, nella missilistica e in aviazione, per quanto fragili e malconci, con un paese quasi del tutto privo di conoscenze in quei settori.

Dal lato italico il quadro generale della cooperazione ed integrazione militare appare almeno in apparenza molto più scontato con la parte francese che dimostra di avere le idee molto chiare e gli italiani a giocare di rimessa e limitare i danni quando non arriva a infliggersi la zappa sui piedi. La tradizione tutta italica di adesione a qualsivoglia avventura militare occidentale in giro per il mondo e di delega agli organismi internazionali delle decisioni non fanno che alimentare queste altrui aspettative. Lo si nota già nelle facilitazioni previste alla mobilità delle truppe molto più fruttuose per la Francia, visti i suoi interessi nel Mediterraneo, che per l’Italia, assente nello scenario Atlantico e renano. La decisione, improvvida quantomeno nei tempi, di affidare integralmente all’ESA (Agenzia Spaziale Europea) la gestione dei propri fondi del settore spaziale, presa dal quel campione dell’interesse nazionale del Ministro Colao, nonché l’esito nefasto del tentativo di controllo dei cantieri navali francesi STX da parte di Fincantieri, non fa che confortare ulteriormente questa impressione di subordinazione ed ignavia ormai ben sedimentata.

Non a caso l’intervento comune in questi ambiti sia specificato molto meglio nel trattato franco-italiano.

I due anni trascorsi tra un trattato e l’altro hanno con ogni evidenza modificato notevolmente il contesto che ha portato alla loro stesura.

Allora si trattava di contrapporre un polo europeista a guida franco-tedesca all’anomalia della politica estera trumpiana, all’insorgere dell’ondata “sovranista” in Italia, in Ungheria e alla Brexit.

Oggi si tratta di riportare nell’alveo dell’eterno confronto-scontro della competizione franco-tedesca la progressiva formazione di almeno tre aree culturali e di cooperazione distinte di stati europei. In queste sono comprese quella costitutiva dell’Europa Orientale e dei paesi sede di paradisi fiscali (Irlanda, Austria, Olanda) controllata con sempre maggiore difficoltà dalla Germania; l’altra latino-mediterranea, potenzialmente dirompente, ma tutta da inventare, comprensiva almeno di Italia, Spagna e Francia.

Una prima lettura dell’accordo italo-francese potrebbe indurre a coltivare l’illusione di un’area così strategica.

La diversa qualità del ceto politico, delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali dei due paesi e il pesante ed evidente squilibrio tra questi dovrebbero ricondurci a considerazioni più prosaiche e prudenti.

Se a questo si aggiunge il sostegno entusiastico espresso dall’amministrazione Biden, parecchi altri dubbi dovrebbero dissolversi sulla reale natura dell’accordo. Un paese che non riesce e la sua corrispondente amministrazione che, a differenza di Trump, probabilmente nemmeno intende districare il groviglio di interessi economici che la avviluppano alla Cina, principale avversario-nemico strategico, con il suo appoggio all’accordo intende paradossalmente, ma non troppo, non tanto inibire tentazioni autonome pressoché velleitarie della classe dirigente tedesca dalla leadership americana a favore delle relazione con cinesi e russi, quanto di farle capire e ricordare che gli indirizzi e gli impulsi geoeconomici relativamente autonomi devono ormai sempre più essere ricondotti e sottomessi alle dinamiche geopolitiche di un contespo multipolare.

Il trattato di Aquisgrana ha seguito infatti metodi e significati opposti rispetto a quello dell’Eliseo del 1963 allorquando fu snaturato nel significato solo dal repentino voltafaccia tedesco sotto pesante pressione americana e vide l’esclusione dell’Italia, per il suo eccessivo e cieco filoatlantismo.

IL RAPPORTO TRA ITALIA E FRANCIA

Il giudizio sul “trattato del Quirinale” non può differire di molto dal suo equivalente di due anni fa.

Vi è un punto in realtà realmente qualificante per i due paesi e disconosciuto nei commenti: l’attenzione riservata al settore agricolo. Sia l’Italia che la Francia fondano gran parte del proprio investimento in agricoltura sul prodotto tipico con un relativo ridimensionamento da parte francese, anche per ragioni di ambientalismo liturgico, di alcune produzioni intensive di allevamento e vegetali su vasti territori e con una significativa riduzione negli ultimi tempi dei contributi finanziari europei elargiti di fatto a compensazione del sostegno finanziario francese alla Unione Europea. Un aspetto che mette in concorrenza tra loro le economie agricole dei due paesi, ma che li spinge a fare fronte comune contro la Commissione Europea tutta impegnata a penalizzare questo tipo di coltivazione.

Paradossalmente, quindi, più un fattore di polarizzazione all’interno della UE che di coesione.

Per il resto la sospensione di giudizio sul trattato pende purtroppo a sfavore di un rapporto più equilibrato tra i due paesi.

La Francia infatti dispone ancora a differenza dell’Italia:

  • di una organizzazione statale, pur insidiata dal regionalismo europeista, ancora sufficientemente centralizzata, con la presenza di una classe dirigente e dirigenziale compresa quella militare, preparata e in buona parte diffidente se non ostile all’attuale presidenza, tale da consentire la definizione e il perseguimento di una strategia; quella italiana in antitesi è frammentata e ridondante nelle competenze in modo tale da consentire flessibilità e capacità di adattamento passivo e reazione surrettizia;

  • di una grande industria strategica, pubblica e privata, anche se fragilizzata, specie nell’aspetto finanziario, da alcune scelte imprenditoriali e tecnologiche sbagliate; l’Italia, dal canto suo, continua a vivere e ad emergere in qualche maniera grazie alla presenza prevalente della piccola e media industria in gran parte però dipendente produttivamente da circuiti produttivi e imprenditoriali stranieri;

  • di un sistema universitario riorganizzato in sei grandi poli in grado di offrire nuovamente, rispetto a questi ultimi anni, una buona formazione e specializzazione tecnico-scientifica. Il numero e la qualità di ingegneri e ricercatori ha infatti ricominciato a risalire;

  • di un sistema finanziario e bancario più centralizzato e indipendente reso possibile dalla presenza della grande industria, da una gestione coordinata delle risorse finanziarie ricavate dalle attività agricole e dalla rendita monetaria garantita dalla gestione dell’area africana francofona; un vantaggio che le ha consentito di codeterminare, assieme alla Germania, anche se in posizione subordinata, le regole europee di regolazione del sistema bancario e finanziario con la supervisione statunitense;

  • di un sistema di piccole e medie imprese, al contrario il quale, a differenza di quello italiano, sta rasentando l’irrilevanza e trascinando il paese verso un cronico deficit commerciale e dei pagamenti, sempre meno compensato dalla fornitura di servizi evoluti e che costringe sempre più il paese ad assorbire la propria rendita finanziaria e a dipendere ulteriormente dai dictat tedeschi e dalle scorribande e acquisizioni americane. Con un peso dell’industria che non arriva nemmeno al 18% del prodotto francese, non a caso la stampa transalpina batte ormai da anni sul problema della reindustrializzazione del paese come fattore di coesione sociale, di riduzione degli enormi squilibri territoriali e di acquisizione di potenza. Un elemento che dovrebbe mettere sotto altra luce il lirismo professato a piene mani nel trattato sui propositi di collaborazione, integrazione e scambio imprenditoriali in questo ambito. Qualcosa di particolarmente evidente assurto agli onori della cronaca nel settore automobilistico in un rapporto di gran lunga peggiorativo rispetto a quello detenuto dalla componentistica italiana rispetto all’industria tedesca.

Una situazione non irreversibile a patto di avere una classe dirigente e un ceto politico non genuflesso e capace.

Per concludere giudicare l’accordo franco-italiano soprattutto dal punto di vista propagandistico e dal vantaggio di immagine offerto a Macron in vista delle prossime elezioni presidenziali risulta troppo limitativo se non proprio fuorviante. Tant’è, come già sottolineato, che la stampa francese lo ha del tutto ignorato, quella italiana lo ha glissato e relegato, per altro per breve termine, nelle pagine interne.

Il peso politico di questo accordo rischia di essere molto più soffocante per l’Italia, soprattutto per la qualità della nostra classe dirigente che prescinde dalla validità di numerosi suoi esponenti spesso relegati in funzioni periferiche e di second’ordine, ma anche purtroppo del nostro ceto politico nella sua quasi totalità.

Una ulteriore cartina di tornasole della direzione, oltre alla già citata decisione nel settore aerospaziale a favore dell’ESA presa da Colao & C., sarà l’esito de:

  • la vicenda TIM dove si prospetta il pericolo di una divisione dei compiti tra la gestione americana della rete strategica e quella francese del sistema multimediale italiani con la eventuale compartecipazione, bontà loro, italiana

  • la vicenda OTO-Melara con la possibile cessione ad un gruppo industriale del complesso militare franco-tedesco.

Chissà se questa volta sarà sufficiente per la nostra sopravvivenza la capacità tutta italica di adeguamento passivo e di atteggiamento erosivo così brillantemente esposto da Antonio de Martini. In mancanza non resterà che sperare nel “buon cuore” statunitense, possibilmente preoccupato di un dominio franco-tedesco che potrebbe indurre dalla condizione di dipendenza privilegiata a giungere realmente ad una forma di qualche indipendenza politico-economica dall’egemone americano e di rivalsa rispetto al tradimento britannico della Brexit. Nel caso ancora più nefasto, il placet americano così entusiasta al trattato del “Quirinale” potrebbe essere il segnale di via libera ad una aggregazione dell’Italia nel tentativo di mantenere una parvenza di influenza della Francia nell’Africa francofona; soprattutto di uno spolpamento definitivo del Bel Paese, anche come compensazione dell’affronto subito dalla Francia ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sulla faccenda dei sommergibili e sulla sua silenziosa esclusione di fatto dal quadrante strategico del Pacifico, pur essendo lì presente con qualche residuo coloniale. A meno di un tracollo di Macron e della macronite. Solo a quel punto il giochino a fasi alterne, tra i tanti passi quello di affidare la maggior parte dei comandi militari nella periferia della NATO alla forza militare più limitata ed infiltrata, la Germania e al potenziale ribelle qualche pacca e qualche osso, potrà richiedere qualche nuova variante.

NB_Qui sotto il testo dei due trattati oggetto dell’articolo

aquisgrana 2019

TRATTATO DEL QUIRINALE ITA FRANCIA

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