Verità per Regeni? Verità su Regeni!_di Roberto Buffagni

Verità per Regeni?

“Verità per Regeni”? Vediamo un po’. Di verità sull’argomento ce n’è solo una briciola. Cominciamo da quella, poi passiamo alle ipotesi.

Briciola di verità

Regeni lavorava per una azienda privata di intelligence, la Oxford Analytica.[1] All’epoca dei fatti, il responsabile di Oxford Analytica è David Young, capo dell’équipe che per conto del presidente Nixon scassinò gli uffici del Partito Democratico al Watergate, facendosi beccare e innescando il processo che condusse all’impeachment e alle dimissioni dello statista repubblicano. Nel board, a fare da testimonials, ci sono John Negroponte[2], responsabile diretto dell’organizzazione degli squadroni della morte nell’America Latina anni Ottanta, e Sir Colin McColl[3], Control dell’MI6 (ora SIS) dal 1988 al 1994.

Regeni agente segreto?

Regeni non, ripeto non era un agente segreto. Per Oxford Analytica, Regeni lavorava da precario, in subappalto, stesso tipo di rapporto che intercorre fra un fattorino che consegna la pizza a domicilio e la catena di fast food che lo assume. Conforme a una plurisecolare tradizione di rapporti organici d’interscambio tra Oxbridge e servizi segreti britannici, il rapporto diretto con Oxford Analytica ce l’avevano i suoi professori di Cambridge, che utilizzavano i graduate students e i ricercatori come manovalanza a basso prezzo. Queste agenzie private di intelligence non sono la SPECTRE. Si fanno pagare a caro prezzo informazioni di secondo e terz’ordine, abbagliando gli acquirenti con i nomi di prestigiosi pensionati dell’intelligence. Siccome lavorano esclusivamente per il profitto economico, certo non si danno la pena di addestrare gli agenti sul campo, e tantomeno i fattorini come Regeni. Regeni infatti, a quanto risulta dalla semplice lettura dei giornali, non era stato neanche minimamente addestrato. Nei giorni precedenti il suo sequestro, ad esempio, agenti della sicurezza egiziana erano passati a casa sua per informarsi su di lui. Probabile che Regeni neanche lo sapesse, perché  non s’era creato una rete di sicurezza intorno alla sua abitazione (basta pagare qualcuno dei vicini e il portinaio, non ci vuole James Bond); oppure l’ha saputo e l’ha sottovalutato. Ignoranza e sottovalutazione in un contesto come l’egiziano, dove il governo è sottoposto a tensioni politiche interne e internazionali enormi, e mentre sono in ballo poste economiche e politiche immense (era stato scoperto un enorme giacimento di petrolio nelle vicinanze e andavano firmati i contratti per l’estrazione, e in Egitto c’è il canale di Suez) sono l’equivalente di un tentato suicidio, come sedersi a prendere l’aperitivo in corsia di sorpasso in autostrada.

Escludo poi ogni rapporto diretto tra Regeni e il SIS. Il SIS non aveva nessun bisogno di reclutare Regeni; più pratico e sicuro usarlo a sua insaputa, tanto c’erano i suoi prof. di Cambridge e dell’American University del Cairo a fargli fare quel ch’era utile facesse. I servizi d’informazione usano abitualmente il metodo della leva lunga: stare il più lontani possibile dal personale che usano, utilizzando intermediari, in modo da garantirsi la plausible deniability.[4] Regeni presentava anche il pregio di non essere cittadino britannico, e di essere quindi per antonomasia expendable: i servizi inglesi sono celebri, oltre che per la loro abilità, per la loro cattiveria abissale e il loro cinismo terrificante in un mondo dove i chierichetti non allignano. Si acquisti al modico prezzo di 9 euro The Secret Servant: The Life of Sir Stewart Menzies, Churchill’s Spymaster di Anthony Cave Brown[5] e si vedrà quel che intendo.

A maggior ragione escludo ogni rapporto diretto tra Regeni e AISE.  E’ vero che i servizi d’informazione italiani, dopo la sciagurata riforma e sostituzione del vecchio personale con il nuovo, sono molto peggiorati da tutti i punti di vista, anzitutto professionale: opera di Massimo D’Alema, il Signore si ricordi di lui al momento buono .

(Digressione: uno degli errori più gravi della riforma è stato smettere di pescare i quadri dalle FFAA, mentre l’addestramento e la selezione militari sono indispensabili se si vogliono quadri adeguati al servizio di spionaggio e controspionaggio. Esempio, Calipari. Io non credo a complotti o rappresaglie degli americani. Calipari, ottimo funzionario di polizia, è morto coraggiosamente proteggendo la Vispa Teresa Sgrena perché, non avendo formazione militare, ha fatto un errore blu in zona di operazioni. Al momento di esfiltrare la Sgrena ha privilegiato la velocità del mezzo, perché dove non si combatte, è effettivamente più sicuro fare così: la cosa importante è arrivare a destinazione sicura prima che l’opposizione riesca a organizzare una risposta e a intercettarti. In zona di operazioni, invece, e specialmente in quella zona di operazioni, salire in automobile civile e andare sparati = disegnarsi un bersaglio sul cofano, e infatti l’hanno centrato. E’ un errore che io, pur non essendo né  James Bond né von Clausewitz, non avrei fatto mai. Bastava prendere un autoblindo, andare a 40 kmh, e oggi Calipari sarebbe vivo e vegeto e potrebbe illustrare alla Sgrena alcune realtà fondamentali del mondo e della politica internazionale).

In sintesi: escludo un rapporto organico tra Regeni e l’Aise perché se fosse vero, l’Aise andrebbe subito gettato nelle fiamme dell’inferno in toto, in quanto composto esclusivamente da traditori o da minus habentes con QI inferiore a 80, essendo il risultato più che prevedibile dell’operazione in cui sarebbe stato coinvolto Regeni un colossale autogol per l’interesse nazionale italiano.

Pure ipotesi

Regeni studia sociologia a Cambridge. Viene mandato al Cairo, alla American University, celeberrimo centro di reclutamento dell’anglosfera per la classe dirigente egiziana e non solo. Lì fa ricerche di sociologia “embedded”, dice la professoressa Maha Abdel Rahman, la sua tutor[6]. Cosa vuole dire “embedded”? Vuole dire che non va in archivio e basta, ma frequenta ambienti sociali i più vari, registra posizioni politiche e progetti, prende indirizzi e telefoni, nomi di leader, etc. I professori di Cambridge vendono queste e altre informazioni a Oxford Analytica, che le ridistribuisce tra i suoi clienti. Non so se Regeni ci abbia guadagnato qualche soldo, magari sì magari no, ma non è questo il punto. Il punto è che le informazioni raccolte da Regeni sono anche la materia prima per chi organizza “rivoluzioni colorate” et similia. Le rivoluzioni colorate funzionano così: prima si fa leva sulle opposizioni liberali e occidentaliste buone, democratiche e non violente, poi si gioca la carta vera, perché la linea di faglia vera sta lì: la carta etnico-religiosa, che tanto liberale e non violenta non è (“democratica” forse, nel senso che trova largo appoggio tra le masse). L’impero britannico la carta etnico-religiosa contro i nazionalismi arabi e non solo la sta giocando da un duecento anni, non è una cosa nuova. Tra Fratelli musulmani e Gran Bretagna, per esempio, c’è un rapporto organico da sempre[7]. Il presidente democraticamente eletto dell’Egitto, prima di Al Sissi, era Muḥammad Mursī[8], del Partito Libertà e Giustizia, espressione politica dei Fratelli musulmani.

Non so se Regeni provasse simpatia ideologica per le “opposizioni democratiche”; probabilmente sì, visto che voleva pubblicare sul “il Manifesto”, che si è illustrato per l’appoggio ideologico alle “rivoluzioni colorate” in quanto le fa el pueblo che quando scende in piazza ha sempre ragione. Secondo me è una ideologia disastrosa, ma in questo caso l’ideologia è il meno. Il più è questo: che né Regeni aveva capito da solo, né i suoi mandanti gli avevano spiegato, che stava partecipando in prima linea a un’azione di guerra coperta (destabilizzazione) contro il governo egiziano. In guerra ci si fa male, molto male. E’ poi quasi certo che ci lasci la pelle se ci vai senza una minima preparazione, se passeggi lungo la linea del fuoco con il gelato in mano. Ora, perché Regeni non ci sia arrivato da solo non lo so. Perché  da giovani ci si sente invulnerabili? Perché uno studioso non è un uomo d’azione? Non lo so.  Ma i suoi mandanti, invece, lo sapevano eccome.

I suoi professori di Cambridge avevano sicuramente un rapporto diretto con l’agenzia privata di intelligence per cui lavoravano. Avevano sicuramente un rapporto o diretto, o indiretto attraverso l’agenzia privata, con il SIS[9]. Poi magari anche i suoi professori non si rendevano pienamente, emotivamente conto di quel che stavano facendo fare a Regeni, perché  un conto è andare sul campo, un conto fare analisi seduti nel proprio studio con il termosifone che ronfa: anche l’analista militare più spregiudicato, se non ha visto mai un morto ammazzato, se non si è mai sentito fischiare nelle orecchie una pallottola, stenta a mettersi nei panni del soldato in zona di combattimento. In questo campo, tra la teoria e la pratica c’è la stessa differenza che passa tra un manuale di educazione sessuale e un rapporto sessuale vero e proprio.

Il fatto è che a Regeni, i don e i fellows di Cambridge non gliel’hanno raccontata chiara. Non gli hanno detto, versione A: “Giulio, ti mandiamo sul campo a raccogliere dati in vista di una destabilizzazione del governo egiziano, siamo certi che ci andrai volentieri perché  gioverà alla tua carriera e perché così combatterai per la democrazia, il progresso e il bene del popolo egiziano.” Se gliel’avessero detto, magari Regeni, che non era stupido, ci pensava un attimo, si domandava a quali rischi andava incontro, quali coperture gli assicuravano sul campo, chiedeva perlomeno di essere addestrato a un mestiere che – lo avrà visto, qualche film di spionaggio! – sapeva non essere di tutto riposo, etc.

Gli avranno invece detto, versione B: “Giulio, sei proprio bravo, perché non approfondisci la tua ricerca entrando nel vivo della dialettica sociale egiziana? Gioverà alla tua carriera e darai un contributo al progresso sociale in Egitto.” Regeni non ha tradotto la versione B nella versione A, ha pensato che tutto sommato faceva solo della ricerca sociologica, anche più interessante e coinvolgente; che essendo straniero e occidentale, coperto da importanti istituzioni quali le università di Cambridge e American del Cairo, dalle diplomazie italiana, americana e inglese era al sicuro, ed è andato sulla linea del fuoco senza aver mai sparato un colpo neanche al poligono, senza aver visto una pistola tranne che in TV, e senza sapere sul serio che quella era la linea del fuoco: perché in una guerra coperta, la linea del fuoco è la strada sotto casa, l’edicola dove compri il giornale, il bar dove fai colazione la mattina, la tua camera da letto.

Così ha fatto una fine atroce, lasciando nella mente dei suoi genitori un’immagine di orrore senza nome che non si spegnerà mai finché resteranno vivi, e gli angoscerà la veglia e il sonno per sempre.

A occhio e croce, sono stati i servizi egiziani a torturare e uccidere Regeni. L’interrogatorio serviva a ottenere i nomi dei suoi contatti, e forse anche le intenzioni dei suoi mandanti, che probabilmente Regeni non conosceva: motivo più che sufficiente per spiegare la ferocia delle torture. Se ti chiedono una cosa che non sai, come fai a confessare? E come fa l’interrogante a esser certo che davvero non sai? Deve spingersi al punto da potersi dire, “se lo sapeva me l’avrebbe detto di sicuro”.

Il fatto che siano stati gli egiziani a ucciderlo non vuol dire che l’ordine sia partito dal governo egiziano. Intanto, di polizie più o meno segrete ce ne sono tante. Poi, un’eventuale operazione inglese ha potuto svolgersi così (pura ipotesi): gli inglesi fanno arrivare informazioni mezze vere mezze false su Regeni: lavora per gli inglesi (vero) è un personaggio importante che sa cose decisive (falso). Magari fanno filtrare l’informazione a una polizia egiziana che ha bisogno di fare bella figura o di fregare un corpo concorrente. Questi lo rapiscono, lo interrogano, ci vanno giù pesante perché sono sicuri che ne valga la pena, e quando capiscono che li hanno fregati e Regeni non sa un gran che, sono arrivati troppo in là e devono ucciderlo comunque. Poi danno incarico a qualcuno di farlo sparire – magari proprio a quelli che gli hanno passato l’informazione farlocca, perché “chi rompe paga e i cocci sono suoi”-  ma quel qualcuno è l’infiltrato degli inglesi che invece di far sparire il cadavere lo butta a lato strada e lo fa ritrovare.

Conclusione

La verità giuridica sul caso Regeni non si raggiungerà mai, perché contro l’accertamento delle prove c’è l’ostacolo insormontabile di interessi politici ed economici colossali. La verità storica va cercata anzitutto in Gran Bretagna, e solo in subordine in Egitto. La verità umana è che un giovane e intelligente italiano è stato ingannato, a fini di interesse economico personale e politico nazionale,  dai docenti britannici che avevano l’obbligo etico di proteggerlo – la parola tutor viene dal latino tueri, proteggere, custodire, difendere – e mandato a morire di una morte atroce[10]. Ai suoi genitori e a tutti i suoi cari, è stato inflitto un dolore incancellabile; e per di più, a loro insaputa essi sono stati coinvolti e strumentalizzati in una operazione d’intossicazione e d’ influenza, ordita dai principali responsabili della morte di Giulio Regeni,  volta a confondere le acque e a sviare l’attenzione del pubblico dalla realtà dei fatti, cioè da loro.

 

 

[1] http://www.lastampa.it/2016/02/16/esteri/regeni-a-londra-lavor-per-unazienda-dintelligence-Ue3kZmmArej9wuMH279t5J/pagina.html

 

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/John_Negroponte

[3] https://wikispooks.com/wiki/Colin_McColl

[4] http://italiaeilmondo.com/2018/01/17/disinformazione-un-breve-vademecum_1a-parte-di-roberto-buffagni/

[5] https://www.amazon.it/Secret-Servant-Stewart-Churchills-Spymaster/dp/0718127455/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1543654420&sr=8-1&keywords=The+secret+servant%3A+the+life+of+Sir+Stewart+Menzies%2C+Churchill%27s+spymaster

[6] https://www.lastampa.it/2018/01/24/italia/la-tutor-di-cambridge-impose-a-regeni-di-affidarsi-a-unattivista-GNaS3l5g4Z0hroND31xCKP/pagina.html

[7] Tra mille, si legga questo articolo: https://www.counterpunch.org/2017/03/10/the-secret-to-our-nations-security/

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Mohamed_Morsi

[9] https://www.sis.gov.uk/

[10] http://www.lastampa.it/2016/02/19/esteri/giulio-regeni-mandato-allo-sbaraglio-dai-suoi-docenti-inglesi-sv1TscnNnGt3oBUwjPoz2H/pagina.html

 

http://italiaeilmondo.com/2018/11/27/chi-si-rivede-regeni-secondo-di-antonio-de-martini/

CHI AVRÀ IL CORAGGIO DI DIRLE LA VERITÀ?, di Gianfranco Campa

Passate le elezioni americane di medio termine, mancano poche settimane all’avvio dell’estenuante campagna per le prossime elezioni presidenziali del 2020. Probabilmente una delle più importanti nella storia degli Stati Uniti. Come per il passato Italia e il Mondo seguirà la campagna con la dovuta attenzione e originalità_Giuseppe Germinario

 

CHI AVRÀ IL CORAGGIO DI DIRLE LA VERITÀ?

Il partito democratico, dopo la mezza, direi deludente rispetto al dispiegamento di mezzi, timida vittoria alle elezioni di medio termine è alla ricerca di una strategia vincente da attuare in vista delle elezioni presidenziali del 2020. Il tempo stringe, le primarie incombono, sono virtualmente già dietro l’angolo e cominciano ad affiorare i primi nomi dei potenziali candidati democratici alla corsa presidenziale. L’obiettivo è chiaro: spodestare l’usurpatore arancione, riconsegnare al vecchio establishment l’Impero e reinsediare l’imperatore legittimo , restituire alla natura l’armonia delle cose.

Tanti sono i nomi che veleggiano nell’immaginario della gente, che sbucano dal cilindro delle speranze democratiche. Alcuni sono nomi validi, altri sono chimere fantasiose pescate direttamente da un libro di fantascienza di Isaac Asimov. Nel reame dei candidati seri appaiono i nomi di Michelle Obama, Gary Booker, Kamala Harris, Sherrod Brown, Chris Murphy, Terry McAuliffe, Kirsten Gillibrand, Elizabeth Warren, Michael Bloomberg e il nostro vecchio caro Joe Biden. Bernie Sanders rappresenta invece l’incognita poiché non è più iscritto al partito Democratico visto che ora si professa indipendente. Poi ci sono nomi inverosimili come Oprah Winfrey, LeBron James e la nostro amata, mai dimenticata, Hillary Clinton. Ogni tanto rialza la testa, dispensa perle di saggezza e altezzosità politica, fra un lancio di anatemi contro Donald Trump e altri contro il sistema malvagio che gli ha pregiudicato l’ascesa al trono presidenziale cui teneva come a un diritto acquisito.

Hillary Clinton, non direttamente, ma attraverso i “suoi” canali mediatici più fedeli ha annunciato che correrà di nuovo alle elezioni del 2020,; parteciperà quindi alle primarie Democratiche. Inutile dire che la reazione è stata visceralmente negativa, non da parte dei Repubblicani badate bene, bensì da una larga fetta dello stesso elettorato democratico. Se l’accenno della Clinton a ricandidarsi alle prossime elezioni presidenziali è stato fatto per sondare, testare il terreno politico, vista la reazione negativa, la Clinton dovra` quindi arrivare alle dovute conclusioni; non la vuole virtualmente più nessuno. Ho messo la signora Clinton nell’elenco dei candidati fantastici proprio perché il suo desiderio di ricandidarsi rimarrà nel mondo delle fantascienza e nella sua testa da megalomane cui nessuno, a parte pochi nel partito democratico, vuole più sentire, vedere o dar credito.

Adesso il problema serio, il dilemma sempiterno che si pone nel partito democratico è quello di spiegare, convincere la Clinton che l’elettorato Democratico stesso ha ormai voltato pagina e che pochissimi sono disposti ad accettare una sua qualche ingerenza nella futura costruzione del partito democratico. La Clinton rappresenta il passato; lo sanno tutti, meno che lei. Lo stesso povero Bill Clinton, negli ultimi mesi si è defilato dal palcoscenico pubblico, mostrando più buon senso della moglie la quale si ostina o forse fa finta di credere che la sua figura politica sia ancora rilevante.

Fatto sta che nessuno dei candidati Democratici alle ultime elezioni di Medio Termine appena concluse, sia al Senato che alla Camera, ha chiesto il suo sostegno, il suo aiuto. Tutt’altro; hanno accuratamente evitato anche solo di menzionare in pubblico il nome della Clinton, preferendo invece invitare ai loro comizi personaggi politici del calibro di Joe Biden, Barack Obama e Bernie Sanders.

Allora si torna al questione che ho posto sopra. Chi avrà l’ardire di annunciare la cattiva novella alla Clinton? Ci saranno dei volontari disposti a subire la sua furia? Dovranno probabilmente essere precettati controvoglia e farsi  immortalare, sacrificandosi sull’altare della causa Democratica. Dovranno andare da Hillary Clinton e spiegarle che il suo regno dittatoriale è finito, la sua carriera politica sepolta e il suo delirio di potenza completamente fuori luogo.

In attesa di assistere ai fuochi pirotecnici, ci godiamo lo spettacolo offerto fin qui dalla signora Clinton. La settimana scorsa Hillary in un’intervista al theguardian, esaminando l’ascesa del cosiddetto populismo, ha dichiarato che l’Europa ha bisogno di leggi migratorie molto più severe per tenere lontano i fantasmi dei risorgenti nazionalismi. L’Europa dovrebbe chiudersi a riccio, perchè l’immigrazione di massa sta riaccendendo pericolosamente le torce dei movimenti nazionalisti.

La Clinton afferma che: “l’Europa ha fatto la sua parte e deve ora mandare un messaggio chiaro:  ‘non siamo più in grado di offrire rifugio e supporto a tutte queste persone’ questo perché se non si affronta il problema dell’immigrazione, le conseguenze saranno catastrofiche per la politica tradizionale.”  La Clinton ha poi proceduto a condannare Trump e la sua retorica incendiaria nel contesto dela tematica dell’immigrazione.

Prima di Trump però c’è stato un altro presidente che ha usato sul tema parole altrettando “incendiarie”. Quel presidente non era altro che il consorte di Hillary Rodham: Bill Clinton. Qui sotto un video del 1995 quando Clinton si riferiva al problema immigrazione usando le stesse parole di Trump oggi:

Detto questo, le dichiarazioni di Clinton contengono una parte di verità. Ma in queste dichiarazioni ha dimenticato, naturalmente, di prendersi le proprie responsabilità omettendo la parte in cui dovrebbe dichiarare che i motivi dei risorgenti nazionalismi sono figli delle decisioni disastrose prese,in termini geopolitici, dalla stessa Clinton nella sua opera di destabilizzazione di molte aree geografiche vicino all’Europa; tra le tante la Siria e la Libia.  Le politiche europee dell’austerità economica, imposte con le buone o con le cattive dalla dittatura UE, hanno anche contribuito al riaffacciarsi di questo populismo tanto odiato dalle élite politiche e finanziarie.

Le reazioni alle sue parole di condanna delle politiche migratorie europee sono state dure da parte dell’ala più  progressista del partito Democratico, incolpando la Clinton di ipocrisia e di paranoie razziste.  Tanto è bastato che la Clinton, il giorno dopo, su twitter, facesse un passo indietro specificando cosa intendeva nelle dichiarazioni fatti al theguardian: “ In una recente intervista, ho parlato di come l’Europa deve respingere il nazionalismo di destra e l’autoritarismo, anche affrontando il problema migrazione con coraggio e compassione. Su questo argomento ho anche tenuto un discorso completo il mese scorso.” “Su entrambe le sponde dell’Atlantico, abbiamo bisogno di riforme. Non frontiere aperte, bensì leggi sull’immigrazione applicate con equità e rispetto dei diritti umani. Non possiamo lasciare che la paura o il pregiudizio ci costringano a rinunciare ai valori che hanno reso le nostre democrazie sia grandi che buone.”

La precisazione alle sue dichiarazioni non ha calmato i bollenti spiriti negli ambienti della sinistra americana che vuole la Clinton consegnata per sempre agli annali della storia; non ha impressionato la destra che considera le dichiarazioni di Clinton semplicemente un atteggiamento da pre-candidata, in linea con la sua tipica ipocrisia.  La sua dichiarazione anti-immigratoria va ricercata nella necessità di Clinton di rimanere rilevante nel gioco politico.  Possiamo dire che Hillary doppia il Trumpismo, testando il terreno, nella speranza che possa aiutarla eventualmente nella sua potenziale corsa presidenziale per il 2020. Alla fine con le sue dichiarazioni non ha fatto felice nessuno.

Rimane un’ultima considerazione da fare: Può essere che la Hillary Clinton non abbia nessuna intenzione di ricandidarsi, ma abbia semplicemente lanciato un messaggio alle élite del globalismo e della Unione Europea; prevenire l’avvento di regimi populisti è ancora più importante della acquisizione di manodopera a basso costo…

https://www.theguardian.com/world/2018/nov/22/hillary-clinton-europe-must-curb-immigration-stop-populists-trump-brexit

La caduta di Giove_a cura di Giuseppe Germinario

Deja vu! Già visto negli Stati Uniti, in Italia. Ora tocca alla Francia. Il serbatoio da cui pescare nuovi leader dal vecchio establishment è in via di esaurimento e con esso la credibilità e l’autorevolezza di tutto il baraccone, compreso quello dei media. Qui sotto la traduzione_Giuseppe Germinario

Macron crolla e porta via con sé i media

C’è un’atmosfera di fine regno in Macronie. Come mai, tuttavia, non genera nei media mainstream un “Macron Bashing” simile a quello subito da Hollande durante il suo mandato? Forse perché è l’ultima possibilità, l’ultimo giro, di un sistema senza fiato e che si rifiuta di morire …

Ora è ufficiale: Macron è nel cavolo. Sarebbe noioso redigere un inventario esaustivo dei sintomi di collasso,  dal caso Benalla fino alla controversia su Pétain attraverso le dimissioni di Hulot e Collomb, la fronda contro l’aumento del prezzo del gasolio sullo sfondo, in un contesto di risultati economici deludenti, anche catastrofici; è ovvio che nulla vada in Macronie. Il nostro monarca si ritrova nudo in una botte con un cinturino, solo in mezzo alle rovine.

Questo è ovvio, ma non per tutti. Poiché si tratta di una piccola comunità che continua a difendere il presidente contro tutto, anche a dispetto dei suoi sostenitori più vicini che prendono le distanze e, al largo, smantellano l’ex Re Sole, ormai crepuscolare;  questo ambiente è quello dei media (o, per dirla in modo più preciso, e non buttare il bambino con l’acqua sporca, quella degli editorialisti).

E’ stato sufficiente che Méluche (qual che sia il personaggio) si sia fatto tutto rosso e abbia alzato i toni per diventare un video virale perché fosse lanciata una campagna sopratono il tempo di una settimana  senza che venissero poste ( anche dalla parte di Mediapart, che è stata per me una delusione) le domande cruciali che questo caso ha imposto. Uno dei pochi ad aver allevato le obiezioni più interessanti su questo argomento fu Daniel Schneidermann, nelle sue cronache mattutine, che mi permetto di citare prima di passare a qualcos’altro:“Nella storia delle indagini in scandali sulle entrate o le campagne elettorali di spesa, questa è la prima volta, assicurano gli Insoumis (e sembra che hanno una buona ragione) che viene perquisita una residenza personale. Perché? Qual’è stata l’accusa, presentata gerarchicamente al governo, chi è a capo dell’indagine? […] Nell’articolo di Mediapart manca solo una cosa: la descrizione della trappola in cui si sono trovati. E, alla fine, la sua denuncia “; “Il doppio cappello di Sophia Chikirou, responsabile della campagna e del fornitore, ha reso questa campagna fin dall’inizio legittimamente sospetta (anche se sembra, secondo il nostro sondaggio dei professionisti, che questa campagna non sia stata sovraccarica ). Ma il procuratore molto professionale di Parigi, con la sua benda sugli occhi, è, nel sistema di nomina francese, altrettanto legittimamente sospetto.

Ma è inutile tornare di nuovo su questa faccenda. Che la stampa e la televisione mainstream non amano tutto ciò che sembra lontano o prossimo alla sinistra non è più una sorpresa. Ciò che stupisce anche l’osservatore più attento è la passione sconfinata che continua, in pieno fermento, a unire i nostri editorialisti a un presidente che affonda in un abisso di impopolarità, in maniera massiccia (solo vivere nel mondo reale per realizzarlo) respinto dalla società civile e la cui totale mancanza di competenza in termini di gestione dello stato è ormai più che evidente.

Ai suoi tempi, il nonno (Hollande) è diventato rapidamente lo zimbello di quasi tutti i media nazionali i quali lo sprofondavano con epiteti, “alcuni” devastanti con un grado di malafede che a volte sfiorava le vette più alte -talmente grottesco che alla lunga me lo ha reso (quasi) amichevole, nonostante la natura profondamente detestabile della sua politica.

Non Macron. I media mainstream, a quanto sembra, lo difenderanno fino al loro ultimo respiro, con i denti se necessario. L’affare Benalla? Una deriva individuale. Le dimissioni di Hulot? La palla di piombo di un uomo sensibile. Gli improbabili eventi che hanno circondato la partenza di Collomb? È il vecchio miscredente che è colpevole di alto tradimento, non il presidente. La stupida idiozia di molti parlamentari LREM? RAS Il patetico rimpasto ministeriale, costantemente rinviato a causa della mancanza di personale per integrare un governo che nessuno vuole? Un nuovo respiro, esclamarono tutti meravigliati. La polemica su Petain? Una stanchezza che passa – chi non ha mai elogiato Vichy una notte di debolezza? Le inette uscite del presidente sui disoccupati, e i francesi in generale? Il ritiro sulle leggi ambientali? Previsioni economiche giù? Misure antisociali? Fallimenti diplomatici? Circola, non c’è niente da vedere e tutto va bene.

Questo è veramente sorprendente.

Vedi a questo punto che è impossibile designarli se non come i rappresentanti del sistema dei media atti a formare un corpo attorno al leader che hanno scelto, a scapito di tutta la deontologia, senza nemmeno preoccuparsi di mettere una parvenza di neutralità sul fanatismo ideologico neoliberista che li anima. Tutto ciò ha almeno un interesse: mettere a nudo i meccanismi banali del pensiero dominante.

Con Hollande, i sostenitori del pensiero egemonico potevano ancora atteggiarsi più giusti, più liberali. Si sono comportati con lui come con un servo maldestro in attesa della fine del contratto provvisorio per licenziarlo. Con Macron, la cosa è diversa: in un certo senso, quando tutto si spezza, tutto crolla, il sistema è nudo, è l’ultima possibilità. Sarà quindi necessario difenderlo fino alla fine, contro tutto, anche – e soprattutto – contro le evidenze. Perché non è sicuro che sarà possibile, molto presto, mettere una moneta nella macchina. Frédéric Lordon l’aveva visto, all’epoca, durante la campagna del giovane prodigo di Attali:

“I ricchi vogliono rimanere ricchi e i potenti potenti. Questo è l’unico progetto di questa classe, e questa è l’unica ragione di essere del loro Macron. In questo senso, è lo spasmo di un sistema che respinge il proprio trapasso, la soluzione finale, l’unico modo per mascherare una continuità diventata intollerabile per il resto della società sotto una veste di discontinuità più artificiale rivestita di modernità competitiva per l’uso degli editorialisti di sinistra. Da qui il paradosso che è tale per quest’ultima categoria: Macron, auto-proclamatosi “anti-sistema” è il punto di incontro in cui si concentrano, indifferenziati, tutti i rifiuti del sistema, tutti gli squalificati sul punto di essere lisciviati e non trattenersi da un tale favore della provvidenza: la possibilità di un giro aggiuntivo della giostra “.

E questo tour sarà forse l’ultimo.

Qualche giorno fa, ho sentito Lea Salame prossima a soffocare dall’indignazione ogni volta che il suo ospite del giorno, i giovani e altrimenti i Quatennen, usavano l’espressione “i media” . “Ancora i media! Ancora criticare i media! Esclamò, come se non esistesse, come se “i media” fossero solo il delirio di una banda di persone illuminate in cui i militanti di sinistra combattevano insieme ai Soraliani e ai cospiratori.

“I media” esistono. Ovviamente non stiamo parlando dell’orda di precari freelance che costituiscono la maggior parte delle redazioni e che, invisibili, non hanno voce. Non parliamo né delle poche enclavi (specialmente tra gli umoristi di France Inter e della stampa indipendente) dove regna ancora una totale libertà di tono. Ma gli opinion maker, coloro che hanno portato Macron al potere dopo aver lasciato andare Juppé, sono una dolorosa realtà della nostra società che vuole essere pluralista e democratica. È tempo, in queste ore di disvelamento, di non negare più questo stato di cose.

Ed è tempo, soprattutto, da parte loro, di pensare a un mea culpa.

Perché il giorno in cui il discredito dei media troppo ligi agli ordini sarà totale e definitivo, non sorprenderà se i cittadini andranno alle fonti di abbeveramento anche le più melmose, come quelle di BFMTV.

Faccio appello ai nostri editorialisti: uscite dalla giostra, lasciate andare Macron! Altrimenti, come il suonatore di flauto di Hamelin, vi porterà con sé dritto contro il muro. E nessuno, temo, trarrà vantaggio da questo disastro.

Qualcosa si sta preparando. Con o senza di te.

Ciao e fraternità,

MD

PS: Non resisto alla tentazione, in ritardo, di menzionare questo angosciante articolo depositato dai “decodificatori” de le Monde; o quando la propaganda prende le sembianze di fatto controllo: https://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2018/10/17/non-la-perquisition-subie-par-jean-luc-melenchon- e-il-Francia-ribelli-n-is-not-politique_5370832_4355770.html

Fonte: The Mediapart Blog, Macko Dràgàn , 12-11-2018

GRIDO DI DOLORE E DI VENDETTA, di Piero Visani

Come vive la gente

 

https://derteufel50.blogspot.com/2018/11/come-vive-la-gente.html?spref=fb&fbclid=IwAR3hdd1UVYwoQmBUvu4RFv8hYdcgXffpKDsawjgrs7RVaw_n58WhstrU4po

 
Ci sono persone che mi sono simpatiche a prima vista, anche se non le ho mai viste e probabilmente mai le vedrò. Una di queste – la più recente, direi – è Jacline Mouraud, la signora francese di 51 anni anima e guida della protesta dei “giubbotti gialli”.
Di lei amo la concretezza, così lontana dalle fumisterie dei politici di professione e dalle cifre snocciolate ad hoc dagli economisti “embedded” (sapete quanti ce ne sono, vero…?). Non ho mai sopportato i discorsi su la società democratico-liberal-capitalistica come “il migliore dei mondi possibili” neppure quando qualche briciola dei suoi cascami me la garantiva. E vivevo discretamente, magari andandomi a cercare il lavoro nei posti e nelle attività più disparate, ma vivevo. Non avevo ambizioni di fare l’intellettuale organico, per cui difendevo la mia personale autonomia di pensiero senza leccare le terga ad alcuno, dunque non ricevendone incarichi, se non molto parziali, ma sbarcavo il mio personale lunario cercando lavoro ovunque fosse possibile trovarlo.
Poi, ovviamente, la caduta: all’emarginazione politica si viene ad aggiungere – con lenta ma inesorabile progressione – l’emarginazione economica: attività un tempo fiorenti svaniscono, altre vengono vietate, altre ancora diventano mercati dove la concorrenza è talmente forte e aspra da azzerare i prezzi delle prestazioni e, in non pochi casi, anche la possibilità di essere pagati. Alla fine, restano solo quelle a convocazione politica e io a quelle non posso davvero ambire.
Nessuno mi ha mai parlato di queste cose, nei suoi discorsi, salvo pochi amici fidati. Ma silenzio assoluto sul versante “borghese” e silenzio ancor più assoluto su quello politico, forse perché toccare certi temi pare di cattivo gusto.
Jacline Mouraud, per contro, traccia un quadro personale realistico: molte attività, nessuna in grado di procurare un introito dignitoso perché tutte molto malpagate; tasse, spese varie, un progressivo impoverimento che porta le persone a vivere come underdog, nel “migliore dei mondi possibili”. Gli apologeti di quest’ultimo ci cantano le lodi di un sistema attento all’ambiente, ai “diversi”, ai migranti, alla salute individuale e collettiva, dimenticandosi solo di sottolineare che, se uno deve lavorare 12-13 ore al giorno per portare a casa – a fatica – un migliaio di euro al mese comincia a fregarsene bellamente del “migliore dei mondi possibile” e dei “massimi sistemi”, semplicemente perché il sistema “minimo” in cui è immerso fa acqua da tutte le parti, fa schifo e non gli consente di vivere non dico in maniere dignitosa, ma men che dignitosa. E visto il numero di poveri assoluti che crea anno dopo anno, non gli consente nemmeno di vivere più.
       
Ho avuto la fortuna di leggere e studiare molto nel corso della mia vita, per cui non ho ansie particolari: so che chi semina povertà, insoddisfazione economica, tristezza, dolore, disagio, non sta facendo qualcosa che potrà giovargli molto. Non dico a titolo personale, ma certo non gioverà al sistema che sta cercando di difendere. Così guardo e aspetto: ogni giorno di dolore e di sofferenza in più è un livello di rabbia, di volontà di riscossa e di vendetta in più. Chi semina vento, raccoglie tempesta, si dice. E chi semina dolore e miseria, cosa raccoglierà?. E, se in Italia questo non incide granché, sebbene noi siamo messi assai peggio di altri popoli, altrove magari non è e non sarà così, grazie a una superiore volontà di reazione.
Vedo i ricchi e i boiardi di sistema che se la godono, sorridenti e autoreferenziali, e so che verrà il giorno che me la godrò io, o chi per me. La diffusione deliberata di miseria e dolore, spacciata per un grande operazione democratica e di correttezza economica è una responsabilità di cui dovranno rispondere in molti. Anche chi ora non ci pensa avrà la sua Norimberga, dunque un tribunale assolutamente democratico ed equilibrato…
 
                                        Piero Visani

ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO

già pubblicato sul periodico Behemoth ( http://www.behemoth.it/index.php?nav=Home.01 ) nel 2012

  1. Nelle “Lezioni di politica – Scienza della politica” Gianfranco Miglio dedica un capitolo dell’opera alla “teoria delle istituzioni” facendo considerazioni acute ma in qualche misura non del tutto conseguenti sia all’opinione dei giuristi cui riconosce di aver elaborato la teoria delle istituzioni (Maurice Hauriou e Santi Romano) sia (in qualche misura) con i presupposti, altrove svolti, delle proprie concezioni.

Sostiene Miglio che la teoria istituzionalista di Hauriou “è l’estremo prodotto di una capacità di elaborazione concettuale che si è avuta, in particolare fra i giuristi di scuola tedesca, durante la seconda metà del XIX e i primi decenni del XX secolo”; e spiega come nasce questa teoria”Abbiamo visto come l’uomo sia interessato a conoscere le regolarità del mondo che lo circonda e del comportamento dei suoi simili, perché operando in questo modo sa anche come regolarsi. Ma proprio per questo, l’uomo tende a costruire queste regolarità: in altri termini, tende ad organizzare il suo avvenire, proprio regolando il suo comportamento e tentando di regolare il comportamento degli altri. Qui abbiamo a che fare con regolarità non meramente ontologiche… siamo in presenza di norme e di regole teleologiche… Hauriou dice: «Ciò che fa un’istituzione è un complesso di norme legate, tenute insieme da un fine». In realtà cerchiamo di organizzare teleologicamente il mondo che ci sta intorno, in relazione ai fini”, pertanto “le istituzioni si presentano come giuochi preordinati” e così “l’istituzione è la manifestazione più concreta della vocazione che ha l’animale uomo a organizzare il futuro”; è lo sviluppo della tendenza peculiare della natura umana “l’istituzione è la manifestazione più tipica dell’uomo. Il passaggio da una regolarità ontologica a una teleologica, cioè preordinata e voluta, non è nient’altro che l’estendersi di questa capacità di organizzare ‘previsionalmente’ il futuro”[1]. Subito dopo Miglio distingue tra istituti-norma e istituti-organo.

Distinzione non nuova; per Miglio “generalmente ogni ‘istituto-organo’ nasce da un ‘istituto-norma’”: all’obiezione per cui esistono istituti-organo che nascono “di fatto”, replica che l’istituto-organo può non essere generato da una norma formale e prosegue “Nessuna legge, nessun regolamento l’ha posto in essere. Ma è proprio vero che non esiste un meccanismo normativo, un complesso di norme a monte di questo processo?… se più persone si ritrovano abitualmente – ad esempio convengono di ritrovarsi ogni settimana, ogni mese – e compiono determinati atti, determinate azioni, secondo precisi rituali, ciò accade perché coloro che così si comportano hanno come convinzione questa regolarità” e conclude “In altri termini, ciò che caratterizza la regolarità indispensabile per poter parlare dell’‘istituto-organo’, è l’esistenza di un certo modello di comportamento, che non è consolidato in nessuna norma formale, ma attiene all’ordine della consuetudine, che è anch’essa un ‘istituto-norma’… La verità è che l’unica entità originaria, che sta a monte, è l’‘istituto-norma’. L’‘istituto-organo’ è una sottospecie dell’‘istituto-norma’. Non può esistere un ‘istituto-organo’ se non c’è a monte un ‘istituto-norma’, un modello dal quale dipende, una consuetudine”. Per cui “Quelli che chiamiamo ‘istituti-organo’ e che crediamo siano cose concrete, legate a fattori materiali, in realtà non sono altro, in quanto istituzioni, che procedure convenute”. Anzi tutto il diritto consiste di procedure: per cui “Allora ecco il sospetto: che tutto il diritto si riduca a procedura convenuta; che le istituzioni siano proprio procedure convenute, comportamenti prefissati e siano tutte soltanto diritto”.

Miglio, quindi, contesta che “Legioni di storici e di giuristi hanno affermato senza dubbi: «Attiene all’ordine del “diritto pubblico” , che è “politico”». Allora come mai all’interno dello Stato si è prodotto il “politico” che è entrato in conflitto distruttivo con lo Stato?”[2]. Politica e diritto pubblico non coincidono: da una parte perché “la politica oggi si svolge  in gran parte contro lo Stato e comunque al di fuori dello Stato, i partiti, le corporazioni e via dicendo. E’ perché l’apparato che definiamo “Stato moderno” è in gran parte “diritto” e quindi struttura del “privato”. Originariamente lo Stato moderno è nato come un’aggregazione politica e come sintesi politica, ma tutto quello che ha fatto il suo “gran corpo” è nell’ordine del privato, perché è nell’ordine del diritto e là dove c’è diritto è inutile parlare di diritto pubblico”, dall’altra “Il “pubblico” o è politico o non è niente, perché se è diritto è privato. Esistono numerose prove, specialmente nella storia del diritto amministrativo, dei rami più recenti del diritto e nella storia del diritto pubblico”; e prosegue “Nel sistema politico che caratterizza la nostra età, lo Stato (moderno), ci sono un’origine e un nucleo politico e c’è un nucleo che attiene all’ordine del “privato” e che “politico” non è, perché appunto è diritto e appartiene all’area del contratto”[3].

  1. Secondo i giuristi istituzionalisti e in particolare i due più noti citati da Miglio, cioè Santi Romano e Maurice Hauriou il problema posto da Miglio (o meglio i problemi, tra loro concatenati), riconducibile al rapporto tra politico e diritto nello Stato moderno, non può risolversi separando, anzi negando, il diritto pubblico, né riconducendo agli strumenti prevalentemente impiegati (contratto o “provvedimento”) la linea di confine, né ritenendo che se entra in campo una regolazione giuridica, esce di scena la politica.

E’ d’uopo ricordare quanto scriveva Santi Romano. Questi nell’“Ordinamento giuridico” contesta che il diritto  sia norma (regola) “Ciò a cui si pensa, dai giuristi e, ancor più, non giuristi, che ignorano quelle definizioni del diritto di cui parliamo, è invece qualche cosa di più vivo e di più animato: è in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese; i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse”[4], e prosegue “In altri termini l’ordinamento giuridico così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere , le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino”.

Nella concezione di Santi Romano l’istituzione è un’organizzazione dei poteri e, in quella statale (e pubblica) – del rapporto di comando-obbedienza e quindi è questa a essere la realtà del diritto quale collegamento di autorità e forza che produce, modifica, applica, garantisce le norme. Più tardi nel “Diritto costituzionale generale” scrive che lo Stato non ha ma è un ordinamento giuridico[5].

Quindi lo Stato è in primo luogo un’organizzazione di poteri (prima che un insieme di norme).

Il rapporto tra potere e regole trova la propria valvola di sicurezza nella necessità che è fonte del diritto, superiore alla legge[6]: la tensione tra “obbligazione politica” e “contratto-scambio”, il dualismo ricorrente nel pensiero di Miglio, è risolto nell’ordinamento , cioè nel diritto (che non s’identifica, è appena il caso di ricordarlo, con la legalità).

Hauriou distingue “due specie di regole d’origine istituzionale, il diritto disciplinare e il diritto statutario che sono, in una certa misura, la controparte e il correttivo l’uno dell’altro”[7], e così contribuiscono all’equilibrio dell’istituzione e delle forze che la sostengono.

Il diritto disciplinare “rappresenta” (représente) l’interesse del gruppo espresso dalla coercizione del potere di dominio”. Il diritto statutario “rappresenta l’interesse del gruppo espresso dall’adesione individuale dei componenti alle procedure collettive della vita dell’istituzione”.

Il diritto disciplinare è repressivo e organico. E’ organico perché la forza di un’istituzione e il suo peso non si esercitano solo sui “trasgressori” ma su tutti, per forzarli ad accettare le organizzazioni create all’interno dell’istituzione”[8]. Il diritto disciplinare non comporta solo regole generali per l’oggetto (regolato) ma anche ad oggetto particolare, tuttavia opponibili a tutti e sanzionabili nei loro confronti.

Caratteristica ancora più importante è la sanzione. La sanzione del diritto disciplinare è la coercitio pura e semplice, ossia l’esecuzione con la forza a disposizione del funzionario (magistrat)[9]. Il diritto disciplinare va distinto dal diritto pubblico dello Stato, la cui caratteristica è di non ammettere sanzione se non statuita da un Giudice pubblico[10]. Il diritto pubblico ha progressivamente ammesso (e annesso) intere aree del diritto disciplinare, e ciò ne rivela l’origine e l’importanza che ha nella storia del diritto “constituant une des couches profondes du tuf juridique”[11]. Il diritto statutario è anch’esso generato dall’istituzione, Comporta delle regole, ma ancora più interessanti sono gli atti e le procedure che implica. Queste procedure sono legate alla vita dell’istituzione, sono i percorsi che segue nel suo movimento uniforme[12]; costituiscono un diritto che differisce da quello disciplinare perché ammette il punto di vista individualista dei componenti il gruppo combinato con le necessità sociali. Tipico è il procedimento (e le regole) maggioritario[13].

Nel “Précis de droit constitutionnel” la distinzione che Hauriou evidenzia è tra diritto disciplinare e diritto comune. Il primo è disciplinare, interno, gerarchico, dove le parti non sono pari, neanche davanti al Giudice. Già esisteva nelle famiglie patriarcali e nei clan: “les grecs appellaient Thémis cette sorte de justice organique”. Ma accanto a questa, si costituiva un altra giustizia che i Greci chiamavano Diké[14].

La sorgente di Thémis era l’organizzazione sociale, quella di Dikè l’attitudine sociale dell’uomo (sociabilité) “qui ne perd pas ses droits même vis-à-vis des étrangers, même vis-à-vis des ennemis”. All’epoca della formazione dei premiers états, confederazioni di clans, fu necessario dirimere dalle liti tra clan diversi (e i loro membri) con Tribunali arbitrali, accanto alla giustizia (interna) ai clan. Così questo diritto nato prima della polis (cité) fu integrato in questa[15]. Ciò che ha impedito al diritto comune (Diké) di confondersi con lo Stato “sont ses tendances internationales”: come il commerce juridique non conosce frontiere e si applica sia ai rapporti con gli stranieri che a quelli tra nazionali. Per cui “Entre un État, qui est forcément national, et un droit commun à tendances internationales, la fusion est impossible”. Diritto comune e Stato sono due sistemi d’idee che possono rendersi utilità reciproche e un mutuo appoggio, ma cui le tendenze divergenti impediscono di confondersi completamente.

Il diritto comune corrisponde a quello che nei “Principes de droit public” Hauriou chiamava le “commerce juridique”. Questo è un insieme di forme giuridiche generate dal “commerce economique” legato ad una forma di società assai diversa dalla forma politica[16]. Forze politiche e forze economiche, lottando tra loro, generano due forme di società e di diritto[17]. Non bisogna comunque esagerare con la contrapposizione di questi due “tipi” di convivenza sociale: in primo luogo perché ambedue compongono la società e sono inseparabili[18]. In se “le phénomène de l’échange et des relations d’affaires n’est pas dans la donnée logique de l’institution politique. Celle-ci repose sur le pouvoir, l’échange repose sur la valeur, deux notions qui sont hétérogènes l’une à l’autre”[19].

Inoltre il commercio ha una “vocazione” internazionale: ha delle sfere territoriali ma queste non si confondono con le frontiere politiche[20].

Il “commerce juridique” sostiene poi Hauriou, con le sue regole peculiari è penetrato nel diritto amministrativo (quindi pubblico) francese[21]. A tale proposito appartiene – scriveva Hauriou – ai giudici amministrativi “ce que l’on appelle un contentieux de la pleine juridiction qui est originairement le contentieux du commerce juridique[22]. Quindi Thémis e Diké hanno dei “punti” d’incontro, distinguibili concettualmente, ma assai meno sotto il profilo organico e oggettivo: l’accumulo di differenti “tipi” di giurisdizione (per i giudici amministrativi italiani quella generale di legittimità, quella esclusiva e quella di merito) ne è un esempio, così come la tutela da parte dello stesso Giudice di situazioni soggettive diverse (diritti e interessi legittimi).

  1. A questo punto è opportuno evidenziare le differenze. Per Miglio lo Stato moderno è essenzialmente (e prevalentemente) un prodotto del diritto come contratto – scambio; e tutto il diritto è procedura[23]. Il diritto pubblico ha qualcosa di “equivoco”[24]. Adoperando il concetto d’istituzione “arriviamo a una conclusione solo apparentemente paradossale: quello che chiamiamo «Stato (moderno)», essendo un complesso di procedure convenute, di ordinamenti giuridici, non è politica. Si capisce allora perchè lo Stato e la politica tendono ad andare per la loro strada”[25].

Per cui occorre districare “l’intreccio tra politica e diritto e distinguere fra quello che nello Stato è ormai diventato soltanto diritto (e quindi solo “contratto-scambio”) da ciò che invece perennemente sfugge a questa istituzionalizzazione, ossia la politica, generata e legata a un rapporto che non è di “contratto”, che non produce diritto, come quello relativo all’obbligazione politica”; l’analisi del problema delle istituzioni “ci ha condotto non solo a chiarire un problema tecnico molto rilevante, ma anche ad avere ennesima conferma della validità dell’ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse, che distingue radicalmente l’obbligazione politica dall’obbligazione-contratto”. Quindi contrariamente a quello che sosteneva Hauriou del dualismo delle fonti del diritto (e della giustizia), (ossia l’istituzione e “commercio giuridico”), ma che sempre diritto (di tipi e origine diversa) era, il dualismo di Miglio è diverso e radicale: dove c’è obbligazione politica non c’è contratto-scambio: la commistione di queste negli ordinamenti non può confondere le differenze. Si può concordare su questo (cioè sulla distinzione dei concetti) con Miglio, ma comunque la commistione ha generato (e/o conservato), seguendo Hauriou, due tipi di diritto; e il fatto che il diritto “pubblico” sia tale deriva non soltanto dall’ovvio argomento che esiste, ma anche da un’analisi concettuale e storica.

La distinzione tra due diritti risale, com’è noto, al diritto romano ed al frammento di Ulpiano che “apre” il Digesto[26]. Il fundamentum distinctionis più rilevante è condensato da Jellinek – e ripetuto prima e dopo di lui da altri (tanti), che il diritto privato regola i rapporti di coordinazione tra individui, quello pubblico di subordinazione[27] . Anche se si pone il problema della difficoltà del criterio,potendo lo Stato (e gli altri enti pubblici) operare anche come “subietto economico privato”; come, d’altra parte, insegnava la dottrina del Fisco (Fiskuslehre)[28], anche se evolutasi in concezioni più moderne. Per cui “Diritto pubblico è quello che vincola un ente collettivo fornito di potere di signoria nei suoi rapporti con persone ad esso eguali oppure subordinate” e “Un potere di signoria diviene giuridico per il fatto di esser limitato: diritto è forza giuridicamente limitata”. Kelsen rileva, in relazione alla distinzione tra diritto pubblico e privato che “Secondo l’opinione più diffusa, si tratta di una suddivisione dei rapporti giuridici tale che il diritto privato indica un rapporto fra soggetti di ugual ordine e del medesimo valore giuridico, e il diritto pubblico indica un rapporto fra un soggetto sopraordinato e uno sottordinato, un rapporto quindi fra due soggetti dei quali l’uno ha un valore giuridico maggiore dell’altro. … Il maggior valore giuridico che spetta allo stato, e cioè ai suoi organi in rapporto ai sudditi, consiste nel fatto che l’ordinamento giuridico attribuisce alle persone qualificate come organi dello stato, oppure a certuni fra loro, i così detti organi dotati  di potestà d’impero, la capacità di obbligare i sudditi per mezzo di una manifestazione unilaterale di volontà (ordine)”. Ed esemplifica la distinzione facendo gli esempi dell’ordine amministrativo o del negozio giuridico. In quest’ultimo “i soggetti che sono obbligati partecipano alla produzione della norma che obbliga, e in ciò consiste del resto tutta l’essenza della produzione del diritto contrattuale, là, nell’ordine amministrativo di diritto pubblico, il soggetto che deve essere obbligato non ha nessuna parte nella produzione della norma che lo obbliga. Questo è il caso tipico di una produzione autocratica di norme; il contratto di diritto privato rappresenta invece un metodo espressamente democratico di produzione giuridica”. Dopo di che la conclusione è che “… la dottrina pura del diritto, dal suo punto di vista universalistico, sempre rivolto alla totalità dell’ordinamento giuridico, come alla così detta volontà dello stato, scorge anche nel negozio giuridico privato, come nell’ordine amministrativo, un atto dello stato, cioè un fatto produttivo di diritto che deve essere attribuito all’unità dell’ordinamento giuridico. Con ciò la dottrina pura del diritto relativizza il contrasto fra diritto pubblico, e privato che la scienza giuridica tradizionale aveva considerato come assoluto; essa lo trasforma da una distinzione extrasistematica, cioè fra diritto e non diritto, tra diritto e stato, in una distinzione intrasistematica, e con ciò si convalida come scienza appunto perchè supera anche l’ideologia che è unita all’idea di concepire come assoluto questo contrasto”. La distinzione quindi tra diritto pubblico e privato non ha nulla di essenziale e così i corollari e le conseguenze della medesima[29].

Questa, e altri criteri distintivi simili a quello (e/o al frammento di Ulpiano) sono stati ripetuti così sovente che non è il caso di ricordarli[30].

Come sostiene Miglio, anche sulla base (di parte) della dottrina amministrativista italiana del tardo novecento, lo Stato moderno (e soprattutto lo Stato “sociale”) ha acquisito molte più funzioni (e servizi), e li esercita con strumenti e modelli di diritto privato (tipico è il caso degli enti e delle aziende pubbliche economiche), per cui quello che guadagna in estensione lo perde in imperatività; resta il fatto che un nucleo – robusto – delle funzioni dello Stato, minoritarie come costo (e importanza) economica, ma maggioritarie come incidenza e orientamento sulla vita comunitaria, restano gestite con i sistemi “tradizionali”. Il cui connotato comune (relativamente agli atti) è la c.d. “imperatività”, ossia la trasposizione nella terminologia degli amministrativisti del rapporto di comando-obbedienza, uno dei presupposti – come scrive Freund – del politico[31].

Tale rapporto – quasi sempre – si esercita attraverso atti e procedure giuridiche, e il cui connotato è di poter essere controllate (annullate, disapplicate) dal Giudice. Rarissimo – ancorché politicamente decisivo – è il caso di atti sottratti al sindacato giurisdizionale; più frequente invece, quello di atti – e anche di mere azioni (non “formalizzate” in un provvedimento) – che si fondano sul potere di comando e sulla correlativa coercitio[32]. Quanto alla prima classe di atti (i quali) non sono justiciables: e la giurisprudenza francese, con un lavoro più che secolare li ha ricondotti  ad una liste jurisprudentielle, includendovi in particolare quelli relativi ai rapporti internazionali, ai rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. Se poi si prova a raggruppare i caratteri comuni peculiari di tali atti consistono nello scopo per cui sono presi: la difesa della società o del governo dai nemici (esterni ed interni), la sicurezza della comunità, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita e ad un’esistenza ordinata. In altre parole coincidono, in larga parte con quelli che costituiscono il fine dello Stato quale istituzione. Cioè quello “politico” per eccellenza.

Il problema era posto anche in Italia, dato che l’art. 31 T.U. 26/6/1924 nel Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art.24 del precedente T.U. 2/6/1889) prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati dal Governo  nell’esercizio del potere politico”[33].

Quindi, se è vero che lo sviluppo dello Stato borghese ha da un lato “separato” la società dallo Stato, garantendo i diritti fondamentali, e dall’altro ha sviluppato tutta una serie di controlli e limiti interni ed esterni all’esercizio dell’attività pubblica – amministrativa (che è quella quantitativamente prevalente) – restano comunque degli atti, pertinenti al politico, non controllati né dal Giudice né da altri; così come azioni (di soggetti pubblici) che non si fondano (e non si estrinsecano con) atti e provvedimenti formali, ma sul potere di coercitio spettante al funzionario.

Proprio questi sono i principali indici che il diritto pubblico  è da una parte il rivestimento in forme giuridiche del “presupposto del politico” (Freund) di comando-obbedienza, dall’altra proprio perciò, questo genera un diritto, che, pur essendo tale, presenta connotati differenti e per certi versi opposti a quello privato. Come scrive Hauriou riguardo alla teologia (e alla metafisica) anche qui il diritto non è che l’involucro di un “fond”, nella specie, politico. Che, a seguire le doyen, comincia molto presto con lo Stato moderno, già sotto Luigi XIV: “i grandi ufficiali della corona sono sostituiti da sotto-segretari di Stato come Colbert e Louvois: la monarchia diviene amministrativa e il suo potere politico si riveste (se double) d’un potere amministrativo”[34].

Resta il fatto che, come notato da Carl Schmitt, lo Stato borghese, malgrado la regolamentazione giuridica, ha comunque i suoi poteri eccezionali, per cui c’è un’espansione della regolamentazione giuridica nelle attività pubbliche, ma mai totale. A conclusioni analoghe era giunto Jellinek, partendo dalla distinzione tra attività statale libera e vincolata[35].

Per cui non è condivisibile la concezione di Miglio dell’opposizione irriducibile tra politica e diritto (se non in senso concettuale “puro”). É invece preferibile l’ipotesi che con l’incontrarsi nel concreto (in particolare dello Stato borghese), esigenze politiche da un lato, dall’altro principi del Rechtstaat, (e precedentemente, la razionalizzazione (anche) giuridica perseguita dalla monarchia assoluta), hanno generato un tipo di diritto a se:  il diritto pubblico dello Stato moderno. Categoria che non può essere ricondotta né al diritto privato, per le differenze essenziali, come, prima tra tutte, l’eguaglianza tra le parti del rapporto; né alla politica, per la proceduralizzazione, e la sottoposizione ai controlli, soprattutto a quello giudiziario, della quasi totalità dell’attività pubblica per così dire “quotidiana”.

D’altra parte la distinzione che fa Hauriou tra diritto disciplinare e diritto comune, ricorda da vicino quella di Max Weber tra ordinamento amministrativo e ordinamento regolativo.

Secondo Weber gli ordinamenti statuiti possono sorgere: “a) mediante una libera stipulazione; b) mediante un’imposizione e una corrispondente disposizione ad obbedire. Un’autorità di governo in un gruppo sociale può pretendere la forza legittima per l’imposizione di nuovi ordinamenti” (ovviamente lo Stato moderno è un ordinamento politico, territoriale, imposto). Tra gli ordinamenti è essenziale distinguere amministrativi e regolativi[36]. Definendo cosa sia “l’agire del gruppo” Weber premette che l’ordinamento “può contenere anche norme in base alle quali deve orientarsi in altre cose l’agire dei membri dei gruppo sociale: per esempio, nello stato, l’«economia privata» che serve non all’imposizione coercitiva della validità dell’ordinamento del gruppo, ma a interessi particolari, deve orientarsi in base al diritto «privato»”; ma solo nel caso dell’ “agire dell’apparato amministrativo” si può parlare di “agire riferito al gruppo”[37].

Si può notare come l’ordinamento amministrativo ricordi da vicino il diritto generato dall’istituzione di Hauriou (sia disciplinare – in primo luogo – che statutario) e l’ordinamento regolativo il diritto comune del giurista francese. Le analogie non nascondono tuttavia le differenze. Weber pone l’accento prevalentemente sull’imposizione dei comandi (le statuizioni) riferibili all’istituzione, Hauriou, senza trascurare l’aspetto del comando, sottolinea maggiormente la necessità dell’ “accettazione”, o meglio del consenso perché vi sia un ordinamento stabile, un pouvoir de droit che comandi quale rappresentante dell’istituzione fondamentale, creando e garantendo l’ordine. Ordine che comprende anche il (rispetto del) diritto comune (Diké) non generato dall’istituzione (ma prima e/o fuori). L’eccezione ovvero il gouvernement de fait (il governo rivoluzionario o di fondazione) tende sempre a diventare governo di diritto attraverso il riconoscimento (interno ed esterno) e il ripristino di una situazione normale, segnatamente dal punto di vista istituzionale[38].

Anche Santi Romano scrive, a proposito del riconoscimento popolare di un ordinamento “nuovo” (cioè rivoluzionario) “quando di riconoscimento in tal senso si parla, non s’intende accennare ad un atto, ad un procedimento cosciente di un subbietto che sia fornito di capacità, di volontà suscettibile di produrre effetti dal diritto sanzionati, ma di un procedimento che può anche essere incosciente e che non è dal diritto regolato. In altri termini, non si tratta di un principio, di una norma, di un istituto giuridico, ma di un fenomeno sociale[39].

A prendere il più diffuso criterium differentiae tra diritto pubblico e privato, e cioè il carattere imperativo/impositivo del primo (e la connessa, indispensabile ineguaglianza tra i soggetti del rapporto), opposta a quello pattizio-paritario del secondo, appare evidente che il diritto pubblico è frutto della “giuridificazione”, come cennato, del rapporto di comando-obbedienza, cioè di un presupposto del politico. Ed è quindi essenzialmente politico. Né può inficiare questa considerazione il fatto che il costituzionalismo e tutto lo sviluppo dello Stato borghese abbiano costruito intorno a tale rapporto una rete di limiti, garanzie e controlli. Da un lato perché questi vengono meno – in tutto (o in quasi tutto) – nello stato d’eccezione, dall’altro perché concettualmente, non è razionalmente possibile l’esistenza politica di una comunità senza quello; mentre lo è senza controlli e limiti al potere, come la Storia dimostra, a partire dai Faraoni e per finire (per ora) alle dittature del proletariato; e come tanti da Hegel[40] fino a Santi Romano hanno sostenuto[41]. Quindi il fatto che lo Stato moderno sia il risultato della “fusione” di principi di forma politica e dei principi del Rechtstaat, come sottolineato da Carl Schmitt, non comporta che non sia un regime politico, e non una scorciatoia per “uscire dalla Storia”: piuttosto esso è il modo di esercitare il comando in società frutto dello spirito cristiano e del razionalismo occidentale in cui il tipo di potere prevalente è quello razionale-legale.

  1. Ci sono altri aspetti che occorre ricordare. Il primo è che molte delle funzioni acquisite (esercitate) dagli Stati nel XX secolo (e nella seconda metà del XIX secolo), non attengono all’essenza dello Stato (quale ente politico) ma all’accidentale, cioè non incidono, se non mediatamente, sul nucleo politico; senza le quali questo sarebbe perfettamente in grado di assolvere il proprio ruolo (idée directrice la chiamava Hauriou). Nel passo, sopra citato, di Hegel la distinzione tra essenza dello (Stato) politico e accidentalità dei compiti che assume è delineata con concisione ed efficacia. Ma se lo Stato (il potere pubblico-politico) assume compiti che non sono essenziali alla sua natura, non è neppure necessario, anzi per lo più è inopportuno, che lo faccia con i modelli propri delle funzioni politiche. Come scriveva Engels sia pure argomentando una tesi solo parzialmente assimilabile a quanto qui sostenuto “Ma nè la trasformazione in società anonime, nè la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive…Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice”.[42]

Più tali compiti sono servizi del tutto analoghi a quelli che rende un’impresa privata (ad esempio le pensioni, analoghe alle rendite vitalizie; le prestazioni sanitarie, che possono parimenti essere rese da professionisti e società private, e tante altre), più i modelli di gestione e funzionalità si allontanano dal politico per accostarsi al privato. Ma questo non vuol dire che lo Stato non è più politico: ma che si allarga l’area del pubblico annettendo dei servizi e compiti privati[43].  Il politico si espande come appartenenza, ma tende a ridursi quanto ai “modelli” di gestione[44].

Ma non è solo l’ “annessione”  massiccia di compiti per così dire eudemonistici che spiega come lo Stato contemporaneo si sia, sotto tale profilo, “privatizzato”; c’è un altro aspetto, attinente alla stessa struttura, anche politica, dello stesso.

Ossia la partizione/distinzione del potere pubblico, politico e amministrativo; con una serie di status e garanzie diverse a seconda del carattere della funzione, nonchè procedure e requisiti (di nomina) diversi. Dato che però normalmente personale politico esercita (anche) funzioni meramente amministrative (ad es. il Sindaco o gli assessori del Comune) e di converso – anche se con frequenza (forse) minore – funzionari di carriera rivestono cariche a carattere (anche) politico[45], sorge il problema di distinguere, nell’ambito pubblico ciò che è politico da ciò che non lo è (e così il funzionario politico dal burocrate di carriera). Sul punto è stato già sopra scritto (relativamente all’ “atto politico”). A volerne ulteriormente precisare la connotazione occorre ricordare le considerazioni di due giuristi sul punto. Carl Schmitt, dopo aver ricordato il criterio della giurisprudenza francese del mobile politique per distinguere atti politici e no, ne da la definizione seguente “Ciò che costituisce l’atto di governo è il fine che si propone l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in se stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni, palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo”[46]. Costantino Mortati sostiene che occorre distinguere tra ordinamenti giuridici a fini particolari e a fini generali: “gli enti del secondo tipo si costituiscono per il perseguimento di un fine generico, suscettibile cioè di comprendere in sé la soddisfazione di tutti i possibili interessi che possono o potranno essere avvertiti come necessari alla conservazione di un dato gruppo sociale”[47]. Una circostanza ricorrente e significativa è peraltro da ricordare ulteriormente: quando la funzione è (squisitamente) politica, non c’è tutela giudiziaria, nel senso del giudice indipendente e “terzo” (o è molto ridotta) e minori controlli. Non è solo il caso dell’”atto politico” ci sono – ad esempio – quelli dei diritti dei dipendenti di organi costituzionali o del controllo dei loro bilanci.[48]

Ne consegue che nell’ordinamento politico il perseguimento diretto del fine/i generico/i è ciò che connota la natura politica della funzione; diversamente dalla cura del fine specifico dei compiti particolari. Ma, il tutto non chiarisce esaurientemente la questione. Infatti l’altra “faccia” del problema è che alla funzione pubblica sono prescritti dei modi di funzionamento specifici; così come al funzionario-burocrate degli status e delle garanzie istituzionali specifiche. Ambedue aventi (prevalentemente) la propria radice nel rechtstaat.

Riguardo a ciò è particolarmente significativo quanto disposto nelle norme della Costituzione italiana relative alla pubblica amministrazione ed ai funzionari pubblici. Il relatore alla costituente, Ruini, sottolineava a proposito delle norme costituzionali relative che “Brevi sono gli accenni, per la pubblica amministrazione, al buon andamento ed alla sua imparzialità. Un testo di costituzione non poteva dire di più; ma si avverte da tutti il bisogno che il Paese sia ben amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia”: con ciò “politico” era distinto (se non in sostanza contrapposto), dalla buona amministrazione[49]. Così carriere, obblighi, responsabilità, garanzie sono prescritti nella Costituzione e sotto riserva di legge[50].

  1. Miglio individua tra la classe politica e il seguito la categoria dell’ “aiutantato” cioè “quella dei ‘seguaci attivi’, di coloro i quali si dispongono in modo da aiutare la classe politica, i suoi membri”[51]. La tripartizione che fa Miglio (classe politica, aiutantato, seguaci) innova a quella sostanzialmente dualistica di Mosca e Pareto[52]. Nell’analisi dell’aiutantato lo studioso comasco inizia proprio dal criterio del comando (in base alla quantità del comando)[53].

Il primo elemento per quantificarlo è il quantum di discrezionalità[54]. Mano a mano che si scende nella scala di comando (dal vertice alla base dell’ “aiutantato”) la discrezionalità decresce, e aumenta la specializzazione (conseguenza peraltro, in tal senso, della “professionalità” della burocrazia nel tipo di potere razionale-legale di Weber). Per cui sul punto Miglio conclude “disponiamo di un mezzo per classificare i tipi di aiutantato. Gli aiutanti sono capi politici che presentano limiti nella loro discrezionalità, nella loro capacità di decidere”[55]. Dopo di che, e su questa base, Miglio imposta una tipologia dell’aiutantato, basata sul  rapporto tra decisione ed esecuzione (di evidente  ascendenza weberiana).

Al criterio della discrezionalità e della specializzazione – settorialità – se ne può aggiungere un altro, d’importanza (almeno) pari: è quello della subordinazione (controllo) per cui gli atti del funzionario subordinato sono sottoposti al controllo del funzionario gerarchicamente superiore, onde la discrezionalità del primo non ha la possibilità di esercitarsi del tutto “liberamente” nel proprio ambito, ma gli atti che pone in essere possono essere sostituiti, modificati o annullati dal secondo. Tale aspetto, non sempre presente nell’organizzazione dello Stato, è comunque particolarmente evidente nel corpo principale di essa, cioè quello della pubblica amministrazione, data la pluralità dei rimedi contro le decisioni degli organi subordinati (il ricorso gerarchico, connotato dal carattere “generale”, i ricorsi a commissioni speciali), mentre gli atti del potere supremo sono per definizione immodificabili e inappellabili; e più ci si avvicina al vertice, più la possibilità di riforma, riesame, sostituzione, diventa marginale ed eccezionale.

É interessante leggere all’uopo un “classico” dei manuali di diritto amministrativo, come quello  di Guido Zanobini “L’azione di quelle autorità, che fanno parte di uno stesso ramo della pubblica amministrazione, ha bisogno di  essere coordinata e diretta all’attuazione dell’unico fine, secondo criteri unitari. Questa coordinazione e unificazione viene attuata per mezzo di un particolare ordinamento, che prende il nome di gerarchia e che ha per essenziale principio la subordinazione degli organi inferiori a quelli superiori”[56].

Al contrario, come cennato, salendo verso il vertice i controlli, anche quelli di altri poteri (come il giudiziario) scemano, per estinguersi del tutto quando si arriva al potere sovrano. Il quale, per definizione, ha il connotato di non poter essere limitabile (giuridicamente) cioè di essere assoluto: carattere che lo distingue da tutti gli altri poteri pubblici[57]. Ne consegue che oltre essere limitato dall’oggetto (competenza) e nella discrezionalità, la materia affidata all’ “aiutantato” è anche soggetta alla sorveglianza, ai controlli (anche sostitutivi) degli organi e uffici sovraordinati.

Questo è un carattere decisivo, che ha colpito in particolar modo i giuristi, a partire dal passo, sopra citato, di Santi Romano (v. nota 4) per arrivare alle note critiche che Carrè de Malberg rivolgeva alla Stufentheorie di Kelsen, sostenendo che la gradazione delle norme non era data della qualità delle stesse (se legislative, amministrative, contrattuali) ma dal “grado di potere” che gli organi emananti hanno nell’organizzazione dello Stato[58]. O anche al concetto di gerarchia esposto da De Valles[59]. É chiaro che gli “aiutanti” non incardinati nell’organizzazione pubblica (privi cioè sia degli obblighi che dei diritti dei funzionati) non rientrano in tale distinzione.

  1. Occorre riscontrare in che misura il concetto di istituzione e di diritto pubblico dei giuristi sopra ricordati confligga con quello di Miglio: a mio avviso assai meno di quanto pensi quest’ultimo.

In primo luogo per la preminenza che nella concezione d’istituzione ha quello di potere e di organizzazione. Come scrive Schmitt, la distinzione tra le tre forme di pensiero giuridico che distingue non si fonda sull’esclusione del concetto dell’uno o dell’altra dal mondo giuridico, ma sulla prevalenza del concetto centrale di una rispetto a quello delle altre; onde non si nega che il diritto sia composto di istituzioni, norme e decisioni, ma che una lo caratterizza e lo comprende meglio delle altre[60].

I giuristi suddetti rifiutavano che, come scrive Miglio, alla radice degli istituti-organo vi fosse un istituto-norma.

L’istituzione è organizzazione dei poteri pubblici e del rapporto comando/obbedienza, al fine di conservare l’ordine sociale. Hauriou scrive che gli Stati moderni sono delle armate (civili) in marcia, come l’agmen tenuti a conservare l’ordine; i popoli (il “seguito” di Miglio) sono inquadrati “par une forte hiérarchie administrative” la cui rete ricopre il territorio; la prima opera dello Stato è fare di una comunità non organizzata e (quindi) incapace ad agire, “un corps organisé, vivant et puissant”[61].

Essenziale è il ruolo del centro direttivo o fondatore e degli organi (e dell’organizzazione) di governo. Il ruolo delle “norme” non è considerato primario:ad esserlo è il pouvoir che lo fonda; l’ordine sociale è costituito da idee, interessi, poteri di organi e organizzazione; segno evidente del ruolo secondario delle norme. Alle quali peraltro anche Santi Romano assegnava un ruolo per così dire accessorio (e strumentale) rispetto all’organizzazione (v. sopra nota 4). Lo conferma più in particolare sostenendo “storicamente si danno, com’è, del resto, notissimo, esempi di ordinamenti giuridici, in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte, nel senso proprio della parola. É stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice”[62].

Anche per il giurista siciliano è essenziale il potere, e la di esso organizzazione; le norme – generalmente presenti – possono tuttavia non esserlo non essendo necessarie all’organizzazione (e all’azione) dell’istituzione.

Altra differenza è la relazione tra rapporto di comando-obbedienza e “giuridicizzazione”. Nel senso che il rapporto di comando-obbedienza (dal superiore all’inferiore) non è (sempre) mediato dalla norma, ma per così dire (dal “differenziale” di) potere e dal rapporto di subordinazione. Così Hauriou scrive (v. sopra nota 9) che la sanzione del diritto disciplinare si basa sulla coercitio che compete al magistrato, basata sulla forza propria dell’istituzione, che implica necessariamente di potersi fare giustizia da sola[63]. Il diritto, inteso come procedura e come attribuzione di competenza giuridicamente sancita e regolata, c’entra poco (o niente): il rapporto è essenzialmente fattuale e politico o meglio istituzionale. É tale perché altrimenti l’istituzione non esisterebbe: e l’esistente, nel caso di necessità, prevale sul (o non ha bisogno del) normativo; consegue dalla “natura delle cose” non dalla legalità dell’attribuzione.

Appare pertanto chiaro che nella concezione istituzionista la regola disciplina solo una parte – anche se quella quantitativamente (e di gran lunga) prevalente – ma non tutto il rapporto di comando/obbedienza ed il potere che è esercitato dall’istituzione (e dai suoi organi). La ragione è semplice: l’istituzione è diritto, ma non è norma[64]. L’estensione del concetto d’istituzione è maggiore di quella di norma (giuridica), e la concezione d’istituzione di Hauriou e Santi Romano non è quindi coestensiva con quella di Miglio.

  1. Resta ancora da fare delle considerazioni sul diritto pubblico, e approfondendo il rapporto tra questo e la politica. All’uopo è interessante notare cosa scrive Freund a proposito dell’ordine politico: che è gerarchico per natura “Sa nature hiérarchique découle à la fois de son présupposé du commandement et de l’obéissance et de sa fonction qui consiste à sauvegarder l’ordre en général… Politiquement, l’ordre est toujours imposé ou ordonné, parce qu’il n’y a pas de coordination sans subordination. Autrement dit, la coordination est l’oeuvre d’une volonté qui décide de la régle coordinatrice. Aucun ordre ne s’impose de lui-même ; il n’y en a pas non plus sans contrainte”[65].

Il tutto è parzialmente coincidente con l’enumerazione che Hauriou fa delle funzioni essenziali dello Stato[66]: in cui è evidente, come altrove nel pensiero del doyen, il rapporto comando/obbedienza.

In realtà la tesi degli istituzionisti (e non solo la loro) che il diritto è ripartito in “pubblico” e “privato” non si contrappone alla concezione fondamentale di Miglio dell’obbligazione politica distinta da quella giuridica (il “contratto-scambio”), quanto alle conseguenze che lo studioso lariano ne trae (che il diritto è privato o non è tale). E la ragione dell’esistenza di un diritto pubblico che regoli – fino ad un certo punto – la materia politica e, in particolare, il rapporto comando/obbedienza è provata da una serie di elementi.

In primo luogo l’evoluzione del diritto “moderno”, a sua volta tendente alla “giuridificazione” del politico per due “spinte” fondamentali: la prevalenza del “tipo” di potere razionale-legale negli ultimi secoli e la diffusione degli “stati di diritto” cioè di unità politiche fondate, come cennato, oltre che su principi politici su quelli del Rechtstaat (distinzione dei poteri, tutela dei diritti fondamentali “borghesi”, nonché – a seguire Hauriou – funzionalizzazione di ogni potere pubblico, ossia la “de-patrimonializzazione” della funzione pubblica).

Quanto al “tipo” di potere: se è legittimo un potere che, normalmente adotta comandi ordinati secondo lo schema atto generale/atto di applicazione (e via discendendo nella scala gerarchica degli “esecutori”, riflessa in quella dei relativi atti), non vuol dire che quegli atti non siano comandi, né che non vadano obbediti. Anche se la forma di potere razionale-legale valorizza al massimo il ruolo della legge (e dell’organo statuente, come del diritto statuito) sempre potere e comando resta. Il comando è così esercitato (prevalentemente) per (o in base a) atti legislativi invece che per rescripta principis, senza che cambi alcunché dell’essere potere. Essendo un “tipo ideale”, peraltro, in concreto, non si presenta mai in forma “pura”[67].

Il fatto che, anche in uno “Stato di diritto” vi siano dei momenti irriducibili al diritto (come il gouvernement de fait di Hauriou, la necessità di Santi Romano, l’ausnahmezustand di Schmitt)[68] non implica che non vi sia un diritto pubblico. Quanto sopra è confermato non solo dal dato positivo, e cioè l’esistenza di una regolamentazione giuridica (non totale dei) rapporti di comando-obbedienza, ma dall’esistenza di diritti e obblighi, che è il primo criterio dell’esistenza di rapporti giuridici, ai quali è connaturata l’interdipendenza delle azioni di due soggetti[69].

Anche se c’è un rapporto – quello tra il Sovrano e i sudditi – connotato dall’aver il primo solo diritti e nessun dovere (giuridico) verso i secondi, e l’inverso per questi rispetto a quello[70]; è questa, di sicuro, l’unica “eccezione”. Per il resto nei rapporti tra poteri pubblici e tra questi e i cittadini è tutto un pullulare di diritti, obblighi, potestà, interessi legittimi interdipendenti. Anche se (molti) di quei rapporti intercorrono tra soggetti non in situazione di parità (ad esempio interessi legittimi/potestà)[71] ciò non toglie che non siano giuridici e che non vi sia (quasi sempre) un giudice per dirimere le liti e statuire su tali diritti[72].

D’altra parte, anche nelle istituzioni non pubbliche esiste un diritto disciplinare, connotato dal fatto che il giudice non ha vero carattere di “terzietà”, ma è un organo dell’istituzione (sorte de justice organique, la chiamava Hauriou)[73].

In secondo luogo il tutto è una conseguenza dei principi del Rechtstaat che, necessariamente, impongono una “giuridificazione” o “giustizializzazione” anche se non assoluta, al potere politico, e in particolare al rapporto di comando-obbedienza[74].

Miglio distingue l’obbligazione politica dall’obbligazione contratto-scambio rilevandone le differenze quanto all’oggetto, ai soggetti, ai limiti, ai contenuti strutturali, al tempo ed alle strutture del rapporto[75].

Se si vuole seguire Miglio e fare una partizione – di carattere generale – tra diritto pubblico e privato – è necessario partire dal tratto comune, e cioè l’esistenza di un rapporto giuridicamente rilevante, e dalla distinzione tra quelli differenti: i presupposti, che per Hauriou sono l’organizzazione sociale per quello pubblico, l’attitudine sociale (sociabilité) per il privato[76]; per l’oggetto ossia l’istituzione e i rapporti cui da luogo da un lato, i rapporti “interindividuali” (di scambio) dall’altro; la situazione dei soggetti, ineguale per il primo, paritaria per il secondo; la funzione, ossia l’esistenza dell’istituzione e della comunità e il perseguimento dell’interesse generale per il pubblico, la regolazione dei rapporti e degli interessi interindividuali per il privato[77].

Differenze profonde che non possono però eliminare il genere (comune) “diritto”, né le modificazioni dell’istituzione (sia sotto l’aspetto organizzativo che funzionale) che la “giuridificazione” del rapporto comando-obbedienza ha determinato.

Piuttosto la concezione di Miglio è spiegabile se si considera il diritto nella prospettiva (lato sensu) di una teoria  normativistica del diritto (come fa nello specifico lo studioso lariano, contrapponendo istituti-organo e istituti-norma); anche se questa affermazione può apparire imprecisa consegue dal ripetuto uso dei concetti e termini della teoria normativistica (ancorché tra le influenze vanno annoverate delle concezioni  giusnaturaliste, liberali, economiciste, non riducibili alla reine rechtslehre). L’istituto-norma di Miglio basantesi su consuetudini e procedure consuetudinarie non ha un significato uguale (e coestensivo) alla norma di Kelsen. Infatti questa, come notato da Schmitt, non è idonea a dar conto di  aspetti essenziali del diritto, come il momento dell’applicazione, la tematica dell’eccezione (la “necessità”), fino a quella dell’efficacia del diritto. Hauriou e Santi Romano avrebbero rifiutato l’idea di Miglio che dietro (e prima) di ogni istituto-organo vi sia un istituto-norma. Per Hauriou il genitore dell’istituzione è le pouvoir, (definito “una liberta energia della volontà che assume l’impresa (entreprise) di governare un gruppo umano attraverso la creazione dell’ordine e del diritto”) che fonda l’istituzione: istituzione che, da un canto deve proteggere la comunità, e il diritto generato dalla stessa, (Diké), ma, anche a tale scopo, genera un diritto proprio (Thémis), specificamente istituzionale; per Santi Romano il rapporto tra istituzione e norma è quello tra giocatore e pedine (v. sopra), e non occorre aggiungere altro.

La teoria istituzionista riesce a dare la spiegazione unitaria ed esauriente del “fenomeno” giuridico, fatto di organizzazione e regole, di norme ed eccezione, di validità ed efficacia. A quasi due secoli non si può che ricordare, a proposito della concezione istituzionista, l’affermazione di De Maistre quando, criticando realisticamente le teorie rivoluzionarie scriveva “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’aucune exceprion”[78].

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Op. cit., pp. 439-444.

[2] Op. cit. p. 452.

[3] Op. cit. p. 453 (il corsivo è nostro).

[4] Op. cit. rist. Firenze 1967 p. 15 (i corsivi sono nostri).

[5] Scrive Romano  “Come ogni istituzione così anche lo Stato non ha , ma è un ordinamento giuridico. Se talvolta si dice che il diritto è l’anima e il principio vitale dei corpi sociali e, quindi, lo Stato, ciò non deve intendersi nel senso che diritto e corpo sociale siano due cose diverse, per quanto unite, e tanto meno che il primo sia un prodotto o una funzione del secondo, ché anzi quell’immagine vuol ribadire il concetto che l’uno non si può disgiungere né materialmente né concettualmente dall’altro, come non si può distinguere, se non per vuota astrazione, la vita dal corpo vivente. Si può anche dire che una istituzione ha un diritto, cioè un ordinamento, se per questo s’intendono soltanto i principi e le norme che ne fanno parte  e ne emanano, così come si dice che un tutto ha questo e quell’elemento fra gli altri che lo compongono; ma più comprensivamente si deve dire che esso è per intero un ordinamento giuridico” (i corsivi sono nostri). Op. cit. Milano 1947, p. 56.

[6] V. op. ult. cit. p. 92

[7] V. Principes de droit public  Paris 1916 (rist. 2010) p. 136.

[8] Op. cit. p. 137 e prosegue “Quand une organisation a été créée à l’intérieur d’une institution et s’est implantée d’une certaine façon, elle est liée à l’existence même de celle-ci, on sent qu’on ne pourrait pas arracher l’une sans détruire l’autre

[9] E così lo spiega “Le pouvoir disciplinaire s’appuie sur la force propre que l’institution a conscience d’avoir pour se faire justice elle-mêmeop. cit., p. 139.

[10] Op. cit, p. 141.

[11] Op. cit., p. 143.

[12] Op. cit., p. 144.

[13] Così lo descrive “cherche à dégager l’assentiment de tous les membres du groupe à une mesure déterminée, par une procédure liée à la vie même de l’institution, mai qui, par la nécessité sociale d’aboutir dans un temp donné, s’arrête à l’assentiment immédiat de la majorité”, op. cit., p. 144.

[14] v. Précis de droit constitutionnel, ed. 1929, pp. 97 ss. e specificando le caratteristiche di Dikè scrive “celle-là, était extérieure aux groupes, intergroupale, interfamiliale, et nous dirions aujourd’hui internationale; elle avait pour organes des tribunaux d’arbitres, devant lesqueles les parties étaient égales l’une à l’autre; elle était néè a l’occasion des guerres privées, des vendettas entre familles, et pour les faire cesser par des arbitrages”.

[15] Mais il ne fut jamais inhérent à l’insititution de l’Etat comme l’avait été, par exemple, le droit pénal public primitif, qui état disciplinaire”.

[16] E lo spiega così: “Tandis que, dans la société politique, les hommes sont tenus en groupe par leur soumission à la discipline d’une même institution, dans la société economique, ils sont tenus en relation les uns avec les autres par leur collaboration à l’oeuvre commune de la satifaction des besoins humains” e per cui  “on doit donc opposer les ‘situations de dépendance’ aux ‘rapports de collaboration”, op. cit., p. 177.

[17] Tendent à engendrer deux formes de société ed deux formes de droit qui se déterminent, l’une en institutions politique, l’autre en rapports ou relations du commerce juridique”.

[18] Scrive “L’institution politique n’est pas une forme sociale qui se suffise, pas plus que les rapports du commerce juridique n’en sont une. La véritable position de la question est de considérer la société complète comme composée des deux éléments de l’institution politique et du commerce juridique, et, quant à la combinaison des deux éléments, elle se présente comme l’équilibre de deux forces avec actions et réactions réciproques, mai avec légère suprématie de l’institution politique affirmée par le seul fait de l’existence des États”, op. cit., p. 180.

[19] Si noti che il valore ha qui un significato esclusivamente economico (i corsivi sono nostri).

[20] Op. cit., p. 181 ss.

[21] Op. ult. cit. p. 192.

[22] Op. ult. cit. p. 192; e prosegue in nota “Le véritable juge procédant de l’institution politique est le juge disciplinaire. Pendant que les nécessités de la discipline politique  engendrent le juge disciplinaire, celles du commerce juridique engendrent l’arbitre pour trancher les différends”.

[23] Scrive “Abbiamo allora ridotto a mal partito il mondo del diritto. Hanno ragione i giuristi a guardare lo scienziato della politica con sospetto. Qui abbiamo ridotto tutto il diritto a contratto e tutti i diritti sostanziali a procedure. Tutto il diritto diventa contratto, procedura pattuita, contrattuale. Le norme si riducono  tutte a procedura. L’ “istituto-norma” e l’ “istituto-organo” non sono che un complesso di procedure convenute”; e prosegue “A questo punto scopriamo le conseguenze del nostro lavoro d’indagine: quelle che probabilmente sono “istituzioni politiche”, in realtà sono espressione del contratto e del diritto”. Op. cit. p. 450.

[24] “Costante è il sospetto che l’interferenza della politica (perfino nei diritti pubblici soggettivi) sia macroscopica. Questo non è altro che la constatazione che area dell’obbligazione politica e area del diritto e quindi del contratto sono aree distinte in continua, conflittuale interferenza”. Op. cit. p. 451.

[25] Op. loc. cit.. Per una interessante riflessione sui rapporti tra politica e diritto (con particolare riguardo a Schmitt) V. R. Cavallo Le categorie politiche del diritto, Catania 2007.

[26] Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem,  D I, De Iustitia et jure, I,

[27] Jellinek scrive “L’antitesi fra i due diritti può essere ricondotta a questo concetto fondamentale: che, nel diritto privato, gli individui si trovano gli uni rispetto agli altri in una situazione essenzialmente di coordinazione, e quindi esso disciplina i rapporti degli individui come tali; mentre il diritto pubblico, invece, regola i rapporti tra subietti diversi dotati di autorità, nonché la organizzazione ed il funzionamento di tali subietti e le relazioni di essi con coloro che sono sottoposti alla loro autorità” v. Allgemeine Staatlehre, trad. it. di M. Petrozziello (con introduzione di V. E. Orlando) Milano 1949 p. 2. Le difficoltà di distinguere tra  pubblico e privato, e, nella specie, tra diritto soggettivo (privato) e diritto soggettivo pubblico era avvertita da Carnelutti. Dopo aver scartato che il fondamentum distinctionis  fosse il carattere del soggetto, dato che a soggetti privati possono competere diritti soggettivi pubblici, e all’inverso ad una persona giuridica pubblica un diritto privato “ad esempio, allo Stato la proprietà”; né che lo fosse la natura dell’oggetto (la cosa): ad esempio una cosa può essere demaniale (pubblica) o di proprietà privata “la demanialità o la patrimonialità deriva alla cosa dal diritto, non al diritto dalla cosa”, Carnelutti concludeva che “il fondamento va ricercato nella natura stessa del rapporto, e precisamente nel collegamento tra la forma e la sostanza e cioè tra il potere e l’interesse”. Teoria generale del diritto Roma, 1946, p. 151. Diversamente dal diritto soggettivo privato, che è “possibilità di comandare per la tutela del proprio interesse”, quello pubblico è la possibilità di comandare in funzione di un interesse collettivo (attribuito a ciascuno degli interessati).

giuridiche La concezione, distinguendo tra pubblico e privato, riguardo alle situazioni soggettive è originale; l’altro aspetto interessante – ai fini di questo scritto – della teoria di Carnelutti sul punto è che l’intera partizione tra diritti, obblighi, potestà e così via si fonda sul criterio del comando (e della soggezione relativa) e dell’interesse.

[28] Jellinek scrive “Questa dottrina del Fisco è della massima importanza per tutta la storia della concezione dei rapporti fra Stato e suddito ….. Nella Germania, pel contrario, il Fisco viene dichiarato come subietto di diritti privati, per cui è riconosciuta allo Stato una doppia personalità – di diritto pubblico e di diritto privato -: la qual cosa ha questa grande importanza pratica, che, fin dove si estende il diritto privato, sono escluse arbitrarie invadenze dello Stato nella sfera giuridica dell’individuo”.

[29] E ne conclude “D’altra parte l’attribuzione del carattere assoluto al contrasto fra diritto pubblico e privato fa sorgere anche l’idea che solo il campo del diritto pubblico, quale è prima di tutto quello del diritto costituzionale e amministrativo, sia il dominio della sovranità da cui sarebbe invece escluso il campo del diritto privato. Già anteriormente si è mostrato che questo contrasto totale fra «politico» e «privato» non sussiste nel dominio del diritto soggettivo perché i diritti privati sono diritti politici nello stesso senso di quelli che si suole designare unicamente in questo modo, perché entrambi, sia pure in senso diverso, garantiscono la partecipazione alla formazione della volontà statale, cioè alla sovranità. Con la distinzione di principio fra una sfera giuridica pubblica, cioè politica, e una privata, cioè non politica, risulta più difficile comprendere che il diritto privato prodotto nel negozio giuridico rappresenta una sfera d’azione della sovranità non minore del diritto pubblico prodotto nella legislazione e nella amministrazione”. Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik. Trad. it. Torino 1967, p. 132 ss.

[30] Vedasi, tra i tanti, O. Ranelletti Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1953, pp. 29 ss.

[31] Tra tutti citiamo per la connotazione dell’imperatività quanto scritto da M. S. Giannini “L’imperatività è la produzione unilaterale di effetti giuridici a realizzabilità immediata e diretta. Il provvedimento costituisce modifica ed estingue situazioni giuridiche soggettive altrui non solo senza il concorso o la collaborazione del soggetto a cui si dirige, ma anche contro la di lui volontà”, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano 1981, p. 299.

[32] Un esempio ne sono le c.d. “vie di fatto” e il divieto al Giudice ordinario, sancito dall’art. 4, ALL: E, L. 2248/1965 di “revocare o modificare” il provvedimento anche se illegittimo.

[33] É interessante a tale proposito il giudizio di Paolo Barile che l’attività politica non può venir “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato” v. Atto del governo (e atto politico) in Enc. dir., vol. IV, Milano 1959, p. 220 ss.

[34] Précis de droit constitutionnel cit., p. 156 (i corsivi sono nostri).

[35] G.Jellinek Allgemeine Staatslehre,trad. it., Milano 1949, p.177.Così la definisce  “attività libera è quella determinata soltanto dall’interesse generale, ma da nessuna speciale regola di diritto; vincolata, invece, quella che consiste nell’adempimento di un obbligo giuridico. L’attività libera è la prima per importanza, logicamente originaria; che sta di base a tutta la restante attività. È per essa che lo Stato fissa la sua propria esistenza, giacché la fondazione degli Stati non è mai l’esecuzione di norme giuridiche; è da essa che lo Stato riceve indirizzo e scopo della sua evoluzione storica; è da essa che procede ogni mutamento ed ogni progresso nella sua vita. Uno Stato, di cui tutta l’attività fosse vincolata, è una concezione irrealizzabile. Quest’attività libera si riscontra in tutte le funzioni materiali dello Stato, che si sono venute storicamente distinguendo; nessuna, senza di essa, è possibile. Il suo campo più vasto è nel dominio della legislazione, la quale, in confomità stessa sua natura, deve godere della maggiore libertà. Non meno importante, però, essa si mostra nell’amministrazione, dove questo elemento assume il nome di governo (Regierung)”(il corsivo è nostro).

 

[36] “Un ordinamento che regoli l’agire del gruppo, deve essere detto ordinamento amministrativo. Un ordinamento che regoli un agire sociale di altro genere, garantendo le possibilità degli individui scaturiti da tale regolamentazione, deve essere detto ordinamento regolativo… Evidentemente la maggior parte dei gruppi sociali è insieme dell’uno  e dell’altro tipo; un gruppo esclusivamente regolativo sarebbe un puro ‘stato di diritto’, teoricamente concepibile, in cui regna l’assoluto laissez faire (e ciò presupporrebbe che anche il compito di regolare la moneta fosse  affidato alla pura economia privata)” Wirtschaft und Gesellschaft, vol. 10, trad. it. Milano 1980, p. 50.

[37] La concezione di Weber è più articolata e ne riportiamo il passo essenziale: “Nel primo caso si può parlare di un «agire riferito al gruppo», e nel secondo caso di un agire regolato dal gruppo. Solamente l’agire dello stesso apparato amministrativo, e oltre ad esso ogni agire riferito al gruppo, da esso diretto in maniera sistematica, deve essere chiamato «agire del gruppo». Per esempio, «agire del gruppo» sarebbe per tutti i suoi membri una guerra che uno stato «conduce», o una «richiesta» che il comitato esecutivo dell’unione delibera, o un «contratto» che il capo stipula, imponendone o imputandone la «validità» ai membri del gruppo”, op. cit., p. 47.

[38] v. Hauriou Précis de droit constitutionnel, cit., pp. 17 ss.

[39] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione, ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 149 (il corsivo è nostro).

[40] v. “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale… L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli… L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità” (il corsivo è nostro).  Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1961, pp. 41 ss. Hegel prosegue distinguendo ciò che considera essenziale da quel che non lo è (unità della legislazione, della giustizia, fiscale, monetaria, ecc. ecc.) v. anche op. cit., pp. 30 ss.

[41] v. per Santi Romano “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto. Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato ‘non costituito’ in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza al sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua indeclinabile natura, lo Stato”  Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3

[42] Antidühring, trad. it. Roma 1971, p. 297 Alla logica della produzione capitalista, si può asssimilare quella conseguente al carattere privato dell’attività gestita dallo Stato.

[43] Questo non significa che poi l’annessione di servizi, funzioni, aree di azione private al pubblico, non venga utilizzata a fini politici – anche e soprattutto di politica di partito, come l’acquisizione di consenso, l’erogazione di rendite politiche e atro, che Miglio ricorda con acuto realismo.

[44] Così tipici ne sono stati le aziende municipalizzate e gli enti pubblici economici, e il relativo rapporto di lavoro con i dipendenti, indistinguibile da quello del settore privato.

[45] Tipica, tra tante quella di Commissario agli enti locali.

[46] Cfr. Schmitt C. Der Begriff des politischen, trad it. ne Le Categorie del politico, Bologna 1972, 104.

[47] E prosegue: “La necessità del raggiungimento di tale fine, che può, in via di prima approssimazione, ricondursi a quello della pacifica coesistenza e dello sviluppo dei vari soggetti appartenenti al gruppo, induce l’ente ad assumere di volta in volta compiti svariatissimi, anche culturali o religiosi o sportivi, ecc. e in misura e con l’estensione delle più varie… ne segue che ogni mutamento che si verifichi in ordine all’assunzione o all’abbandono di compiti particolari non determina la trasformazione dell’ordinamento, non muta la sua natura di ente ai fini generali, o, come anche e più comunemente si dice, di ente «politico»”, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1972, pp. 19 ss.

[48] A proposito di tutte queste immunità Vittorio Emanuele Orlando scriveva “che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto”; e  Santi Romano nel trattare delle immunità parlamentari sosteneva «Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza  e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guerentigia» Santi Romano, Corso di diritto costituzionale,  Padova 1928, 222.

[49] Diceva Mortati alla costituente “La necessità di includere nella Costituzione alcune norme riguardanti la pubblica amministrazione sorge per due esigenze. Una prima è quella di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti. A tale proposito la Costituzione di Weimar stabiliva che i funzionari erano a servizio della collettività e non dei partiti” v. in V. Carullo, La Costituzione della Repubblica italiana, Bologna 1950, p. 396.

[50] v. sulle garanzie istituzionali della burocrazia v. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 231.

[51] E prosegue: “Ho già utilizzato il termine di aiutanti. Questa definizione generica copre la funzione che svolge questo strato, il quale è molto vicino alla classe politica e sta fra quest’ultima, intesa in senso stretto e il seguito”, op. cit., p. 362.

[52] Ma chiarisce: “Già in Mosca e Pareto tuttavia la definizione di ‘classe dirigente’ denotava questa presenza, come appare anche in altri autori che hanno seguito questa linea di ricerca. Devo però dire che normalmente la politologia moderna privilegia l’interpretazione dicotomica”, op. loc. cit..

[53] “La domanda che ci si pone è: «Come ci si presenta scientificamente il problema della quantificazione del comando?». Posto che in ciascun sistema politico c’è chi comanda di più e chi comanda di meno, si possono fare rilevazioni scientifiche, scoprire le regolarità di questa quantificazione del comando?”, op. cit., p. 364.

[54] “Colui che comanda di meno fa questo perché la sua discrezionalità nel prendere decisioni (abbiamo visto che esercitare l’autorità è decidere, prendere una decisione e il comando è ‘possibilità di decidere’ e di fare accettare queste decisioni), la sua possibilità di decidere, è limitata”, op. cit., p. 365.

[55] Op. cit., p. 370.

[56] Corso di diritto amministrativo, Milano 1954, vol. I, p. 146. E prosegue “L’ordinamento gerarchico è proprio esclusivamente delle pubbliche amministrazioni: gi organi legislativi, dato il numero ristretto e la fondamentale loro parità, non consentono alcuna applicazione del principio; quelli giudiziari, che pure sono ordinati per gradi, non presentano fra i medesimi quei poteri di direzione e di dipendenza, che sono propri del rapporto gerarchico. Nell’ordinamento amministrativo il principio è di applicazione generale” subito dopo specifica “Il rapporto di supremazia gerarchica ha per contenuto una serie di poteri dell’autorità superiore sugli organi dipendenti. Il più importante e fondamentale fra tali poteri è quello di dirigere e regolare l’attività degli inferiori per mezzo di norme generali e di ordini particolari. Le prime, dette norme di servizio, circolari e istruzioni, nonostante la loro generalità, non hanno mai valore di norme giuridiche nel senso stretto della parola” (infatti si basano, per l’appunto, sul rapporto gerarchico stricta sensu) “Il potere dei superiori di comandare, sia con tali atti sia con ordini particolari, implica il dovere degli organi dipendenti di obbedire a tali comandi” e oltre a questo vi sono “altri poteri compresi nel rapporto di supremazia gerarchica, che pel momento ci limitiamo ad enumerare:

  1. a) il potere di risolvere i conflitti di competenza, positivi o negativi, che eventualmente sorgano fra due o più autorità dipendenti;
  2. b) il potere di decidere i ricorsi amministrativi presentati contro gli atti delle autorità inferiori; e di annullare, in caso di accoglimento, i provvedimenti di queste;
  3. c) la facoltà di delega e di avocazione, nei casi eccezionali in cui tali facoltà sono espressamente consentite;
  4. d) il potere di sostituzione dell’azione dell’inferiore, quando questo, avendo l’obbligo di provvedere, non abbia provveduto” (i corsivi sono nostri).

[57] Tra i tanti che l’hanno affermato ricordiamo G.D. Romagnosi, Scienza delle costituzioni, Firenze 1850, p. 190; Max von Seydel in Principi di una dottrina generale dello Stato (trad. it.) Torino 1902, vol.. VIII della Biblioteca di Scienze politiche e amministrative, Torino 1902, pp. 1153-1161.

[58] “La gradazione delle norme, come anche quella delle funzioni e degli atti, non proviene dal grado di qualità inerente ad ogni specie di norma presa in se, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazioni di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” La teoria gradualistica del diritto (trad. it.) Milano 2003, p. 38. É chiaro che Carrè de Malberg scrive dell’organizzazione generale dello Stato e non (solo) di quella della pubblica amministrazione.

[59] “Essenziale nel concetto di gerarchia è quindi l’idea di potere, sacro o profano, ordinato per gradi, nel governo della cosa pubblica, religiosa o civile; e questa idea centrale si può dire permanga anche nella moderna letteratura giuridica; ma in questa il concetto subisce una specificazione, venendo riferito al governo delle persone giuridiche pubbliche, in contrapposto al concetto di autarchia; ed uno sdoppiamento, essendo passato ad indicare, molto spesso, per metonimia l’ordine per gradi dei pubblici funzionari ed impiegati” Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931, p. 277.

[60] v. “Ogni pensiero giuridico lavoro tanto con regole, che con decisioni, che con ordinamenti e strutture. Ma la concezione finale – per quanto riguarda la scienza giuridica – dalla quale sono derivate giuridicamente tutte le altre, è sempre e soltanto una: o una norma (nel senso di regola e legge), o una decisione, o un ordinamento concreto… In base alla diversa importanza riconosciuta, nel pensiero giuridico, a ciascuno dei tre concetti specificamente giuridici e in base alla successione per cui l’uno viene dedotto dall’altro oppure ricondotto ad esso, si distinguono i tre tipi di pensiero fondati sulla regola o sulla legge, sulla decisione o sull’ordinamento e la struttura concreta” I tre tipi di pensiero giuridico in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 247.

[61] Précis de droit constitutionnel, cit., p. 74 ss.

[62] E prosegue poco dopo “Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve ritenersi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che sono propri di ordinamenti  più complessi e più evoluti” L’ordinamento giuridico, cit., pp. 20-21.

[63] Dall’altro lato “il n’y a pas pour l’individu exposé à l’effet du poivoir disciplinaire obligation préétablie de le subir, du moins il ‘y a pas obligation juridique, il n’y a qu’un devoir moral ou un deovir professionnel ; le pouvoir disciplinaire se présente comme una force à laquelle on obéit ou à laquelle on résiste à ses risques et périlsPrincipes de droit public, p. 139.

[64] D’altra parte, con parole diverse, concezioni simili sono state variamente espresse dalla dottrina. Carrè de Malberg, a proposito degli actes de gouvernement scrive “ciò che caratterizza, di converso, l’atto di governo è proprio d’essere, a differenza degli atti amministrativi, svincolato dalle necessità d’abilitazione legislativa e  deciso dall’autorità amministrativa con un potere d’iniziativa libera in virtù di un potere proprio e che deriva da una fonte diversa dalle leggi; di guisa da poter qualificare (la funzione di) governo, almeno in tal senso, come indipendente dalle leggi e che esiste una determina sfera di attribuzioni, ch’è precisamente quella del governo, all’interno della quale esso occupa una posizione costituzionale analoga a quella del legislatore, nel senso che, proprio come il parlamento, trae i propri poteri relativi a queste attribuzioni direttamente dalla Costituzione” Carrè de Malberg, Contribution à la theorie générale de l’État, tome I, Paris 1920, 526; o P. Barile, scrivendo degli atti politici i cui caratteri dipendono dalla natura delle cose v. Enc. dir. IV, Milano 1959, pp. 220 ss.

[65] L’essence du politique, Paris 1965, p. 270.

[66] v. “1° Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée. par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux ; 2° La contrôler et lui rendre des services par son administration ; 3° Réprimer les écarts de l’individualisme par une organisation répressive et aussi par una oeuvre éducatricePrécis de droit constitutionnel cit., p. 49.

[67] v. Max Weber, op. cit., vol. I, p. 211. Onde la contaminatio con altri tipi non rende inutile l’elaborazione del concetto.

[68] Con la differenza tra i tre concetti che non ne alterano il connotato comune, di essere “al di là” del diritto.

[69] “Rapporto giuridico è, infatti, l’interdipendenza delle azioni di due soggetti (o «persone» in senso giuridico), stabilita da una norma in guisa che uno di essi sia titolare di un diritto verso l’altro e l’altro sia investito di un obbligo verso il primo. Così concepito, il rapporto giuridico è veramente la cellula primitiva e il nucleo irriducibile di ogni realtà sociale” v. Widar Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano 1963, p. 11.

[70] É la nota affermazione di I. Kart, il quale specifica che il Sovrano non ha doveri coattivi, v. Metaphisyk der Sitten, trad. it. Bari 1973, p. 149; il principio era stato già enunciato da S. Tommaso Summa Theologica I, II, q. 96, art. V  “Il principe si dice svincolato dalla legge quanto alla forza coattiva della legge stessa; poiché nessuno propriamente può essere costretto da se stesso, e la legge non ha forza coattiva se non per l’autorità del principe. Si dice dunque che il principe è svincolato dalla legge, poiché nessuno può condannarlo se opera contro la legge… Il principe è poi al di sopra della legge in quanto, se è opportuno, può mutarla o dispensare da essa in un certo luogo o in un certo tempo”” v. Antologia politica, Torino, s.d., p. 66.

[71] A tale proposito anche il mero depotenziamento del potere giudiziario rispetto a funzioni (funzionari, situazione, atti) pubblici può essere considerato esatto il profilo della salvaguardia del rapporto di comando-obbedienza, e della “catena di comando”. Già Tocqueville nell’Ancien Régime et la Révolution, in particolare a proposito della giustizia (e della garanzia) amministrativa, ironizzava dicendo che non si avvertivano grandi differenze tra la prassi dell’ancien règime e la legislazione post- rivoluzionaria, ambedue rivolte a salvaguardare il potere politico e amministrativo delle ingerenze giudiziarie (v. op. cit., trad. it., Milano 1981, p.91 ss.). Ma tale chiave di lettura è anche applicabile ai rapporti tra la giustizia (in particolare il Giudice ordinario) e la pubblica amministrazione, dall’unificazione italiana in poi.

In effetti l’all. E alla L. 2248/1865, sia per il dettato, ed ancor più per l’interpretazione prevalente che ne fu data, consente  una cognizione “ridotta” nei confronti della P.A.; in particolare non consente che sia comandato un facere specifico né che l’atto amministrativo venga annullato, ma solo disapplicato, né che fossero presi provvedimenti possessori, ecc. ecc., tutte deroghe che contrastano con la pienezza della tutela giudiziaria accordata tra privati (in situazione di parità) e volte a salvaguardare, per lo più, le situazioni di fatto create dall’attività della P.A..

[72] É interessante notare che uno dei punti di contatto (e di frizione) tra politico e diritto nel Rechtstaat (ma non solo) sia la c.d. giustizia politica, allorquando – specie in materia penale – il Giudice deve decidere su rapporti e soggetti politici. La politicità della materia fa si che questa giustizia abbia carattere derogatorio, sempre più evidente man mano che la posizione del giudicando sale nella scala gerarchica, di guisa da creare una rete di protezione a favore della funzione politica e in particolare del rapporto di comando-obbedienza, necessario al mantenimento e alla conservazione dell’ordine politico della comunità. Affermare che il tutto è in contrasto con il principio d’eguaglianza di fronte alla legge (isonomia) è esatto: ma è anche vero che nessun ordine sarebbe possibile, e ancor meno un ordine democratico, se anche i governanti “supremi” fossero  incarcerabili da magistrati ordinari, secondo le procedure ordinarie. La posizione “gerarchica” si riflette non solo nel potere di comando , ma anche nell’irresponsabilità assoluta (“la persona del Re è sacra e inviolabile” art. 4 dello Statuto Albertino) o relativa, sia sostanziale (come per tipi di reato punibili) o processuale (autorizzazioni a procedere, organi giudicanti speciali e così via).

[73] Scriveva a tale proposito Cesarini Sforza che “gli statuti e i regolamenti dei corpi sociali stabiliscono, di consueto, a quale organo sociale competa l’applicazione delle punizioni disciplinari… il potere disciplinare – cioè la potestà spettante ai capi di un corpo sociale di punire l’associato che sia incorso nella violazione di un obbligo sociale – è la manifestazione più evidente del carattere imperativo degli ordinamenti giuridici privati”, op. cit., p. 80 ss.

[74] É interessante notare che nel pensiero di Montesquieu la “giustizializzazione” del rapporto di comando non era neppure cennata (per l’ovvia considerazione che non esisteva né giustizia amministrativa né quella costituzionale moderna) “Quando Montesquieu nell’Ésprit des lois inizia ad esporre la teoria della distinzione dei poteri scrive: «Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere di quelle che dipendono dal diritto civile.

In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o a termine, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo punisce i crimini, o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato»”.

[75] Op. cit., p. 153 ss.

[76] Tale distinzione riecheggia in quella di Miglio “Politica e vocazione dell’animale uomo presentano un nesso molto stretto. Ecco perché un filosofo come Aristotele scrisse che l’uomo è uno zoon politikon. É qui il nesso fra politica e uomo: non si tratta affatto del nesso della ‘socialità’, che è qualcosa di completamente diverso e proprio la differenza fra queste due dimensioni potrà essere messa in luce dallo studio dell’oggetto dell’obbligazione ‘contratto-scambio’, in quanto distinto da quello dell’‘obbligazione politica’” op. cit. p. 160

[77] Scriveva V. E. Orlando “Il diritto suppone sempre, come sua essenza, una «norma» regolatrice dei rapporti sociali cui dan luogo così gl’interessi dei singoli (diritto privato) come quelli della collettività considerata in se stessa e nei suoi rapporti coi sudditi (diritto pubblico)” Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 69.

[78] Du Pape, Lib. II, cap. III.

carte buone e carte false del Governo Conte, di Giuseppe Germinario

L’avvento del Governo Conte ha provocato una reazione pressoché immediata generalmente diffidente se non negativa, tranne poche eccezioni, negli ambienti intellettuali e nei centri decisionali del paese. Una diffidenza ed una negatività amplificata in modo abnorme dalla partigianeria e dalla faziosità della quasi totalità del sistema mediatico.

Sul conservatorismo, sulla sciatteria, sulla autoreferenzialità di gran parte dei centri intellettuali, tutti ben posizionati nel sistema, tanto sensibili alle sirene d’oltralpe quanto avulse dalla situazione del paese, il blog si è espresso più volte e continuerà ad esprimersi; in particolare sull’inadeguatezza e il carattere reazionario delle chiavi di interpretazione che continuano ad offrire.

L’oggetto dell’articolo non è questo, bensì gli argomenti e il contesto offerti dalle opposizioni esterne e ormai anche interne al Governo nella loro opera costante di denigrazione.

LO SCENARIO INTERNAZIONALE

L’azione avventurista più eclatante è stata il varo del documento programmatico per il 2019. Una sfida aperta alle regole e soprattutto alle ipocrisie della condotta dell’Unione Europea. Una violazione ostentata degli accordi e dell’itinerario di rientro dal deficit e dal debito che scatenerà contro una nazione fragile ed esposta i Moloch più terribili.

Il Moloch dei mercati, in particolare quello finanziario, sempre pronti a sanzionare con gli interessi i trasgressori del rigore fiscale e a negare il credito ai potenziali insolventi. La spada di Damocle del ’92 e del 2011 è lì che incombe angosciante. Il dio mercato però questa volta appare incerto, anzi diviso; la sentenza appare di conseguenza contraddittoria. Lo spread sale, a volte scende; tarda a decollare. C’è chi vende, chi svende ma anche chi compra in quantità massicce. Il manipolo onnipotente della finanza, attribuito del potere di decisione dei destini del mondo appare percorso da strategie diverse; strategie che sembrano sempre più ricalcare le divisioni e le aggregazioni nel contesto internazionale e le fibrillazioni nell’agone politico americano. La certezza di una mitologia e di una rappresentazione del dominio e delle contrapposizioni globaliste che finalmente si incrina.

Il Moloch della BCE, pronta a inondare o a lesinare di valuta e di acquisti il mercato dei titoli secondo i propri voleri e i dettami del duo franco-tedesco; a premiare o punire quindi i più indisciplinati e riottosi, i reprobi; la Grecia prima e l’Italia dopo in particolare. Peccato che, a dispetto delle dichiarazioni e dei rimbrotti unidirezionali di Mario Draghi, a chiedere la protrazione del “quantitative easing” siano di fatto non soltanto il reprobo italico additato al pubblico ludibrio, ma la gran parte delle banche centrali degli stati europei in una fase di debiti e deficit galoppanti e di stagnazione se non proprio di recessione incipienti.

Il Moloch della Commissione Europea. Gli antichi splendori della Commissione sono ormai un ricordo sempre più lontano. La condizione di relativo equilibrio tra le potenze europee fondatrici, l’allargamento repentino ai paesi dell’Europa Orientale, concomitante a quello della NATO, la supervisione attenta della leadership americana ne garantivano una relativa autonomia operativa nel ruolo di mediatrice. L’ascesa della Germania, la creazione di una sua sfera diretta di influenza in Europa Orientale parallela e sovrapposta a quella strategica degli Stati Uniti, l’assunzione del ruolo di intermediario e gabelliere tra la potenza egemone e il pulviscolo degli stati almeno per le competenze proprie dell’Unione ne hanno sminuito progressivamente il ruolo sino alla parodia della gestione Junker. La conseguente ascesa del Consiglio Europeo e della diarchia Franco-Tedesca hanno reso sempre meno credibile la funzione di arbitro secondo regole per altro affatto squilibrate.

È una questione di tempo!

La Commissione dovrà essere intransigente verso il capro espiatorio che ha ostentato la trasgressione degli accordi capestro e transigere ancora verso le violazioni surrettizie dei sodali del patto. Non dovesse riuscire più in questa schizofrenia con qualche gioco di prestigio o con il sacrificio del governo italiano perderà definitivamente l’autorevolezza residua o il residuo sostegno del sodalizio politico. Il muro frapposto al documento italiano non è il bastione insormontabile, ma l’ultimo argine di una probabile deriva. Lo hanno affermato i leader stessi dei paesi minori più esposti nella intransigenza: se si cede, la volontà di costruzione europea cadrà nei singoli paesi, compresi i più autorevoli. Una dichiarazione di forza che è una prova di debolezza. Una intransigenza manifestata per conto terzi da quei piccoli paesi, tra questi Olanda, Austria e Irlanda, i quali hanno più praticato il dumping fiscale.

La reazione e la replica al documento del Ministro Savona, pervenuto a fatica e solo dietro sollecitazione dell’estensore negli uffici della Commissione Europea, sono state al riguardo eloquenti: il silenzio. Quel documento evidenziava il carattere nefasto delle politiche di austerità, stigmatizzava la scelta improvvida di fondazione della moneta unica precedente una politica di riequilibrio delle economie nazionali, auspicava una politica comunitaria espansiva con un accentramento conseguente di competenze, specie negli investimenti e nella gestione del bilancio; ne riconosceva però nell’immediato del contesto politico europeo l’irrealizzabilità. Rivendicava quindi, conseguentemente, una omogeneizzazione dei regimi fiscali nazionali e un ritorno delle “politiche di fiscalità nazionali”; nella fattispecie politiche di investimenti pubblici anche in deficit. Un europeista come Savona aveva mostrato finalmente il Re Europa nudo con tutti i suoi difetti e le sue storpiature, così come Salvini ha rapidamente messo a nudo quel re sul tema dell’immigrazione.

Una partita, quindi, dall’esito molto più aperto di quanto sia prospettato e auspicato dalla grande informazione. Non si tratta di un duello tra due contendenti; piuttosto di una zuffa con molti attori, pronti a cambiare schieramento e celare gli obbiettivi reali e con molti altri ingombranti osservatori interessati, alcuni in prima linea altri nella penombra; tutti impegnati ad influenzare l’esito del confronto.

IL FRONTE INTERNO

Il fronte interno si sta muovendo secondo dinamiche analoghe. Le apparenze ci mostrano un governo arroccato nella propria cittadella e assediato, asfissiato da forze soverchianti ben attrezzate, ben radicate nei vari apparati statali e nei centri decisionali e di formazione dell’opinione pubblica.

Sono tutti lì a denunciare la scarsità di investimenti rispetto all’entità delle spese assistenziali; a stigmatizzare l’errore cosciente sulla stima di sviluppo al 1,5% quasi a sottendere la responsabilità governativa della prossima probabile recessione, in realtà dalle dinamiche internazionali che vanno al di là degli ambiti domestici; a confidare parossisticamente nelle divisioni insanabili della maggioranza e nella incompetenza e inesperienza della classe dirigente in via di formazione.

Tutti, però, evitano accuratamente di rispondere alla domanda fondamentale che li qualificherebbe o meno come forze, politiche ed istituzionali, nazionali credibili: sono disponibili e sino a che punto a sostenere un confronto e uno scontro serrato almeno nell’agone europeo e nel Mediterraneo?

Eludere questa risposta connota queste forze come assedianti temibili ma privi del sostegno morale e logistico in loco; costrette, al pari delle forze imperiali, nel migliore dei casi a sostenersi grazie a lunghe e precarie catene di rifornimento. Una condizione da truppe di occupazione piuttosto che da forze liberatorie. Una condizione propedeutica ad ulteriori frammentazioni e divisioni.

È la condizione perfetta che potrebbe consentire ancora per qualche tempo alle forze politiche al governo di gestire le proprie evidenti divisioni in modo da raccogliere contemporaneamente le istanze di governo e di opposizione.

La schizofrenia, caratteristica comune anche ai governi immediatamente precedenti, è una peculiarità di questo governo.  Argomento già trattato ampiamente in altri articoli.

Il campo di applicazione è vasto: si passa dalla politica delle grandi infrastrutture, al ruolo della magistratura, alle questioni ambientali.

Il reddito di cittadinanza probabilmente ne è l’emblema. Il provvedimento poggia su due assunti fasulli: che la disoccupazione sia soprattutto un problema di formazione; che la disoccupazione abbia le stesse caratteristiche e le stesse ragioni nella variegata geografia del paese. Sino a quando si continuerà a parlare di disoccupazione e non di “disoccupazioni” la retorica vincerà sul pragmatismo, favorendo la fuga verso l’assistenzialismo e l’incomprensione, tra i tanti, del fenomeno di quella parte consistente di personale qualificato, compreso quello immigrato, che preferisce migrare all’estero. Una retorica nella quale si sono rifugiate tutte le forze politiche; tutte! Un tema, altrimenti, che sarebbe dirimente; che implicherebbe tutta una serie di politiche e di volontà, compresa la creazione di nuove imprese e formazione di imprenditori. Un tema che, trattato con coerenza, rischierebbe di mandare in fibrillazione irreversibile le politiche comunitarie di stampo liberista e il reticolo di norme europee che regolano le attività e gli investimenti.

Il termine schizofrenia sottende la convivenza di propositi opposti e difficilmente conciliabili; di propositi, quindi, anche accettabili e significativi. A spulciare documenti e provvedimenti quesi ultimi non mancano; e l’opera certosina e discreta di settori della pubblica amministrazione sta cercando di dare loro corpo.

Si legge il proposito di difesa delle imprese impegnate nel complesso militare e nell’industria strategica residua, anche se i tagli successivi sembrano poi contraddire in parte le intenzioni. Si inizia a ricostruire un sistema di agenzie e di centri nazionali in grado di fungere da supporto tecnico e indirizzo nell’attuazione dei programmi di investimento specie delle amministrazioni periferiche e locali. Un tentativo molto più strategico di quanto possa apparire. Un modo per indebolire quel legame diretto tra amministrazioni locali e strutture e agenzie comunitarie che contribuisce a logorare la funzione di indirizzo e controllo dello Stato Centrale. Si sta operando per riprendere almeno il controllo pubblico delle reti, in particolare le telecomunicazioni, dopo le sciagurate privatizzazioni. Si sta cercando di riprendere il controllo dell’esposizione del debito pubblico con l’emissione di titoli collocati direttamente tra i risparmiatori al dettaglio.

Sono indirizzi ancora estemporanei, portati avanti sottotraccia e ancora privi di un disegno organico. Un disegno che implicherebbe la ripresa di temi strategici come la ridefinizione delle competenze tra stato centrale e amministrazioni locali; la gestione del rilevante risparmio nazionale; la riconduzione nei ranghi dell’azione giudiziaria. Tutti temi che stridono ancora con le suggestioni della democrazia dal basso del M5S e le concezioni originarie del federalismo della Lega ancora ben presenti nelle due formazioni e connaturate nel M5S.

Limiti che rivelano la durezza di un confronto più interno alle forze di governo che tra queste e le opposizioni. Una ruvidezza cui non corrisponde una chiarezza sufficiente di obbiettivi e di strategie; un sordo contrasto che potrà risolversi probabilmente solo con il completamento della trasformazione surrettizia della Lega in partito nazionale e con la spaccatura di un M5S logorato dove sta però prendendo piede una componente più realista. Vedremo cosa comporterà il prossimo ritorno del Messia pentastellato, di Di Battista anche se le frecce in faretra si stanno rivelando sempre più spuntate. Qualcuno si deciderà finalmente a chiedergli conto delle sue frequentazioni americane, specie in California e dei suoi stage di apprendimento.

IL PARADOSSO INTERNAZIONALE

Paradossalmente gli impulsi migliori e più promettenti sembrano provenire dal contesto internazionale. Questo Governo viene continuamente tacciato di un avventurismo che lo sta sospingendo nell’isolamento più totale. In realtà l’isolamento e l’inconsistenza del peso geopolitico del paese si è compiuto silenziosamente a partire dalla guerra civile nella ex-Jugoslavia e dalla riunificazione tedesca. L’Italia ha perso quasi ogni influenza in Europa Orientale, compresi i Balcani e ha incrinato la sua credibilità e il suo prestigio nel Mediterraneo in questi ultimi trenta anni. Una chiusura a Nord-Est che la sta sospingendo volente o nolente verso il Mediterraneo e il Nord-Africa. La chiusura del cerchio avrebbe potuto completarsi con la guerra e la defenestrazione di Gheddafi in Libia. Da lì, invece, è iniziato fortunatamente il declino di Obama e l’emersione della vanagloria francese. Oggi l’America di Trump, per relegare almeno momentaneamente il multilateralismo, destrutturare il sistema di relazioni fondato su organismi sovranazionali e rifondare un sistema di alleanze più agile ed efficace e soprattutto più sostenibile, ha bisogno di ripristinare i rapporti tra stati nazionali e ridimensionare le potenze regionali che hanno lucrato all’interno della propria sfera di influenza. In Libia, per altro, si è creato una terra di nessuno dove le malefatte clintoniane hanno offerto le possibilità di accordo tra Trump e Putin a scapito di Francia e Turchia. Il terreno ideale per offrire all’Italia la possibilità di ritorno e di azione. Un invito colto con una certa sapienza dal Governo Conte con la gestione della recente conferenza. Più discreto, ma altrettanto efficace, almeno per il momento, la copertura nel contenzioso europeo. Come pure le boccate di ossigeno offerte dal complesso angloamericano a Finmeccanica e Fincantieri. In politica, più che in altri ambiti però, ogni sostegno e ogni collaborazione non sono disinteressati e nemmeno garantiti e stabili nel tempo. Il confine tra la capacità di cogliere le opportunità offerte e la condanna a cadere sotto nuove forme di servitù e subordinazione, simili alle precedenti, è sempre labile e poco definito. Un dilemma che le classi dirigenti nazionali hanno dovuto affrontare più volte a partire dal conseguimento dell’unità. Qualche volta con esito soddisfacente, altre incorrendo in un destino drammatico o poco lusinghiero. L’armistizio estivo tra l’Amministrazione di Trump e la Commissione Europea deve fungere da campanello di allarme. Il rinvio dell’innalzamento delle barriere doganali ai danni della Germania è costata qualche concessione ai tedeschi e il sacrificio molto più significativo su importazioni di prodotti agricoli a scapito dell’Italia.

L’ipotesi di puntare rapidamente ad una condizione di neutralità vigile può essere prematura; richiede ben altre condizioni e una classe dirigente in grado di sostenere un confronto così duro. Tentare almeno un patto con il diavolo che consenta di recuperare il controllo almeno del sistema finanziario, con la riacquisizione di Generali e UNICREDIT e magari la gestione della rete commerciale che apra uno sbocco più garantito dei prodotti agricoli nel mercato nazionale, ambiti economici attualmente in mano ai francesi e in parte ai tedeschi, potrebbe essere un obbiettivo già alla portata dell’attuale Governo, così come quello in atto sulla TIM nel settore delle telecomunicazioni. L’importante è riuscire a resistere alle pressioni di una armata probabilmente più sgangherata di quanto possa apparire ma sempre pronta a trovare nuovi corifei e nuovi tromboni. Il Corriere della Sera, ancora una volta, si è offerto diligentemente nella funzione di benpensanti servili. Giornalisti come Federico Fubini, da capostipiti, hanno decisamente scelto la loro missione: quella di ventriloqui del magnate filantropo Soros. (vedere per credere:  https://2018.festivaleconomia.eu/-/di-quale-europa-abbiamo-bisogn-1  ). La loro credibilità, però, sta crollando fortunatamente assieme alle vendite dei loro fogli. Uno spazio in più del quale approfittare

 

 

Vilfredo Pareto Trasformazione della democrazia, una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Vilfredo Pareto Trasformazione della democrazia, Editore Il Foglio, pp. 116, € 12,00

È opportuna questa nuova edizione del libretto di Pareto, la prima del quale è del 1921, in cui il grande sociologo riuniva quattro testi pubblicati l’anno precedente sulla “Rivista di Milano”; e quindi nel 1920, anno decisivo per la crisi del regime liberale, l’occupazione delle fabbriche e il decollo del movimento fascista.

Alla prima edizione ne seguivano ben otto e tutte, come scrive Carlo Gambescia nel saggio introdotto, in anni politicamente caldi il cui comune denominatore è “quello di un clima segnato dalla diffidenza verso la democrazia liberale e di sfiducia verso le esangui élite italiane, politiche ed economiche, sempre però pronte al compromesso, anche, con il diavolo, pur di tenersi a galla”.

Nella situazione degli anni ’20, scrive Gambescia, Pareto “scorge, a verifica delle teorie del Trattato, uscito nel 1916, lo sviluppo di un fenomeno che definisce, fin dal titolo, «trasformazione della democrazia», e ne individua e riassume, «spiccatissimi», «almeno tre caratteri principali, cioè: 1) L’affievolirsi della sovranità centrale e l’invigorirsi di fattori anarchici; 2) il veloce progredire nel ciclo della plutocrazia demagogica; 3) la trasformazione dei sentimenti della borghesia e della classe che ancora governa».

Non è un caso che almeno un paio di tali caratteri erano stati avvertiti da due giuristi contemporanei di Pareto: Santi Romano, in specie nel saggio “Lo Stato moderno e la sua crisi” (del 1909) e Maurice Hauriou in diverse opere e saggi (ora raccolte negli “Écrits sociologiques” silloge di più saggi del doyen negli anni a cavallo tra i due secoli).

Il giurista siciliano sottolineava l’emergere di poteri “nuovi” tendenzialmente più che “centripeti”, contestatori dell’ordinamento dello Stato rappresentativo (cioè borghese); il francese il ciclo dei regimi politici e il carattere disgregatore del denaro (la plutocrazia) e del pensiero critico (oggi diremmo del relativismo). Prova (tra le altre) di come, oltre un secolo fa vi fosse consapevolezza della decadenza delle istituzioni realizzate dopo la rivoluzione del 1789 e di come stesse nascendo qualcosa di nuovo (ossia, per chi condivide, con Pareto e i due giuristi, il carattere “ciclico” della storia, qualcosa di antico in forma rinnovata).

Gambescia si chiede quale sia il “succo sociologico” di un’opera come “Trasformazione della democrazia”. E lo trova “In quella che Giovanni Busino ha ridefinito «teoria della spoliazione». Come modalità, tra le tante altre cose, riteniamo, per approcciarsi all’analisi dei processi politici.

Secondo Busino, le sue  «pagine più originali sono quelle sulle relazioni della democrazia colle forze di mercato». Sotto questo aspetto – oltre agli ovvi richiami al Trattato – l’ultimo libro di Pareto, Trasformazione della democrazia, con il suo concetto di plutocrazia demagogica, rinvia, dal punto di vista delle scelte politiche, all’idea dello spreco di risorse: un arraffa, arraffa, se ci si perdona la caduta di stile, condiviso dalla plutocrazia con gli attori sociali, quelli che ovviamente si prestino ai suoi giochi”.

Lo scopo della spoliazione “è di conservare il potere, di restare al centro, in posizione sovra-ordinata, del processo politico … Sottraendo risorse ai nemici per conferirle agli amici. Ma anche con ogni altro mezzo: dalla corruzione alla collusione”.

E, scrive Gambescia citando Belligni: “scrive Belligni, portando alle estreme conseguenze le intuizioni teoriche paretiane e cogliendo il senso profondo del ciclo plutocratico, che «col ridursi dell’ammontare complessivo della torta sociale, il costo relativo delle taglie destinate alle clientele e alla classe politica cresce fino a farsi insostenibile, provocando l’insorgere di questioni morali e addirittura spingendo talvolta i popoli alla rivolta, come avveniva nelle carestie del passato. Se nei periodi di sviluppo “i politicanti prendono per sé grosse fette di torta, altre minori ne prelevano i politici secondari”, nei periodi di crisi ciò non viene più tollerato e sono spesso gli stessi politicanti, dal governo o dall’opposizione, a insorgere farisaicamente contro gli sprechi e le ruberie, agitando istanze e programmi moralizzatori». Abbiamo avuto un esempio di “plutocrazia demagogica” anche con Berlusconi, sostiene Gambescia, ricordando quanto scrive Barbieri in tre casi emblematici: “1) il salvataggio dell’Alitalia; 2) L’estensione innovativa dei compiti della Protezione civile alla gestione dei grandi eventi; 3) Lo scudo fiscale”. Conclude il saggio introduttivo Gambescia che “Purtroppo la libertà, la vera libertà, sembra per molti essere ancora un peso. Si preferisce anche a livello politico, disconoscere il grande valore racchiuso nel ruolo sociale degli uomini creativi, liberi e indipendenti per privilegiare i piagnistei interessati dei parassiti, sempre pronti a tendere la mano e sfruttare gli atri”. Ma gli uomini sono fatti in un certo modo (il “legno storto” di Kant riappare) e “per dirla con Pareto, va sempre scansato «il pericolo di trascorrere anche oltre i campi del possibile e di andare vagando per gli sterminati spazi dell’immaginazione».

Anche perché, purtroppo, sociologicamente parlando, non ci sfugge che sotto il plutocrate demagogo c’è il parassita e viceversa. Il ciclo della spoliazione sembra essere nelle cose sociali stesse della democrazia”.

Scrive Pareto all’inizio del saggio che “Lo studio del complesso sociale è lungo, ed il solo tentativo di compierlo occupa i due volumi della Sociologia”; e in effetti il libro è l’applicazione delle idee più diffusamente (e più in generale) esposte nel Trattato di sociologia generale. Dato che ad una recensione non è possibile dare conto di tanto lavoro, ci limitiamo a un solo aspetto, quello che ha più interessato sia Gambescia che gli studiosi di Pareto citati nel saggio introduttivo: quello della spoliazione politica.

Com’è noto, solo per limitarci al pensiero politico-sociale italiano, il fatto che i governanti prelevino parte delle risorse sociali è noto – e anche, entro certi limiti – logico.

Almeno a partire da Maffeo Pantaleoni per arrivare, in tempi recenti, a Gianfranco Miglio e Cesare Cosciani, l’appropriazione politica (o spoliazione politica o rendita politica) è stata ampiamente analizzata da scienziati politici e economisti italiani, come Fortunato, Puviani, Mosca, Michels, Santangelo Spoto.

Tuttavia è una concezione/constatazione che, per questo ovvia e applicabile ad ogni regime politico (e non solo alla democrazia), è nel           comportamento – universale – dei governanti ossia delle “classi elette”. E per ciò poco frequentata dagli intellettuali di regime (o di Corte).

Se applichiamo, la distinzione, risalente a Pantaleoni, degli assetti finanziari dei rapporti governanti/governati, abbiamo tre “assetti”: predatorio, parassitario e tutoriale. La cui connotazione (preferibile da chi scrive) è che l’ultimo sia di un rapporto equilibrato e “sinallagmatico” tra élite e governati; il parassitario di una condizione di sfruttamento, non tale però da far deperire l’organismo ospite (cioè la comunità); il terzo, predatorio, che la fa deperire, talvolta portandola alla fine (cioè al termine del ciclo politico).

Applicando tale criterio, con la “seconda repubblica” (centrosinistra soprattutto, ma comunque centrodestra compreso, anche se responsabile minore) siamo passati dall’assetto parassitario della “prima repubblica”, caratterizzato da crescente prelievo fiscale, ma addolcito da una crescita economica notevole (le élite, per tale aspetto, migliori dall’Unità d’Italia), a un prelievo fiscale aumentato ulteriormente, malgrado la stagnazione economica più che ventennale nella “seconda repubblica” (la peggiore di sempre dal 1861). Non c’è da meravigliarsi, preoccupati da un tale sfascio storico, che il 4 marzo il popolo italiano abbia dato alle “elette” il benservito.

Teodoro Klitsche de la Grange

PETER NAVARRO E I GLOBALISTI, a cura di Gianfranco Campa

Nei numerosi articoli e podcast sulle vicende politiche e sull’aspro scontro che contrappone una vecchia classe dirigente arroccata ed una nuova in via di formazione negli Stati Uniti ci siamo soffermati soprattutto sulle dinamiche di questo conflitto e sulle forze in campo. Con il commento all’intervento di Peter Navarro si intende sottolineare un degli aspetti alla base di queste dinamiche: la destabilizzazione della formazione sociale statunitense e della sicurezza militare legate al processo di globalizzazione e all’ambizione di dominio unipolare e la conseguente reazione_Giuseppe Germinario

 

 

PETER NAVARRO RIVOLGE UN MONITO AI GLOBALISTI

 

Peter Navarro, il principale consigliere sui trattati internazionali di Donald Trump, ha rivolto un pressante monito diretto ai rappresentanti di Wall Street e ai globalisti mondiali: non interferire nei colloqui in atto fra l’amministrazione Trump e i Cinesi sulla rinegoziazione dei trattati economici e sull’imposizione di nuovi pesanti dazi sui prodotti cinesi.

Le parole di Navarro non devono sorprendere, poiché il Professor Navarro è personalmente coinvolto in una battaglia che ormai conduce da molti anni sui pericoli della globalizzazione, in particolare per l’aspetto relativo al rapporto commerciale tra Stati Uniti e Cina.

La battaglia per il riposizionamento nel rapporto commerciale fra i vari paesi del mondo e gli Stati Uniti è una priorità della Casa Bianca di Trump. Termini come nazionalismo si sovrappongono al globalismo. Peter Navarro è la punta di lancia in questo scontro fra Wall Street, cioè i globalisti, e Main Street, cioè i nazionalisti.

Negli ultimi decenni, Wall Street, con il supporto della Camera di Commercio Americana, ha cannibalizzato Main Street a scapito del profitto, riducendo in cenere l’industria manifatturiera americana. Le politiche economiche di Wall Street sono diametralmente opposte a quelle di Main Street. Questo potere intrinseco di Wall Street è l’epicentro delle cosiddette “fogne di Washington”.

Lo scorso Venerdì, parlando al CSIS (Center for Strategic and International Studies) per oltre un’ora, Navarro ha sottolineato le problematiche degli scambi commerciali con la Cina e soprattutto come i banchieri di Wall Street e i manager di hedge funds stanno ostacolando i tentativi di ricalibrare il rapporto con la Cina da parte dell’amministrazione Trump. Le parole di Navarro indirizzate a queste entità sono state durissime, al limite della minaccia.

Qui sotto trovate la traduzione di un estratto di tre minuti, estrapolato dall intero intervento di Navarro. Intervento che ha suscitato molto scalpore in certi ambienti americani.

 

https://www.c-span.org/video/?c4759972/peter-navarro-billionaire-globalists-pushing-white-house-cut-trade-deal-china

 

https://www.youtube.com/watch?v=k7SkF6bbSkE

 

QUESTO RAPPORTO IDENTIFICA CON LA MASSIMA CHIAREZZA UNA MINACCIA ALLA BASE INDUSTRIALE DELLA DIFESA  USA:  QUESTA E’ LA VISIONE DEL DOD (Dipartimento di Difesa) E DEGLI ALTRI ELEMENTI DI QUESTO GOVERNO, ED E’  MOLTO DIVERSA DA QUELLA DEI BANCHIERI DI WALL STREET E DELLE ÉLITE GLOBALISTE. CONSIDERATE PER ESEMPIO LA DIPLOMAZIA OMBRA TRA U.S. E CINA CHE VIENE ATTUATA DA UN GRUPPO INDIPENDENTE, AUTO PROCLAMATOSI ALTERNATIVO AL GOVERNO AMERICANO, COMPOSTO DAI BANCHIERI DI WALL STREET E DIRIGENTI DI HEDGE FUNDS. NEL QUADRO DI UNA OPERAZIONE DI INFLUENZA DEL GOVERNO CINESE, MILIARDARI GLOBALISTI  ESERCITANO UNA FORTISSIMA PRESSIONE A 360° SULLA LA CASA BIANCA IN PREVISIONE DEL G20 IN ARGENTINA. LA MISSIONE DI QUESTI AGENTI UFFICIOSI DEL GOVERNO CINESE, PERCHÉ  E’ QUESTO CHE SONO, E’  FORZARE IL PRESIDENTE A FIRMARE UN ACCORDO. SU QUESTO, DUE PUNTI DEVONO ESSERE CHIARI: IL PRESIDENTE DONALD TRUMP HA FATTO UN LAVORO INCREDIBILE SUGLI ACCORDI COMMERCIALI, HA AVUTO ANCHE IL CORAGGIO E LA SAGGEZZA DI RESISTERE ALLE ELITE GLOBALISTE, DI RESISTERE AI PAESI CHE SI IMPEGNANO IN PRATICHE COMMERCIALI SLEALI, SCAMBI INEGUALI, ALTI DAZI, USANDO IL MONDO – USANDO IN PARTICOLARE GLI STATI UNITI – COME LA BANCA DEL MONDO. E PRODUCENDO UNO SBILANCIO COMMERCIALE, PERCHÉ’ QUESTO FANNO, OGNI ANNO UNO SBILANCIO COMMERCIALE DI UN TRILIONE DI DOLLARI. QUESTO È UN PURO E SEMPLICE TRASFERIMENTO DI RICCHEZZA ALL’ESTERO: POSTI DI LAVORO, FATTORI PRODUTTIVI E SOLDI. DONALD TRUMP HA FATTO UN LAVORO INCREDIBILE, AFFRONTANDO QUESTA REALTA’, E SE IN PASSATO NON HA AVUTO BISOGNO DELL’AIUTO DI WALL STREET; NON HA AVUTO BISOGNO DELL’AIUTO DI GOLDMAN SACHS, ANCOR MENO NE HA BISOGNO OGGI. QUANDO QUESTI PSEUDOAGENTI STRANIERI SENZA TESSERA SI DANNO A QUESTO TIPO DI DIPLOMAZIA – COSIDDETTA DIPLOMAZIA, – NE VIENE PREGIUDICATA LA FORZA DEL PRESIDENTE E LA SUA POSIZIONE NEGOZIALE. NIENTE DI BUONO PUO’  VENIRE DA QUESTO. SE E QUANDO CI SARA’ UN ACCORDO, SARÀ ALLE CONDIZIONI DEL PRESIDENTE DONALD TRUMP, NON A QUELLE DI WALL STREET. SE  WS E’ COINVOLTA E CONTINUA AD INTROMETTERSI IN QUESTO NEGOZIATO, SE NE SENTIRA’ IL CATTIVO ODORE INTORNO A QUALSIASI ACCORDO VENGA PATTUITO. AVRA’ LA FIRMA DI  WALL STREET. RIVOLGO UN PRESSANTE INVITO A QUESTI PSEUDOAGENTI A DESISTERE. NON NE PUÒ ‘VENIRE NIENTE DI BUONO. SE VOGLIONO FARE DEL BENE, SPENDANO I LORO MILIARDI A DAYTON, OHIO, NELLE CITTA’ INDUSTRIALI D’AMERICA, DOVE ABBIAMO BISOGNO DI FAR RINASCERE LA NOSTRA MANIFATTURA DI BASE  E RISOLVERE L’EPIDEMIA DI DIPENDENZE DA OPPIOIDI CHE HANNO CREATO DELOCALIZZANDO LA NOSTRA PRODUZIONE.”

IDENTIFIED THREAT TO AMERICA’S DEFENSE INDUSTRIAL BASE. NOTHING CAN BE CLEARER IN THIS REPORT. THIS IS A VERY DIFFERENT VIEW THAT DOD AND OTHER ELEMENTS OF THIS GOVERNMENT HAVE BEEN THE WALL STREET BANKERS AND GLOBALIST ELITES. CONSIDER THE SHADOW DIPLOMACY THAT IS NOW GOING ON BY A SELF-APPOINTED GROUP OF WALL STREET BANKERS AND HEDGE FUND MANAGERS BETWEEN U.S. AND CHINA. AS PART OF A CHINESE GOVERNMENT INFLUENCE OPERATION, GLOBALIST BILLIONAIRES ARE PUTTING THE FULL COURT PRESS ON THE WHITE HOUSE IN ADVANCE OF THE G20 IN ARGENTINA. THE MISSION OF THESE UNREGISTERED FOREIGN AGENTS, THAT’S WHAT THEY ARE, UNREGISTERED AGENTS TO PRESSURE THIS PRESIDENT INTO SOME KIND OF A DEAL. TWO POINTS HAVE TO BE MADE CLEAR ABOUT THIS. PRESIDENT DONALD TRUMP HAS DONE AN INCREDIBLE JOB — INCREDIBLE JOB ON TRADE. HE HAS HAD THE COURAGE AND WISDOM TO STAND UP TO THE GLOBALIST ELITES, TO STAND UP TO THE COUNTRIES OF THE WORLD THAT ARE ENGAGING IN UNFAIR TRADE PRACTICES, NONRECIPROCAL TRADE, HIGH TARIFFS, USING THE WORLD — USING THE UNITED STATES AS THE BANK OF THE WORLD. RUNNING UP A TRADE DEFICIT EVERY YEAR BECAUSE THEY DO THAT OF OVER A HALF $1 TRILLION. THAT IS A PURE TRANSFER OF WEALTH ABROAD. JOBS, FACTOR, AND MONEY. DONALD TRUMP HAS DONE AN AMAZING JOB OF ADDRESSING THAT ISSUE AND HE DIDN’T NEED THE HELP OF WALL STREET, HE DIDN’T NEED THE HELP OF GOLDMAN SACHS AND HE DOESN’T NEED IT NOW. WHEN THESE UNPAID FOREIGN AGENTS ENGAGE IN THIS KIND OF DIPLOMACY, SO CALLED DIPLOMACY, ALL THEY DO IS WEAKEN THIS PRESIDENT AND HIS NEGOTIATING POSITION. NO GOOD CAN COME OF THIS. IF AND WHEN THERE IS A DEAL, IT WILL BE ON PRESIDENT DONALD TRUMP’S TERMS NOT WALL STREET’S TERMS. IF WALL STREET IS INVOLVED AND CONTINUES TO INSINUATE ITSELF INTO THESE NEGOTIATION THERE WILL BE A STENCH AROUND ANY DEAL THAT IS CONSUMMATED. IT WILL HAVE THE FACTS OF WALL STREET. I WOULD URGE THESE AGENTS TO STAND DOWN ON THIS ISSUE. NO GOOD CAN COME OF IT. IF THEY WANT TO DO GOOD, SPEND THEIR BILLIONS IN DAYTON, OHIO, IN THE FACTORY TOWNS OF AMERICA, WHERE WE NEED A REBIRTH OF OUR MANUFACTURING BASE  AND TO THE OPIOID CRISIS WHICH I HAVE TO CREATE BY OFF SHORING OUR PRODUCTION.

Trump dovrebbe incontrare il presidente cinese Xi Jinping a Buenos Aires, in Argentina, alla fine di novembre a margine di un summit dei leader del G20 per discutere di una possibile via d’uscita dalla loro sempre più intensa guerra commerciale.

 

 

Elezioni europee 2019: quale idea d’Europa?, di Roberto Buffagni

Prolegomeni alla teologia elettorale

Elezioni europee 2019: quale idea d’Europa?

 

Le elezioni europee del 2019 hanno certo grande importanza politica, anche se il Parlamento UE dispone di limitati poteri. Ma sul piano simbolico, che con la dimensione del politico ha una relazione necessaria, le elezioni europee 2019 saranno, a mio avviso, decisive. Lo saranno, perché per la prima volta sarà messo apertamente in questione il difetto genetico della UE, cioè la fonte della sua legittimità, e per la prima volta comincerà ad entrare nel dibattito politico di massa la domanda “che senso ha l’Europa”?

Lo rileva con intelligenza Massimo Cacciari in questo recentissimo, appassionato e commosso intervento al Forum PD: https://youtu.be/RR9vCQqfIUY , che invito il lettore ad ascoltare per intero.

Questi i punti essenziali dell’intervento di Cacciari:

  1. E’ in corso, in Europa, un conflitto decisivo tra visioni del mondo e concezioni antropologiche incompatibili
  2. L’Europa atlantica delle origini è finita per la scelta sciagurata di dominio mondiale degli USA dopo la fine dell’URSS
  3. L’Europa odierna ha mancato alla sua promessa fondativa: s’è svuotata la democrazia rappresentativa, che senza una concreta eguaglianza di opportunità e una realistica prospettiva di benessere personale e sociale perde di senso, e viene sostituita da forme di “democrazia autoritaria”.
  4. Sarà ancora democratico, il nostro futuro?”
  5. Lo scontro sovranismi, populismi, nazionalismi/europeismo è analogo allo scontro tra potenze cosmopolite e potenze nazionali che condusse alla IGM. Oggi, al posto dell’impossibile guerra guerreggiata ci sarebbe la guerra economica “tra gli Staterelli” europei. Nel mondo di oggi possono competere solo Grandi Spazi.
  6. Dopo la I e la II guerra mondiale, alle prossime elezioni europee si profila la possibilità del “terzo suicidio d’Europa.”
  7. Per sventarlo, anzitutto non bisogna difendere la UE così com’è: oggi, l’Europa è indifendibile.
  8. Va proposta una nuova idea d’Europa e una riforma profonda delle sue istituzioni, abbandonato il rigorismo economico, trovata una politica estera comune anzitutto mediterranea (ne fa parte il problema migratorio).
  9. E’ necessaria l’idea dell’Europa avvenire. Qual è la missione d’Europa?
  10. La crisi d’Europa non è solo la crisi delle socialdemocrazie, ma ancor più la crisi dei partiti di ispirazione cristiana. Christenheit oder Europa[1], si diceva un tempo. Ma oggi, chi rappresenta l’ispirazione cristiana del progetto europeo?
  11. I sovranisti un’idea ce l’hanno: la nazione, il popolo. “Sono balle”, ma sono anche idee. Qual è la nostra idea?
  12. Alle due prime parole d’ordine della rivoluzione francese, libertà ed eguaglianza, i rivoluzionari aggiunsero la terza, “fraternità”, che è un principio eminentemente cristiano. Libertà ed eguaglianza non bastano, perché libertà “è una parola vuota”, e “libertà” ed “eguaglianza” sono in contraddizione reciproca.
  13. Non si può combinare l’Europa se non combini le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità.” E’ su queste basi che si può immaginare una missione d’Europa.
  14. L’Europa non è solo razionalizzazione, tecnica, scienza, non solo democrazia come procedura democratica, ma anche cultura e umanesimo europei.
  15. Le democrazie autoritarie hanno bisogno di un nemico. Una vera democrazia rappresentativa europea, invece, deve essere una “democrazia accogliente”, che tenta di rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto: la democrazia davvero rappresentativa è forte perché riesce a dia-logare, perché il suo Logos inclusivo è infinitamente più forte della parola solipsista dei nazionalismi.

Prendo in esame il discorso di Cacciari, premettendo che non sono né  teologo né filosofo, e che dunque le mie sono soltanto osservazioni di un dilettante di buone, benché un po’ antiquate, letture.

Concordo in sostanza con la diagnosi sull’attuale situazione europea delineata da Cacciari nei primi 4 punti. Dissento sull’analogia al punto 5, tra cause della IGM e attuale conflitto tra nazionalismi ed europeismo, che mi sembra affrettata. Verisimile, invece, che a una disgregazione della UE succederebbe un “periodo di torbidi” e di guerra economica, o meglio ibrida, tra nazioni europee. Concordo sul punto 7, sulla indifendibilità della UE così com’è.

E vengo ora ai punti che mi interessano di più, vale a dire al tema della “idea” e della “missione” d’Europa. E’ senz’altro vero che ogni realtà politica (anzi, ogni realtà umana) abbisogna di una “idea” e di una “missione”, vale a dire di un senso. A maggior ragione ne abbisogna una realtà politica in fieri (e in crisi) come l’Europa, che in tutta la sua storia splendida e terribile non è mai riuscita a trasformarsi in entità politica unitaria. Ed è perfettamente vero che “Non si può combinare l’Europa se non combini le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità” (punto 13).

Ora, la domanda logicamente conseguente alla corretta affermazione di Cacciari è: “è possibile dare forma all’Europa combinando le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità?” Non è certo facile rispondere; ma credo che il conflitto culturale e politico epocale che si delinea e si prepara, in Europa e nel mondo, e del quale le prossime elezioni europee saranno un episodio significativo, verta proprio su questo punto chiave.

Cerco di spiegarmi meglio, nei limiti delle mie capacità e delle dimensioni di questo breve scritto.

La spia del punto problematico credo lampeggi al punto 15 del discorso di Cacciari, dove egli distingue tra democrazie autoritarie che hanno bisogno di un nemico, e una vera democrazia rappresentativa europea, che invece deve essere una “democrazia accogliente”, che vuole rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto ed eventualmente in conflitto. Il nodo che il discorso di Cacciari tenta qui di sciogliere, è la contraddizione intrinseca all’universalismo politico. L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità. Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale. Volendo, chi se ne sente all’altezza può parlare in nome dell’umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico; ed egli è dunque costretto a postulare l’accordo universale, almeno futuro, intorno alle sue premesse. E’ per questo che Cacciari sottolinea la necessità, già avvertita dai rivoluzionari francesi, di integrare la parola d’ordine cristiana di “fraternità” (cioè di concordia, almeno sperata e promessa) alle prime due, soprattutto reattive rispetto ai principi dell’ancien régime, di libertà ed eguaglianza.

Infatti, il minimo comun denominatore delle grandi forze politiche europee e statunitensi – liberals, cattolici democratici, socialdemocratici –  che hanno dato vita all’Unione Europea, è proprio l’universalismo politico[2]; e l’Unione Europea è un progetto universalista al 100%, tant’è vero che è stato sinora impossibile definirne i confini territoriali, che ai tempi del fiducioso entusiasmo europeista qualcuno pretendeva di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chiunque ne condivida i valori universali, cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai, e non soltanto chi ne condivida le radici storiche e i confini geografici.

La “vera democrazia rappresentativa europea” di Cacciari, che al contrario delle democrazie autoritarie non ha un nemico e deve essere una “democrazia accogliente”, che vuole “rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto”, è dunque la vera democrazia universalista, che per sua logica interna tende a diventare democrazia universale, cioè mondiale; e che non persegue questo obiettivo con la forza, con la conquista imperiale del mondo, ma in virtù del proprio Logos inclusivo, “infinitamente più forte della parola solipsistica” dei nazionalismi, legati all’identità dei popoli e delle nazioni (che sono “balle”).

Ora, una grande istituzione politica e culturale che ha il suo centro in Europa, “che tenta di rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto”, e che non pensa né agisce solo in conformità alle categorie amico/nemico che definiscono il Politico – per quanto la contingenza storica la costringa a tenerne conto e a piegarvisi tatticamente – esiste già: è la Chiesa cattolica cioè universale, il primo dei due “soli” del De monarchia dantesco (l’altro è l’Impero). Alla Chiesa cattolica universale, infatti, appartiene virtualmente tutta l’umanità, perché tutti gli uomini sono creati a immagine e somiglianza di Dio, e in Cristo virtualmente figli di Dio e fratelli (teologicamente, la figliolanza divina e la fraternità effettuali conseguono alla effettuale appartenenza sacramentale alla Chiesa, cioè al battesimo).

Implicitamente, dunque, Cacciari assegna all’Europa la missione di diventare la Nuova Chiesa Universale: una potenza, certo, anche temporale e politica, ma anzitutto ideale e spirituale; che certo deve fare, anche spregiudicatamente, i conti con il potere e con il conflitto politico, e dunque con la dialettica amico/nemico; ma che si legittima in ordine alla sua virtualmente universale inclusività. Senza forzar troppo l’analogia, si può dire che Cacciari assegna all’Europa da lui auspicata la missione di diventare un Impero Spirituale Universale, così replicando, nella dialettica con gli USA, l’altro polo geopolitico imperiale occidentale, la funzione che la Chiesa cattolica svolse nella dialettica con il Sacro Romano Impero. Europa-Chiesa, USA-Impero, con relativa lotta per le investiture.

Se la mia analisi della proposta di Cacciari è corretta, la risposta alla domanda “è possibile dare forma all’Europa combinando le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità?” è obbligata, ed è “Assolutamente no, almeno non in questa forma.”

Mi spiego. Non c’è il minimo dubbio che il cristianesimo sia universalista: chiara come il sole l’affermazione di S. Paolo, che “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”[3] Vera, o almeno storicamente plausibile benché parziale, la tesi secondo la quale l’universalismo cristiano è la principale forza ideale sradicante che ha dissolto i legami della stirpe, del suolo, dell’ethos della polis antica. E’ per questa ragione che un pensatore di grande statura come Alain de Benoist si dichiara “pagano”: non perché sacrifichi a Zeus, ma perché, in nome della comunità e della tradizione, rifiuta l’universalismo cristiano, che considera omologo al mondialismo, al liberalismo e al capitalismo, nichilisti e dissolventi. Ed è per questa ragione di fondo che mondialismo ed europeismo trovano oggi l’appoggio politico e culturale del papa e della Chiesa cattolica: un appoggio che, come dimostra anche il discorso di Cacciari, vale, per dirla con Stalin, “molte divisioni”, anche se il cattolicesimo odierno non ha più il peso culturale e politico di quando principali promotori della UE erano esponenti cattolici come De Gasperi, Schumann, Adenauer.

Però, c’è un però. La trasposizione dell’universalismo cristiano in universalismo politico è un caso di scuola di “immanentizzazione dell’eschaton”, cioè di trasposizione sul piano immanente, storico, di un fine sovrastorico e anzi trascendente: appunto, escatologico. Per farla breve, del tentativo di realizzare in Terra il Regno dei Cieli,  dove l’uomo comprenderà e controllerà il mondo come Dio la realtà, e dove la tentazione del Serpente nel giardino dell’Eden si rivelerà come promessa veritiera: “Eritis sicut dii, scientes bonum et malum”. E siccome saremo, naturalmente, dèi buoni e misericordiosi oltre che onnipotenti, ogni conflitto cesserà, la concordia regnerà, e il leone giacerà con l’agnello.  Il maggiore studioso dello gnosticismo politico – perché di questo si tratta: della traduzione politica di una corrente di pensiero gnostica – è Eric Voegelin[4], e alle sue opere rinvio il lettore.

Sul piano teologico, l’appoggio che papa e Chiesa cattolica danno a progetti politici gnostici come il mondialismo e l’europeismo dipende da quella che Romano Amerio[5] definisce “dislocazione della divina Monotriade” (la Monotriade è la SS. Trinità). Che cosa intende con questa formula il grande teologo cattolico svizzero-italiano? Nella sua opera maggiore, Iota unum[6], Amerio scrive che “alla base del presente smarrimento [della Chiesa cattolica] vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. […] Come nella divina Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal pensato. Se si nega la precessione del pensato dal vissuto, della verità dalla volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade”.

Tento una breve illustrazione del denso concetto di Amerio. Il Credo Niceno-Costantinopolitano recita: “Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, Factorem cæli et terræ, visibilium omnium et invisibilium, Et in unum Dominum Iesum Christum, Filium Dei unigenitum et ex Patre natum ante omnia saecula: Deum de Deo, Lumen de Lumine, Deum verum de Deo vero, genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt; qui propter nos homines et propter nostram salutem, descendit de cælis, et incarnatus est de Spíritu Sancto ex Maria Vírgine et homo factus est […]Credo in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filióque procedit, qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per prophetas.”

Sul piano filosofico, Dio Padre corrisponde all’Essere, alla Realtà (“Io sono Colui che Sono/E’” risponde il roveto ardente alla domanda di Mosè). Il Figlio “generato e non creato, della stessa sostanza del Padre” è il Logos, la Verità e la Ragione, e lo Spirito Santo “che procede dal Padre e dal Figlio” insieme (Filioque) è l’Amore, la Carità “vivificante”. I rapporti interni all’ “Ente primo”, alla “divina Monotriade”, sono dunque i seguenti: Essere/Realtà e Logos/Ragione/Verità sono consustanziali: il Logos/Ragione/Verità è generato, non creato dall’Essere/Realtà. Dio Padre non decide arbitrariamente, con un puro atto di volontà, che cosa sia bene o male, o se il fuoco debba esser caldo o freddo (così ritiene invece, ad esempio, la teologia islamica). La Ragione e la Verità, e dunque anche la ragione e la verità accessibili all’uomo, sono consustanziali all’Essere e alla Realtà. Dal loro rapporto intrinseco e consustanziale nella SS. Trinità “procede” lo Spirito Santo, l’Amore/Carità; come, per analogia, dal rapporto vero e necessario tra realtà e ragione procedono, per l’uomo, il vero amore e la vera carità. Questa definizione dogmatica della SS. Trinità fonda la possibilità e la necessità dei preambula fidei, la “religione naturale” che i padri della Chiesa riconobbero nella filosofia platonica e aristotelica, parzialmente integrandole nella dottrina cattolica.

Nella formulazione di S. Tommaso: “Veritas est adæquatio rei et intellectus”. In un linguaggio più moderno, si può dire che la verità è inscritta nella realtà oggettiva del creato come Logos, come ordine e ragione, che l’intelletto umano può riconoscerla e “adeguarvisi” perché la natura umana è “consustanziale” alla realtà/verità come la Seconda Persona della SS. Trinità è consustanziale alla Prima, e che la libertà dell’uomo consiste nella facoltà di riconoscere e adeguarsi alla verità/realtà oppure no (libero arbitrio). Si noti bene, però, che quando sceglie di non “adeguarsi al vero”, l’uomo sceglie il falso e il male, che essendo “privatio boni” (S. Agostino) non fanno parte della realtà, dell’essere e dell’ordine. L’adesione, la  adæquatio alla realtà/verità, è dunque adesione, adæquatio alla Legge divina, che è anche il Logos, l’ordine del creato. E’ dal rapporto tra Essere/Realtà e Logos/Ordine che “procede” l’Amore, la “caritas” che può sussistere soltanto “in veritate”, come recita il titolo dell’enciclica di Papa Benedetto XVI.

Per riassumere: non c’è amore senza ordine, non c’è carità senza verità, non c’è misericordia senza legge. E di conseguenza: l’amore disordinato è falso amore, la carità senza verità è falsa carità, la misericordia senza legge è falsa misericordia. La libertà non è una “parola vuota”, come dice Cacciari; è ciò che consente all’uomo di scegliere tra ordine e disordine, verità e falsità, legge e colpa/peccato. Analogicamente: come la Legge divina, con i suoi necessari correlati di divino imperio ed eterna condanna, consente il dispiegarsi della divina Carità, così la legge umana, con i suoi necessari correlati di comando e sanzione, consente il dispiegarsi dell’umana fraternità e solidarietà, anche politica.

Ecco perché Romano Amerio ha intitolato la sua opera teologica maggiore Iota unum, citando sin dal titolo il passo evangelico in cui Gesù afferma: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto.” [7]

La “dislocazione della divina Monotriade” di cui parla Amerio, insomma, consiste nel mettere l’amore al posto del Logos, la volontà prima dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento sopra la ragione.

La stessa identica “dislocazione” avviene, sul piano culturale, politico e sociale, nella presente civiltà capitalistica liberale occidentale. Dove non è difficile vedere come a) la legge è puramente positiva: procedurale, convenzionale e funzionale, senza rapporto “consustanziale” con la verità e la realtà, dal che consegue che, non esistendo nulla di simile alla “legge naturale”, la si può modificare indefinitamente, per consenso o con atto d’imperio b) la libertà liberale è affatto arbitraria, e dipende da una scelta insindacabile della volontà soggettiva, limitata soltanto da considerazioni di utilità, opportunità e funzionalità: il vaghissimo “non ledere la libertà altrui” (per inciso: è in questo senso che Cacciari ha ragione definendo la libertà “parola vuota”) c) il sentimento, le emozioni e i desideri –  nel linguaggio antico “le passioni” che influenzano la volontà soggettiva – tendono ad assumere valore di diritto: divorzio perché il coniuge non mi fa più battere il cuore, commissiono un bambino perché desidero un figlio, apro le frontiere a tutti perché mi commuovono i bambini migranti, etc.

Ma nel Logos, Ragione e Legge divina, si può identificare il katéchon (κατέχων), “ciò che trattiene” l’Anomos: che escatologicamente è l’Anticristo.

Il testo escatologico, densissimo, di San Paolo è il seguente: “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene.[8]

La densità e l’ambiguità di questo brano, rivolto alla comunità cristiana di Tessalonica turbata da voci che davano per imminente la Parusia (il ritorno del Cristo in gloria, “per giudicare i vivi e i morti”) hanno generato un’infinita messe di interpretazioni del katéchon non solo teologiche, ma di filosofia della storia e di filosofia politica. Non sono in grado, per ragioni di competenza e di spazio, di riassumerle tutte. Molto nota e rilevante l’interpretazione di Carl Schmitt ne Il Nomos della Terra (1950)[9]. Per Schmitt, non esiste bene – bene comune politico – senza ordine. Per lui, il katéchon è la forza, non solo spirituale ma anche temporale, che impedisce al disordine di insinuarsi nell’ordine e disgregarlo. La facoltà del sovrano di intervenire in difesa dell’ordine decidendo lo stato di eccezione corrisponde alla facoltà divina di compiere miracoli, sospendendo la legge naturale. La Chiesa cattolica, vettore e garante del dogma, che è legge divina, è certo la componente spirituale del katéchon, mentre una incarnazione storica del suo aspetto temporale è senz’altro il Sacro Romano Impero. In Terra e Mare (1943)[10] Schmitt sembra individuare come katéchon ogni potenza statale che arresti la marcia del mondo verso l’anomia globale. Qui[11] una brevissima  sintesi dell’analisi schmittiana.

Cacciari, studioso di Schmitt,  ha dedicato al katéchon approfondite riflessioni sparse in diverse sue opere, ed espressamente un recente libro intitolato Il potere che frena[12].

Tento di riassumere l’interpretazione di Cacciari, ribadendo la premessa che non sono né teologo né filosofo. Una discussione seria di questi temi è over my paygrade, e mi cimento nel tentativo solo perché, in modo invero sbalorditivo, l’attualità politica più immediata e cronachistica esige almeno un tentativo di comprensione.

Nella sua opera maggiore Dell’Inizio[13] Cacciari scrive “Essere-creato è simultaneamente peccare […] ed è perciò che nell’uomo appena creato Dio punisce il peccare, ab initio” […] “La caduta degli Angeli è simultanea alla creazione, la catastrofe celeste è tutt’uno con la katabolé-ktisis per cui qualcosa ek-siste”, che è un buona formulazione della prima e fondamentale tesi del pensiero gnostico: che il mondo, e l’uomo nel mondo, sono frutto di una caduta, di una frattura; l’intera realtà in cui ci troviamo è una realtà d’esilio. “La ‘regio umbrae mortis’ che abitiamo è immagine soltanto [..] di quella tenebra in cui è Dio nei confronti di sé, della conoscenza di sé […] Dio riflette la propria incatturabilità: non può vedersi. Ma nell’istante in cui così si ‘riflette’, egli crea l’immagine stessa della creatura, la sua immagine. Il sapersi come tenebra da parte di Dio (cioè: l’attingere il fondo della propria ignoranza) è l’uomo”.  Poiché la creazione intera è l’errore di un Dio oscuro a se stesso, analogo al cattivo Demiurgo gnostico, il “futuro Regno” promesso da Cristo “equivale al suo [dell’uomo] nientificarsi: la nuova creazione è in realtà de-creazione”.

In altre parole, la dissoluzione è la salvezza. Secondo il paradigma gnostico, diritto, legge, istituzioni in genere devono essere abbattute, perché, appunto, la salvezza è la dissoluzione: “[Gesù] sembrava citare Ezechiele, ma in realtà diceva: io sono la porta attraverso cui dovrete uscire dal recinto – voi mi seguirete fuori dall’ovile [l’ovile della Legge] e questo sarà il vostro esodo vero.” […] “Come dobbiamo pensare l’Età del Figlio, se in essa durano Nicodemo e Pilato?” Cioè se dopo Cristo vigono ancora la Legge ebraica e lo jus romanum, la Legge sacra e quella civile, la Chiesa e i codici penali? Gesù non ha riscattato l’uomo dalla “ontologica miseria della Legge per cui essa è sì contro il peccato, ma ne è sempre anche una sua conseguenza, per cui essa è costretta a riconoscere la prepotenza del peccato.”

Quando Gesù dice: “Amatevi come Lui vi ha amato […] afferma, al presente, l’impossibile. La pienezza del comandamento è oltre ogni misura di quanto è realizzabile in questa Età.” Quando dice: «Amate i vostri nemici […] il nudo fatto, che si dà [ancora] nemico, è pre-potente rispetto all’amore […] puoi anche amare il tuo nemico, mai annullarlo.” Ma soprattutto, il Figlio ha detto che “nessuno, nel Presente, può dirsi buono, che non possono esservi, in esso, ‘teleioi’ [ossia gnosticamente ‘perfetti’] cosi radicalmente che neppure il Figlio si chiama ‘buono’”. Insomma: ciò che Cristo ci ha lasciato è una “fede radicalmente infirma […] che non può eliminare la struttura di peccato, la fede di chi non è ‘giusto’”.

La stessa Parola di Gesù, dunque, rimanderebbe a una rivelazione ulteriore, definitiva e perfetta, che Cacciari chiama “il tempo dell’Ultimo”.

Gesù Cristo non ha salvato l’uomo. Dobbiamo aspettare un altro liberatore. Fin qui, Cacciari ripercorre, seppur deviando spesso, il sentiero di Gioacchino da Fiore[14], con le sue tre età della storia terrena: l’età del Padre (ebraismo, Antico Testamento), l’età del Figlio (cristianesimo, Nuovo Testamento) e l’età dello Spirito Santo (età della rivelazione/apocalissi dell’Amore).

Ma chi è, per Cacciari, l’altro liberatore, il liberatore definitivo, “l’Ultimo” che verrà nel Tempo escatologico, di apocalisse, di cui Gesù è il mero annunciatore? “…perché il vero scandalo […] è […] che l’apocalisse del Figlio non abbia assunto in sé, nel suo stesso kairòs, l’apocalisse dei figli”, che Cristo non ci abbia “rivelati a noi stessi» (tale è il senso di ‘apocalypsis’). “Rivelati nella nostra natura di figli” significa “rivelati nella nostra natura di liberi, assolti da ogni Legge”.

Affrontando il tema escatologico per antonomasia, Cacciari deve interpretare anche il passo paolino sul katéchon. “Si tratta di ben altro che del semplice bisogno di fronteggiare le impazienze apocalittiche delle prime comunità […] si tratta di salvare l’incalcolabilità dell’éschaton, e dunque […] della Vita intradivina, dalla sua riduzione a forme secolarizzate di messianismo… viene l’antikeimenos, lo spirito della separazione: separazione dalla Legge […] Ma il suo contrapporsi e separare, il suo dia-bàllein (egli viene infatti secundum operationem Satanae, potenza che separa) […] non si configura affatto come un semplice ‘distruggere’ Dio. Egli non proclama affatto che ‘Dio è morto’, ma mostra se stesso come Dio.” Egli seduce con un “discorso che appare non soltanto estremamente prossimo al vero Annuncio, ma, addirittura, sua piena esplicazione. Egli predica, infatti, la libertà dalla Legge come libertà assoluta.[15]

Per concludere: il Filium Perditionis, l’Anticristo, L’Anomos è l’Ultimo Liberatore. Egli e non Cristo compirà la Liberazione, rivelerà l’essenza divina come “pleroma dell’abbandono”. Opposto a Cristo anche se “quel polo opposto alla Croce, la sua pura possibilità […], è indicato dalla Croce stessa” perché “se il Figlio ‘libera’, libera anche questa possibilità: la radicale negazione di sé è a priori possibile per il pieno erede.”

La Chiesa è incapace di capire la verità esoterica nascosta nella Buona Novella, e combatte l’Anticristo, non accettandolo come il vero Paraclito annunciato da Cristo. Ecco perché Cacciari, in un’intervista[16] a Maurizio Blondet allora inviato di “Avvenire”, poi raccolta in volume[17], esclamò a proposito di papa Giovanni Paolo II: “Il papa deve smettere di fare il katéchon!”

Conclusione provvisoria

Dopo questa analisi sommaria, che spero non avrà troppo stancato il lettore, credo si capiscano meglio alcuni punti chiave del discorso di Cacciari.

Nazioni e popoli “sono balle” perché sono realtà storiche particolari e transeunti, piccoli katéchon destinati ad esser travolti dal moto metastorico inarrestabile che sospinge il mondo verso l’apocalissi, la rivelazione ad opera dell’Anomos della nostra natura di figli, liberi dalla Legge e degli ordini civili, dalle istituzioni ecclesiali, politiche e giuridiche che fanno da katéchon, cioè “trattengono” la manifestazione dell’amore e della fraternità universali.

Libertà “è una parola vuota” perché si riempie di senso soltanto se siamo liberi di riconoscere e aderire alla verità, e la verità non è il logos, non è la legge, ma è il niente e l’amore, aspetti complementari della stessa realtà “anomica”.

Il “Logos inclusivo” della “democrazia davvero rappresentativa” non è il Logos/ragione/ordine, non è la Seconda Persona della SS. Trinità. Il Logos inclusivo della democrazia davvero rappresentativa “è infinitamente più forte della parola solipsista dei nazionalismi” perché è il logos dell’Anomos, il logos della liberazione dalla Legge, dalle istituzioni, dall’ordine civile: il logos dell’Ultimo Liberatore, al quale soltanto il katéchon, sinora, resiste. Ma il katéchon sempre più allenta la sua presa, e le catene che imprigionano il Liberatore cominciano a spezzarsi: come suggeriscono le dimissioni di papa Ratzinger.

“La Chiesa si è sempre caratterizzata anche per la sua capacità di “tenere a freno”, di arrestare – come si legge in San Paolo – l’avanzata delle forze anticristiche. Bisogna quindi chiedersi se la decisione di Ratzinger non sia una lucida dichiarazione di impotenza a reggere una funzione di ‘potere che frena’. Ratzinger dice: continuerò a essere sulla croce, facendo salva la dimensione religiosa, che rimane. Ma la dimensione del potere che frena dove va a finire? Simbolo della Chiesa è, assieme, Croce e katéchon ( la figura ben presente nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi di San Paolo: potere che frena l’avanzata dell’Anticristo, ndr). Il segno di queste dimissioni, a saperlo vedere in tutta la sua prospettiva è dunque davvero grandioso… Potremmo ipotizzare che Ratzinger si dimette perché non riesce più a contenere le potenze anticristiche, all’interno della stessa Chiesa. Come diceva Agostino, gli anticristi sono in noi. Questa è una chiave per la decisione di Ratzinger, se vogliamo leggerla in tutta la sua serietà. La sua decisione fa tutt’uno con la crisi del politico, del potere che frena.”[18]

Mi fermo qui. E’ un discorso che dovremo riprendere, perché come mi pare si possa già scorgere con chiarezza, il momento storico presente è davvero un momento di crisi e trapasso epocale, in cui alzano la voce nel campo di battaglia politico e mediatico domande che sinora si ponevano nel Kampfplatz filosofico, per dirla con Kant; o nell’arena teologica. L’Europa – l’Europa oder Christenheit, ma anche l’Europa ovvero Illuminismo, l’Europa ovvero nichilismo, eccetera – si interroga su se stessa, e lo fa, con l’umiltà dei grandi, coram populo, in mezzo alla strada, sugli schermi delle televisioni e dei pc, sulle pagine dei giornali e nelle discussioni tra amici e avversari. Prestiamo attenzione.

 

 

 

 

 

 

[1] E’ il titolo di un celebre scritto di Novalis (Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg), elaborato nel 1799 e letto dall’Autore al Circolo Romantico di Jena, a un pubblico del quale facevano parte Schelling e Goethe. Fu pubblicato nel 1826 per iniziativa di Schlegel. E’ uno dei testi seminali del romanticismo europeo. V. https://it.wikipedia.org/wiki/La_Cristianit%C3%A0,_ovvero_l%27Europa

[2] Ne parlo più diffusamente qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

[3] Galati 3,28

[4] https://en.wikipedia.org/wiki/Eric_Voegelin

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Romano_Amerio

[6] Iota unum. Studio delle variazioni Della chiesa cattolica nel secolo XX, Lindau, Torino 2009, a cura di Enrico M. Radaelli.

[7] Matteo 5,17

[8] Seconda lettera ai Tessalonicesi, 3-7

[9] Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi 1991 (sesta ed.)

[10] Carl Schmitt Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, traduzione di Giovanni Gurisatti, Milano, Adelphi 2002 (settima ed.)

[11] https://philitt.fr/2017/10/23/le-katechon-selon-carl-schmitt-de-rome-a-la-fin-du-monde/

[12] Massimo Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano, Adelphi 2013 (settima ed.)

[13] Massimo Cacciari, Dell’inizio, Milano, Adelphi 1990 (terza ed.)

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Gioacchino_da_Fiore

[15] Sottolineatura mia.

[16] https://www.esonet.org/massimo-cacciari-ii-papa-deve-smettere-di-fare-il-katechon/

[17] Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione, Effedieffe ed. 2013

[18] Intervista a Massimo Cacciari, http://www.vita.it/it/article/2013/03/11/cacciari-il-nuovo-papa-dovra-sfidare-lanticristo/122928/

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