Vincenzo Costa, “L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl”_a cura di Alessandro Visalli

Il libro di Costa è del 2023, decisamente un anno di crisi.

Legge questa crisi attraverso la rilettura, tagliente e militante, di un altro libro della Crisi. La “Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale[1] di Husserl, determinando a sua volta un testo difficile, costantemente in bilico, che cerca la traccia di una lettura, la quale al contempo tradisce/rispetta il testo. Nel quale testo è, in altre parole, cercato un filo interno in grado di leggerlo alla luce del più alto presente al prezzo di qualche tradimento. Mi pare che la chiave sia la tensione a muoversi su un confine esile, un’aporia chiaramente espressa. È, insomma, un libro politico dall’inizio alla fine.

Si tratta degli unici libri che vale la pena di leggere.

Tutto il testo è compreso nell’impossibile obiettivo iniziale: “interrogarsi sull’Europa significa, da un punto di vista filosofico, chiedersi quale sia la sua identità, che cosa la distingua da altre culture[2]. Domanda pienamente legittima, chiaramente, ma dalla risposta quanto mai difficile. Ora, l’interpretazione di Husserl a questa domanda (alla quale si potrebbe rispondere, semplicemente, che a distinguerla è la sua storia, ovvero che non si distingue) riecheggia temi del tempo: “l’Europa non è una storia, ma è la domanda stessa sulla storia”.

 

Incontrare un testo (nella fattispecie “La Crisi” di Husserl) significa avvertirne il distacco e l’alterità, la distanza, e proporre al lettore quali domande ci siano nel frattempo diventate estranee, ma, al contempo, lasciarsi attraversare dal testo. In modo che, riguardando l’oggi a partire dalla traccia degli anni presenti nelle pagine ri-lette, sia possibile esserne dislocati.

L’obiettivo della lettura di Costa, ovvero la dislocazione che intende provocare, è quindi ben chiaro. Si tratta di svuotare quella idea di un senso che si dipana nella Storia, che fa tanta parte della tradizione Occidentale (provenendo dall’escatologia ebraica e poi cristiana, molto più che dai greci, a mio parere) e che trova una sistemazione nella narrazione teleologica hegeliana (formatosi come teologo, come si sa) e poi marxiana. Il problema è che se si oltrepassa l’escatologia, anche nella forma secolarizzata, diviene vuoto l’avvenire. Per questo la nazione più intensamente religiosa dell’Occidente, la più fondamentalista, è anche quella che si aggrappa con tutte le forze al suo avvenire, rischiando di precipitare il mondo intero nel vortice delle guerre pur di non rinunciarvi.

 

Questo obiettivo rilegge/tradisce lo stesso testo della “Crisi”, in quanto ancora implicato, se pure con alcuni spostamenti, con quella idea che interessa l’intero Ottocento europeo (secolo di massima forza del continente), per il quale la stessa Europa è il luogo nel quale la Ragione si dispiega.

La mossa più semplice, davanti a questa hybris, è quella di Lévi-Strauss, in “Razza e storia[3], che senza esitazioni la qualifica come ‘eurocentrismo’. Un’accusa la quale si dispiega in una diversa temperie storica, a partire da quegli anni Cinquanta del Novecento in cui la sconfitta del continente nelle due guerre mondiali definì la perdita della centralità ed il confronto con l’orrore dell’olocausto. Inoltre, anni in cui prese forza il movimento decoloniale, in parte spinto e favorito dalla lotta tra i due blocchi[4].

Il Levi-Strauss citato da Costa afferma infatti nel 1952 che ‘progresso’ e ‘storia cumulativa’ hanno senso solo se le civiltà seguono lo stesso percorso, la stessa direzione. Se risultassero orientate diversamente e in tale direzione accumulassero esperienze, allora apparirebbero rispettivamente stazionarie. La linea di sviluppo che una perseguirebbe non significherebbe nulla per l’altra. Ad esempio, una civiltà che valorizza lo sviluppo tecnico vedrebbe come statica una che attribuisse valore alla consapevolezza del rapporto con la natura, e viceversa.

Ma a questa cruciale obiezione dell’antropologo, che inclina, come Boas e Mead[5], a forme di relativismo culturale per le quali ogni civiltà è semplicemente diversa ed unica, e può essere giudicata solo nei propri specifici termini, vanificando qualsiasi possibilità di giudizio di valore, Costa obietta, in quello che mi pare in fondo il centro del testo (con uno straordinario “e tuttavia,” di incipit):

 

“e tuttavia, negare la teleologia non è senza rischi, poiché non si può abbandonarla senza pagare un prezzo: quello di scadere in un cieco empirismo e abbracciare un mero relativismo storico al cui interno ogni cultura va bene. All’interno di questo relativismo l’incontro stesso tra le culture non può neanche accadere perché culture differenti sono incommensurabili, e quindi, l’incontro deve semplicemente fare spazio a una sorta di indifferenza culturale e di tolleranza negativa. Non esiste la storia, allora, ma soltanto uno zoo di culture.

La negazione dell’idea di teleologia si risolve allora in una dissoluzione della nozione di verità e di ragione. A essere più precisi, essendo essa stessa eurocentrica, non deve essere la nozione di verità a guidare l’incontro tra culture. Il prezzo da pagare quando si abbandona la nozione di teleologia consiste nel rendere impossibile ogni critica razionale, persino la nozione stessa di dialogo razionale, dato che ogni cultura è un sistema chiuso e incommensurabile rispetto ad altre culture”[6].

 

 

Da qui muove la proposta che Costa recupera in Husserl. La teleologia, che non si può abbandonare senza affrontare l’horror vacui, può essere solo intesa al modo di Hegel come dynamis, nel quale la meta è contenuta nell’origine? Quando un seme contiene la pianta, e l’incompiuto deve compiersi attraverso sia pure conflitti e negazioni? Non è possibile intenderla come possibilità?

Se la potenza non è un atto che deve compiersi, ma, piuttosto, un ambito di virtualità al quale si può attingere, se, in altre parole, “l’atto fa essere la potenza”. Allora, storia e verità sarebbero in un diverso rapporto tra di loro, contingente.

Recupera significa anche tradisce, perché come immediatamente avverte l’autore, in Husserl ci sono abbondanti tracce di una visione del destino come compimento, ovvero di una storicità pura, che non si può che qualificare come etnocentrica. Per sfuggire bisogna tradire il testo nel punto in cui immagina la storia come un processo cumulativo e come approssimazione alla verità. Nel punto in cui, recuperando la tradizione scientifica che imbibisce ogni aspetto della cultura Ottocentesca nella quale Husserl si è formato, alla fine la verità è oggetto e rappresentazione e le teorie sono comunque rispecchiamento della realtà, pur non adeguandosi mai completamente ad essa.

 

Una concezione che, seguendo la critica del testo, presuppone inevitabilmente una ragione antistorica e quindi indipendente dai modi di espressione. Viceversa, “ogni cultura determina l’orizzonte teleologico a seconda da ciò che essa pone come modello di civiltà”[7]. La teleologia è, dunque, essa stessa un prodotto storico (un prodotto non solo di ogni ‘civiltà’, quando di ogni epoca storica, e, si potrebbe aggiungere, di ogni prospettiva pratico-disciplinare entro essa, se non si temesse di disintegrare l’oggetto – come forse merita – ). Se ogni epoca ha la sua storia (ed ogni civiltà ne ha una), allora ci si riavvicina a Boas e Levi-Strauss, restando distanti solo per una sorta di umanesimo che innerva l’intero testo. Ovvero per l’assenza di quel pessimismo radicale ed anti-antropocentrico, anti-umanistico e irreligioso, che caratterizzava il grande studioso belga. Certo, l’eliminazione della storia determinata da un proprio telos, in favore della contingenza (ma di una contingenza a sua volta necessaria, in quanto piena e capace di autoconferma) e del caso, impedisce di riconoscerlo ex ante, ma lo consente solo ex post (qui si potrebbe richiamare il Lukacs della “Ontologia[8]).

Il telos è, nella lettura della “Crisi” di Costa, tuttavia costantemente indeterminato, privo di un criterio ultimo, e di unità e necessità. È per questo che “è possibile interpretare il testo husserliano senza assumere una prospettiva archeo-teleologica”. Ed è possibile scegliere la traccia di questa lettura, tradendo altri contenuti del testo e la stessa “intenzione” dell’autore e del suo tempo, ovvero “trascurando molti passi testuali che contesterebbero la nostra lettura e confermerebbero l’appartenenza di Husserl alla metafisica della presenza, del senso e dell’identità tra ragione e storia”[9]. Qui si aprirebbe, insomma, una contraddizione nel testo tra l’idea tradizionale che l’uomo, in quanto essere razionale, perviene a sempre maggiori gradi di auto-riflessività (per cui, ad esempio, il nostro grado di auto-riflessività sarebbe superiore a quello delle generazioni che ci hanno preceduto, sarebbe a dire greci inclusi), dall’altra quella che il telos si vede solo a cose fatte e non può essere determinato anticipatamente; per cui in assenza di un criterio astorico non resta che l’interpretazione prima ricordata.

Ma allora, che cosa rende possibile l’unità di ragione e storia, senza l’idea di progresso? Per Costa la verità è sempre assente e differita, e quindi la ragione è solo la ricerca di un obiettivo che si sottrae. Più esattamente è la coscienza di questo impossibile afferrare ciò che si differisce costantemente. Ovvero è la coscienza della distanza dalla verità, dell’impossibilità di padroneggiare, una volta e per sempre, questo differirsi. Ma questa coscienza sarebbe l’Europa.

 

Con le parole stesse del testo:

 

“l’Europa sarebbe allora la coscienza del sottrarsi della verità, del suo infinito differirsi, e proprio in questo consisterebbe il suo valore ‘universale’. Al contrario, essa ricade al di qua di sé stessa (ricade nel mito) tutte le volte che si autorappresenta come depositaria di valori universali e come punta avanzata della storia della ragione. La coscienza della distanza dalla verità diviene presunzione di essere la depositaria della verità.”[10]

 

 

E’ del tutto palese, in questa posizione, estratta a forza, per così dire, dal testo della “Crisi”, l’obiettivo che si spende nei conflitti del presente. In questa fase in cui l’universalismo Occidentale, di derivazione escatologica, si fa parodia di se stesso nello sforzo di sovraestendersi in una posa imperiale. L’accusa che Costa dirige a questa postura, e che sarà più chiara nel suo successivo e più esplicito libro “Categorie della politica[11], è di tradire lo stesso Occidente, ovvero la sua segreta identità più autentica. Lungi dall’essere la difesa dei valori occidentali contro l’aggressione di civiltà ‘autoritarie’, la postura che un declinante potere imperiale anglosassone ha preso e prende verso la richiesta di protagonismo[12] avanzata dal resto del mondo è un tradimento dello stesso Occidente più autentico.

Lo scopo politico è farla finita con la vecchia, in verità antica, idea che solo l’Occidente è la casa della ragione e gli altri sono ‘barbari’ che possono divenire solo noi, se vogliono evolvere. L’idea, in altre parole, che la storia universale è quel processo in cui alla fine tutti sono europei (o, con Hegel, prussiani). Invece, per Costa, la storia universale (già questo singolare fa problema) è un processo (altro singolare) in cui si dà contaminazione, innesti, dialoghi, scontri e incontri, davanti alla ricerca a volte cooperativa di una verità che si sottrae per tutti. Il punto di attacco, che rende intelligibile ed anche condivisibile il libro, è che il nuovo eurocentrismo si presenta come quella forma di universalismo che, in quanto astratto, si impone dissolvendo tutte le tradizioni culturali, a partire da quella stessa dell’Occidente ben inteso.

 

Resta poco chiaro, un residuo husserliano direi, perché questa descrizione della consapevolezza del sottrarsi sarebbe europea, anzi sarebbe il lascito dell’Europa al mondo. Poco chiaro in due sensi: perché richiama l’Europa ad un’idealizzazione di alcuni pensatori aristocratici greci del IV secolo a.c.[13], riletta attraverso il lungo medioevo islamico ed europeo ed il filtro dell’Ottocento tedesco (che aveva il problema di sottrarsi al latino); perché, oltre a dimenticare il cristianesimo e il lascito romano, questa idealizzazione trascura le altre grandi culture che hanno rapporti con la verità altrettanto complessi. Peraltro, per fare una battuta su problemi di altissima complessità (e specializzazione), anche gli arabi sono ‘greci’ e, in ogni caso, i ‘greci’ non sono europei (in quanto sono contaminati assai profondamente dalle grandi culture antecedenti, egiziana e persiana[14], oltre che indiana).

 

Lo stesso Costa lo ricorda quando scrive “dobbiamo chiederci se questa caratteristica [la ricerca della verità che si sottrae] sia riservata alla cultura europea o se, in forme differenti, non costituisca l’orizzonte di ogni cultura”[15]. La mia risposta è . Rispondere no, peraltro, fa ricadere inevitabilmente nella posizione eurocentrica; se non altro attraverso il sottile velo del maieuta (già in Socrate orientato sottilmente allo scopo di ricondurre l’altro della democrazia al discorso degli aristoi). Ovvero del maestro che conduce i popoli bambini alla comprensione adulta. D’altra uscire da se stessi è sempre difficile, anche lo stesso Levi-Strauss fu criticato da Edward Said perché senza volere descrive le altre culture usando la sua tecnica che è intrinsecamente etnocentrica[16].

 

Il testo di Husserl è interessante perché reca in sé il travaglio di un momento di messa in questione della forma prima di universalismo imperiale europeo, innestato sul monopolio presunto e rivendicato del progresso tecnico-scientifico che rappresenta la crescita in sé evidente. Un processo quindi di tecnicizzazione della ragione e di sua unità. La crisi di cui parla il libro degli anni Trenta è quindi in primo luogo la disgregazione di questa unità e naturalezza. Unificazione dei tre trascendenti di Vero, Bello e Bene e dell’orizzonte di attesa, ovvero dell’escatologia (idea tratta dal mondo ebraico-cristiano, tuttavia). Quel che accade nel crogiuolo della crisi europea (ovvero del disastro delle due guerre civili e della perdita della centralità, con il sorgere di potenze extraeuropee, come gli Usa e il Giappone) è la perdita del senso della direzione. O, in altre parole, degli orizzonti di attesa.

Qui la soluzione si affaccia come mantenersi desti nella differenza, capire la crisi come oblio (dell’identità autentica dell’Europa) anziché tramonto (alla Spengler). Non concepirsi come privi di legami e quindi liberi, ma situati in una tradizione che radica la libertà oltre il mero principio di piacere. Oltre quell’orgiastico che reagisce alla perdita di senso in una fuga aristocratica (Costa tornerà su questo tema nel libro successivo) alla Bataille.

Come accade con la cultura cinese, con l’antica nozione di Dao, o a quella indiana con Brahma, non si tratta di raggiungere un fine, quale esso sia, ma restare aperti alla ricerca sapendola sempre relativa e incompleta. Il punto è che se si trascura questo dinamismo e si confonde il sapere con la verità, immaginandosi in possesso della chiave dell’universale una volta e per tutte, si ricade nel mito. Si perde l’origine e si dimentica se stessi.

 

Ciò che stiamo facendo è dunque dimenticarci.

 

Il telos (ora lasciamo pure perdere se è Europa, o se questo è un nome per designare un atteggiamento ed un lascito che non è solo ‘nostro’) sarebbe dunque la coscienza della differenza tra sapere e verità.

Questo telos che sarebbe proprio della fondazione greca. O, per meglio dire, della dinamica più propria dell’esperienza greca. Anzi, dell’esperienza della filosofia greca post-socratica. Ma “Grecia”, avverte il testo, “non significa una cultura determinata ma un atteggiamento”, essa “allude a uno strato di esperienza presente, in maniera latente, in ogni cultura”[17].

Lasciando da parte la domanda che scaturirebbe ovvia a questo punto, perché chiamare questo idealtipo con innumerevoli applicazioni “Grecia”, quando questa si dissolve avvicinandosi[18], il punto è che noi non rappresentiamo il mondo come è, ma viviamo piuttosto nella sua apertura. Ovvero abitiamo nel sistema di differenze che lo costituisce. Ricordando Hegel e la nozione di negazione determinata, e quello di contesti di volta in volta determinati, noi stessi dobbiamo concludere l’essere costituiti quali nodi di una certa epoca. La ragione stessa non è dunque assimilabile ad una sorta di Grande Dibattito (come forse vorrebbe Habermas), ma piuttosto un movimento dei mondi storici concreti, che situa esistenze, rende possibili natura e cultura di volta in volta situate, apre il senso e crea lo spazio nel quale si gioca. L’idea di verità è solo l’apparire, ogni volta in forme diverse e sotto diverse urgenze e soggettività, del mistero dell’essere (per usare un gergo filosofico) nella sua inesauribilità. La verità è, quindi, rapporto ad un’alterità.

Ma questa posizione, che gioca sul crinale sottile tra un sempre possibile relativismo e il rifiuto delle sue conseguenze, implica anche che, come ogni discorso, la Giustizia dipenda dal contesto.

 

Passando per una decostruzione della nozione di storia universale e di Europa nella prospettiva hegeliana, Costa nega in fondo che, come voleva Derrida, Husserl sia sulla stessa lunghezza d’onda. Per la quale in sostanza l’Occidente è la ragione stessa che si impone al mondo e alla quale tutti gli altri popoli possono partecipare solo nella misura in cui accettano la forma della razionalità che ha trovato forma al termine del percorso della storia, nell’Europa germanica. Quella storia che è unità e dispiegamento e passaggio dalla potenza all’atto. Lo ‘svolgimento’ sarebbe, allora, solo uno srotolarsi di un sé già presente nell’origine e coincidente con la logica. Il Geist (lo spirito) sarebbe insieme razionalità vivente e dinamismo della ragione, ma in esso sarebbe del tutto presente e necessaria la gerarchizzazione delle culture. Qui la famosa tesi dei ‘popoli senza storia’, nei quali lo spirito non ha direzione e quindi resta incapace di crescita.

 

La differenza è che in Husserl “la nozione di verità corrode quella di totalità”, mentre in Hegel:

 

“il telos allude a un incompiuto che vuole compiersi, per cui la teleologia sembra implicare un volontarismo intenzionale, una metafisica secondo cui la realtà pulsa verso una meta. Pertanto, la storia ha un senso solo se vi è un fine/una fine della storia, e si può parlare di telos solo a partire dall’intero, dalla chiusura di questo movimento della fine della differenza tra sapere e verità”[19].

 

 

Ma se, come vorrebbe ancora Husserl, la verità è sempre irraggiungibile, allora ogni epoca ha il suo scopo ultimo e vive nell’anticipazione. La potenza, il nucleo della razionalità, lo stesso movimento del dispiegarsi, e quindi il telos, il destino, viene quindi costruito retroattivamente in ogni epoca del mondo e secondo il suo concetto. Secondo il concetto di emancipazione che serba. Resta ancora una sorta di teleologia, ma senza compimento. In sostanza, se resta un fine dalla storia di cui si può dire, questo è tenere aperta la differenza.

 

Stiamo tornando a Levi-Strauss, ed all’antropologia culturale della sua generazione? In effetti, si articola una forma di relativismo, ma sotto condizioni specifiche. La verità è inattingibile, storica e temporale, dipende dall’epoca, ma non è relativa nel senso individuale. Non è questione di desiderio (come vorrebbe una cultura diffusa in Occidente a partire dal secolo scorso e normalmente etichettata come post-moderna), piuttosto “sono i contesti e non le opzioni soggettive e arbitrarie a fissare le coordinate”[20]. È possibile quindi giudicare in relazione a queste coordinate.

Certo, resta il problema pratico di chi determina le coordinate anche se storicamente date, se qui-ed-ora. Resta il problema che l’apertura è un campo di conflitti. Che le sfide alle quali bisognerebbe rispondere, perché poste dall’epoca, sono centralmente interpretazioni e sono la materia stessa del conflitto per lo spirito del tempo. La sfida che individua la nostra epoca del mondo è quella per l’estensione della libertà del mercato e della razionalità liberale, come vorrebbe una forte linea di interpretazione anglosassone? Oppure è la contaminazione e l’apertura alla pluralità dei mondi in un contesto di legittimazione reciproca? L’emancipazione alla quale tendere è quella degli individui dalle strutture collettive, in modo che sia il mercato a definire il proprio di ciascuno, o delle comunità che sono libere di definirsi secondo i propri specifici termini?

E la storia è sviluppo di questa idea centrale, della democrazia di mercato, o stratificazione di diversi modi di stare in rapporto e di riconoscersi situati? Le diverse forme particolari di questo stare in rapporto con la tradizione, e di restare aperti alla differenza tra i saperi e la verità, tra il giusto e le forme della socialità, sono implicate con il relativismo necessariamente? Per sfuggire all’antitesi tra universale e particolare è sufficiente che si ridefinisca l’universale come apertura all’altro da sé ed al riconoscimento del sé come altro?

 

È possibile che in questo modo si disperda ogni possibile idea di ragione, e ogni forma immaginabile di universalismo. O, forse, che in tal modo ciò che si perde sia solo l’universalismo astratto. D’altra parte, la ‘ragione universale’ è il centro della filosofia occidentale, o della sua antropologia filosofica, e Husserl l’ha sempre tenuta per ferma. Inoltre, l’ha sempre localizzata in Europa, dove la filosofia sarebbe cominciata come “non conoscenza”. Costa qui ricorda l’importante critica che negli anni Sessanta, non per caso nel contesto dei movimenti decoloniali, ha individuato nella filosofia Occidentale stessa la “mitologia bianca”. Una critica che da Derrida non manca di investire direttamente anche lo stesso Husserl, “per Husserl, come per Hegel, la ragione è storia e non c’è storia se non della ragione”[21]. Ed ancora,

 

“la metafisica – mitologia bianca che concentra e riflette la cultura dell’Occidente: l’uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per la forma universale di ciò che egli deve ancora voler chiamare Ragione. Il che non accade senza conflitti”[22].

 

 

Ha ragione Derrida, nel volere mitologica ed etnograficamente definita questa pretesa dell’Occidente di parlare la lingua dell’umanità tutta, o ha ragione Husserl, che individua nella filosofia e nella scienza “il movimento storico della rivelazione universale innata, come tale dell’umanità”? Per il nostro non ci sono alternative, o nella storia europea (non già in quella indiana o cinese, non in quella araba, non altre) si dispiega la ragione stessa, oppure c’è il relativismo culturale. Precisamente scrive: “solo così sarebbe possibile decidere se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta o se non sia un mero tipo antropologico empirico come la ‘Cina’ o l’’India’”[23]. Per cui in un certo senso l’universale vive nel particolare, in noi.

La ragione che Husserl difende è un capolavoro di etnocentrismo e di centralità della propria specifica posizione nella storia: la ragione e la verità universali si incarnano in Europa perché solo in essa si comprende razionalmente il reale tramite la filosofia. Le altre culture non conoscono la filosofia, quindi non hanno accesso al reale e alla totalità. All’obiezione circa l’evidente presenza di testi ‘filosofici’ in altre culture, avanzata al suo tempo da Georg Misch, lo stesso Husserl replicò, come riporta Costa, che “bisogna evitare che la generalità meramente morfologica occulti le profondità intenzionali, non bisogna diventar ciechi di fronte alle differenze essenziali e di principio”. La filosofia occidentale inizierebbe infatti con una “dichiarazione di non conoscenza” e con lo stupore verso un inconoscibile senza rimedio, oltre che con l’apparire della idealità. Ovvero con Platone e Socrate. Momento della storia della cultura greca che segnerebbe “la specificità del nostro essere occidentali”. Questo perché in Grecia nascerebbe la “teoria”, ovvero l’atteggiamento teoretico, un modo di essere del tutto non-pratico, una mera esigenza di verità sviluppata in vista di nessuna utilità.

Piuttosto singolare come spiegazione, nel momento in cui sembrerebbe essere piuttosto il contrario[24]. Ad esempio, il taoismo bisogna orientarsi alla scoperta della legge latente ai mutamenti delle cose, legge che si sottrae alle constatazioni empiriche ma impregna l’universo. L’intima unione con il Tao (o Dao) avviene proprio con il distacco, la rinuncia alle passioni, la Via che non agisce, che è inattiva, non forza la sorte. Oppure la dottrina del maestro Mo Ti (479-381 a.C.), contemporaneo di Socrate, contrapposta a quella di Confucio e del suo allievo Mencio, che prediligeva il culto del Cielo, l’amore universale e la non aggressione e pace tra tutti i popoli in un’epoca di guerra civile[25].

 

Dunque, la storia universale coincide con l’europeizzazione di tutta l’umanità. Ovvero, con l’estensione del modo di abitare il mondo che sarebbe proprio dell’Europa. Con quel modo dell’abitare che sarebbe, cioè, abitato dallo stupore. Quell’atteggiamento che consisterebbe nel rapportarsi a sé stesso come un altro e nutrirsi del decentramento.

Ma, e qui affonda la sua critica Derrida, accolta da Costa se pure con alcune timidezze, “il proprio di una cultura è di non essere identica a sé stessa”; la nozione stessa di “cultura” è un’astrazione e il risultato di una lotta provvisoriamente vinta, di una egemonia. Allora l’identità stessa è provvisoria ed è contaminata. Oppure, in altre parole, “ciò non significa che la cultura non ha una identità, ma semplicemente che una cultura può identificarsi solo attraverso l’altro; non vi è identità senza il gioco delle differenze”[26].

 

Allora cosa si può dire, che rispettare il particolare non può significare altro che tradire l’universale? Come sfuggire a questa aporia. Se si può porre una qualche identità data, quindi un fine, un telos, e se questi hanno un valore universale, allora non ci sono vie di uscita dall’etnocentrismo (in Europa sarebbe un eurocentrismo, altrove sarebbe la pretesa di una via all’umano di volta in volta braminica, cinese, islamica, o sudamericana, e via dicendo). Se, invece, non c’è la possibilità di rivendicare un telos propriamente umano e valido quindi per tutti, allora bisognerebbe concludere che una cultura vale l’altra. Resterebbe preclusa la critica e la cooperazione andrebbe affidata a meccanismi non verbalizzati (come il mercato, o la semplice forza). Con che diritto potremmo intervenire in un’altra cultura che apparisse a noi strana o ripugnante, oppure, ed è lo stesso, con che diritto gli altri sulla nostra?

È certo un problema enorme, e per percepirlo basta entrare in contatto con qualche “altro”, spiando dal pertugio della porta il modo in cui lui vede noi. O, ancora meglio, accorgersi che in ogni ‘altro’ ci sono tutti i conflitti che ci attraversano. Nel più volte condannato mondo persiano, ovvero iraniano, vive un conflitto secolare tra istanze di secolarizzazione, che guardano in parte anche all’Occidente, e istanze religiose nelle quali la tradizione viene continuamente rinnovata. La storia del paese, negli ultimi cinque secoli almeno, è attraversata da questo conflitto ciclico. Si sono succeduti periodi di “modernizzazione” a periodi “tradizionalisti”. Abbiamo quindi il diritto di scegliere per loro quale deve prevalere questa volta? Abbiamo quello di sforzarci di farlo vincere?

Quale è l’identità pura e quale quella contaminata, da loro come da noi?

 

Probabilmente ciò che andrebbe fatto è, qualunque sia l’etichetta che vogliamo dargli, decentrarsi, assumere il punto di vista dell’altro e immaginare il suo mondo. Lasciare anche che questi immagini il nostro e guardarsi nell’immagine.

Per concludere questa breve lettura, l’Occidente idealizzato, ma devo dire davvero difficile da rintracciare (casomai è più facile trovarlo a Teheran o a Pechino), di Costa è quindi quello che è cosciente che il proprio modo di pensare è solo uno tra i molti possibili ed è disponibile a cambiare direzione. È quello che resta cosciente della differenza incolmabile tra interpretazione e verità, ma non per questo cessa di cercarla. E comprende che la ricerca è possibile solo nel decentramento e nella coltivazione dello stupore per l’apertura all’altro da sé, che è possibile perché anche il sé è un altro. Da scoprire.

 

Si potrebbe dire che l’Occidente è migrato via dall’Occidente.

 

 

[1] – Husserl, E., “La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, Il Saggiatore, Milano, 1986 (ed. or. 1954).

[2] – Costa, V., “L’assoluto e la storia”, Morcelliana, Brescia, 2023, p. 6.

[3] – Lévi-Strauss, C., “Razza e storia”, Einaudi, Torino, 2001 (ed. or. 1952).

[4] – Rimando al mio Visalli, A., “Dipendenza”, Meltemi, Milano, 2020.

[5] – Si veda King, C., “La riscoperta dell’umanità”, Einaudi, Torino, 2020 (ed. or. 2019).

[6] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 10, citato Boas, F. “The mind of primitive man”, The MacMillan Company, New York, 1938, p. 159.

[7] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 12

[8] – Lukacs, G., “Ontologia dell’essere sociale”, Meltemi, Milano, 2023 (ed. or. 1984).

[9] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 15

[10] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 16

[11] – Costa, V., “Categorie della politica. Dopo destra e sinistra”, Rogas Edizioni, Roma, 2023.

[12] – Si veda “L’allargamento dei Brics, l’alba di un mondo nuovo?”, Tempofertile, 27 agosto 2023.

[13] – Per un inquadramento dell’insegnamento seminale di Socrate nel contesto del suo tempo, si veda Luciano Canfora, “Il mondo di Atene”, Laterza, Roma-Bari 2011.

[14] – Si veda, ad esempio, Diego Lanza, “Dimenticare i Greci”, in AA.VV. “I greci. Storia, cultura, arte e società”, vol. 3, Einaudi, Torino, 2001, p. 1462.

[15] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 17.

[16] – Said, E. “Orientalismo”, Feltrinelli, Milano, 1999 (ed. or. 1978); “Cultura e imperialismo”, Feltrinelli, Milano, 2023 (ed. or. 1993).

[17] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 58

[18] – Ogni osservazione più ravvicinata dissolve questa idealizzazione, per la quale, come vorrebbe in pratica ogni filosofo occidentale formato alla sua scuola, nel IV secolo a.c., all’incirca, si è creata improvvisamente una coscienza nuova, e questa in sostanza in una città di venticinquemila cittadini liberi attraversata da un radicale conflitto tra ‘democratici’ e ‘aristocratici’ ed in scontro con altre città-stato. Tutto ciò trascurando fastidiosi particolari come l’appartenenza di tutti i filosofi tramandati al partito aristocratico (Crizia, autore del colpo di stato contro la democrazia ateniese, appartiene alla cerchia intima di Socrate e ne è parente), e quindi la dipendenza del discorso sul “non sapere” da un diretto utilizzo politico, oppure i legami della cultura greca con le fonti siriane, egizie, fenicie, o nordafricane come la cultura Kush e Aksum. O, per il tramite a volte di queste ultime, con il mondo indiano e oltre.

[19] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 102

[20] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 104

[21] – Derrida, J. “Margini della filosofia”, Einaudi, Torino, 1997 (ed.or. 1972), p.167.

[22] – Derrida, cit., p. 280

[23] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 120, cit. Husserl, “La Crisi”, p.45.

[24] – Per questa interpretazione si vedano i testi di Francois Jullien, “Trattato sull’efficacia”, Einaudi, Torino, 1998 (ed. or. 1996); “Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente”, Laterza, Torino, 2006 (ed. or. 2005).

[25] – Si veda Granet, M., “Il pensiero cinese”, Adelphi, Milano, 2018 (ed. or. 1971).

[26] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 131.

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Il saggio obbligatorio di fine anno. Ma fatemi un favore: leggetelo lo stesso, di AURELIEN

Il saggio obbligatorio di fine anno.
Ma fatemi un favore: leggetelo lo stesso.

AURELIEN
27 DIC 2023
Questo è l’ultimo saggio del 2023, e non solo i termini di servizio di Substack mi impongono di scrivere un pezzo di fine anno, credo, ma anche due delle ultime tre carte dei Tarocchi che ho consultato per la meditazione quotidiana sono state la n. XX, “Giudizio”, che incoraggia la riflessione e il bilancio. Ok ragazzi, posso accettare un suggerimento.

Non c’è molto da dire a livello pratico. Ho deciso di attivare i pagamenti qualche mese fa e sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla disponibilità delle persone a lanciarmi qualche moneta e a offrirmi un caffè. (Non ho intenzione di offrire un livello separato a pagamento, mai, e quindi continuerò a rendere tutto gratuito). In realtà sono stato ancora più piacevolmente sorpreso dai gentili messaggi di sostegno che ho ricevuto, ed è questo, alla fine, più che qualsiasi somma di denaro, che mi incoraggia a continuare. Se avete mai insegnato (e io l’ho fatto, saltuariamente per decenni, e a volte in posti davvero molto strani), sapete che il più grande complimento che possiate ricevere è che qualcuno vi dica: “Prima non capivo, ma ora capisco”. Da qui, in parte, il nome che ho dato a questo sito. E grazie anche ai molti di voi che hanno scritto commenti così lunghi e riflessivi.

Detto questo, ho intenzione di continuare a scrivere essenzialmente su ciò che so, e di privilegiare l’analisi e l’interpretazione rispetto alla polemica. C’è comunque troppa polemica in giro, e la trovo noiosa da leggere, difficile e poco gratificante da scrivere. Inoltre, richiede una fede nella propria superiorità morale che non sono sicuro di avere. Allo stesso modo, anche se scrivo molto sugli affari di sicurezza e ho trascorso molto tempo con le forze armate, non sono qualificato per analizzare le ultime battaglie in Ucraina, così come una certa quantità di tempo trascorso in Medio Oriente mi dà automaticamente il diritto di essere ascoltato come esperto di Gaza. D’altra parte, ho trascorso una vita nella sala macchine della politica e della sicurezza in vari Paesi, ho visto come si fa la salsiccia e a volte ho avuto un piccolo ruolo nel farla. Sono stato nei posti più economici per alcuni dei principali eventi degli ultimi quarant’anni, e in alcuni casi in quelli un po’ meno economici. Il mio punto di vista è quello di chi fa davvero il lavoro e fa accadere le cose, anche se non ho mai avuto un grande ufficio e un grande staff personale. Sono stato, come si diceva, a distanza di sicurezza dalla superficie del carbone per molto tempo. Le cose che credo di aver imparato, quelle che credo di aver capito e quelle su cui credo di avere qualcosa di utile da dire, continuerò a scriverle, oltre a dedicarmi di tanto in tanto ad altri argomenti che mi interessano. Per esempio, nel corso del prossimo anno avrò molto da dire sulla Francia, dove ho vissuto e lavorato a lungo, e sull’Europa e le sue manifestazioni istituzionali.

Bene, allora. (Ci sono scrittori molto organizzati, che hanno piani dettagliati di ciò che scriveranno e li rispettano. Io non ci riesco: Preferisco pensare che qualsiasi cosa io stia scrivendo, da un articolo breve o un racconto a un libro, esista già, completamente formata, e che se inizio a scrivere, arriverà. Di solito è così: ero a un quarto del primo libro che ho scritto, circa trent’anni fa, quando all’improvviso ho capito che il libro voleva parlare di qualcosa di un po’ diverso e mi stava segnalando di cambiare rotta, cosa che ho fatto. Così con questi saggi: raramente ho un’idea precisa di ciò che dirò prima di iniziare e, cosa forse più importante, di come i vari temi si svilupperanno e interagiranno tra loro nel corso delle settimane. Così, senza rendermene conto, mi accorgo di aver sviluppato una tesi coerente, soprattutto nell’ultimo anno.

Credo che si possa riassumere, sorpresa, sorpresa, in tre punti. Si può considerare una sorta di sillogismo, se si vuole, o un tipo di progressione dialettica.

Il mondo occidentale si trova di fronte a una serie di sfide pratiche, politiche, economiche ed esistenziali gravi come mai nella sua storia, che richiedono governi, Stati e settori privati altamente competenti per affrontarle con successo.

Ma la capacità di tutti i settori sopra menzionati è già insufficiente e sta peggiorando, e non c’è un modo evidente per correggerla.

Pertanto, le cose stanno andando verso sud.

Se si accettano le prime due proposizioni (e credo che siano indiscutibili), ne consegue inevitabilmente la terza. Naturalmente non vogliamo crederci, ed è per questo che le persone sono piene di “Se solo potessimo”, “Sicuramente possiamo”, “Questo nuovo aggeggio” e “Questa idea intelligente”. Ma, come ho sostenuto la scorsa settimana, non è possibile ricostruire strutture e capacità altamente complesse che hanno richiesto generazioni per essere create e che sono state lasciate marcire o addirittura deliberatamente distrutte. Per questo motivo, i miei scritti del prossimo anno si concentreranno su come sarà il prossimo crollo e su cosa possono fare gli individui e i gruppi per gestirlo ed evitare le conseguenze peggiori. Gran parte del lavoro pratico del governo in passato è consistito nel mettere il dito nella fossa e sperare di poter risolvere il problema del momento entro la fine della settimana. (Per quanto sia doloroso dirlo, credo che dovremo sempre più escludere i governi e le organizzazioni internazionali come attori utili per il futuro: il degrado è semplicemente andato troppo oltre e la diga si sta visibilmente sgretolando.

Piuttosto che accumulare il malinconico a questo punto dell’anno, ho pensato che sarebbe stato meglio esporre le argomentazioni di cui sopra in modo un po’ più esteso, rimandando a saggi che ho scritto nell’ultimo anno o giù di lì. In questo modo, il numero considerevole di persone che hanno scoperto questo sito di recente, e in molti casi si sono iscritte, avranno un link diretto ai saggi che espongono queste idee in modo più approfondito.

Non ho intenzione di affrontare in questa sede i temi del cambiamento climatico e delle malattie infettive, sui quali non sono un esperto e sui quali è già stato scritto molto. Ma ho discusso, ad esempio, gli effetti corrosivi di quarant’anni di neoliberismo sulle strutture e sulle fondamenta stesse della nostra società, compreso il concetto di cittadino, o sull’onestà di base, o sulle idee anacronistiche di “dovere” e “servizio”, da cui la Società di Me dipende di fatto, se solo se ne rendessero conto. Ho sostenuto che una società di questo tipo non sopravviverà ancora a lungo, a meno che non impari ad adattarsi, ma questo sembra molto improbabile, senza il tipo di strutture intermedie, come i partiti politici di massa e i sindacati che un tempo lavoravano per il cambiamento politico. In effetti, la presa del modello estrattivo sul nostro sistema è tale che il sistema potrebbe finire per mangiarsi da solo, mentre la nostra società cade vittima di una violenza che non ha alcuno scopo o ragione discernibile. Allo stesso modo, non è scontato che l'”Europa”, in qualsiasi senso istituzionale organizzato, sopravviva.

Naturalmente, uno dei problemi principali da affrontare sarà quello delle conseguenze a lungo termine della guerra in Ucraina. Ho suggerito che l’Occidente, e in particolare l’Europa, è ora vulnerabile militarmente in modi inediti e inaspettati. Ciò non sorprende, poiché la natura della guerra è cambiata, mentre nessuno guardava, e l’Occidente ha preso una serie di decisioni sbagliate su come spendere i propri soldi. Il risultato è che la capacità militare dell’Occidente è l’ombra di ciò che era un tempo e le possibilità che si riarmino per essere in condizioni di parità con la Russia non sono molte. Anche mantenere in vita l’Ucraina è di fatto impossibile. Ciò significa anche che l’Occidente sarà sempre più incapace di proiettare potenza al di fuori del proprio territorio. E a sua volta, la mancanza di hard power significa che i tentativi di usare il soft power saranno molto più difficili.

In teoria, alcuni di questi problemi sono recuperabili, se solo avessimo persone e istituzioni decenti. Eppure i leader e i funzionari occidentali credono abitualmente a cose stupide. Le nostre élite non solo sono incapaci, ma sono essenzialmente infantilizzate, vivono in un mondo di finzione infantile e reagiscono con odio isterico a chiunque, come quel cattivone di Putin, metta in discussione i loro luoghi comuni liberali semidigeriti. (Anche se questo odio è esso stesso, in parte, un’esternazione dell’odio che la nostra casta professionale e manageriale prova per il resto di noi e per gli altri). E questo include sia una completa ignoranza anche dei fatti più elementari sulla guerra moderna, sia un’abitudine generale a vedere il mondo intero come una proiezione del loro fragile ego.

Ma ho anche cercato di fornire qualche raggio di speranza, se non necessariamente di ottimismo. Penso (e questo sarà un argomento per il prossimo anno) che il fallimento a cascata delle istituzioni a cui assistiamo ora ci imporrà di trovare risorse per noi stessi, che dovranno essere tanto psicologiche, e persino spirituali, quanto pratiche. Qualche tempo fa ho sostenuto che l’integrità invernale dell’esistenzialismo, con la sua severa etica della responsabilità per le proprie azioni, è forse utile in questo momento, così come alcuni tipi di buddismo. Ho anche suggerito che il relativismo morale è solo un dato di fatto e che non c’è nulla da temere. Infine, ho suggerito alcuni libri che potrebbero aiutarci a capire meglio il mondo, nonché alcuni che forniscono indicazioni pratiche su ciò che potremmo fare.

Beh, credo che sia sufficiente da parte mia. Grazie a tutti e arrivederci all’anno prossimo.

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Stati Uniti! Isterismo, istigazione,esecuzione Con Gianfranco Campa

Gli Stati Uniti si stanno candidando ad entrare a pieno titolo nel gruppo nutrito delle repubbliche delle banane. Qualcuno in Centro America lo ha prontamente fatto notare; gente che evidentemente sa bene di cosa si parla. Una sorta di nemesi, di ritorsione della storia. Il dispositivo della Corte Suprema del Colorado ai danni di Trump sta dando un contributo decisivo alla credibilità e alla presentabilità della DEMOCRAZIA per antonomasia. Se non stoppato in tempi rapidi dalla Corte Suprema Federale potrà servire da precedente per altri stati. Colpi di mano che si accompagnano alla progressiva perdita di credibilità di qualsiasi candidato interno o esterno al partito, alternativo a Trump. Da qui l’allarmismo crescente giustificato dalle argomentazioni più inverosimili; l’istigazione ad atti inconsulti. Una isterica fibrillazione di un ceto politico e di una classe dirigente disposta a fomentare lo scontro fisico pur di salvaguardare la propria permanenza al potere. Un vuoto che sta innescando una accelerazione decisamente ostile del confronto geopolitico senza una dirigenza lucida, in grado di assumere apertamente la responsabilità di decisioni così laceranti. L’ingresso di truppe ed armamenti statunitensi in Finlandia, l’eventualità di colpi di mano in Moldova, zeppa di agenti statunitensi, il conflitto sempre più esteso nel Vicino Oriente sono ulteriori micce pronte ad innescare il peggio in un contesto sempre più temerario che vede stati belligeranti candidarsi all’ingresso nella Unione Europea; quella stessa Unione che nell’articolo 42 del trattato, si allinea pedissequamente ai voleri e ai vincoli della NATO. Un altro tabù, rigorosamente rispettato nella fase bipolare, che cade; altri popoli europei disposti a sacrificare, con la compiacenza delle proprie classi dirigenti, le proprie vite agli interessi egemonici anglostatunitensi. Una parodia che si tramuta in farsa e in tragedia. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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https://rumble.com/v42f0z6-stati-uniti-isterismo-istigazioneesecuzione-con-gianfranco-campa.html

 

Cosa è la Sinistra… E cosa resta?_di Aurelien

Cosa è la Sinistra… E cosa resta?
Un tentativo (probabilmente fallito) di fare un po’ di chiarezza.
AURELIEN
13 DICEMBRE

Questi saggi saranno sempre gratuiti, e potete sostenere il mio lavoro mettendo like e commentando, e soprattutto passando i saggi ad altri, e ad altri siti che frequentate.

Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️ Grazie a tutti coloro che hanno già contribuito.

Grazie anche a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta pubblicando anche alcune traduzioni in italiano.

Il saggio della scorsa settimana ha suscitato (non per la prima volta) una grande discussione sulla “sinistra”, sul fatto che certi partiti e certe idee possano essere considerati “di sinistra” e sul fatto che abbia importanza. Alcune persone sono state così gentili da suggerirmi di esprimere alcune riflessioni sull’argomento, e così, ecco qui.

Come tutti questi saggi, anche questo è principalmente un tentativo di spiegazione. Non sono interessato a polemizzare sul perché la mia definizione di sinistra sia migliore della vostra, né ad assegnare un voto su dieci a partiti o ideologie per quanto sono di sinistra. Tra l’altro, non sono uno storico né (fortunatamente) un politologo. Ma penso che ci siano alcune cose utili e pragmatiche da dire su questa questione che potrebbero aiutare a dissipare un po’ la confusione. Strutturerò questo saggio stabilendo i punti su cui credo che la maggioranza delle persone sia d’accordo, per poi esaminarne le conseguenze pratiche.

In primo luogo, possiamo concordare sul fatto che negli ultimi due secoli è esistita una tendenza politica chiamata sinistra. Le origini del termine sono interessanti, perché ci danno un indizio sulla natura della sinistra stessa. Come tutti sanno, è apparso all’epoca della Rivoluzione francese, quando i membri dell’Assemblea nazionale che sostenevano la continuazione della monarchia e dello status quo sedevano generalmente alla destra del Presidente, mentre quelli che sostenevano la Rivoluzione, nel senso più ampio del termine, sedevano a sinistra. La stessa distinzione di massima fu utilizzata negli anni confusi e conflittuali che seguirono, anche se i confini precisi si spostarono un po’.

Questo ci ricorda che la distinzione originaria tra Sinistra e Destra emerse da una lotta sulla futura forma di governo del Paese e sulla conseguente distribuzione del potere. A destra, i puristi ritenevano che la distribuzione del potere dell’Ancien régime (essenzialmente una monarchia assolutista con alcuni poteri regionali e locali di contrasto) fosse perfetta e non dovesse mai essere cambiata, perché ordinata da Dio. Col passare del tempo, i membri più pragmatici della Destra erano ancora desiderosi di mantenere il sistema, ma erano disposti a fare qualche modesto accomodamento, per condividere il potere in modo un po’ più equo. La sinistra si estendeva da coloro che erano favorevoli a una monarchia costituzionale sul modello britannico, a coloro che volevano una Repubblica con il potere nelle mani delle classi medie, fino a coloro che volevano mettere tutto il potere nelle mani della gente comune. Con la rapida evoluzione del sistema politico, emerse una nuova classe di “moderati” o “centristi”, che ritenevano che la Rivoluzione si fosse spinta abbastanza in là, o anche un po’ troppo in là, e che le cose dovessero ora fermarsi al punto in cui erano. Queste distinzioni pragmatiche, in gran parte indipendenti dalla teoria, avrebbero plasmato la natura della politica per più di un secolo. La questione fondamentale della politica collettiva era allora (e lo è ancora, direi): chi ha il potere? A seconda di dove fosse il potere, quindi, etichette come Sinistra, Destra e Centro erano sempre relative e potevano spostarsi parecchio.

In secondo luogo, è stato solo nel corso del tempo che questi modelli ideologici hanno effettivamente prodotto partiti politici formati. (In ogni caso, i partiti politici formati in assenza di elezioni sono un po’ superflui). Le lotte politiche precedenti erano state contese tra diverse forme di organizzazione politica: la famosa trilogia di tirannia, oligarchia e democrazia in Grecia, la lotta tra le grandi famiglie e i repubblicani a Firenze, e così via. Anche in Grecia e a Roma, dove esistevano istituzioni politiche rappresentative, il concetto di partito, o addirittura di carriera politica professionale, non era ben sviluppato. In Gran Bretagna, dove le cose sono successe prima e dove il Parlamento è sempre stato un centro di potere indipendente, già nel XVIII secolo esisteva qualcosa di simile ai partiti politici organizzati, ma essi rappresentavano costellazioni di interessi più che idee politiche astratte. Paradossalmente, è stato solo con l’avvento di un ragionevole livello di democrazia, nonché con lo sviluppo della tecnologia e quindi di una classe operaia industriale urbana, che i partiti di massa organizzati della sinistra sono diventati effettivamente realizzabili, spesso, anche se non sempre, con “socialista” o “comunista” come parte del loro nome.

In terzo luogo, la distinzione originaria tra sinistra e destra non riguardava solo chi avrebbe avuto il potere, ma anche chi avrebbe dovuto averlo (cioè l’ideologia) e questo vale ancora oggi. Ecco perché le lotte della Rivoluzione francese, e delle altre che l’hanno seguita, riguardavano essenzialmente il miglior sistema di governo. Per molti francesi comuni nelle campagne, dove viveva la stragrande maggioranza, il sistema in vigore era quello ordinato da Dio e basta. Si sollevarono quindi in difesa di un sistema divinamente ordinato e contro coloro che consideravano poco meno che atei. I loro eserciti improvvisati combatterono con lo slogan “Per Dio e per il Re”, sottolineando che stavano difendendo una particolare posizione ideologica. A sua volta, il governo rivoluzionario inviò le truppe per reprimere sanguinosamente le rivolte, in nome della propria ideologia, con conseguenze che si sono protratte fino ai giorni nostri.

Ciò contribuisce a spiegare il paradosso (apparente) delle persone che sostengono un partito politico quando i loro interessi economici suggerirebbero di sostenerne un altro. Le opinioni profonde sul tipo di società che si desidera sono spesso più potenti della promessa di benefici economici immediati. Molto spesso, inoltre, le persone sostenevano i partiti di destra perché temevano il cambiamento: il presente poteva non essere perfetto, ma il futuro, se la sinistra avesse preso il potere, avrebbe potuto essere peggiore. Dopotutto, non c’è nessuno più reazionario dell’individuo che è riuscito a salire un po’ di livello sociale e ora guarda con disprezzo i suoi ex-uguali. La paura di perdere il piccolo vantaggio acquisito, o il timore di non essere più in grado di distinguersi facilmente dalla classe operaia, sono potenti incentivi a votare per la destra, poiché ciò preserva la situazione, e quindi il proprio piccolo vantaggio.

Quindi le ragioni per cui le persone hanno storicamente votato per la sinistra o per la destra (a prescindere dalle etichette transitorie dei partiti) non sono necessariamente finanziarie, e in effetti il potere finanziario e quello politico non sono sempre andati di pari passo. È stato così finché la ricchezza era legata più o meno esclusivamente alle rendite derivanti dalla proprietà della terra, ma lo sviluppo di una classe media urbana e l’avvento della rivoluzione industriale hanno fatto sì che in molti Paesi il potere dell’aristocrazia (spesso relativamente povera) fosse sempre più contestato, a volte in modo violento. È inoltre riconosciuta la tendenza dei proprietari di immobili in qualsiasi Paese a votare in modo sproporzionato per la destra, perché si identificano psicologicamente con le tradizionali strutture di potere basate sulla proprietà. (È interessante notare come la qualificazione della proprietà sia stata uno dei passi intermedi verso la piena democrazia in alcuni Paesi).

In quarto luogo, come sarà ormai evidente, la sinistra è necessariamente una festa mobile, e in qualsiasi momento esisterà in forme diverse con opinioni diverse su come esattamente il potere dovrebbe essere distribuito e chi dovrebbe avere cosa. Inoltre, poiché la sinistra è stata storicamente una forza insurrezionale che cercava di sconvolgere lo status quo, c’era molto spazio per le discussioni sul modo migliore per promuovere una più ampia distribuzione del potere. In linea di massima, questo si risolse in un conflitto tra i gradualisti, che credevano in riforme frammentarie e nel vincere lentamente la battaglia delle menti e delle idee, e i rivoluzionari che credevano che il sistema nel suo complesso non potesse essere riformato e dovesse essere rovesciato. Per un certo periodo, e soprattutto dopo il 1945, sembrava che i gradualisti avessero la meglio, anche se oggi questo sembra meno chiaro.

Era ovvio che entrambe le politiche non potevano essere perseguite allo stesso tempo, e che anzi erano in contrasto l’una con l’altra. Soprattutto dopo la Rivoluzione russa e la fondazione dell’Internazionale comunista, le due tendenze si scannarono a vicenda. Ciò ebbe conseguenze disastrose: L’insistenza di Stalin sul fatto che la sinistra non comunista (“socialfascisti” era uno dei termini più gentili) fosse di fatto uguale alla destra, impedì qualsiasi cooperazione tra partiti comunisti e socialisti. Questo fu un problema soprattutto in Germania, dove i comunisti si rifiutarono di sostenere la Repubblica di Weimar, accelerando così la sua caduta e tutto ciò che ne seguì. Quando Stalin cambiò idea nel 1936, era già troppo tardi e in ogni caso, dove era importante, come in Spagna, i comunisti passarono gran parte del loro tempo a spazzare via la concorrenza di sinistra.

Pertanto, la sinistra sarà intrinsecamente divisa sia sugli obiettivi strategici che sulle tattiche, poiché non esiste una formula matematica concordata per calcolare la distribuzione ideale del potere, né un modo sicuro per raggiungerla. Storicamente, i partiti di sinistra hanno quindi spaziato da quelli che cercano un cambiamento politico ed economico radicale, senza escludere la violenza, a quelli che credono che il sistema attuale possa essere catturato e fatto funzionare meglio. Si va da coloro che aborriscono qualsiasi forma di potere centralizzato e favoriscono la democrazia diretta, a coloro che credono che se le persone giuste controllano il sistema esistente, questo può essere fatto funzionare nell’interesse generale. Storicamente, ciò che univa la sinistra era la convinzione che il potere fosse concentrato nelle mani sbagliate, e a volte questo era tutto ciò che la univa. Oggi la situazione è più complicata, come vedremo tra poco.

In quinto luogo, una volta che i partiti di massa della sinistra si sono organizzati, sono stati inevitabilmente guidati e gestiti in modo sproporzionato da socialisti di formazione borghese. Sebbene ci fossero molti leader della classe operaia di spicco, gran parte del lavoro passava inevitabilmente nelle mani di coloro che avevano il tempo libero, l’istruzione, le capacità organizzative e professionali e che potevano operare efficacemente in parlamento e con i media. Questo aspetto fu notato molto presto da Robert Michels, un funzionario del Partito Socialista Tedesco, che scrisse di quella che chiamò “Legge di ferro dell’oligarchia”, secondo la quale in qualsiasi organizzazione poche persone finiscono per dominare. In effetti, negli anni Cinquanta, la maggior parte dei partiti di sinistra era in pratica guidata a livello nazionale da leader della classe media con formazione universitaria, mentre a livello locale la maggior parte del potere era ancora detenuta dai membri dei sindacati, il cui sostegno era essenziale per mantenere una base politica di massa.

Questo non era necessariamente un problema, perché la maggior parte dei dirigenti della classe media condivideva un impegno genuino per rendere il mondo un posto migliore: Hugh Gaitskell, probabilmente il miglior Primo Ministro che la Gran Bretagna abbia mai avuto, era figlio di un produttore benestante, ma si era convertito al socialismo dopo aver visto le condizioni miserevoli della classe operaia intorno a lui. Il problema si è aggravato con la massiccia espansione dell’istruzione universitaria a partire dagli anni Sessanta, che ha prodotto una nuova classe di membri del partito con una laurea, che svolge un lavoro da “colletti bianchi”, spesso nel campo dell’istruzione, dei media o in ambiti simili, e che è fisicamente e intellettualmente molto lontana dalla base tradizionale del partito. Con il passare del tempo e la progressiva deindustrializzazione dei Paesi occidentali, queste persone hanno iniziato a dominare. Erano meno preoccupati degli obiettivi tradizionali della sinistra – dopo tutto, negli anni Sessanta la società era diventata molto più equa, il potere era molto più diffuso e la povertà e la disoccupazione erano cose del passato – e molto più preoccupati delle questioni etiche e dei problemi del mondo. Nella maggior parte dei Paesi si sono fatti strada con la guerra del Vietnam, dopodiché hanno iniziato a fare campagne su temi come l’ambiente, l’apartheid in Sudafrica e la povertà nel mondo: cause che, pur con tutte le loro virtù intrinseche, non erano le principali preoccupazioni della loro base elettorale. Inoltre, tendevano ad avere opinioni socialmente molto più liberali di quelle della base operaia naturalmente conservatrice del partito.

A sua volta, il potere nei partiti politici, rispetto all’apparato di governo, era spesso ancora detenuto dai tradizionali leader sindacali. Ciò è avvenuto soprattutto in Gran Bretagna, dove la conferenza annuale del Partito Laburista era dominata dai sindacati e la politica del partito era, almeno in teoria, dominata dal voto di blocco di milioni di iscritti esercitato dai leader sindacali. Questo ha prodotto un’enorme instabilità e divisioni all’interno del Partito Laburista: James Callaghan, l’ultimo Primo Ministro laburista prima di Blair, paragonò le riunioni settimanali del Comitato esecutivo nazionale del partito a un “calvario”. I leader dei sindacati si resero impopolari, anche presso i loro stessi iscritti, con i loro interventi spesso maldestri in politica, e la loro cattiva immagine pubblica tendeva a minare il Partito Laburista e a oscurare gran parte del buon lavoro che i sindacati effettivamente svolgevano. I tentativi del governo di Harold Wilson negli anni Sessanta di porre le relazioni industriali su una base giuridica adeguata furono sconfitti dall’opposizione dei sindacati: la prima tappa del suicidio della sinistra britannica. Con il precipitoso declino del potere dei sindacati a partire dagli anni ’80 e la scomparsa della base di massa del partito, la presa dei colletti bianchi su tutti gli aspetti del partito è necessariamente aumentata.

Lo stesso è accaduto nella maggior parte dei Paesi occidentali, soprattutto con il declino dei partiti comunisti precedentemente potenti e ben organizzati dopo la Guerra Fredda. La natura naturalmente frammentaria dei partiti di sinistra, unita alle tensioni economiche degli anni Settanta, aveva già iniziato a spaccarli. L’esempio più catastrofico si ebbe, ancora una volta, in Gran Bretagna, dove gran parte dell’élite borghese del Partito Laburista, stanca dei sindacati e stufa delle frange trotzkiste e delle loro tattiche di ingresso, se ne andò in fretta e furia per fondare il Partito Socialdemocratico, che non fu mai in grado di ottenere una grande rappresentanza in Parlamento, ma riuscì a distruggere le possibilità del Partito Laburista di formare esso stesso un governo per tutti gli anni Ottanta e la maggior parte degli anni Novanta, finché alla fine si disintegrò a sua volta.

Mi soffermo un attimo su questo esempio, perché la vittoria dei conservatori alle elezioni del 1979 viene spesso considerata come l’inizio di uno spostamento a destra a livello mondiale e di un rifiuto del consenso economico del dopoguerra. Le politiche del governo conservatore della Thatcher, così come erano, furono rapidamente riprese altrove, con il sostegno entusiasta dei ricchi, di gran parte dei media occidentali e dei sistemi bancari e finanziari, in quanto promettevano ricchi guadagni dalla privatizzazione dei beni pubblici e dalla progressiva distruzione del settore pubblico. Ad esempio, quando François Mitterrand fu eletto primo Presidente socialista della Quinta Repubblica nel 1981, le sue politiche sensate e impeccabili di consenso postbellico si scontrarono con il muro di mattoni che si stava frettolosamente costruendo sulla base della vittoria della Thatcher e, più che altro, sul senso di disperazione e di sconfitta che si era rapidamente impadronito dei partiti di sinistra di tutto il mondo negli anni Ottanta.

Ma tutto questo non era necessario. Nel 1979, la Thatcher ottenne una vittoria casuale, essenzialmente grazie a un voto di protesta. Un lungo e rigido inverno, costellato da vertenze industriali e scioperi, e un governo incerto e con una maggioranza risicata si combinarono per produrre un’elezione imprevista e una risicata maggioranza conservatrice. Ma un’elezione nell’ottobre 1978, che James Callaghan era stato fortemente consigliato di tenere, avrebbe probabilmente portato a un Parlamento senza maggioranza complessiva, o con una maggioranza risicata per la Thatcher. La decisione di non indire le elezioni fu probabilmente il più grande errore della politica britannica del XX secolo. Tuttavia, la catastrofe economica provocata dalle politiche economiche dei conservatori avrebbe dovuto portare alla vittoria dei laburisti nel 1983, e lo avrebbe fatto, se non fosse stato per la scissione appena descritta, che in pratica equivaleva al taglio della gola da parte della sinistra britannica.

Quindi l’apparente trionfo della destra e l’apparente sconfitta della sinistra, in Gran Bretagna e altrove, è stata in gran parte contingente e persino in parte un’illusione ottica. L’opinione pubblica della maggior parte dei Paesi occidentali si è in realtà spostata a sinistra negli anni ’80, se intendiamo il termine “sinistra” nel senso tradizionale qui utilizzato di ricerca di una più equa distribuzione del potere e della ricchezza. Sondaggio dopo sondaggio è emerso che, quando si chiedeva ai cittadini occidentali non quale partito sostenessero o quale etichetta gradissero, ma quali politiche favorissero, le politiche tradizionali della sinistra rimanevano popolari presso la maggioranza dell’elettorato.

È proprio a questo punto, però, che la sinistra tradizionale si è arresa ed è diventato sempre più difficile trovare partiti che sostenessero effettivamente una società migliore e più giusta. Alla fine, la sinistra non ha opposto una vera e propria resistenza, né tantomeno ha reagito. Coloro che hanno controllato sempre più la sinistra dagli anni ’80 in poi hanno commesso due errori. Hanno scambiato un momento politico transitorio per un grande cambiamento strutturale nel pensiero dell’elettorato, si sono arresi completamente e si sono sdraiati nel fango davanti al rullo compressore aspettando rassegnati di essere schiacciati. (Qui, ovviamente, vediamo il tradizionale masochismo della sinistra e il suo amore per le sconfitte). All’epoca c’era un mercato considerevole in vari Paesi per i libri che sostenevano che la sinistra era finita, che non avrebbe mai più avuto il potere e che il meglio che poteva fare era emulare la destra, ma con un volto un po’ meno disumano. Questa generazione di sinistra era molto più influenzata dall’opinione dell’élite, dai media e dalle persone che conoscevano socialmente che non dal comune gregge di elettori, che continuava ostinatamente a sostenere le idee tradizionalmente associate alla sinistra. Ricordo una figura tipica dell’epoca che riteneva che la sinistra dovesse cambiare in questo modo: Martin Jacques, esponente del partito comunista e redattore di Marxism Today con un dottorato in economia, che per tutti gli anni Ottanta scrisse una serie di articoli autolesivi sulla fine della sinistra in Gran Bretagna, prima di cambiare idea dopo la vittoria laburista del 1997.

Il secondo errore fu di immaginazione. All’inizio del suo regno, la Thatcher era una figura talmente divisiva e per molti versi ridicola (era soprannominata “Attila la gallina” a Whitehall per i suoi scatti d’ira) che sembrava impossibile che potesse durare a lungo. E in effetti, se non fosse stato per una grande dose di fortuna e per l’assoluta incompetenza dell’opposizione, non ce l’avrebbe fatta. Quando i suoi nemici politici si sono resi conto che lei e la sua cricca facevano sul serio, la macchina era ormai sciolta e si stava scatenando nel Paese, distruggendo tutto e invadendo altri Paesi.

In sesto luogo, le idee della sinistra non sono la stessa cosa delle idee del liberalismo, e non lo sono mai state. In passato, questa distinzione non avrebbe sorpreso né la sinistra né i liberali, che spesso erano acerrimi nemici. La differenza fondamentale è che la sinistra si è sempre interessata al bene della società nel suo complesso, mentre il liberalismo si concentra sugli interessi del singolo. Il liberalismo è sorto prima dell’era della democrazia di massa – anzi, è antipatico ad essa – e l’argomentazione di alcuni liberali secondo cui la somma dei diritti individuali può sommarsi a un diritto collettivo è chiaramente errata. La maggior parte dei “diritti” sono in realtà rivendicazioni sul tempo e sul denaro di altre persone, e inevitabilmente coloro che hanno più successo nel far valere queste rivendicazioni saranno quelli che hanno il potere e il denaro. Filosofi come John Rawls, che hanno tentato di costruire società liberali ideali – ad esempio basandosi sulla sua ipotesi del velo di ignoranza – stanno in realtà scrivendo fantascienza, piuttosto che teoria politica.

Il liberalismo è nato, dopo tutto, come risposta della classe media al potere della monarchia in vari Paesi. Non è stato concepito come un movimento politico di massa e non ha mai avuto l’intenzione di svilupparsi. (Un movimento politico di massa di individualisti in competizione è comunque un concetto curioso). Era contro la concentrazione del potere in troppe poche mani e contro l’idea di un governo forte e capace, ma molto favorevole all’idea di ottenere più potere per sé. In effetti, possiamo definire la differenza tra le idee della sinistra e quelle del liberalismo in senso lato come la differenza tra democrazia e oligarchia. Montesquieu lo notò nel suo famoso inno alle virtù del sistema politico britannico. Il potere in Gran Bretagna, sosteneva, era condiviso tra le diverse parti dell’establishment, in modo che nessuna parte diventasse troppo potente, come era diventata la Corona in Francia. Ma è proprio nella differenza tra separazione dei poteri e diffusione del potere che si trova il contrasto tra questi due sistemi di pensiero.

Per fare una semplice analogia, consideriamo una società gestita dai liberali come una famiglia di classe medio-alta che discute su cosa fare della casa dei genitori, che comincia ad avere bisogno di manutenzione e potrebbe essere venduta. Un figlio, forse, è un politico, un altro un banchiere, un altro lavora nei media, un quarto è un avvocato, un quinto è un medico. Quindi potrebbero commissionare uno studio a un architetto o a un costruttore per aiutarli a decidere, ma non si sognerebbero mai di chiedere il parere del giardiniere o della donna delle pulizie. Pertanto, i principali partiti liberali della storia hanno sempre avuto un problema strutturale nell’attrarre un elettorato di massa. Non era ovvio perché la classe operaia dovesse votare per partiti che diffidavano dell’azione e della spesa del governo (tranne che per la polizia e i tribunali) e predicavano le virtù della libertà economica, che ovviamente avvantaggiava i più forti. (Come ha osservato il grande socialista britannico RH Tawney, “la libertà per il luccio è la morte per il pesce piccolo”). Inoltre, quando le due tendenze entrarono in collisione, i liberali, in quanto movimento fondamentalmente elitario, si schierarono con la destra. È il caso più noto della Francia del 1871, quando il governo repubblicano di Adolphe Thiers, appena insediato, inviò l’esercito a massacrare i comunardi che avevano preso il controllo di Parigi e tentato di instaurare una vera democrazia.

In una certa misura, questo conflitto fu celato da un grado di interesse comune con la sinistra che non è del tutto morto. Per esempio, i partiti liberali in Europa tendevano a opporsi a un ruolo politico della religione organizzata (anche se era pragmaticamente utile per tenere i poveri al loro posto), tendevano a essere favorevoli a un certo grado di istruzione, perché avevano bisogno di una forza lavoro istruita per le fabbriche e gli uffici, tendevano a essere contrari alle guerre e al militarismo, in quanto spreco di risorse pubbliche, e in generale erano felici di aumentare la percentuale di popolazione che poteva votare, almeno fino a un certo punto. Sostenevano una tassazione più elevata per i ricchi, perché non erano essi stessi molto ricchi. Col tempo si sono convertiti a un ruolo più ampio dello Stato (ad esempio in settori come la sanità e l’istruzione) perché hanno potuto constatare che ciò contribuiva a rendere i loro Paesi più competitivi dal punto di vista economico. Inoltre, data la vacuità ideologica del liberalismo stesso, i liberali tendevano spesso ad assumere la colorazione politica dell’epoca. Nel XIX secolo, in alcuni Paesi i liberali furono fortemente influenzati dalla religione evangelica, con il suo impegno per il benessere sociale, e in Francia adottarono le idee repubblicane, compresa l’uguaglianza. Per gran parte del XX secolo hanno seguito le concezioni socialdemocratiche prevalenti, tanto più che temevano le attrattive elettorali dei partiti comunisti. Inoltre, molti liberali appartenevano a quella comoda classe media che si considerava moralmente superiore ad altre parti della società, e molti frequentavano la chiesa o si impegnavano in attività benefiche. Nella mia giovinezza, essere un politico liberale era quasi un sinonimo di “simpatico”, anche se in definitiva inefficace, e dalla stessa parte, in definitiva, dei partiti di sinistra. È solo nell’ultima generazione o giù di lì, quando tali accomodamenti non sembrano più necessari, che i guanti sono stati tolti.

Inoltre, i liberali avevano, e in gran parte conservano, il grande vantaggio politico della custodia della parola “libertà”. Dopo tutto, chi non vorrebbe essere “libero”? Chi potrebbe ragionevolmente votare per un partito che promette di rendervi meno liberi? Ma come Tawney aveva notato, e come George Orwell sottolineava spesso, “libertà” è un concetto molto scivoloso. (È un utile esercizio retorico sostituire “incontrollato” o “non regolamentato” con “libero” in un discorso liberale e osservare i risultati). La sinistra, d’altra parte, ha sempre sottolineato che la “libertà” normativa o dichiarativa non ha alcun valore se non vengono messe in atto misure specifiche per garantire che la libertà teorica diventi effettiva e che non venga poi abusata dai ricchi e dai potenti. Perciò qualcosa come gli accordi di Schengen, parte della “libera circolazione dei popoli” tanto amata dall’UE, è una classica misura liberale. In teoria tutti sono liberi di viaggiare ovunque, anche se in pratica la maggior parte degli europei va all’estero meno di una volta all’anno, e solo per le vacanze. Molti non lasciano mai il proprio Paese di nascita. D’altra parte, Schengen facilita il trasferimento dei lavoratori, non da ultimo degli immigrati non qualificati, da un Paese all’altro verso il luogo in cui i datori di lavoro hanno bisogno di loro: non è tanto la libera circolazione dei popoli quanto la libertà di spostare i popoli. Ma nulla di tutto ciò è davvero sorprendente: come aveva acutamente osservato Anatole France qualche tempo prima, in una società liberale “la legge proibisce a ricchi e poveri di dormire sotto i ponti, di chiedere l’elemosina per strada e di rubare pagnotte”.

Tuttavia, l’assenza di una vera e propria filosofia liberale che non sia la ricerca della gratificazione dell’ego produce un curioso paradosso: un’ideologia che si presume sia incentrata sulla libertà personale consiste, in pratica, in infinite regole e norme come modo per riempire il vuoto esistenziale. Al posto della religione organizzata – o delle opere di Marx, se preferite – abbiamo organismi di diritto contrattuale. Un esempio di ciò è stata l’effettiva criminalizzazione della vita quotidiana: la sostituzione dell’abitudine, della tradizione, delle buone maniere e del buon senso con norme infinitamente dettagliate e complesse per regolare il comportamento personale (si veda una qualsiasi università occidentale). Per contro, la maggior parte delle varianti del pensiero di sinistra enfatizza la necessità e i vantaggi del fatto che le persone elaborino e applichino le proprie regole, come hanno fatto storicamente i sindacati e i club di lavoratori.

Un’ultima, ma sostanziale, differenza è che la sinistra ha generalmente ripreso e attuato la parte dell'”uguaglianza” della rubrica della Rivoluzione francese, che non significa tanto che le persone debbano essere uguali (un’impossibilità effettiva), ma piuttosto che devono essere trattate in modo uguale, e quindi che le regole, le leggi e i diritti devono essere universali. Il liberalismo, invece, cerca di universalizzare il proprio insieme di assunti in gran parte aprioristici sulla libertà personale incontrollata, non solo a livello nazionale ma ovunque abbia il potere di farlo, e di cercare di contenere il caos che ne deriva attraverso regole e leggi sempre più dettagliate e coercitive. In altre parole, il liberalismo è bloccato nella contraddizione senza speranza di promuovere la libertà teorica di ognuno di essere diverso, mentre in pratica costringe tutti a essere gli stessi attori economici robotizzati che massimizzano i valori, tutti con lo stesso insieme limitato di opinioni accettabili. A differenza della tradizione della sinistra, che vede i diritti come universali, il concetto liberale di “diritti”, la cosa più vicina a una religione per il liberalismo, porta inevitabilmente al conflitto tra gruppi identitari autodefiniti che chiedono un trattamento speciale, di solito sulla base del fatto che non sono stati “uguali” in passato.

Riassumendo, e parlando della “sinistra” in generale, piuttosto che di gruppi, tendenze o ideologie specifiche, possiamo dire che la sinistra cerca una società in cui il potere e la ricchezza siano ampiamente distribuiti e in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile alla gente comune, nell’interesse della società nel suo complesso, e non di qualche gruppo contraddistinto da ricchezza, posizione o identità. Queste idee non sono nate nel vuoto e sono state collegate a concetti di come sarebbe stata una società migliore (anche se non necessariamente ideale) e i movimenti politici sono stati fondati per contribuire alla realizzazione di tale società. Ma poiché la sinistra si occupava essenzialmente della direzione che la società avrebbe dovuto prendere, piuttosto che dei dettagli del percorso e della destinazione, ci furono molte discussioni su dove andare esattamente e sulle tattiche migliori per arrivarci, che ebbero l’effetto di indebolire la sinistra nel suo complesso. Inoltre, le tensioni interne si sono sviluppate man mano che i partiti della sinistra perdevano la loro base operaia e la loro leadership originaria, per essere sempre più controllati da professionisti con una formazione universitaria e altre priorità. Questo processo tendeva a oscurare le profonde e importanti differenze tra il pensiero di sinistra e il liberalismo, nonostante alcune coincidenze di interesse: un problema che esiste ancora più fortemente oggi.

Per questo motivo, oggi viviamo in una società che ha poco a che fare con le aspirazioni e i valori tradizionali della sinistra e, soprattutto, in cui nessuno dei principali partiti politici occidentali abbraccia veramente l’idea di una politica redistributiva, né di una società e di un’economia gestite a beneficio di tutti. Piuttosto, il governo è diventato più distante, meno capace ma più potente, e nuovi attori non eletti come l’Unione Europea e vari tribunali nazionali e internazionali si sono inseriti in ciò che rimane dei processi democratici. Sebbene la ricchezza non conferisca automaticamente potere, abbiamo comunque assistito a un aumento senza precedenti delle disparità di ricchezza nella maggior parte delle società occidentali. Inoltre, gran parte di questa ricchezza è concentrata nelle mani di attori commerciali che svolgono un lavoro che un tempo era svolto dallo Stato e quindi, in pratica, nessuno è effettivamente responsabile nei confronti dell’elettorato per la corretta fornitura della maggior parte dei servizi che rendono possibile la nostra vita. Il concetto di diritti universali è stato disaggregato in una serie di “diritti” asseriti per qualsiasi gruppo che si autodefinisca tale. (Non esistono “diritti degli omosessuali”, per esempio: esiste il diritto universale degli omosessuali di essere trattati in modo uguale agli altri e quindi di non essere discriminati). Infine, “libertà” e “tolleranza” sono state reinterpretate per significare coercizione e intolleranza, nel caso in cui lobby politicamente potenti trovino qualcosa di cui lamentarsi.

Obiettivamente, nulla di quanto descritto corrisponde alle preoccupazioni e agli obiettivi tradizionali della sinistra: non si tratta di un giudizio di valore, poiché è evidente che molte persone e molti partiti politici sono di fatto soddisfatti di tutto ciò, e sosterrebbero che è giusto e necessario, ma semplicemente di un fatto pragmatico. Nella misura in cui esistono ancora partiti politici che sostengono l’idea tradizionale che le decisioni debbano essere prese il più vicino possibile al cittadino comune e il più possibile nell’interesse generale, essi si trovano per lo più in quella che viene definita la destra, se non l’estrema destra. Tuttavia, probabilmente non è una buona idea entusiasmarsi troppo per questo, o cercare di erigere teorie ambiziose sulla base di esso. Dopotutto, i partiti tradizionali della sinistra, ora gestiti da politici manageriali di comodo, di formazione universitaria e benpensanti, quasi del tutto separati dalle preoccupazioni del mondo reale ma fortemente influenzati dalla teoria, si comportano semplicemente come ci si aspetterebbe da loro, un po’ come i gestori di fondi speculativi che hanno rilevato un’azienda di famiglia. In effetti, è utile pensare ai partiti tradizionali della sinistra come a famose aziende (forse la Disney?) rilevate e rovinate da estranei che ne traggono solo vantaggi. In effetti, la lunga lotta tra la sinistra e il liberalismo è stata ormai vinta, con il secondo che si è infiltrato nel primo come un parassita, mantenendo però alcuni dei punti di riferimento e dei discorsi esterni. Non ha senso, quindi, dire che “la sinistra controlla le università”. Tutto ciò che si può forse dire è che lo fanno gruppi spesso identificati con partiti che un tempo erano di sinistra ma ora non lo sono più. Questi sono i partiti che ho sempre descritto come la Sinistra fittizia.

Temo molto che la vera sinistra possa rivelarsi una fase irripetibile nell’evoluzione delle società politiche. Si basava su ingiustizie chiare ed evidenti che dovevano essere affrontate, su obiettivi politici ed economici chiari ed evidenti che dovevano essere attaccati, su una base operaia di massa, su comunità organizzate intorno al posto di lavoro, su un discorso di solidarietà di classe e di giustizia economica, su sostenitori della classe media e su politici vicini alle preoccupazioni della gente comune. Tutto questo oggi non esiste.

Il che non significa che il liberismo senza palle di oggi abbia “vinto” in un senso importante. Anzi, la sua intrinseca incoerenza e la sua inevitabile guerra interna fanno sì che venga messo da parte dalla prima forza organizzata che lo affronterà. È abbastanza chiaro che questa forza sarà un tipo di populismo radicale, forse nozionalmente identificato con la destra, semplicemente perché la sinistra fittizia si rifiuterà di avere a che fare con essa. Ma coloro che rendono impossibile la vittoria della sinistra, renderanno inevitabile la vittoria della destra. Spero che saranno contenti del risultato.

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Riportare tutto a casa, di AURELIEN

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Negli ultimi mesi, il malcontento di lunga data per le politiche migratorie dei governi occidentali, e soprattutto europei, si è fatto più acuto. I partiti che fanno dell’immigrazione un problema hanno ottenuto buoni risultati alle elezioni (da ultimo nei Paesi Bassi), i politici che prima tergiversavano sono costretti ad accettare che il problema (o i problemi) esistono davvero, e il problema si sta facendo strada nei media, nelle statistiche dei sondaggi d’opinione e si collega alle preoccupazioni per la crescente illegalità e violenza nelle città europee. Ma l’aspetto più sconcertante dell’intera situazione è che i governi, da cui ci si aspetterebbe che si accorgano di una causa politica popolare quando questa salta su e giù e agita le mani davanti a loro, si sono trovati in uno stato di catatonica negazione assoluta dell’esistenza di qualsiasi problema. Ecco quindi il tentativo di spiegare perché ritengo che ci sia un enorme divario tra i governanti e i governati.

Ed è un divario enorme. La cosa curiosa del “dibattito sull’immigrazione” è che si tratta di un non-dibattito, un dibattito che non deve avere luogo. Le grandi linee del dialogo dei sordi degli ultimi dieci anni circa possono essere schematizzate come segue:

Le persone: Per favore, qualcuno si accorga dei problemi causati dalla massiccia immigrazione dell’ultima generazione e faccia qualcosa.

Le élite. Non c’è nessun problema. Vergognatevi anche solo per aver suggerito che ci sia. Solo i nazisti vogliono parlare di immigrazione.

E non sto esagerando. L’immigrazione e i problemi che ne derivano sono diventati come uno di quegli argomenti di cui i miei genitori non volevano parlare quando ero giovane, perché “non era bello”. Leggete, ad esempio, questo magistrale resoconto dei retroscena dei recenti “disordini” di Dublino, pubblicato su Naked Capitalism da un residente e osservatore di lunga data. Oppure guardate la prosa e il ragionamento contorto di questo articolo del Grauniad sull’incredibile impennata dei crimini con armi da fuoco in Svezia, ora il Paese più pericoloso d’Europa ad eccezione dell’Albania, e che non ha nulla, assolutamente nulla, a che fare con l’immigrazione, anche se la violenza è in gran parte opera di bande di immigrati e ha luogo in aree ad alta penetrazione di immigrati. Si tratta invece di povertà e disuguaglianza che, come sappiamo, sono infinitamente peggiori in Svezia che, ad esempio, in Romania.

Dal punto di vista della politica pratica, questo è folle. Rifiutarsi di parlare di immigrazione non è una politica e, secondo il più cinico dei calcoli, lascia uno spazio aperto a coloro che sono pronti a pronunciare la parola e a suggerire che l’immigrazione ha prodotto problemi che devono essere affrontati dai governi. In Francia è diventato un luogo comune dire che i principali partiti politici non potrebbero fare di più per garantire la vittoria di Marine Le Pen alle elezioni del 2027 se ci provassero, ma questo non lo rende meno vero. Come si spiega allora il silenzio quasi suicida sull’argomento da parte dell’establishment occidentale? Vorrei fare una serie di proposte, dalle più banali a quelle estremamente tendenziose, e vedere cosa ne pensate.

In primo luogo, ovviamente, sarebbe necessario un grande sforzo. Bisognerebbe riconoscere gli errori, trovare i soldi, reclutare il personale, portare avanti la costruzione e così via. Soprattutto, qualcuno dovrebbe assumersi la responsabilità. È molto più facile, alla fine, lasciare che le cose continuino ad andare alla deriva, e lasciare che siano un problema di qualcun altro, potendo al contempo assumere una posizione moralmente superiore. Per i governi che non fanno più nulla, e anzi mancano sempre più della capacità di base di fare qualcosa, questa è praticamente la soluzione di default. Ma non credo che questo spieghi molto da solo. Dopo tutto, ai governi non costerebbe nulla riconoscere almeno l’esistenza di un problema, ma non lo fanno nemmeno. Anzi, sprecano capitale politico e danneggiano le loro prospettive politiche facendo il contrario. Cosa sta succedendo?

Forse può essere d’aiuto considerare la principale spiegazione che è stata avanzata per la volontà, o addirittura la smania, dei governi occidentali di adottare una politica di immigrazione di massa nell’ultima generazione o giù di lì. Non c’è bisogno di soffermarsi sull’invecchiamento della popolazione: l’alto tasso di disoccupazione tra le persone in età lavorativa significa che ci sono già molti lavoratori, e ce ne saranno anche nel prossimo futuro. È vero, naturalmente, che gli europei hanno storicamente richiesto cose come salari e condizioni di lavoro decenti, protezione dell’occupazione e così via, mentre gli immigrati, che non hanno scelta, di solito possono essere costretti ad accettare di peggio. Ma l’idea che l’immigrazione di massa fosse solo la ricerca di una forza lavoro flessibile e sfruttabile non regge.

Tanto per cominciare, anche se foste il tipico datore di lavoro avido e arraffone che cerca di risparmiare sui costi del personale, non vorreste almeno una forza lavoro in grado di fare il proprio lavoro? Diciamo che gestite una catena di supermercati a basso prezzo e che impiegate molta manodopera immigrata in ruoli umili. Ebbene, secondo le statistiche del governo francese dello scorso mese, solo il 50% circa dei quattordicenni nelle scuole francesi sa leggere e scrivere a un livello accettabile. (Circa il 20% è analfabeta funzionale e questo è vero da alcuni anni). Inevitabilmente, queste cifre sono molto peggiori nelle aree più povere e tra la popolazione immigrata. Forse non è importante se diventerai un influencer di YouTube o un artista rap. Ma se non lo sei? Se non sai leggere e scrivere correttamente, non puoi lavorare come cassiere, non puoi passare il test per guidare un camion, non puoi nemmeno impilare la merce sugli scaffali giusti. Allo stesso modo, un numero crescente di immigrati arriva come minore non accompagnato e non impara mai a parlare correttamente il francese, perché non sono mai state destinate risorse all’insegnamento della lingua. Dopodiché le prospettive di lavoro sono, diciamo, non ottimali. Il risultato è che in molti quartieri medio-bassi un quarto o un terzo della classe non riesce a parlare il francese abbastanza bene da seguire correttamente le lezioni, il che rovina le cose per tutti. Ma non parliamo di questo.

Ora, per quanto stupido sia il datore di lavoro medio o il politico di destra, deve essergli venuto in mente che avere una forza lavoro flessibile e a basso costo non ha alcun valore se i lavoratori non sono in grado di svolgere il proprio lavoro. Infatti, è comune incontrare datori di lavoro che in privato deplorano il fatto di non riuscire a trovare personale qualificato per il lavoro, a prescindere da quanto lo paghino. Allo stesso modo, è noto che la maggior parte degli hotel delle principali città europee impiegano cameriere provenienti dall’Europa dell’Est che non parlano la lingua locale e cercano di cavarsela con qualche parola di inglese. (Sarebbe stato bello se qualcuno avesse previsto questi problemi una generazione fa e avesse investito denaro per risolverli, o addirittura per evitare che si verificassero). Non credo quindi che le spiegazioni economiche siano sufficienti, tanto più che ora ci sono più potenziali lavoratori a basso costo e disperati che posti di lavoro, e ne arrivano sempre di più.

Quindi cos’altro potrebbe essere? E in particolare, perché le persone che non traggono vantaggi economici dall’immigrazione di massa la sostengono comunque? Una ragione, suggerisco, è il fascino dell’esotico. Quando ero giovane, si accettava che ci fossero ampie parti del mondo che non si sarebbero mai viste, a meno che non si fosse ricchi o si avesse un lavoro che comportava viaggiare o lavorare all’estero. Oggi non è così diverso come si potrebbe pensare, soprattutto in questi tempi di insicurezza, ma la gente non lo accetta più così facilmente, perché le immagini del mondo intero sono a portata di mano e ci sono potenti interessi economici che cercano di farci credere che possiamo permetterci di andarci. E per la maggior parte di quello che io chiamo il Partito Esterno (la parte subalterna della Casta Professionale e Manageriale, la PMC) la vita è in realtà piuttosto monotona e noiosa, e le vacanze significano Grecia o forse Disneyland con milioni di altre famiglie a un costo esorbitante. Ma se non puoi andare in India o in Thailandia, e non vuoi andare in Afghanistan, beh, forse loro possono venire da te, sotto forma di ristoranti, negozi, cibi esotici al supermercato, sushi di tanto in tanto, questo genere di cose. E per molti membri del Partito Esterno, questa è praticamente la somma totale delle loro interazioni con le comunità di immigrati, ad eccezione, forse, di quel brillante e laborioso figlio di un medico indiano che è amico di vostro figlio o figlia, e i cui genitori incontrate a volte.

Forse il silenzio più strano in tutto questo è quello dei partiti della sinistra fittizia che, si potrebbe pensare, sarebbero ben consapevoli dell’impatto dell’immigrazione sul loro nucleo di elettori e starebbero facendo qualcosa per mitigarne gli effetti. Invece no: i leader di questi partiti fanno a gara per difendere quelli che definiscono i diritti degli immigrati, in particolare degli immigrati clandestini, e per abusare e demonizzare chiunque provi anche solo a sollevare l’argomento. Perché? E al contrario, i partiti della Sinistra Nozionale prestano pochissima attenzione alle politiche che fornirebbero un aiuto concreto agli immigrati, come l’istruzione, la sicurezza o la fornitura di alloggi a prezzi accessibili. Perché?

Il punto di partenza, a mio avviso, è il ben noto cambiamento di proprietà dei partiti della vecchia sinistra nell’ultima generazione o giù di lì. È noto che sono stati presi in mano da professionisti della classe media, disinteressati a continuare a costruire una base politica di massa e a governare (quando governavano) con espedienti e focus group. Ma cosa c’entra tutto questo con gli immigrati? Beh, una volta i partiti di sinistra erano fortemente sostenuti dagli elettori immigrati, perché fornivano loro assistenza pratica, e in Francia, ad esempio, molti leader di spicco della sinistra avevano origini immigrate. Conoscevo un anziano francese di origine armena, i cui genitori erano giunti in Francia dopo la Prima guerra mondiale, come molti altri, per sfuggire ai turchi. Ricordava che uno zio, arrivato un po’ più tardi, gli aveva raccontato che gli armeni erano stati accolti a Marsiglia dal Partito Comunista locale, con tessere di iscrizione al Partito e ai sindacati, e che poi si erano presi cura di loro. Oggi sembra tutto così pittoresco e superato. Ma cosa è cambiato?

Dobbiamo capire che i partiti della sinistra nozionistica sono ora controllati non da leader provenienti dai sindacati o dal governo locale e dalle comunità locali, ma dai discendenti (e a volte dagli stessi personaggi) di quei noiosi gruppi di marxisti che si trovavano nelle università negli anni Settanta, che non facevano altro che urlarsi addosso e litigare su cosa avesse detto Marx nel 1853, di ecologisti che volevano far esplodere le centrali nucleari o di femministe che ti sputavano in faccia se gli aprivi una porta. Gruppi come questi – e ce n’erano altri, ma tre sono sufficienti – non cercavano il sostegno popolare. Si consideravano gruppi d’avanguardia, seguendo la logica del pamphlet di Lenin del 1905 Che cosa bisogna fare? Lenin, si ricorderà, sosteneva che i tentativi di politici come Jaurès di prendere il potere pacificamente attraverso le urne e i sindacati erano destinati al fallimento. Era necessario un gruppo affiatato di rivoluzionari professionisti, che avrebbero preso il potere in nome della classe operaia. In effetti, i bolscevichi riuscirono dove i movimenti popolari di massa avevano fallito, generando una corrente di pensiero elitaria, dalla Scuola di Francoforte alla Nuova Sinistra degli anni Sessanta, che riteneva che la gente comune fosse stupida e quindi incapace di organizzarsi e portare avanti una rivoluzione. Ma gli attivisti illuminati, di classe media e con una formazione universitaria, sapevano cosa era bene per la classe operaia, per le donne, per i bambini, per l’istruzione, per l’ambiente e per una dozzina di altre cose, e non c’era appello contro i loro giudizi. Soprattutto, come ricordo che i militanti del partito laburista dicevano negli anni ’80, non si poteva parlare di “placare l’elettorato”.

Questa è la mentalità, e queste sono alcune delle stesse persone, che hanno controllato i partiti della sinistra nozionistica in tempi moderni. E tutto ciò che è accaduto è stato l’estensione dell’atteggiamento paternalistico nei confronti delle classi inferiori ignoranti, anche agli immigrati. Così ora la sinistra fittizia pretende di parlare per loro e di sapere cosa vogliono e di cosa hanno bisogno. Hanno bisogno di marce contro il razzismo e di ONG, ma non di istruzione o lavoro. Hanno bisogno di protezione contro il “razzismo istituzionale” della polizia, ma non contro la criminalità di cui le loro comunità soffrono in modo sproporzionato. In Francia, ad esempio, dove si piange e si stridono i denti per la violenza tra coniugi, è difficile denunciare i maschi di origine immigrata, per paura di scatenare polemiche politiche, anche se tutti riconoscono che i problemi maggiori sono in quelle società. Le associazioni di donne musulmane che protestano contro la violenza domestica o le molestie sessuali non vengono ascoltate: anzi, le femministe hanno incoraggiato queste donne a tacere, per paura di “stigmatizzare” la loro comunità.

Per generazioni, gli immigrati hanno votato per i partiti di sinistra perché erano rappresentati in modo sproporzionato tra i poveri e gli indigenti e avrebbero beneficiato dei governi di sinistra. In una misura considerevole, l’inerzia fa sì che lo facciano ancora, ma alla sinistra fittizia di oggi non importa. Il suo messaggio alla comunità degli immigrati, così come al resto dei suoi tradizionali sostenitori, è: “Zitti e votate per noi”: Zitti e votate per noi, e non aspettatevi nulla. Così, l’anno scorso, un gruppo di donne delle pulizie che lavoravano per il gruppo Accor Hotels in un hotel in una delle zone più malfamate di Parigi ha ottenuto una vittoria sulla retribuzione e sulle condizioni dopo un lungo sciopero. Quasi tutte provenivano da comunità di immigrati. Eppure non c’è stato un solo antirazzista, una sola femminista, un solo intersezionista che abbia sposato la loro causa o che ne abbia parlato. La loro vittoria è stata riportata in poche righe dai media vicini al PMC.

E questo viene notato. A livello locale, i partiti della sinistra nozionistica non cercano più di fare appello alle comunità di immigrati in quanto tali. Stringono accordi con i “leader delle comunità” locali, spesso figure religiose, ma a volte, diciamo, individui legati alla criminalità, che portano voti in cambio di posti di lavoro in municipio e sovvenzioni per le loro organizzazioni. Anche questo viene notato, ed è per questo che in molti Paesi europei il voto degli immigrati si sta spostando a destra, mentre la sinistra fittizia abbandona qualsiasi politica che possa convincerli a continuare a sostenerla. Dopo tutto, se la principale politica pubblicizzata dal partito della sinistra nozionistica locale alle elezioni è una campagna contro la “transfobia” nelle scuole, perché mai i pii immigrati di prima generazione, da poco naturalizzati, provenienti da un Paese musulmano dovrebbero votare per loro?

A lungo termine, e anche per il più arrogante dei partiti d’avanguardia, questo è un suicidio. Ma a breve termine, permette ai partiti della sinistra fittizia di continuare a usare le comunità di immigrati come serbatoio di voti, attraverso pressioni morali e accordi conclusi in stanze segrete. Inoltre, permette loro di imporre un discorso particolare sulle questioni dell’immigrazione che si adatta ai loro obiettivi. Nel loro discorso, gli immigrati sono figure deboli e indifese, sempre vittime, vittime della discriminazione e dell’emarginazione e incapaci persino di esprimere le proprie rimostranze, per non parlare di cercare di porvi rimedio. Solo i salvatori bianchi possono farlo. Soprattutto, non è ammessa alcuna critica a qualsiasi aspetto del comportamento delle comunità di immigrati, nemmeno da parte di membri di queste comunità, poiché ciò non farebbe altro che rafforzare l’estrema destra e consegnare il Paese nelle mani dei fascisti. O qualcosa del genere.

Ma accettando il fatto che la politica è spesso cattiva, cinica e arrivista, mi sembra che nell’atteggiamento della sinistra nozionistica verso gli immigrati ci debba essere qualcosa di più di questo. Ho un suggerimento, che comporta una deviazione sul tema degli imperi, ma non nel modo in cui probabilmente vi aspettate.

La mente occidentale moderna ha una comprensione bizzarra del concetto di Impero: tanto più che gli Imperi sono stati la principale forza motrice e il principale sistema di organizzazione politica fino a tempi molto recenti. Gli imperi classici (assiro, persiano, romano, moghul, Qing, arabo, ottomano, ecc.) erano essenzialmente imperi di espansione da una regione di origine imperiale, attraverso la guerra e la conquista, e in qualche misura l’assimilazione. Il motivo era spesso l’accaparramento di ricchezze e territori, e in molti casi gli imperi combattevano tra loro, e al controllo di un territorio da parte di uno seguiva il controllo di un altro. La stragrande maggioranza dei Paesi del mondo di oggi erano territori imperiali non più di un secolo fa.

Ma quando oggi si parla di “imperi”, di solito si ha un’impressione poco chiara degli effimeri imperi britannico e francese in Africa, le cui origini sono molto più complesse e in realtà molto più interessanti. Gli imperi marittimi dipendono, ovviamente, dalle navi e fu lo sviluppo di questa tecnologia a consentire i primi imperi europei in America Latina, il cui scopo originario era semplicemente l’accumulo di oro. In seguito i portoghesi stabilirono quello che viene spesso descritto come un “Impero”, ma che in realtà era più che altro una serie di stazioni commerciali, con relazioni politiche molto limitate con i regni africani dell’entroterra. La “Colonia del Capo” olandese era in realtà solo un porto in acque profonde a Simon’s Town, dove le navi olandesi delle Indie Orientali potevano fare rifornimento e riposare. Anche quando gli inglesi sottrassero la “Colonia” agli olandesi, durante le guerre napoleoniche, volevano solo la base navale.

Mi dilungo un po’ su questo punto perché, come dimostrano alcune utili mappe di Wikimedia, fino a circa centocinquant’anni fa la principale potenza coloniale in Africa era di fatto l’Impero Ottomano, e la cultura araba e l’Islam erano stati diffusi lungo la costa orientale dell’Africa dai commercianti provenienti dal Golfo. In confronto, l’impronta europea in Africa era piccola e in gran parte legata al commercio. Le ragioni di questo cambiamento sono state oscurate dalla continua influenza del movimento anticolonialista degli anni Sessanta e dalla relativa letteratura che sosteneva che l’Africa era stata “saccheggiata” dalle potenze coloniali. (In realtà, è vero più o meno il contrario: gli imperi sono stati un pozzo di denaro senza fondo). Ora, tra i motivi reali c’era sicuramente l’avidità: Cecil Rhodes è solo il più famoso degli imprenditori che promisero ai loro governi che le colonie sarebbero state redditizie, per poi essere salvati da quegli stessi governi quando fallirono. E alcuni individui hanno fatto fortuna in seguito, ad esempio con le miniere d’oro in Sudafrica. Ma la storia reale del trionfo delle idee imperiali alla fine del XIX secolo è molto più complessa e variegata di così.

Alcune motivazioni erano economiche e strategiche. Gli inglesi, ad esempio, la cui economia dipendeva dal commercio marittimo, cercavano possedimenti strategici dove poter sostenere la loro Marina, soprattutto dopo il passaggio al carbone, e un approvvigionamento sicuro di materie prime per l’industria. I francesi, dopo il 1870, vedevano nei possedimenti imperiali una riserva di manodopera e di risorse per la successiva guerra con la Germania. Entrambi avevano ragione e gli imperi hanno probabilmente salvato la Gran Bretagna e la Francia in entrambe le guerre del XX secolo.

Ma alcuni erano più strettamente politici. La vasta ricchezza creata in Gran Bretagna, Francia e Germania dalle loro rivoluzioni industriali creò la possibilità di acquisire colonie sia per sostenere l’industria (come già detto), ma soprattutto come simbolo di prestigio e status nel mondo. Avere delle colonie, ad esempio nel 1895, era l’equivalente di avere armi nucleari e di essere un membro permanente del Consiglio di Sicurezza un secolo dopo. Così, i tedeschi, arrivati tardi alla festa dopo l’unificazione, dovettero accontentarsi della Namibia, del Tanganica e del Ruanda per il loro “posto al sole”, a cui pensavano di avere diritto grazie al loro potere economico.

Ma anche se la storia completa dell’ascesa e del declino dell’imperialismo come dottrina è affascinante, e raramente gli viene data sufficiente importanza, in questa sede mi occupo di uno degli aspetti dell’interazione occidentale con l’Africa e il Medio Oriente – che va quindi ben oltre gli imperi in quanto tali – che non viene quasi mai trattato: la dimensione umanitaria. E qui cominciamo ad avvicinarci al nucleo del rapporto tra il pensiero occidentale sulle parti meno fortunate del mondo di un secolo fa e il pensiero occidentale sugli sfortunati immigrati di oggi. E le corrispondenze, in termini di ideologia, strutture e tipo di persone coinvolte, sono piuttosto sorprendenti.

Il primo tipo di interazione, oggi poco ricordato, è quello del lavoro missionario: le fondazioni missionarie, spesso ben finanziate e politicamente influenti, erano le ONG del loro tempo. Naturalmente il lavoro missionario precede di molto l’imperialismo moderno: sono ben note le attività dei missionari cattolici in America Latina e in Giappone a partire dal XVI secolo. Ma il vero impulso è arrivato con l’ascesa del cristianesimo evangelico nelle nazioni protestanti nel XVIII secolo. L’impulso domestico a portare il Vangelo ai poveri e agli indigenti, ad agire per migliorare le condizioni di lavoro e le riforme sociali in patria, si trasformò naturalmente in una preoccupazione per le condizioni del resto del mondo. Le Chiese avevano già inviato “missioni” per sostenere le piccole comunità di coloni e commercianti europei in tutto il mondo, ma dalla fine del XVIII secolo vennero create organizzazioni missionarie (come la famosa London Missionary Society) per portare la Parola di Dio in tutto il mondo. Fin dall’inizio, i missionari hanno posto l’accento sull’istruzione e sull’azione umanitaria, imparando le lingue locali e traducendo la Bibbia. Il loro lavoro li portò spesso a scontrarsi con altri occidentali presenti per motivi più mercenari.

Anche se oggi sembra difficile da accettare, ci sono stati tempi in cui la politica era dominata da persone moralmente serie. In Gran Bretagna, il movimento evangelico ha avuto una grande influenza sulla politica, dato che alcuni politici famosi – tra cui Gladstone, il grande primo ministro riformatore – sono stati profondamente influenzati dalle sue idee. Le riforme dell’epoca – istruzione, condizioni di lavoro, diritto di voto – erano accompagnate dal desiderio di essere ciò che i governi successivi avrebbero definito “una forza per il bene” nel mondo. Gli evangelici erano stati estremamente influenti negli sforzi per porre fine alla tratta degli schiavi nei possedimenti britannici e successivamente avevano contribuito a persuadere Londra a istituire l’Africa Squadron, che pattugliava le coste dell’Africa occidentale, cercando di intercettare i mercanti di schiavi e di liberare gli schiavi. Questi gruppi di pressione si sovrapponevano agli appassionati di opere missionarie e di opere di bene in Africa e altrove. Anche più tardi, quando fu istituito l’Impero britannico formale, gli amministratori coloniali che andarono a gestirlo parteciparono dello stesso fervore morale profondamente serio che portò alle riforme politiche, sociali e governative in Gran Bretagna.

Pur non avendo la stessa tradizione evangelica, i francesi non tardarono a seguire gli inglesi nella diffusione del cristianesimo. Non appena i francesi ebbero strappato il controllo dell’Algeria agli Ottomani e riuscirono a pacificarla, iniziarono a costruire la basilica di Notre Dame d’Afrique, che ancora oggi domina lo skyline di Algeri. Sotto Napoleone III ci furono spedizioni e iniziative coloniali private, ma fu dopo la fondazione della Terza Repubblica nel 1871 che la colonizzazione divenne una causa popolare. Come in Gran Bretagna, fu sostenuta da un gran numero di PMC dell’epoca, come il famoso socialista Jules Ferry, l’architetto di gran parte dell’Impero francese in Africa, che sosteneva nel vocabolario standard dell’epoca che “le razze superiori hanno il dovere di civilizzare le razze inferiori”. (Tuttavia, questa idea fu osteggiata da molti esponenti della destra, che temevano che avrebbe interferito con il buon funzionamento dei mercati).

I francesi, naturalmente, avevano il vantaggio dei principi repubblicani universali risalenti alla Rivoluzione, e proprio l’universalità di questi principi significava che potevano essere applicati con sicurezza a qualsiasi situazione, ovunque. Condividevano anche lo zelo modernizzatore degli inglesi (abolendo la schiavitù, diffondendo l’istruzione e cercando di migliorare lo status delle donne, ad esempio).

Per circa tre generazioni, l’apparato formale degli imperi di Gran Bretagna e Francia, tanto stravagantemente elogiato all’epoca quanto stravagantemente demonizzato in seguito, distolse l’attenzione da molte delle realtà quotidiane che avevano più effetto sulla vita della gente comune. Oltre alle annessioni, alle invasioni, alle ribellioni, alle scoperte di risorse naturali, ai trattati e a tutto il resto, c’erano amministrazioni coloniali che lavoravano alacremente, cercando di introdurre quello che oggi definiremmo “buon governo”. Scrissero leggi, istituirono strutture formali di governo locale, abolirono la schiavitù, cercarono di “modernizzare” società e costumi, costruirono strade e ferrovie e mandarono giovani nativi promettenti a studiare nella madrepatria. E oltre a loro, c’erano grandi reti di insegnanti, medici, ufficiali militari, specialisti tecnici e altri, attratti da un’intera gamma di motivazioni, dalle più elevate alle più mercenarie.

Il che significa che un amministratore coloniale o un missionario che si fosse addormentato cento anni fa e si fosse svegliato oggi, si sarebbe sorpreso di quanto poco fossero cambiate le cose. Come in passato, la concentrazione dei media sugli elementi più noti del rapporto tra Occidente e Resto del mondo può far sembrare che si tratti di un conflitto. In realtà, come in passato, la maggior parte di questa relazione consiste in un potere “morbido” piuttosto che “duro”, ed è gestita oggi dai ministeri dello sviluppo e dalle organizzazioni internazionali. È impressionante, per usare un eufemismo, vedere l’enorme volume di attività finanziate da queste organizzazioni in quasi tutti i settori che si possono pensare: riforma giudiziaria, diritti delle donne, gestione del settore pubblico, redazione legale, media indipendenti, responsabilità della polizia, trasparenza del bilancio, formazione anticorruzione e centinaia di altri. Se dubitate di me, visitate i siti web dell’UE, delle Nazioni Unite, dell’OCSE e dei principali donatori come Canada, Svezia, Germania e altri, e ammirate le pagine e pagine e pagine di progetti che coprono ogni aspetto della vita laggiù. Ci sono persino società di consulenza che vi aiutano a trovare i progetti e newsletter che vi guidano, soprattutto a Bruxelles. Oppure guardate i siti di alcune agenzie di sviluppo nazionali e stupitevi dell’arroganza neocoloniale di funzionari senza alcuna esperienza reale che ingaggiano consulenti senza alcuna esperienza reale per mettere insieme squadre di persone che interferiscano nelle aree più sensibili dei Paesi di altri popoli.

Se vi recate in un’ambasciata di un Paese occidentale di medie dimensioni nel Sud del mondo, scoprirete che, a parte l’ambasciatore e alcuni membri della cancelleria, il personale consolare e forse un addetto alla difesa e uno specialista del commercio, il grosso degli sforzi dell’ambasciata si concentra su questioni vagamente definite “sviluppo”, “governance”, “riforme”, “prevenzione dei conflitti” e “diritti umani”, che sono un codice collettivo per i tentativi di imporre un’agenda PMC al Paese. Ci saranno un paio di giovani entusiasti distaccati dal Ministero dello Sviluppo, che avranno bisogno di interpreti, un po’ di personale assunto localmente che ha studiato all’estero e che parla inglese, che è la lingua in cui l’Ambasciata dovrà in pratica lavorare, e la maggior parte del lavoro effettivo sarà appaltato a ONG locali con personale giovane che ha studiato all’estero e che parla anche inglese. L’argomento più importante sarà probabilmente il genere: l’Ambasciata potrebbe avere un consigliere a tempo pieno per il genere, un ambizioso programma per il genere, sponsorizzare seminari di giovani donne istruite all’estero e assegnare ogni anno un premio speciale a una donna che ha avuto un successo particolare negli affari. (La condizione reale delle donne comuni, soprattutto al di fuori della capitale, non sarà una priorità: i problemi sono comunque troppo grandi). E poi c’è un colpo di stato o una guerra che nessuno ha visto arrivare perché stava facendo altre cose.

Se tutto questo suona come un’accusa un po’ stizzita al fatto che non è cambiato molto negli atteggiamenti dall’epoca coloniale, beh, in un certo senso è così. E probabilmente è peggiorato: cento anni fa, gli amministratori e i missionari coloniali erano più informati e meno invadenti dei loro discendenti. Ma è importante capire due cose. Uno è che, come nel periodo della colonizzazione formale, le persone vengono coinvolte per i motivi più disparati e molte hanno forti imperativi ideologici o morali per quello che fanno. Il Primo Segretario (Sviluppo) medio di un’Ambasciata probabilmente crede di “fare del bene”. E questo a sua volta significa che, come il resto dell’agenda della PMC, i loro progetti sono intrinsecamente virtuosi e non possono mai fallire, possono solo essere falliti. Come ho sempre detto, non c’è nessuno più pericoloso di un idealista.

Ma il secondo punto, direttamente collegato all’epoca coloniale, è forse più importante. Durante quell’epoca, c’era una completa distinzione tra chi lavorava sul campo e chi lavorava nelle organizzazioni e nei governi del Paese d’origine. L’Ufficio per l’Africa a Londra era gestito da persone che in quasi tutti i casi non avevano mai visitato il continente. Allo stesso modo, il personale in loco tornava solo occasionalmente nella madrepatria: un membro del Servizio Civile Sudanese, un’organizzazione governativa molto rispettata all’epoca, poteva essere assunto a Londra, ma avrebbe trascorso tutta la sua vita lavorativa in Sudan, con il diritto forse a una visita in patria qualche volta nella sua carriera. (Il padre di George Orwell, ad esempio, tornava a casa dall’India una volta ogni sette anni). Allo stesso modo, i funzionari delle Società Missionarie o delle numerose organizzazioni di volontariato che inviavano medici e insegnanti all’estero, raramente lasciavano il loro paese.

Non è così bizzarro come sembra. Cento anni fa, per andare da Londra a Khartoum, passando per Alessandria, potevano volerci settimane e costare una fortuna. Oggi, il funzionario del Ministero degli Esteri responsabile per il Medio Oriente può fare un tour introduttivo in dieci giorni. Un secolo fa ci sarebbero voluti sei mesi. In pratica, i responsabili delle politiche, i finanziatori e i leader politici avevano solo una vaga idea di ciò che accadeva sul campo, e chi era sul posto spesso faceva ciò che gli sembrava meglio. Spesso le due cose erano in conflitto, dato che i missionari e gli amministratori coloniali erano sul campo.

Con il passare delle generazioni, naturalmente, la serietà morale di quell’epoca si è affievolita. Il senso del dovere di portare il “buon governo” o la “Parola di Dio” alle popolazioni native è stato sostituito dal desiderio meccanico, e spesso aggressivo, di obbligare altre parti del mondo a ricostruirsi a nostra immagine e somiglianza. Il fervore repubblicano che animava personaggi come Ferry è oggi considerato con imbarazzo in Francia, che ha completamente inghiottito l’ideologia liberale di stampo PMC. Ciò che rimane è proprio questa ideologia liberale vuota e incoerente, e il desiderio di imporla agli altri attraverso il potere politico e finanziario, spesso per motivi carrieristici e per avere un’influenza non riconosciuta su settori sensibili dei governi stranieri. E rimane anche, in forma degenerata, il desiderio di sentirsi bene con se stessi, di far compiere all’estero una serie di atti performativi che confermino che siamo persone meravigliose.

Eppure la globalizzazione offre ogni sorta di nuove opportunità per iniziative performative e autocelebrative. Anziché limitarci a inviare persone laggiù, possiamo portare qui la materia prima del nostro senso di orgoglio e di virtù, in modo da assumere ulteriori pose morali. In effetti, i nostri leader hanno importato le colonie nei nostri Paesi, in modo da poter patrocinare la loro gente come facevamo cento anni fa. Naturalmente, la PMC non si sporcherà le mani con i dettagli pratici, così come non lo facevano un tempo la London Missionary Society o il Ministère des Colonies. Vivono distaccati dagli ingredienti performativi che hanno portato con sé quasi quanto i loro antenati ideologici di un secolo o più fa. Lasciano la gestione concreta della situazione alle forze dello Stato, spesso mal pagate e non considerate (personale del municipio, assistenti sociali, polizia, personale medico e insegnanti, che sono quotidianamente all’opera) e alle organizzazioni caritatevoli, che sono completamente sopraffatte dalla portata dei problemi. Nel frattempo, i PMC nelle loro zone chic delle città si congratulano compiaciuti di quanto siano virtuosi e superiori, e di quanto sia malvagio e spregevole chiunque critichi le loro politiche di immigrazione, o voglia anche solo parlarne.

E questo, forse, è il beneficio finale dell’attuale politica di immigrazione incontrollata: la superiorità morale, che questa volta non deriva da qualcosa che hai fatto, ma solo da ciò che pensi. Ci sono pochi piaceri più squisiti e delicati, dopo tutto, che sedersi a giudicare moralmente gli altri, senza dover fare nulla di concreto. Alcuni decenni fa, Michel Rocard, allora primo ministro di François Mitterrand, disse notoriamente che la Francia non poteva “accogliere tutta la miseria del mondo”. Fu criticato furiosamente per questa affermazione, ma un attimo di riflessione dimostra che aveva ragione: quanto tempo ci vorrebbe, ad esempio, per trovare, trasportare in Francia, ospitare, nutrire e vestire le centinaia di milioni di persone indigenti nel mondo? L’errore di Rocard è stato quello di trattare il linguaggio performativo e normativo come se fosse destinato ad applicarsi al mondo reale, come se si trattasse di una questione di ciò che dovremmo fare, in contrapposizione alla questione molto più importante di ciò che dovremmo dire. Ed evidentemente la PMC non si sta affrettando a offrire ai miserabili del mondo un posto in casa propria. (Diffidate sempre di chi dice “dobbiamo” quando in realtà intende “dovete”).

E ora, credo, ci sono segnali che indicano che questo abile teatrino della superiorità morale sta iniziando a crollare. Come sempre, è impossibile dire a quale velocità avverrà, ma è chiaro che il processo è in corso. Arriva un momento in cui l’intimidazione normativa non funziona più. Per ironia della sorte, basterebbe ascoltare le stesse popolazioni immigrate. Non vogliono marce contro il razzismo e appelli per il disboscamento della polizia. Vogliono posti di lavoro, opportunità e un’istruzione decente per i loro figli, sicurezza nella loro vita quotidiana e libertà dall’influenza delle bande di droga e degli estremisti religiosi. (Qualsiasi amministratore coloniale del 1900, riportato in vita, avrebbe visto esattamente cosa c’era da fare).

Forse in un futuro non troppo lontano organizzeranno una marcia antirazzista e anti-islamofobia, ma non verrà nessuno.

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Che cos’è la politica?_di Dr. Vladislav B. Sotirovic

Che cos’è la politica?

Esistono molti approcci ufficiali e non ufficiali, accademici e non, e definizioni formali/informali della politica e del suo funzionamento nella società. Tuttavia, come concetto più universale, si può concludere che la politica è semplicemente la capacità di dirigere e amministrare uno Stato (in greco antico – polis o città-stato) o altre organizzazioni politiche (come quelle multilaterali, internazionali, sovranazionali, ecc.). In sostanza, l’amministrazione dello Stato o di altri soggetti politici è una questione di arte.

Lo Stato può essere definito come un’associazione politica che stabilisce una giurisdizione autonoma/sovrana entro confini territoriali definiti. Inoltre, la sovranità è la pratica di un’autorità politica superiore che si riflette nel fatto che lo Stato è l’unico e superiore creatore di leggi e del potere di proteggerle entro i confini dello Stato (reale o immaginabile). In pratica, esistono due tipi di sovranità statale: esterna e interna.

La sovranità esterna (politica) considera la capacità dello Stato di agire come attore indipendente nelle relazioni internazionali. In pratica, però, implica due punti cruciali:

1) gli Stati devono essere da diversi punti di vista (o almeno giuridici) uguali nelle relazioni reciproche; e
2) che l’integrità territoriale seguita dall’indipendenza politica di uno Stato è inviolabile.

La sovranità interna (politica) dello Stato, invece, si riferisce al territorio all’interno dei confini statali da parte del potere politico supremo (il governo, in pratica supportato da forze di sicurezza armate). Infine, la politica è strettamente legata al concetto di autorità, che è la capacità di influenzare la politica degli altri, fondamentalmente, sulla base del dovere e dell’obbedienza.

Tuttavia, come ci si può aspettare, la comprensione e soprattutto alcune definizioni ufficiali della politica sono, storicamente parlando, una questione molto complessa e persino essenzialmente contestata. In pratica, esiste un alto grado di disaccordo su questioni molto pratiche su quali aspetti della vita sociale e dell’ambiente umano possono essere applicati all’arte della politica. Secondo un approccio, una persona per nascita è politica, il che significa semplicemente, nella pratica, che l’essenza fondamentale della vita politica sarà vista in qualsiasi relazione interumana, comprese, ad esempio, le relazioni di genere (maschio/femmina). Tuttavia, nell’uso popolare in tutto il mondo (ma soprattutto in Occidente), il quadro ristretto della politica è quello del design. In altre parole, si intende che la politica opera solo a livello governativo e si occupa degli affari dello Stato. Nelle società occidentali, inoltre, la politica deve coinvolgere la competizione tra partiti politici seguita da elezioni multipartitiche per i diversi livelli di autorità. In generale, la politica come fenomeno socio-storico è estremamente limitata sia nello spazio che nel tempo.

La concezione tradizionale del fenomeno della politica era quella di “arte e scienza del governo” o “gestione degli affari dello Stato”. In questo caso, però, il problema pratico è ancora irrisolto: non è mai stato raggiunto un accordo comune sulla portata delle attività e dei livelli di gestione dello Stato di cui il governo è responsabile. Ad esempio, alcune delle domande principali sono:

1) Il governo si limita solo agli affari di Stato?
2) Il governo ha il diritto di interferire negli affari della chiesa, della comunità locale o della famiglia?
3) Il governo si svolge in un’economia (liberale)?

Storicamente, i filosofi della scienza politica si sono occupati di due questioni cruciali applicate al fenomeno della politica:

1) se altre creature, a parte gli esseri umani, esercitino la politica; e
2) È possibile che la società esista senza politica?

Alcuni di loro hanno sostenuto che altre creature (come le api) hanno la politica e che alcuni tipi di società, almeno teoricamente, (come quella utopica) possono esistere senza politica. In pratica, però, la politica si applica solo agli esseri umani; in altre parole, a quegli esseri che possono comunicare simbolicamente e di conseguenza fare affermazioni, accettare certi principi, discutere e infine dissentire. Per esempio, la politica si verifica nei casi in cui gli esseri umani discutono su alcune questioni pratiche nelle loro società e hanno determinate procedure per risolvere il problema al fine di trovare un accordo comune accettabile almeno dalla maggioranza aritmetica (democrazia), ma non necessario. Nella concezione occidentale (liberal-democratica) della politica, non c’è (vera) politica nei casi in cui c’è un accordo monolitico e totale sui diritti e sui doveri in una società (ad esempio, nel sistema dittatoriale/totalitario a partito unico).

Tuttavia, da un punto di vista più ampio, la politica si riferisce a certe attività utilizzate dagli esseri umani per creare, difendere e cambiare le regole ai diversi livelli in cui vivono. La politica è sempre stata strettamente legata sia a conflitti e cooperazioni che ad accordi e disaccordi. Da un certo punto di vista, c’è la pratica di argomenti opposti, desideri opposti su come risolvere il problema, desideri politici, economici, sociali, ecc. in competizione, e il battere gli interessi degli altri. In questo caso, c’è un disaccordo sulle regole in base alle quali vivono gli abitanti di certe società. Tuttavia, in molti casi pratici, per influenzare tali regole (leggi) o per forzarne l’attuazione pratica, le persone possono collaborare con altre persone. Tuttavia, la politica è un fenomeno estremamente controverso, in quanto è stata storicamente intesa come arte del governo/stato, come affari pubblici nella maggior parte dei punti di vista generali, come risoluzione non violenta di diverse controversie e, infine, come potere e distribuzione di vari tipi di risorse. Infine, lo statecraft (gestione politica dello Stato) può essere definito come l’arte di condurre gli affari pubblici e la politica estera per realizzare l’interesse nazionale: gli obiettivi della politica estera dello Stato per il (presunto) beneficio della società.

In ogni caso, l’azione dello Stato come attore politico indipendente, sia in politica interna che esterna, richiede il possesso di un potere reale. Il fenomeno del potere politico può essere inteso come la capacità di influenzare i risultati di determinate azioni, che include la capacità dello Stato di gestire gli affari politici e di altro tipo all’interno dei propri confini senza l’interferenza di altri attori politici (esterni). In questo senso, politica statale e potere sono in strettissima relazione, sostanzialmente sinonimi.

testo originale: Sotirovic 2023 What is a politics

Dr. Vladislav B. Sotirovic
Ex professore universitario
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

© Vladislav B. Sotirovic 2023
Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com                                                                                            © Vladislav B. Sotirovic 2023

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Carlo Lottieri, La proprietà sotto attacco, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Lottieri, La proprietà sotto attacco, Liberilibri 2023, pp. 88, € 16,00.

Sarebbero necessari tanti saggi come questo per risvegliare il senso comune da quel “sonno mediatico” che occulta pratiche, mezzi ed espedienti di sfruttamento dei governati (alias sudditi) del nostro tempo, soprattutto di quelli della Repubblica italiana. L’argomento può essere affrontato da più angoli visuali: Lottieri lo considera soprattutto da quello filosofico. Così l’autore considera il neopositivismo di Kelsen, per cui il diritto è “ricondotto alla mera validità formale”, ed è un sistema normativo organizzato secondo una gerarchia di precetti, fino a quello fondamentale. Questa «gerarchia ben precisa colloca obblighi e sanzioni ben al di sopra dei cosiddetti “diritti”. Questo positivismo giuridico, di conseguenza, si traduce nell’assoluto arbitrio di chi comanda» (il corsivo è mio). Ciò era stato stigmatizzato già circa un secolo orsono da Carré de Malberg, secondo il quale la gerarchia di norme del giurista austriaco non era altro che la conseguenza della gerarchia tra organi dello Stato: la conformità dell’atto amministrativo alla legge era il riflesso della superiorità del Parlamento sul governo e l’amministrazione (e così via).

In particolare la proprietà è stata svuotata di contenuto attraverso una disciplina che sottraeva o limitava facoltà a favore dei poteri pubblici (quello che Rodotà, lato sensu, chiamava il “controllo sociale delle attività private).

Per cui sempre il giurista calabrese riteneva la proprietà un diritto sotto riserva di legge, ma del quale il legislatore poteva plasmare ad libitum il contenuto. I tedeschi, che avevano già assistito ad un dibattito simile relativamente al diritto di proprietà come regolato dalla Costituzione di Weimar, quando si dettero la Grundgesetz, tuttora vigente, si affrettarono per evitare simili concezioni, a disporre (all’art. 19) che “in nessun caso un diritto fondamentale può essere leso nel suo contenuto sostanziale”; oltre a vietare su tali diritti, di legiferare con leggi di carattere non-generale.

In realtà, sostiene Lottieri “esiste un’inimicizia originaria tra il potere e il diritto, e quindi anche tra il potere e la proprietà”, in ispecie da quando l’ “ordine giuridico è stato ricondotto alle decisioni arbitrarie del legislatore”, onde “L’arbitrio anarchico del decisore politico stabilisce chi deve avere cosa, ma questo è reso possibile da una sorta di ipoteca collettivistica: dall’idea che ci sia un gruppo di potere titolato a disporre di ogni bene e che può attribuirlo a sua discrezione”. Lo Stato è il più grande distributore dei diritti (e delle risorse correlative). Peraltro nella cultura progressista e nel suo “Stato di diritto”; “è stato allora delineato, grazie alla teorizzazione dello Stato di diritto democratico e sociale, un super-costituzionalismo in ragione del quale alla tripartizione puramente istituzionale tra legislativo, esecutivo e giudiziario si affiancherebbe una tripartizione ben più rilevante, la quale rinvia al contrapporsi dei tre “poteri” (politico, culturale ed economico). In questo modo la sovranità collettiva trarrebbe la sua legittimità e necessità dal compito di contrastare le minacce provenienti dall’economia e dalla cultura, dalla ricchezza e dal pensiero”. Onde funzione dello Stato sarebbe di contrastare i relativi (e così denominati) abusi. Ma “L’esito di tutto ciò è un potenziamento crescente, tendenzialmente illimitato, del dominio politico: del controllo che il ceto governante esercita sul resto della società, sempre più espropriata dai governanti e dai loro complici”.

Il che non ha affatto impedito che dei poteri pubblici si servissero anche i grandi poteri privati, realizzando così un mélange pubblico-privato, d’altra parte spesso ripropostosi (storicamente) in gran parte delle comunità. Anche l’occidente, e non solo Putin (e Xi) ha i propri oligarchi. D’altronde, quanto alla dimensione temporale questo era già stigmatizzato da Pareto nella forma della “plutocrazia demagogica” molto simile all’attuale apparato economico-mediatico di controllo. Anche oggi, i poteri forti “hanno reso possibile un nuovo dirigismo, in cui la grande impresa lavora di concerto con i politici e gli intellettuali. Non c’è dunque da stupirsi se ora, un po’ tutti, stanno passando all’incasso”.

Da ultimo, per favorire il controllo sui governati si è inventato anche degli stati di emergenza gonfiati, l’ultimo dei quali pressoché inesistente (quanto alla causa indicata). È quello del riscaldamento ambientale, contestato da tanti scienziati e contraddetto dall’andamento ciclico delle temperature (da millenni, assai prima dell’uso dei combustibili, dei motori e delle caldaie moderne).

Nel complesso un saggio assai interessante, che ne fa auspicare un altro: come nell’Italia della Repubblica sia stato conculcato legislativamente il diritto di proprietà e quanto ci sia costato. Speriamo che Lottieri sia disponibile a scriverlo.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Manifesto di Orvieto_ Un invito alla riflessione_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto i testi, con i relativi link disponibili per chi avesse difficoltà di lettura dei documenti non perfettamente formattati per mancanza di tempo, propedeutici al dibattito nell’assemblea di fondazione del Forum dell’Indipendenza Italiana, presieduta da Gianni Alemanno, che si terrà a Roma il 25 e 26 novembre prossimi.

A parere dello scrivente gli elaborati rappresentano, in termini di analisi, quanto di più compiuto sia riuscito a produrre una organizzazione politica, sia pure in formazione, almeno sui temi cari a questo sito.

Vi sono diversi punti controversi sui quali aprire la discussione. In particolare la priorità da attribuire alla battaglia culturale, il decadimento degli stati nazionali e la qualità del potere del capitalismo e dei capitalisti, in particolare finanziario, in quale maniera andrebbero esercitate le prerogative dello stato in un sistema globalizzato o quantomeno esteso di relazioni, l’atteggiamento da tenere sulle nuove tecnologie, sulla loro forza di penetrazione, distinguendole dai fondamenti esistenziali inquietanti costruiti a corollario. 

Quanto alle proposte politiche, al programma del manifesto, la discussione promette di essere ancora più accesa, con riguardo soprattutto al ruolo e alla istituzionalizzazione delle associazioni a tutela in particolare dei ceti intermedi, alla funzione del conflitto sociale, al ruolo della grande impresa multinazionale e al suo rapporto con gli stati nazionali.

Gli estensori  partono da una constatazione realistica, il retaggio ancora irriducibile delle ideologie otto/novecentesche, per concludere che l’azione politica deve svolgersi ancora distintamente nelle rispettive aree ideologiche, evitando agglomerazioni affrettate e pasticciate. Il rischio pesante è quello di essere ancora una volta risucchiati nel passato. L’enfasi attribuita alla contrapposizione tra élites e massa, all’impegno scandito dalle battaglie e dalle scadenze elettorali, alla assoluta priorità data al successo e alla rappresentanza elettorale rispetto al problema dell’effettivo esercizio del governo e del potere, rischiano però di riproporre sotto mutate spoglie gli errori e gli opportunismi più o meno intenzionali che hanno inficiato tutte le esperienze del recente passato, in particolare quelle del M5S, di Salvini e per certi versi di Matteo Renzi, portando alla disillusione componenti sempre più importanti di popolazione?

Cercheremo di aprire una discussione sul merito compatibilmente con le nostre modeste forze. Buona lettura, Giuseppe Germinario

MANIFESTO-DI-ORVIETO-1

Noi chiamiamo a raccolta chi ci crede ancora.Chi si emoziona quando sente il nostro inno nazionale e guarda la bandiera dell’Italia alta nel cielo. E non si rassegna a vedere donne e uomini messi ai margini, sfruttati, privati di ogni diritto.Chi non accetta di sentir parlare male degli Italiani, chi si ricorda della nostra storia e la vede ancora scorrere nell’immensa creatività di questo popolo e di questa cultura.Le radici contano, l’identità di ognuno di noi è fatta della lingua, della cultura, della memoria condivisa, dell’ambiente e del paesaggio che ci circonda e a cui dobbiamo dare valore. Per questo l’identità di ciascuno di noi vive nelle comunità di cui facciamo parte, dalla famiglia ai territori, fino alla Comunità nazionale.Noi ci sentiamo europei, perché siamo innanzitutto e soprattutto Italiani. Se smetteremo di essere Italiani, smetteremo anche di essere europei.Noi crediamo ancora nel valore della cittadinanza che si radica nell’identità. Un valore che chiede ogni giorno sacrificio, impegno sociale e partecipazione politica, ma che deve garantire il lavoro per tutti e i diritti sociali per ogni famiglia. La cittadinanza non si regala a nessuno, né a chi è nato italiano, né a chi viene da altri paesi.La democrazia nasce dalla cittadinanza e dalla sovranità popolare, scompare quando si diventa sudditi e quando i diritti sociali vengono negati.Tutto questo è scritto nella nostra Costituzione, perché è scritto nella nostra storia, nella Dottrina sociale cattolica e nell’Umanesimo del Lavoro.Proprio per questo c’è bisogno di un profondo cambiamento e il tempo in cui stiamo vivendo è propizio per questa svolta.L’Italia deve uscire dalla condizione di sudditanza economica, finanziaria e politica, che è la radice di tutti i suoi problemi. Siamo sempre più una colonia che subisce il vincolo esterno dell’Unione Europea e le direttive geo-politiche del deep state americano, dietro cui non è difficile cogliere gli interessi e i progetti della global finance. Non certo dei popoli europei o del popolo americano, che subiscono quanto noi questa perdita di sovranità.Non è solo una questione di orgoglio nazionale: dalla nostra indipendenza dipende il futuro del nostro popolo e la nostra libertà di cittadini.Non riusciremo più a dare un lavoro dignitoso ai nostri figli e a garantire i diritti sociali delle nostre famiglie se non ci ribelleremo ai vincoli di austerità e liberismo che ci vengono imposti da Bruxelles. Ancora oggi la Commissione europea – nel pieno di una guerra – vuole rapidamente tornare ad un Patto di Stabilità ancora più severo e obbligarci ad approvare una riforma del MES che ci metterà ancora di più a rischio di default. Queste riforme europee imporranno alla nostra2economia manovre finanziarie di tagli alla spesa pubblica di almeno 10 miliardi all’anno per dieci anni, rendendo così impossibile ogni investimento per lo sviluppo e ogni spesa necessaria ai servizi sociali essenziali.Le direttive del deep state americano ci hanno imposto guerre devastanti per il nostro interesse nazionale e per la nostra economia: dalla seconda guerra del Golfo, all’intervento nel Kosovo, all’attacco alla Libia, fino al coinvolgimento in prima linea nel conflitto in Ucraina. Un paese come il nostro, naturale ponte tra il Nord e il Sud, tra l’Est e l’Ovest, è stato trasformato in un confine armato nel cuore del Mediterraneo.Per questo la questione sociale esplode nel nostro Paese: squilibrio crescente nella distribuzione della ricchezza; diffusione della povertà anche nel ceto medio; mancanza di lavoro dignitoso e adeguatamente retribuito; smantellamento di tutti i servizi sociali, sanitari e previdenziali; abbandono del territorio e devastante degrado urbano; tratta di esseri umani che porta sempre più disperati sulle nostre coste; fuga dei nostri ragazzi all’estero per cercare lavoro.Il divario tra il Nord e il Sud dell’Italia è tornato a crescere, i diritti e i doveri non sono più uguali per tutti gli Italiani e il progetto di autonomia differenziata rischia di rendere irreversibili questi problemi e queste ingiustizie. Nessuna regione trarrà vantaggio dalla divisione dell’Italia.Per dare risposte a questa crisi sociale bisogna innanzitutto rilanciare lo sviluppo ricostruendo le filiere produttive della nostra economia nazionale, con una nuova sinergia tra Stato e piccole e medie imprese. Lo Stato deve rigenerare la nostra grande industria, le PMI devono essere liberate dal peso delle tasse e della burocrazia, protette dalla concorrenza predatoria delle grandi multinazionali, per poter esprimere tutta la creatività del made in Italy. L’Italia deve tornare a produrre ricchezza e a ridistribuirla equamente tra tutta la popolazione. Ma tutto questo non è possibile senza entrare in conflitto con i vincoli europei.La nostra sudditanza finisce per colpire anche le libertà individuali e la dignità dell’essere umano: è in atto un vero e proprio attacco “transumanista” alla nostra condizione umana, l’evoluzione dell’eugenetica nell’era delle nuove tecnologie.Le multinazionali del farmaco, Big Pharma, stanno costruendo la dittatura sanitaria, cominciata con le campagne vaccinali per il Covid e oggi proiettata a conferire ad una OMS privatizzata il controllo della sanità mondiale.Le multinazionali biotech diffondono l’ideologia gender per aprire la strada alle peggiori sperimentazioni biotecnologiche che manipolano il concepimento di un figlio, la dignità della vita umana, l’alimentazione naturale e la biodiversità.Big Tech, i giganti della tecnologia dell’informazione, ci impongono la transizione digitale, che vuole consegnare all’intelligenza artificiale il controllo delle nostre possibilità di conoscenza e percezione del reale.La Green economy rende obbligatorie le tecnologie delle energie rinnovabili, le batterie e i pannelli fotovoltaici fatti con terre rare estratte con il lavoro minorile, la limitazione dei nostri spostamenti, la rottamazione delle nostre abitazioni e delle nostre autovetture. Ci illudono di contrastare il cambiamento climatico con la transizione green, invece che con la cura del territorio e dell’ambiente, la limitazione del consumismo “usa e getta” e una diversa qualità della vita.Ma da dove vengono le strategie di queste multinazionali se non dall’Agenda di Davos del Word Economic Forum, dalla finanza globale in larga parte radicata in quel mondo occidentale che noi dovremmo difendere in nome della “libertà del mercato” e della lotta contro le “autocrazie”?3Per reagire a queste devastanti manipolazioni dobbiamo difendere fino in fondo la libertà personale di ognuno di noi e ripristinare la sovranità dello Stato nazionale sull’uso delle tecnologie, con il rilancio della ricerca e della sanità pubbliche e con istituzioni scientifiche trasparenti e qualificate. Tutta la cultura, la formazione dei nostri giovani e l’informazione mediatica devono essere liberate dai condizionamenti economici e dagli interessi lobbistici, con un forte intervento della mano pubblica finalizzato a garantire veramente la libertà di scelta di tutti i cittadini.Oggi, a differenza del passato, le porte della nostra prigione possono essere aperte. Sta emergendo un mondo multipolare che mette in discussione la supremazia americana e permette a tutti i popoli di riprendersi la propria indipendenza.Per questo, dopo più di dieci anni di governi imposti dall’alto, speravamo che l’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi potesse rappresentare questa svolta. Un governo votato dai cittadini, un partito di maggioranza relativa premiato per la coerenza di rimanere sempre all’opposizione, erano la premessa per rimettere in movimento la nostra Nazione.Purtroppo, questi primi mesi di governo sono stati una profonda delusione: non si tratta solo delle naturali difficoltà di avviare un nuovo Esecutivo contro una burocrazia ostile e tra mille trappole nazionali e internazionali. Il problema è che la Premier, sotto la pressione di queste difficoltà, ha scelto la strada sbagliata e la direzione opposta.L’Italia è a un bivio, deve scegliere: sfruttare le opportunità offerte dal nuovo mondo multipolare o rimanere imprigionata nel vincolo esterno di una Unione europea in crisi e di un atlantismo in declino.Non si può essere conservatori nei valori e liberisti in economia. Il liberismo nega i valori non negoziabili e cancella i principi. Non si può difendere il nostro interesse nazionale facendo i primi della classe in Europa e nel G7. Solo andando controcorrente si risale la china.Queste verità erano già state intuite tanto tempo fa, quando la destra sociale e nazionale parlava di alternativa al sistema. Oggi le stanno denunciando tanti “mondi del dissenso” trasversali e non ideologici, che raccolgono coloro che stanno pagando sulla loro pelle il prezzo della sudditanza.Per questo non abbiamo nessuna intenzione di essere “la destra della destra”, di continuare l’antica disputa della destra sociale e identitaria contro la destra conservatrice e liberista.Con il Forum dell’indipendenza italiana noi vogliamo raccogliere tutti coloro che cercano di uscire dalla prigione della sudditanza, aperti a ogni confluenza e a ogni confronto, guardando alle prospettive e non alle provenienze. Perché questo non è più il tempo del settarismo, delle antiche faide che hanno dilaniato il nostro popolo in una interminabile guerra civile, rendendoci più deboli di fronte alle colonizzazioni.Noi speriamo che questo Governo eletto dal popolo riveda le sue posizioni, perché non vogliamo certo tornare a governi tecnici imposti dall’alto, mentre l’opposizione progressista ci appare ancora più condizionata dall’Agenda di Davos e per questo lontana dai bisogni degli Italiani.Noi chiediamo a tutta la politica ufficiale di tornare a confrontarsi con i problemi reali, anche per contrastare un astensionismo sempre più dilagante. Bisogna superare i partiti personali, fatti da cerchi magici e ras locali, dove non c’è democrazia interna, partecipazione e radicamento nel4territorio. Bisogna ridare al popolo il diritto di scegliere veramente i propri rappresentanti, con preferenze e collegi uninominali contendibili, di eleggere direttamente il Presidente della Repubblica, di indire referendum ogni qual volta sarà necessario.Per questo facciamo appello al mondo delle liste civiche che esprime una parte importante della politica italiana, proprio quella più radicata nel territorio e meno disponibile a piegare la testa di fronte alle imposizioni dei partiti. Bisogna coinvolgere questo mondo in un grande progetto politico nazionale, perché anche i problemi locali possono essere risolti soltanto liberandoci dai vincoli dell’Unione europea.Vogliamo confrontarci con le rappresentanze della società civile, le organizzazioni di categoria e le rappresentanze sindacali, gli ordini professionali, le fondazioni e casse di previdenza, il mondo delle associazioni, le Camere di commercio e le Università. Al di là di tanti interessi lobbistici e giochi di potere, esiste in tutte queste realtà un potenziale di partecipazione e di progettualità che non può essere disperso.Sovranità popolare, rigenerazione dello Stato-nazione, rilancio dell’economia nazionale, diritti sociali garantiti dalla Costituzione, partecipazione e sussidiarietà sono i principi da contrapporre ai poteri forti dell’economia e della finanza.Questo è il tempo del popolo che si ribella contro il tradimento delle classi dirigenti, dei valori umani e cristiani per reagire agli attacchi della tecnocrazia, degli italiani che vogliono riprendersi le chiavi di casa.Noi non ci tiriamo indietro, chiediamo a tutti di fare altrettanto.Un movimento per l’Italia può nascere davvero.Orvieto, 30 luglio 2023

documento-politico-orvieto23

Allegato 1
DOCUMENTO POLITICO
I. ALL’ALBA DI UN NUOVO CICLO POLITICO
II. L’ANIMA “POPULISTA” DEL CAMBIAMENTO
III. LA PREMESSA: REGOLARE I CONTI A DESTRA
IV. IL PRIMO LIVELLO DI AGGREGAZIONE: I MONDI DEL
DISSENSO
V. IL SECONDO LIVELLO DI AGGREGAZIONE: LISTE CIVICHE
E CORPI INTERMEDI
VI. OBIETTIVI FONDAMENTALI E IDEE-FORZA DI UN
MOVIMENTO PER L’ITALIA
2
I. ALL’ALBA DI UN NUOVO CICLO POLITICO
Abbiamo tutti la sensazione che – secondo ritmi storici sempre più accelerati – un
nuovo ciclo politico si stia affacciando all’orizzonte della storia nazionale ed europea.
A livello globale la guerra in Ucraina sta segnando un altro passo avanti verso
l’emersione di un nuovo mondo dopo l’epoca dell’unipolarismo americano,
cominciata nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino ed entrata in crisi irreversibile
con la parabola di Donald Trump, la fuga dall’Afghanistan e la crescita economica e
politica dei BRICS.
L’alternativa dei prossimi anni, quella che darà il segno della nuova epoca che si sta
aprendo, sarà tra la speranza di un vero mondo multipolare in cui possano riprendere
valore le identità e le sovranità dei popoli, oppure la minaccia di un nuovo
bipolarismo Usa-Cina, in cui le logiche oppressive del mercato globale saranno rese
ancora più feroci da nuove forme di totalitarismo. La guerra in Ucraina appare come
uno strumento per mettere in una posizione subordinata Europa e Russia rispetto a
questo nuovo progetto di bipolarismo e non è un caso che tutti i paesi BRICS – anche
sotto la spinta degli interessi strategici della Cina – siano schierati più dalla parte della
Russia che non dalla parte dell’Occidente.
Questo nuovo bipolarismo sarà molto più devastante di quello novecentesco: se allora
si contrapponevano consumismo e gulag, oggi la posta in palio sono le gestioni
totalitarie delle pandemie, dell’intelligenza artificiale e delle biotecnologie
transumaniste. Un attacco alle radici stesse dell’identità e della libertà della persona
umana.
Di riflesso a questi scenari l’Unione europea manifesta con sempre maggiore
chiarezza la sua funzione negativa: non rappresenta – come qualcuno ancora si illude
– un primo, magari imperfetto, passaggio verso la sovranità dei popoli europei, al
contrario si rivela come una gabbia costruita proprio per impedire al nostro Continente
di conquistare un ruolo geo-politico e un modello economico-sociale conforme alla
sua civiltà.
Non si spiegherebbe altrimenti la pervicacia con cui vengono imposti modelli che
sembrano fatti apposta per deprimere culturalmente, socialmente ed economicamente i
popoli europei: rigida applicazione dei dogmi economici liberisti, sostegno maniacale
delle ideologie gender e immigrazionista, fondamentalismo ambientalista e scientista,
totalitarismo digitale, indifferenza per l’impoverimento crescente delle popolazioni.
Il nuovo scalino di questa follia è un “incastro” determinato da diverse azioni
convergenti: il nuovo Patto di stabilità e crescita, la riforma del Mes, la governance
rigorista BCE, la transizione ecologica, il posizionamento nella guerra in Ucraina che
ha rotto ogni positiva sinergia economica con la Russia. Questa situazione porta verso
la deindustriazzazione dell’Europa, la crescita vertiginosa dell’impoverimento e dello
sfruttamento del lavoro, la perdita di ogni incidenza geo-politica, il default dei paesi
politicamente più fragili come l’Italia.
È evidente come una simile deriva non possa non produrre ricorrenti e crescenti
ondate di protesta in tutto il continente europeo, sia come rivolte di piazza che come
rovesci elettorali. La violenta protesta contro la riforma delle pensioni in Francia è
3
l’ultimo esempio di queste reazioni di piazza, mentre in tutte le elezioni nei paesi
europei tendono a vincere i partiti di opposizione o comunque fuori dal coro
progressista (anche se spesso questi partiti vincenti sono di natura più conservatrice
che sovranista).
In Italia l’ultima ondata significativa di proteste di piazza è stata quella contro le
misure adottate per la pandemia, mentre ormai da trent’anni (dalla fine della prima
Repubblica in poi) gli Italiani tendono a votare i partiti e gli schieramenti che
promettono il più radicale cambiamento rispetto al passato. Prima la “rivoluzione
liberale” di Berlusconi unita allo sdoganamento della destra, poi il “rottamatore”
Matteo Renzi, il populismo moralistico del Movimento 5 Stelle, il populismo
sovranista della Lega di Salvini, infine la pervicace opposizione (durata 10 anni)
prima sovranista e poi conservatrice di Giorgia Meloni.
Ognuna di queste esperienze si è conclusa con la dimostrazione dell’incapacità (o
della mancanza di volontà) di realizzare questo cambiamento.
La vicenda di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia può sfuggire a questo destino?
Su tutto l’arco delle questioni politiche e programmatiche la mutazione di Fdi da forza
di cambiamento a forza di conservazione è evidente e forse irreversibile.
Sul versante geopolitico lo schieramento ultra-occidentale nel nuovo Governo appare
convinto e strutturato: “In tutto il mondo le autocrazie cercano di guadagnare campo
sulle democrazie e si fanno sempre più aggressive e minacciose, e il rischio di una
saldatura che porti a sovvertire l’ordine internazionale che le democrazie liberali
hanno indirizzato e costruito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la
dissoluzione dell’Unione Sovietica è purtroppo reale. In questo nuovo bipolarismo
l’Italia la sua scelta di campo l’ha fatta, ed è una scelta netta. Stiamo dalla parte
della libertà e della democrazia, senza se e senza ma, e questo è il modo migliore per
attualizzare il messaggio del 25 Aprile. Perché con l’invasione russa dell’Ucraina la
nostra libertà è tornata concretamente in pericolo.” (Lettera di Giorgia Meloni al
Corriere della Sera del 25 luglio 2023).
La conseguenza di questa posizione geo-politica e ideologica è la postura da “primi
della classe” nei consessi dell’Unione europea (oltre che di tutto l’Occidente): invece
di uno scontro frontale e una vera trattativa contro le devastanti derive di Ursula von
del Leyen e di Christine Lagarde, si cerca di trovare accomodamenti per dimostrare di
“non essere anti-europeisti”, forse non rendendosi conto della trappola mortale in cui
Bruxelles sta trascinando l’Italia.
In queste condizioni, quando saranno esaurite le risorse del PNRR (che in larga parte
dovremo restituire), margini per fare politiche di sviluppo economico e di crescita
sociale in Italia non ce ne sono e l’unica strategia del nuovo Governo sembra essere
quella di riverniciare di identitarismo conservatore la vecchia linea berlusconiana della
“rivoluzione liberale” (già ampiamente fallita più di dieci anni fa).
Insomma, tutto fa supporre che questa scelta di posizionarsi come una sorta di
“sezione italiana del partito neo-conservatore americano” porti anche Fratelli d’Italia
verso quel rapido declino che ha già segnato il M5S e la Lega.
4
Se non cambia rapidamente e radicalmente linea, l’ultima speranza che la Meloni può
coltivare è quella di un diffuso successo conservatore in tutta l’Unione nelle prossime
elezioni europee, in modo da porsi alla testa di un nuovo blocco di potere politico che
freni il delirio radical-progressista di Bruxelles e che allenti la pressione economica
sull’Italia. Ma, anche ammesso che questo successo si realizzi dopo i deludenti
risultati delle elezioni spagnole, in un’Europa dove dominano gli interessi nazionali
rispetto agli schieramenti ideologici, essere conservatore nei paesi del Nord e dell’Est
significa rappresentare interessi diametralmente opposti a quelli dei conservatori dei
paesi meridionali come l’Italia. Se il nostro Paese ha disperatamente bisogno di
allentare l’austerità fiscale della UE e della BCE, al contrario i liberal-conservatori
nordici vogliono a tutti i costi un veloce ritorno al “rigore” nelle politiche economiche.
Quindi è legittimo domandarsi quale soggetto politico prenderà in mano la bandiera
del cambiamento per occupare gli spazi politici e sociali abbandonati da Fratelli
d’Italia. Ed è necessario porsi subito questa domanda, prima che il partito di
maggioranza relativa cominci a entrare in crisi e questi spazi politici vengano occupati
da qualche nuovo demagogo privo di progetto politico, oppure da qualche gatekeeper
incaricato di spingere la protesta verso l’ennesimo vicolo cieco.
II. L’ANIMA “POPULISTA” DEL CAMBIAMENTO
Cosa bisogna fare per mettersi alla testa del cambiamento all’alba di questo nuovo
ciclo politico?
Dopo tanti fallimenti indotti dai compromessi e dal moderatismo che hanno segnato la
destra italiana da Fiuggi in poi, la tentazione può essere quella di esprimere “in
purezza” i nostri contenuti ideologici e valoriali.
Non vi è dubbio che a differenza del passato bisogna mettere in campo un più lucido
rigore politico e una maggiore determinazione a rifiutare “compromessi al ribasso”.
La situazione italiana ed europea è talmente grave da richiedere scelte forti e radicali.
Ma tutto questo non può tradursi in una “proposta ideologica”, ovvero nel costruire
un soggetto politico caratterizzato nel posizionamento da etichette politiche e astratti
schemi culturali.
L’immagine, il linguaggio, le idee-forza del nuovo Movimento non possono non usare
gli strumenti del “populismo”, ovvero la capacità di parlare direttamente dei problemi
della gente, offrendo risposte forti con un linguaggio semplice.
Se lo scontro politico attuale è tra “il popolo” e “le élite”, bisogna stare dalla parte del
popolo, non solo con le proposte di giustizia sociale ma nel modo di essere e di
comunicare.
Questo non significa cedere ad una impostazione demagogica, ovvero ricercare un
consenso fine a se stesso, ingannando la gente con proposte irrealizzabili. Anzi,
bisogna essere consapevoli che i veri demagoghi sono gli esponenti
dell’establishment: sono loro che da trent’anni cercano di illuderci che questa Europa,
con le sue impostazioni economiche liberiste, produrrà ricchezza che sarà
automaticamente ridistribuita dal mercato, sono loro che ci hanno ingannato sugli
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effetti “benefici” della globalizzazione, sono loro che negano le conseguenze
devastanti dell’immigrazionismo.
La vera arte politica che bisogna mettere in campo è quella di produrre idee-forza
dirette e immediate, in grado di raggiungere la gente comune usando con intelligenza
tutti i mezzi di comunicazione, avendo però un retroterra adeguato alla sfida, con un
costante sforzo per costruire consequenzialità tra questi messaggi e le scelte di
governo necessarie a produrre cambiamenti reali.
Il Movimento che dobbiamo costruire, pur non rinnegando le sue radici di Destra
sociale e sovranista, si deve presentare come un’aggregazione aperta oltre gli schemi
ideologici, fondata su poche e chiare idee-forza espresse attraverso campagne di
stampo “populista”.
Qualcosa di simile al modello di comunicazione utilizzato dal Movimento 5 Stelle,
con la differenza che dietro l’immagine “populista” ci devono essere dei fondamenti
seri: una classe dirigente preparata e militante, un progetto politico-programmatico
strutturato e realistico, un credibile modello di democrazia interna.
Per ottenere questo risultato è necessario un impegno serio e contemporaneo tanto sul
versante politico quanto su quello metapolitico. Senza metapolitica – come
approfondimento culturale e comunitario, formazione delle coscienze e radicamento
nella società civile – il progetto di un nuovo Movimento rimarrebbe fragile ed
estemporaneo. Ma, dopo quarant’anni delle più diverse esperienze, sappiamo anche
che la metapolitica da sola non basta, neppure come azione propedeutica a una
successiva fase politica. Perché la lotta politica è l’unico strumento per verificare la
validità delle idee e delle persone che escono dal laboratorio della metapolitica. Ma
attenzione: è necessaria una lotta politica coerente con le idee che vengono dalla
cultura, perché è pericoloso cullarsi nell’illusione – che si sta diffondendo in tante
comunità militanti – di far convivere il rigore del lavoro culturale con l’inserimento
rassegnato in organizzazioni politiche che non rappresentano in alcun modo queste
idee.
Quindi il nuovo Movimento non può essere una “nuova Fiamma tricolore”, né un
movimento ideologico sovranista, né semplicemente il concorrente “sociale e
partecipativo” di Fratelli d’Italia o una rete metapolitica dedita solo all’impegno
sociale e culturale. È chiaro che il nostro primo bacino di aggregazione saranno i
delusi del centrodestra, ma bisogna tenere presente che la gran parte di questi elettori
sono andati prima verso Salvini e poi verso la Meloni perché speravano in un radicale
cambiamento più che in un rigoroso posizionamento ideologico. Sono elettori che
progressivamente finiranno per ingrossare il bacino del non voto, confondendosi, al di
là di ogni schema, con tante altre persone che già da tempo non trovano nessuna
risposta politica alle loro aspettative.
Quindi il cambiamento deve essere il messaggio centrale del nuovo movimento, ma
con la consapevolezza che il cambiamento vero può essere realizzato solo ribaltando
gli equilibri economici e geopolitici in Europa e in Occidente. Perché i problemi
strutturali dell’Italia non si risolvono, neppure in parte, se non si affronta la radice di
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questi problemi, ovvero la condizione di colonia in cui è imprigionata la nostra
Nazione.
Un’ultima notazione sulla comunicazione: aver insistito fino ad ora sulla parola
“cambiamento” non significa non rendersi conto di quanto questo slogan sia stato
abusato nella propaganda politica. La nostra bravura dovrà essere proprio quella di
rappresentare il cambiamento senza usare questa parola come uno slogan.
III. LA PREMESSA: REGOLARE I CONTI A DESTRA
Costruire un nuovo Movimento non significa non ripartire dalla nostra area, non solo
per il percorso politico della maggioranza dei promotori di questo progetto, ma
soprattutto perché in questo momento è proprio “la destra” di Giorgia Meloni ad
essere riuscita a imporsi come interprete del cambiamento e quindi a raccogliere la
maggioranza dei consensi degli Italiani.
Dal dopoguerra in poi nella nostra area politica sono convissute due anime: una destra
conservatrice e liberale e una destra sociale e identitaria, la prima dedita
all’inserimento nel quadro politico esistente, la seconda determinata a dare contenuti
nuovi al mito dell’alternativa al sistema. Queste due destre si sono mescolate,
alternando conflitti e sintesi, all’interno del Movimento Sociale Italiano e poi di
Alleanza Nazionale, accumunate da un retorico riferimento agli interessi della
Nazione italiana e ai valori tradizionali. Questa convivenza ha garantito la
sopravvivenza di uno spazio politico alla destra della Democrazia cristiana prima e del
berlusconismo poi, ma lo ha spesso paralizzato con un posizionamento “a somma
zero” tra spinte e controspinte di segno opposto.
Giorgia Meloni ha rotto questo equilibrio, probabilmente in modo definitivo. La
svolta conservatrice di Fratelli d’Italia ha espulso o tacitato tutto quanto rimaneva
della destra sociale, proponendo un modello tutt’altro che moderato e dialogante. Qui
siamo all’opposto della linea politica di Gianfranco Fini, che voleva “modernizzare la
destra” aprendo agli immigrati, alla fecondazione artificiale e ai diritti civili cari ai
progressisti. Quella della Meloni è una “destra dura”, simile ai neo-conservatori
americani, protesa a scontrarsi con i progressisti sul tema dei valori, ma
contemporaneamente impegnata a “esportare la democrazia” con le armi in giro per il
mondo e a proporre il modello liberista come darwinismo sociale ed economico.
In realtà ci sono delle verità profonde contenute nel messaggio conservatore che
hanno permesso a questa destra di proporsi come interprete del cambiamento.
Citiamo Marco Tarchi nell’intervista su Fanpage del 25/9/2022: “Ad aver ridato
vigore e capacità di attrazione al conservatorismo sono gli eccessi dell’odierno
progressismo. In un momento storico in cui quella parte politica, in tutto l’Occidente,
preme l’acceleratore sull’indiscutibilità di qualunque diritto/desiderio individuale, in
cui le tematiche Lgbt sono assunte come paradigma della “società giusta”, la cancel
culture, l’ideologia woke, la gender theory, l’assolutizzazione dell’“inclusione”,
l’elogio a prescindere dell’immigrazione, la celebrazione del multiculturalismo e del
cosmopolitismo sono diventate la cifra identitaria di tutto ciò che si oppone alla
destra, che quest’ultima si presenti come un argine e un’alternativa è addirittura
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ovvio”. Ed è questo infatti il cuore del messaggio di Fratelli d’Italia, quello che
provoca l’indignazione pelosa della sinistra, le scomuniche ad intermittenza
dell’Unione Europea e, all’opposto, un forte grado di fascinazione in mezzo alla
gente. È la risposta del realismo e della vera natura umana contro le utopie coltivate
dalle élite progressiste e cosmopolite, ciò che rende la destra più vicina al sentimento
popolare di quanto oggi non riesca ad esserlo la sinistra.
Il problema però è che questi eccessi progressisti non rappresentano una negazione di
quella “civiltà occidentale” che i conservatori vorrebbero difendere, sono invece il
sintomo estremo della decadenza dell’Occidente stesso, una manifestazione della sua
cattiva coscienza, delle sue ineliminabili contraddizioni. Da un lato sono il risultato
ultimo dell’ideologia liberale che mette un’informe libertà individuale al di sopra di
ogni altro valore umano, dall’altro lato rappresentano l’effetto della mercificazione
dell’esistenza funzionale al progetto economico capitalista, infine esprimono la cattiva
coscienza di quell’imperialismo materialista con cui l’Occidente è andato alla
conquista del mondo sterminando popoli, comunità e culture.
Per cui si tratta di un ben triste destino quello di chi vuole battersi, su posizioni
inevitabilmente perdute, per difendere una civilizzazione dai mali che essa stessa ha
prodotto. Anche perché un conservatorismo che mescola valori identitari con un
occidentalismo acritico può generare pericolosi mostri di natura razzista: la pretesa di
esportare con le armi la democrazia liberale, l’illusione che la nostra civiltà sia più
progredita di tutte le altre, l’islamofobia, l’aggressione ai diritti dei popoli in nome di
astratti diritti individuali. Qui neoconservatori alla Bush e democratici alla Obama
finiscono per stringersi la mano.
Per questo il conservatorismo, come il progressismo, non regge al malessere sociale
ed esistenziale della gente. Affascina perché appare controcorrente, può consentire
slogan suggestivi come “in questa epoca l’unico modo per essere ribelli è essere
conservatori” come ha detto Giorgia Meloni alla Convention dei conservatori a
Orlando nel febbraio 2022, ma non può nascondere a lungo le ingiustizie sociali e la
disgregazione dei valori indotte dal modello liberista.
Manca un modello economico e sociale alternativo a quello dominante e una
prospettiva di sviluppo e di riscatto sociale, senza la quale non si può dare speranza
alla gente. Nel conservatorismo ci sono spinte valoriali profonde che sono anche
nostre, ma che da sole non bastano per andare oltre una reazione politica a corto
raggio e che, male applicate, rischiano di provocare nuovi e ulteriori danni.
Citiamo ancora Marco Tarchi (Diorama letterario, maggio-giugno 2023): “Se si è
capaci di identificarla, o meglio di smascherarla, oltrepassando la cortina fumogena
dei suoi divulgatori, l’ideologia occidentalista – spesso definita, con minore
precisione, pensiero unico, pensiero dominante, politicamente corretto – si mostra
oggi in Italia in tutta la sua aggressività. Nelle versioni progressiste è alla base del
forte slittamento della “sinistra” dalla difesa dei diritti sociali all’affermazione dei
diritti individuali (…) Nelle versioni conservatrici determina sia la progressiva
rimozione dei limiti dell’espansione planetaria delle grandi concentrazioni
economico-finanziarie, con le conseguenti delocalizzazioni industriali, le strategie di
8
dumping, la sostituzione del lavoro umano con le macchine guidate dall’“intelligenza
artificiale” e in definitiva il trionfo della logica capitalistica e consumistica più
brutale…”
In più, a differenza dell’epoca (che qualcuno sogna di restaurare) di Margaret
Thatcher e Ronald Reagan, non veniamo dai “trent’anni gloriosi” di sviluppo e piena
occupazione creati dal keynesismo postbellico, ma da un lungo periodo liberista di
crescente impoverimento e aumento delle disuguaglianze. È impossibile spingere
ancora di più sul pedale del liberismo senza far esplodere ogni equilibrio sociale.
Se queste sono le motivazioni e le contraddizioni della destra conservatrice, cosa
devono fare gli eredi della destra sociale per non rassegnarsi, dopo settant’anni di
dispute politiche e culturali, di congressi e di sfide movimentiste, ad una scomparsa
politica definitiva?
Innanzitutto comprendere che il proprio messaggio è meno immediato di quello
conservatore, ma è molto più centrato per interpretare il disagio sociale e la protesta
popolare. Perché mette insieme tre obiettivi inscindibili: una difesa ancora più
intransigente dei valori umani e comunitari, un modello di sviluppo economico
centrato sul lavoro e i diritti sociali rifiutando l’ideologia neo-liberista, la riconquista
di una vera sovranità nazionale e popolare. Se viene negato o depotenziato uno di
questi obiettivi gli altri due si rivelano illusori e irrealizzabili.
Il passaggio successivo è quello di capire che, proprio per rendere vincente il progetto
della destra sociale, è necessario allargarsi oltre il recinto della destra, perché chiusi
dentro quel recinto siamo perdenti nei confronti della destra conservatrice, come è
sempre avvenuto e ancor più accadrebbe oggi di fronte ad una leadership forte come
quella di Giorgia Meloni.
Questo non significa rinnegare qualcosa delle nostre radici o lanciare complicati
messaggi “al di là della destra e della sinistra”, significa semplicemente essere noi
stessi ma senza far prevalere l’etichetta sul contenuto.
La destra sociale, identitaria, comunitaria e sovranista diventa vincente se si incrocia
con il populismo. E all’inverso, come dimostrano le vicende del Movimento 5 Stelle e
della Lega, nessun populismo è destinato a durare se non si radica sulle idee delle
destra sociale.
IV. IL PRIMO LIVELLO DI AGGREGAZIONE: I MONDI DEL
DISSENSO
Che cosa c’è fuori dal recinto della destra? Innanzitutto quelli che sono stati definiti i
mondi del dissenso. Questi mondi hanno una funzione simile a quella che un tempo
avevano i movimenti sociali, ovvero quella di interpretare temi di protesta e di
disagio sociale talmente forti da diventare prevalenti rispetto alle originarie
appartenenze politiche.
L’origine di queste realtà può essere fatta risalire ai tempi del Governo Monti, quando
in nome dei vincoli europei fu attuata una profonda e devastante ristrutturazione del
nostro sistema economico e sociale. Proprio l’origine eurista di questa operazione,
associata a quella ancora più pesante attuata nei confronti della Grecia, ridiede forza
9
ad antiche critiche contro l’Unione europea e l’introduzione dell’Euro. Attraverso i
social e la diffusione di testi di teoria economica alternativa a quella dominante, si
formarono in tutta Europa comunità e gruppi di pressione No-Euro e No-UE che
finirono per dare forza alla Brexit in Gran Bretagna, alla Lega e ai 5 Stelle in Italia, a
tanti movimenti sovranisti in tutto il Continente. L’incapacità di questi movimenti di
dare seguito in modo serio e rigoroso a questi obiettivi, unita al “Whatever it takes” di
Mario Draghi, ha portato al ridimensionamento di questo fenomeno che però continua
a sopravvivere come consapevolezza diffusa dell’insostenibilità del modello eurista e
della stagnazione economica di tutta l’euro-zona.
Poi c’è stata la pandemia Covid e le campagne vaccinali imposte dalle autorità statali,
che hanno generato nuovi mondi del dissenso tra gli operatori economici costretti a
chiudere le loro attività durante i ripetuti lock-down, tra le persone che rifiutavano il
green-pass e i medici che denunciavano – e denunciano – gli affetti avversi dei
vaccini e il divieto di terapie alternative. Le proteste di piazza che sono nate su questi
temi sono state stroncate dalle provocazioni degenerate in violenza, la fine
dell’emergenza ha ridotto la pressione sociale, ma tutt’ora c’è un vasto mondo
sommerso che chiede verità e giustizia su quello che è accaduto durante la pandemia e
che potrebbe ripetersi di fronte ad una nuova emergenza sanitaria.
Infine è esploso il conflitto in Ucraina che, nonostante una pesantissima “propaganda
di guerra”, ha fatto nascere un movimento trasversale pacifista e antimperialista che
cerca di dare voce a quella maggioranza di Italiani che in tutti i sondaggi si dichiara
contraria all’invio di armi a Kiev. A destra come a sinistra si è reso ancora più
evidente lo scollamento tra le formazioni politiche ufficiali e i mondi del dissenso
schierati contro l’atlantismo.
Adesso ci sono nuove aree di dissenso che si stanno formando contro le imposizioni
derivanti dalla transizione green, contro la liberalizzazione del cibo artificiale, contro i
tentativi transumanisti di manipolare l’essere umano. Anche il mondo cattolico si è
nel tempo configurato come un “mondo del dissenso” quando è dovuto scendere in
piazza per difendere i valori della famiglia, della natalità e della vita da tutti gli
attacchi portati avanti dal fronte progressista, di fronte a cui tutta la politica ufficiale,
anche quella di destra, non è mai riuscita a costruire una risposta forte ed efficace.
Dalle piazze del Family Day alle Marce per la Vita questo popolo ha fatto sentire una
voce, una pressione sociale e culturale, senza la quale oggi l’attacco transumanista in
Italia sarebbe giunto agli stessi livelli dei paesi del Nord Europa.
Sono mondi, a volte sovrapposti, a volte diversi e confliggenti tra loro, ma sempre
accomunati dalla percezione delle manipolazioni di una comunicazione mediatica
autoritaria e dell’esistenza di poteri e vincoli planetari contro cui bisogna reagire in
nome dei diritti dei popoli e della libertà delle persone. In tutti questi contesti ci sono
forti rischi di complottismo e di derive maniacali, di scollamento dalla realtà con
elaborazioni fantastiche, ma bisogna essere consapevoli che in ogni realtà che si
contrappone allo status-quo si possono incontrare questi pericoli.
Quindi un Movimento che voglia muoversi come forza di cambiamento non può non
tentare di aggregare in questi mondi, cercando di attrarre le persone più consapevoli e
10
di allontanare quelle più problematiche. Non si tratta di opportunismo politico, ma
della condivisione di una percezione complessiva dei pericoli che vengono da forti
concentrazioni di interessi economici e finanziari, di fronte a cui gli Stati e le
democrazie sono sempre più deboli e condizionabili.
V. IL SECONDO LIVELLO DI AGGREGAZIONE: LISTE CIVICHE
E CORPI INTERMEDI
Nella nostra base aggregativa potenziale ci sono anche due bacini che meritano
un’attenzione e un discorso a parte: quello delle liste civiche e quello dei corpi
intermedi.
Le liste civiche che si affermano in diversi contesti di elezioni locali, oggi sono
sempre meno espressione di spontanee esigenze di efficienza amministrativa e di
soluzione di problemi territoriali. In realtà, all’interno di esse si nasconde e trova
espressione un variegato mondo politico espulso dai partiti personali che oggi
dominano soprattutto nel centrodestra.
La scomparsa di ogni forma di democrazia interna in partiti verticisticamente chiusi
attorno ai propri leader con relativi “cerchi magici” e “ras locali”, ha portato tanti
pezzi di classe dirigente politica a uscire da questi partiti e a mettersi in gioco creando
o animando liste civiche locali.
Si tratta quindi di un enorme potenziale che attende un progetto politico nazionale per
uscire da una dimensione puramente locale, radicata ma indubbiamente limitante per
chi mantiene aspirazioni politiche di carattere generale.
Un progetto politico nazionale rivolto al “civismo” può avere due concezioni diverse.
La prima – tipica ad esempio della lista “Scelta civica” di Mario Monti o di “Impegno
civico” di Luigi Di Maio – parte dal civismo per incarnare una visione puramente
amministrativa della politica, la convinzione tipica del liberalismo che il conflitto
politico si possa spegnere attraverso una visione pragmatica e neutrale dei problemi.
Insomma… la morte della politica.
L’opposta concezione punta invece ad una rigenerazione della politica: parte dalla
constatazione che un’impostazione puramente civica è insufficiente anche per
risolvere i problemi locali, perché anche questi derivano da vincoli allo sviluppo
imposti a livello nazionale ed europeo. Quindi si contesta il ceto politico nazionale
non per un eccesso ma per una carenza di politica, ridotta a teatrino istituzionale e a
scontro di slogan da talk-show, senza rendersi conto dell’impatto reale che
determinate scelte hanno sul territorio e sulla realtà sociale.
Questo distacco della politica nazionale è diretta conseguenza della mancanza di
democrazia interna ai partiti e dell’impossibilità degli elettori di scegliere i
parlamentari nazionali (imposti invece dai vertici di partito grazie ai posti in lista
bloccata o alla scelta dei collegi). Imposizioni autoritarie – giustificate
dall’antipolitica come lotta al correntismo nei partiti e alla corruzione “necessaria a
pagare” le preferenze – che hanno prodotto un drammatico abbassamento del livello
del ceto politico, impedendo ogni forma di selezione dal basso e ogni banco di prova
meritocratico.
11
Analogo discorso può essere fatto per i “corpi intermedi” della società civile. La
deriva verticistica dei partiti politici e la spinta ideologica del liberismo hanno
prodotto una diffusa disintermediazione della società italiana, finalizzata a un rapporto
“diretto” (ma in realtà ancora più subalterno) tra individui e istituzioni pubbliche e
all’abbattimento di ogni protezione sociale di fronte alle logiche di mercato. Questo è
stato possibile anche per la crisi dei corpi intermedi nel nostro Paese: ordini
professionali, fondazioni e casse di previdenza, rappresentanze sindacali e di
categoria, mondo delle associazioni, camere di commercio e università, istituti
partecipativi di settore, si sono sempre più chiusi in rappresentanze lobbistiche di
interessi forti e concentrati.
Anche in questo caso la strada che si apre è duplice e opposta.
Si può accompagnare questo processo mandando definitivamente in disarmo strutture
che appaiono obsolete espressioni del vecchio Stato sociale, sicuramente sgombrando
il campo da tante lobby e rendite parassitarie, ma lasciando il cittadino-individuo nudo
e inerme di fronte al potere del Mercato e dello Stato.
Oppure si può tentare di rigenerare queste rappresentanze, imponendo sistemi
democratici più trasparenti e aperti di quelli oggi esistenti, ristabilendo un preciso
rapporto tra diritti e doveri di questa “società intermedia”, delegando, in modo attento
e controllato, poteri pubblici a queste autonomie funzionali e sociali. Scegliendo
questa seconda strada – conforme alla dottrina sociale della Chiesa, ad una visione
comunitaria e sussidiaria della società civile, nonché a una lettura democratica e
realmente partecipativa della dottrina corporativa – si possono costruire alleanze con
tutti quei mondi autentici che ancora credono nella rappresentanza e vivono con
frustrazione le prepotenze dei partiti dominanti e del mercato globalizzato.
Sintetizzando queste due possibili aggregazioni, si può trarre energia politica ed
elettorale, ceti dirigenti e rappresentanza sociale e territoriale da un grande progetto di
rigenerazione della politica fondato su alleanze reali con chi rappresenta i mondi
delle liste civiche e dei corpi intermedi. Un progetto che deve avere come bandiere
l’istanza della partecipazione e il principio della sussidiarietà.
Quindi il movimento politico e metapolitico che dobbiamo costruire può presentarsi
come un punto d’incontro sia di soggetti politici per il cambiamento che di liste
civiche e di rappresentanze sociali. In questo modo aumenterà il suo carattere non
ideologico, rafforzerà il proprio radicamento sociale e territoriale, aggregherà su un
ampio fronte di astensionismo e di delusi degli attuali partiti politici, marcherà ancor
di più la propria distanza rispetto al liberismo dominante e ai poteri forti nazionali e
internazionali.
È evidente che tutto questo apre un discorso scivoloso sull’autonomia e sulla
sussidiarietà (orizzontale e verticale) che deve avere precisi punti di riequilibrio nel
rafforzamento della sovranità nazionale e popolare (ad esempio attraverso una riforma
presidenzialista) per non degenerare in una perdita di coesione sociale, di unità
nazionale e di senso dello Stato. Ciò vale soprattutto ora che si è riaperto il dibattito
sull’autonomia differenziata che potrebbe rappresentare l’ultimo e devastante colpo
alla nostra unità nazionale.
12
VI. OBIETTIVI FONDAMENTALI E IDEE-FORZA DI UN
MOVIMENTO PER L’ITALIA
Chiarito che il Movimento, pur senza rinnegare le proprie radici di destra sociale e
nazionale, sarà definito innanzitutto dai contenuti e dai messaggi aggregativi,
proviamo a formulare una prima serie di obiettivi fondamentali e di idee-forza che ne
potranno caratterizzare l’azione.
Cominciamo dagli obiettivi fondamentali e irrinunciabili di tutto il progetto:
1. Liberazione dell’Italia da ogni forma di sudditanza – nella UE, nella NATO e
negli organismi internazionali che governano la globalizzazione – in base al
principio dell’autodeterminazione dei popoli e contro l’egemonia (economica,
sociale e mediatica) dei poteri forti che derivano da questa sudditanza.
2. Superamento dei vincoli derivanti dall’ideologia liberista (pareggio di bilancio,
impossibilità di usare la leva monetaria, imposizione della libera circolazione
delle merci, dei capitali e della forza lavoro, divieto di aiuti di stato e di intervento
dello Stato nell’economia) per creare le condizioni di una crescita economica
inscindibilmente legata alla piena occupazione, ai diritti sociali e alla
redistribuzione del reddito.
3. Centralità e rigenerazione dello Stato-nazione come garante e promotore della
sovranità popolare, di uno sviluppo economico orientato alla crescita sociale e
della lotta alla criminalità organizzata, attraverso l’elezione diretta del Presidente
della Repubblica, la democrazia partecipativa e la sussidiarietà dei corpi intermedi
e dei territori.
4. Sviluppo fondato sull’identità nazionale e comunitaria del popolo italiano, in
termini di valori tradizionali, di difesa della famiglia e della natalità, di cultura, di
educazione, di valorizzazione del made in Italy, di tutela del paesaggio e
dell’ambiente.
5. Difesa della libertà e della sovranità delle persone e delle comunità, contro
ogni dittatura sanitaria, giudiziaria, fiscale, tecnocratica e green, contro ogni
forma di politicamente corretto, di gender theory e di imposizione transumanista.
Questi obiettivi trovano nei principi fondamentali della Costituzione italiana una
base di riferimento storicamente radicata per la sovranità nazionale e popolare (una
democrazia reale in grado di dare risposte positive alle spinte del populismo), la
centralità del lavoro e il legame tra crescita economica e diritti sociali, contro tutte le
forme di sottomissione interne ed esterne.
Un secondo riferimento per la legittimazione di questi obiettivi è dato dai principi
della Dottrina sociale della Chiesa, letti non in chiave confessionale e clericale, ma
come valori universali della persona umana ed elementi costitutivi della nostra identità
nazionale.
I principi fondamentali della Costituzione italiana, della Dottrina sociale della Chiesa
e dell’Umanesimo del Lavoro sono, nel loro insieme, una potente spinta ad affrontare
seriamente la nuova questione sociale che pesa sempre più sulle nostre società
13
globalizzate. È dall’avvento del Capitalismo che questa questione non si ripropone
con altrettanta forza: si misura con lo squilibrio crescente nella distribuzione della
ricchezza, con la diffusione della povertà anche nel ceto medio, con la mancanza di
lavoro dignitoso e adeguatamente retribuito, con la smantellamento di tutti i servizi
sociali e previdenziali, con un devastante degrado urbano. È chiaro che per dare
risposta a questi problemi bisogna prima produrre ricchezza, ma è altrettanto chiaro
che negli anni del neo-liberismo molta ricchezza è stata prodotta, ma è rimasta
sempre più concentrata in poche mani. La nuova questione sociale è il principale
banco di prova di qualsiasi realtà politica che voglia interpretare il bisogno di
cambiamento della società italiana.
Tutto questo deve essere declinato in poche idee-forza di aggregazione che
rappresenteranno le battaglie del Movimento:
1. Fermare la guerra in Ucraina: impegno per la neutralità attiva dell’Italia in
un mondo multipolare, denunciando ogni forma di sudditanza nella UE e nella
NATO da superare con una vera cooperazione europea e mediterranea, basata sui
principi di parità e reciprocità tra le nazioni. L’Italia, per posizionarsi in un mondo
multipolare, deve ricostruire un rapporto con i paesi BRICS (Brasile, Russia, India,
Cina e Sudafrica) dopo le scelte sbagliate di schierarsi in prima linea nella guerra
in Ucraina e di stracciare gli accordi con la Cina sulla “Nuova Via della Seta”.
2. Un lavoro per tutti: contro l’impoverimento generalizzato e per il diritto alla
piena occupazione, con la perdita di valore del lavoro e della rappresentanza
sindacale, la distruzione della piccola e media impresa, la stagnazione
dell’economia nazionale, lo smantellamento della previdenza sociale e la
cancellazione dei diritti sociali e civili, accusando il neo-liberismo eurista di essere
la prima causa di questi fenomeni. Messaggio rivolto a tutti gli italiani senza
conflitti sezionali: dai ceti popolari al ceto medio, dai lavoratori autonomi e
dipendenti ai veri imprenditori (non emanazione di poteri forti e multinazionali),
alle diverse generazioni, cominciando dai giovani.
3. Vincolare le multinazionali: impediamo lo sfruttamento del lavoro e
l’aggressione alle piccole e medie imprese italiane. Le multinazionali
concentrano nelle loro mani buona parte del Pil mondiale, delocalizzano le attività
produttive verso paesi a più alto sfruttamento sociale e ambientale e mettono fuori
mercato le piccole e medie imprese italiane. Sono le multinazionali che guidano i
processi culturali che portano alle varie forme di dittatura contro la libertà delle
persone e delle comunità.
4. Cancellare la follia delle privatizzazioni: il crollo del Ponte Morandi è il
simbolo di cosa significa regalare ai privati i grandi patrimoni economici
italiani. La stagione delle privatizzazioni, che ha la firma di Draghi, Prodi e
D’Alema, è stato uno degli esempi più devastanti di dissipazione di risorse
imprenditoriali ed economiche che appartenevano al popolo italiano. Paragoniamo
il destino di Alitalia, Autostrade, Ilva, Telecom con quello di Enel, Eni, Fincantieri
e Leonardo: le prime sono imprese privatizzate e poi progressivamente distrutte, le
seconde sono rimaste, almeno parzialmente, allo Stato e sono ancora determinati
14
per l’economia nazionale. I profeti del neo-liberismo hanno ancora il coraggio di
dire che “privato è bello?”. Noi diciamo che lo Stato deve difendere e riprendersi i
gioielli dell’economia italiana, anche per rendere più forte la vera imprenditoria
privata.
5. No alla tratta di esseri umani: blocchiamo l’impatto devastante dei crescenti
flussi migratori in entrata e in uscita, finalizzati ad aumentare lo sfruttamento
della forza lavoro nel nostro Paese, con la fuga all’estero dei nostri giovani e il
collasso di tutti i sistemi sociali e urbani. Unire inevitabili azioni di blocco
dell’immigrazione clandestina con progetti di sviluppo dei paesi di origine dei
flussi migratori, accusando i processi di sfruttamento economico e finanziario
come vera causa di queste realtà.
6. Tutelare il diritto alla salute: verità e giustizia sulla pandemia, lotta contro
l’aumento di potere dell’OMS e rilancio della sanità pubblica, contro ogni
forma di dittatura sanitaria, di green-pass internazionale e di dominio di Big
Pharma, per la ricostruzione del Servizio Sanitario Nazionale e per la prevenzione
di nuove emergenze pandemiche. Creazione di un Osservatorio per monitorare il
lavoro della Commissione d’inchiesta sulla pandemia Covid.
7. Giù le mani dal nostro cervello: denuncia della manipolazione digitale e
biotecnologica, dall’identità digitale all’imposizione del metaverso, dal dominio
dell’intelligenza artificiale all’eugenetica dell’utero in affitto, dalle applicazioni
della teoria gender al cibo artificiale. Rivendicazione della sovranità popolare e del
controllo della ricerca pubblica sulle ricadute sociali dello sviluppo della scienza e
della tecnica.
8. No alla dittatura climatica: fermare la transizione green imposta dall’Unione
europea, rifiutando la dismissione delle autovetture, le ZTL generalizzate, il
declassamento del patrimonio edilizio, l’imposizione ossessiva delle fonti
energetiche alternative. Contrapporre alla dittatura ambientale concentrata sul
cambiamento climatico, la difesa del paesaggio, dell’ambiente naturale e culturale,
la capacità dell’uomo di plasmare il proprio territorio attraverso l’agricoltura e la
lotta al dissesto idrogeologico.
9. L’Italia rimarrà unita: rifiuto del progetto di autonomia differenziata come
pericolo per l’unità nazionale e la pari dignità tra Nord e Sud Italia. Rilancio
di una vera autonomia basata sui principi di sussidiarietà, solidarietà e identità dei
territori, un progetto di sviluppo per il Mezzogiorno, recupero attraverso il
Presidenzialismo di un ruolo guida delle istituzioni nazionali come garanti
dell’interesse nazionale.
10.Trasmettiamo cultura: rigenerare il sistema educativo e culturale italiano,
come base imprescindibile per lo sviluppo, per la rinascita della scuola,
dell’università e della ricerca, la valorizzazione del merito, dell’eccellenza e della
qualità delle produzioni, diffondendo tra i giovani la consapevolezza e l’orgoglio
dell’unicità del nostro Paese. Impegnare gli studenti nella cura del nostro
patrimonio artistico e culturale, integrando questa attività nei programmi scolastici.
15
11.Meno tasse a chi ha più figli: quoziente familiare per sostenere le famiglie e la
natalità. Questa è la vera riforma fiscale di cui ha bisogno l’Italia, non la flat tax
ingiusta e finanziariamente insostenibile, perché quella demografica rimane la
principale sfida per non far scomparire il nostro popolo.
12.Una Giustizia giusta per uno Stato forte: un nuovo sistema giudiziario e di
pubblica sicurezza in grado di combattere la criminalità organizzata e le
deviazione degli apparati (a cominciare da quelli della strategia della tensione), di
tutelare la sicurezza del cittadino, di combattere ogni dittatura giudiziaria e di
tutelare la magistratura dai condizionamenti del potere.
13.Chi mi rappresenta lo scelgo io: ridiamo agli elettori il diritto di scegliere i
parlamentari. L’inadeguatezza della classe dirigente politica deriva dai partiti
personali, dove non esiste né partecipazione né meritocrazia ma soltanto
sudditanza al leader e “cerchi magici”. Conseguenza è la critica dell’attuale
modello elettorale che – senza preferenze e senza collegi territoriali che mettano
realmente alla prova le persone – si presenta così oligarchico e sradicato dal
territorio da essere privo di vera legittimità democratica e costituzionale.
Orvieto, 30 luglio 2023

documento-programmatico orvieto23

Allegato 2
DOCUMENTO PROGRAMMATICO
I. IL VINCOLO ESTERNO EUROPEO COME NEGAZIONE DELLA
POLITICA ECONOMICA NAZIONALE
II. LA STRATEGIA AMERICANA CONTRO L’ECONOMIA EUROPEA
NELLA GUERRA IN UCRAINA
III. I VINCOLI ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE SONO VINCOLI ALLA
SOVRANITÀ POPOLARE FONDATA SUL LAVORO
IV. LA GLOBALIZZAZIONE È CONTRARIA AGLI INTERESSI DEGLI
ITALIANI
V. ATTACCARE L’OCCUPAZIONE E I SALARI SIGNIFICA COLPIRE LA
REDDITIVITÀ DELLE IMPRESE
VI. DALLA DEINDUSTRIALIZZAZIONE ALLA CRISI DEMOGRAFICA
VII. UNA POLITICA INDUSTRIALE PUBBLICA È LA BASE DELLA
RINASCITA ECONOMICA NAZIONALE
VIII. LE TECNOLOGIE DIGITALI E IL SISTEMA MEDIATICO MINANO LA
CONSAPEVOLEZZA DEL POPOLO ITALIANO
IX. LO SVILUPPO POSSIBILE: SOLUZIONI POLITICO-ECONOMICHE
ALLE CRITICITÀ STRUTTURALI DELL’ECONOMIA ITALIANA
2
I. IL VINCOLO ESTERNO EUROPEO COME NEGAZIONE DELLA
POLITICA ECONOMICA NAZIONALE
È da tempo sotto gli occhi di tutti il sostanziale fallimento della seconda Repubblica e delle
sue promesse di modernizzazione, benessere, stabilità, controllo democratico.
La sparizione dei partiti presenti alla Costituente, e l’indebolimento o svuotamento di quelli
subentrati – ridotti a partiti personali senza vita democratica interna e senza libera scelta dei parlamentari grazie alle liste elettorali bloccate – ha consentito ai poteri forti (quasi tutti di derivazione straniera) operanti in Italia di imporre il definitivo abbandono dei tradizionali obiettivi (sanciti dalla nostra Costituzione) di occupazione e crescita che avevano caratterizzato, non senza notevoli limiti e resistenze, il trentennio post-bellico; tali obiettivi sono stati sempre più diluiti, a partire dagli anni Ottanta, in favore di una «cultura della stabilità», garantita dal vincolo esterno fondato prima sul cambio fisso col marco (dal 1979) e poi sull’euro.
La stabilità dell’indirizzo politico fondamentale era, in precedenza, garantita in Italia dal
controllo pubblico del sistema bancario a favore del sistema delle imprese e delle famiglie e dalla dinamicità, stabilizzatrice di investimenti e occupazione, della grande industria a
controllo statale. Ora questo concetto si è evoluto in senso sempre più “liberale”, secondo le modalità del capitalismo finanziario anglosassone, sfociando nella priorità assoluta del
concetto di “governabilità”, inteso come zelante e acritica attuazione degli “impegni” assunti con l’Unione Europea, imperniata sull’asse franco-tedesco.
Questa scelta ha così comportato il trasferimento della determinazione dell’indirizzo
politico ai Trattati europei e agli organi comunitari, in particolare alla Commissione, al
Consiglio Ue e alla Banca Centrale Europea, contro i principi fondamentali di democrazia
lavorista e sociale contenuti nella Costituzione e contro gli interessi e i bisogni della
schiacciante maggioranza degli italiani.
Tuttavia, il sacrificio di democrazia, occupazione, crescita, produttività, – ed un drammatico
aggravamento della questione meridionale strettamente connesso -, neppure ha consentito di raggiungere i reclamizzati obiettivi di stabilità finanziaria pubblica (come dimostra il
fenomeno degli spread) e privata (visto che il risparmio dei depositanti diviene, con l’Unione bancaria e il bail-in, garanzia delle perdite di capitale delle banche, sempre più amplificate dal fenomeno delle diffuse insolvenze, a loro volta causate dall’austerità fiscale volta al pareggio di bilancio, inserito da Monti in Costituzione).
L’assoluta incapacità di autoriforma delle istituzioni dell’Unione Europea dev’essere
considerata un dato di fatto insormontabile, nonostante la crisi del debito pubblico in euro
(2011) e la Brexit (2020). Semmai questi cambiamenti possono avvenire in senso ancora più costrittivo, come attesta la vicenda di NGEU (NextGenerationEU), debito mutuato a forti condizionalità, totalmente vincolato all’importazione di tecnologie estere e con pesanti oneri di restituzione.
Anche l’attuale “gestione” della crisi energetica, segnata da uno stallo disastroso di iniziative comuni, riafferma la natura istituzionalmente non solidaristica dell’Ue e della mission della BCE, perfettamente conforme alle previsioni dei Trattati, sia in tema di espresso divieto di solidarietà fiscale, sia in tema di autonomia delle scelte energetiche di ciascun paese (si vedano gli artt. 125 e 194.2, seconda parte, del TFUE – Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea).
II. LA STRATEGIA AMERICANA CONTRO L’ECONOMIA EUROPEA
NELLA GUERRA IN UCRAINA
L’inaudito astensionismo che oggi si registra non è che la prevedibile conseguenza di questa catastrofe politica e sociale, frutto di un esplicito ripudio dell’indipendenza nazionale (perfino nelle dichiarazioni dei vertici delle istituzioni nazionali) e di una sfiducia nella capacità del popolo italiano di autogovernarsi (tradizionalmente propria nelle nostre elites industriali e finanziarie, da sempre liberali e cosmopolite), espressi con una franchezza, e perseguiti con una coerenza, che hanno pochi precedenti nella pur travagliata storia nazionale.
La novità che ci si presenta oggi – soprattutto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina – è lo sfaldarsi dell’impalcatura della globalizzazione che ha fatto da sfondo a questa distruttiva e illusoria «fuga dalla storia» italiana ed europea.
In questa crisi risalta la predominante influenza “riacquistata” dagli Stati Uniti. In base a
precedenti storici ben documentati, la scelta del vincolo monetario (prima) e della moneta
unica (poi), corrispondono a una “pressione” politica molto accentuata impressa dagli Stati
Uniti sulle nazioni europee. Ora però l’atteggiamento geo-politico del Presidente Biden, mira oggettivamente, ed in modo traumatico e repentino, a rompere il legame tra
l’approvvigionamento energetico garantito dalla Russia ed il mercantilismo dell’area
euro, guidato dall’interesse del dominante manifatturiero tedesco. Ciò conferma con
chiarezza quanto, ancora oggi, la classe politica e dirigente italiana ha difficoltà a
comprendere: il sistema politico-industriale tedesco – laboratorio del modello economico
“ordoliberista” – è stato prescelto dagli stessi Usa come strumento economico per
“disciplinare” le democrazie europee, eliminando progressivamente ogni residuo di welfare
pubblico e di intervento bilanciatore dello Stato rispetto agli appetiti del capitale
multinazionale.
In tal senso, l’effetto dell’imposizione agli Stati dell’Unione europea di adottare le “sanzioni” contro la Russia, è, da un lato, il rendere complessivamente l’area-euro importatrice netta (via commodities e tecnologie energetiche e digitali, grazie al già controverso paradigma delle green e digital revolution), cioè debitrice e non più creditrice verso il resto del mondo, dall’altro, quello di rendere strutturale questa dipendenza dall’estero, portando l’intero continente in una situazione costrittiva di deindustrializzazione, forzata dall’insostenibilità dei costi da parte delle imprese (con effetti occupazionali che ipotecano pesantemente il futuro dei popoli europei e, più di tutti, di quello italiano).
La storia non è finita, si sta rimettendo in marcia presentando minacce gravissime ma anche inedite possibilità.
4
Agire per affrontarle e coglierle nell’interesse nazionale, cioè di tutti i cittadini italiani
presenti e futuri, impone la necessità di fare i conti in maniera analitica con i vincoli che al
momento lo rendono impossibile.
III. I VINCOLI ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE SONO VINCOLI ALLA
SOVRANITÀ POPOLARE FONDATA SUL LAVORO
L’astensionismo deriva quindi, in misura direttamente proporzionale, dal distacco della
politica dalle istanze popolari, dovuto alla perdita di sovranità. Senza sovranità monetaria, non ci può essere sovranità fiscale, infatti regole apposite nell’euro-area vincolano lo Stato a finanziarsi esclusivamente sul mercato finanziario privato, come un debitore di diritto
comune, e quindi a mantenere una bassa inflazione “a qualsiasi costo”.
Questo obiettivo si può raggiungere sostanzialmente attraverso uno Stato che viene privato, attraverso l’obiettivo del pareggio di bilancio, della possibilità di utilizzare la spesa pubblica corrente e per investimenti per il sostegno all’occupazione e al reddito delle famiglie: reddito indiretto, sanità e istruzione pubblica, e reddito differito, cioè la previdenza pubblica.

Senza sovranità fiscale, non ci può essere una politica economica nell’effettivo interesse della nazione, cioè volta alla piena occupazione, a conseguenti redditi dignitosi, e ad una
consistente propensione a trasformare il risparmio in investimenti produttivi
(esattamente l’opposto di quanto, invece, stabilisce l’art.47 Cost.).
E senza una politica economica volta all’interesse nazionale, non è possibile avere una
politica industriale nell’interesse della Nazione e quindi la sopravvivenza delle imprese che
non siano orientate ad esportare: cioè dovrebbero sopravvivere solo quelle inserite, in
posizione subordinata, dentro le strategie integrate di grandi gruppi industriali esteri.
L’interesse nazionale è quindi l’interesse del lavoro italiano: lavoro che si articola nella
sua forma imprenditoriale, salariata, autonoma, pubblica o privata (art.1 Cost.). Il lavoro
sviluppato in tutte le sue forme garantisce la sovranità popolare: la democrazia non può essere limitata da vincoli alla sovranità nazionale.
Nel momento in cui i vincoli alla sovranità nazionale sono vincoli alla sovranità popolare
fondata sul lavoro, questi sono vincoli allo sviluppo economico della nazione e al
benessere materiale e spirituale degli italiani. Ovvero vanno rimossi nell’interesse degli
Italiani.
Introdurre questo concetto, in sé piuttosto elementare, nell’opinione pubblica, rendendolo un patrimonio condiviso di tutti gli italiani, è impresa ardua, ma – specialmente alla luce del disastro energetico-produttivo in corso – necessaria per la nostra stessa sopravvivenza come comunità nazionale.
IV. LA GLOBALIZZAZIONE È CONTRARIA AGLI INTERESSI DEGLI
ITALIANI
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La globalizzazione, ovvero la libera circolazione dei capitali in un mercato globale, ha prima
portato all’impoverimento dei lavoratori dipendenti, ponendo i salari italiani in
competizione con i salari di paesi economicamente arretrati; quindi ha contribuito a
contrarre la domanda aggregata nazionale, impoverendo il mercato interno e sottoponendo a pressioni crescenti i profitti delle imprese che operano nel mercato nazionale e che vedono i lavoratori italiani come clienti.
Il risultato è stata la progressiva desertificazione industriale, unita alla cessione di intere
filiere produttive a imprese di concorrenti non nazionali, drenando ricchezza all’estero e
sacrificando autonomia economica e – quindi – politica. Ovvero la globalizzazione ha operato contro gli interessi generali degli Italiani. L’accelerazione “geopolitica” impressa con le sanzioni alla Russia, e la rottura dell’equilibrio energetico nella produzione industriale europeo, indicano che pure la “crisi” della globalizzazione stessa (si parla di “decoupling” tra economie occidentali e quelle russa, cinese e, in senso sempre più evidente, indiana, orientale in genere, e persino dei paesi arabi produttori di idrocarburi), in quanto guidata dall’interesse dominante degli Stati Uniti, si rivela un’evoluzione disastrosa, proprio in assenza di quegli elementi di sovranità che sembrano ormai irreversibilmente dispersi dentro il calderone della passività, e incapacità decisionale, dell’Unione europea.
L’Unione Europea ha costituito, per la sua peculiare ingegneria istituzionale (liberalizzazione dei capitali estremizzata e configurazione di una Banca centrale che, per norme intangibili, non garantisce il debito pubblico emesso in euro, né i sistemi bancari nazionali), la punta di diamante della globalizzazione e, con i suoi stringenti vincoli fiscali, burocratici e, anzitutto, monetari, ha strozzato l’economia italiana a favore di paesi concorrenti come la Francia o la Germania.
La UE ha determinato un gigantesco effetto di perdita di controllo, economico e democratico:
cioè, in generale, quello di far aggredire il nostro patrimonio produttivo e immobiliare,
nonché il nostro stesso risparmio, da investitori stranieri di tutto il mondo. E ciò, dopo
aver comunque aperto le porte a ondate di acquisizioni da parte dei paesi “dominanti”
dell’euro-area, avvantaggiati sistematicamente da un’applicazione discrezionale, e
vantaggiosa, di regole (in tema fiscale, di aiuti di Stato, di ricapitalizzazioni statali del sistema bancario, di squilibri macroeconomici sul debito, così come sull’eccesso di attivo
commerciale) che, invece, sono state applicate (e spesso invocate “dall’interno”)
severamente nei confronti dell’Italia.
Per interessi convergenti, Germania e Francia premono per accelerare la crisi economica
italiana, e, in concorrenza con i fondi predatori anglosassoni, cercano di accaparrarsi la
domanda pubblica (spesa in appalti), nonché i risparmi e i patrimoni privati e pubblico, in una svendita sempre più accelerata, che si è trasformata in un vero e proprio saccheggio.
V. ATTACCARE L’OCCUPAZIONE E I SALARI SIGNIFICA COLPIRE LA
REDDITIVITÀ DELLE IMPRESE
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La libera circolazione della forza lavoro e le politiche di immigrazione europee, imposte
complessivamente dai trattati, sottraggono qualsiasi possibilità, – in presenza di una moneta unica senza banca centrale “garante”, trattati di libero scambio e filiere produttive passate in mano estera -, di poter far crescere in qualsiasi modo i salari e garantire una diffusa redditività delle imprese.
La politica economica e fiscale sono orientate in modo manifestamente contrario ai principi
fondamentali della Costituzione, non perseguendo la piena occupazione ma massimizzando i profitti della grande impresa finanziaria o finanziarizzata, sempre più estesamente a
controllo estero.
Inoltre, ciò ha creato una forte concentrazione di risparmio nelle mani di chi può
facilmente esportarlo, facendo crollare gli investimenti: l’enorme saldo negativo italiano
nel sistema di pagamenti in euro, denominato Target-2, indica una fuga di capitali, a partire dall’epoca “Monti”, che nessun paese industrializzato può reggere senza contraccolpi esiziali su investimenti, occupazione e produttività.
In ogni caso, le regole del commercio internazionale imposte dai trattati UE impediscono
la piena occupazione e tutte quelle importanti «tutele» (definite “rigidità”) che
preservano il lavoro come baricentro della famiglia e, quindi (cosa che sfugge sempre più
al pubblico dibattito), la redditività delle imprese che hanno nel mercato interno i propri
clienti (che, necessariamente, sono la stragrande maggioranza).
Da rilevare, poi, che la disintegrazione del legame tra occupazione (domanda) e
redditività delle imprese (da cui la propensione ad investire), conduce ad una
drammatica crisi demografica che, a sua volta, accelera la caduta della “base imponibile”
fiscale complessiva – e quindi della tenuta dei conti pubblici -, inducendo a quella rincorsa
all’aumento della pressione fiscale e al taglio dei servizi essenziali che è obbligatoria secondo le regole fiscali che governano l’eurozona.
Inutile ribadire che il traumatico mutamento che sta imponendo la “crisi energetica”
porta questo fenomeno a livelli insostenibili, specialmente per l’assoluta impossibilità di
trovare soluzioni realistiche ed efficaci dentro un quadro di regole Ue che non si accenna
minimamente a voler modificare.
VI. DALLA DEINDUSTRIALIZZAZIONE ALLA CRISI DEMOGRAFICA
Abbiamo sinteticamente visto che il nostro principale problema sociale e, se vogliamo, di
impoverimento culturale, risiede in un vincolo monetario e politico-economico, rigido e
prolungato. Potremmo definirlo “effetto di deindustrializzazione” dovuta al coniugarsi di
due fattori istituzionali: l’adesione alla moneta unica e la globalizzazione (che è tutto fuorché “spontanea”, come dimostra proprio l’attuale “svolta contraria” imposta dal mutamento di linea degli Stati Uniti).
I cittadini percepiscono tangibilmente questo paradigma nel fatto che i livelli salariali sono
soggetti ad un irreversibile declino, via via che le politiche (appunto “sovranazionali”) degli
ultimi decenni hanno determinato sia la progressiva perdita del controllo (o, peggio, la
sparizione) delle filiere industriali a più alto valore aggiunto, che, come abbiamo visto,
una connessa crisi demografica, ormai strutturale; cioè, tipica delle insistite politiche
deflattive, che si proiettano essenzialmente sul mercato del lavoro, rendendo pressoché
irraggiungibile il livello di reddito e di sicurezza che inducono la formazione delle
famiglie per i nostri, già pochi, giovani.
Questa situazione è stata appunto determinata dalle politiche di austerità fiscale, con
l’ossessione del pareggio di bilancio, imposte dal regime normativo proprio della moneta
unica e dalle conseguenti misure fiscali necessarie all’Unione Europea per tener in vita l’euro.
La sua logica è, in base alle previsioni fondamentali dei trattati, volta alla compressione
salariale al fine di competere sui mercati internazionali schiacciando la domanda interna a
favore delle esportazioni (il sopradetto mercantilismo a trazione tedesca).
La necessità di tener basso il costo del lavoro e di ammortizzare il crollo demografico ha dato poi il pretesto per far apparire come ineluttabili i grandi flussi migratori, in entrata e in uscita; i migliori laureati e diplomati formatisi in Italia emigrano e l’impoverimento
industriale tende a far sostare in Italia gli immigrati meno dotati di professionalità e
formazione, proprio a causa delle tipologie di lavoro che domanda il sistema italiano.
Queste due tendenze, rendono la deindustrializzazione ancora più strutturale e comportano
gravi disagi sociali e alienazione. Insieme all’importazione di merci “culturali”, i flussi
migratori costituiscono modifiche sociologiche che minano alle fondamenta la millenaria
cultura italiana.
Sarebbe, a questo punto, inutile ribadire la triste constatazione che tali processi siano
addirittura accelerati, e non attenuati, dall’aggiungersi della crisi energetica che, con
riguardo all’euro-area, finisce, come s’è visto, per sopprimere pure la (debole) tendenza alla crescita fondata essenzialmente sulle esportazioni (ciò che, appunto, caratterizza il
mercantilismo a trazione tedesca).
VII. UNA POLITICA INDUSTRIALE PUBBLICA È LA BASE DELLA
RINASCITA ECONOMICA NAZIONALE
Quel minimo di «autarchia» – e quindi di economia «chiusa» – che auspicava il più grande
economista del ‘900, John Maynard Keynes, oggi è istituzionalmente impedita dai vincoli dei trattati “sovranazionali” (dall’UE all’OMS, passando per il WTO e il FMI).
Per questo aumentare i salari è economicamente quasi impraticabile come misura in sé,
in quanto la già avvenuta distruzione/riduzione delle filiere produttive a più alto valore
aggiunto e a più elevato contenuto tecnologico, comporta che l’aumento della domanda
aggregata (come, irrazionalmente, si sta tendendo a fare col Pnrr), si trasformi sempre più in domanda di beni prodotti all’estero e, quindi, in uno squilibrio della bilancia
commerciale a favore dei creditori esteri.
La transizione ecologica che ci viene imposta si inserisce, a coglierne il frutto avvelenato, in questa trasformazione strutturale, economica e demografica che l’Italia ha subìto, perché accelera fortemente anch’essa l’uso (strutturale) di tecnologia d’importazione.
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Noi abbiamo invece bisogno di poter attuare sovranamente politiche industriali coerenti con una chiara visione degli interessi di lungo periodo dell’intero Paese: ossia solo una politica industriale pubblica, ben calibrata sulla realistica situazione economica e sociale della Nazione, può rivitalizzare e far ri-espandere (esattamente com’è accaduto durante la
ricostruzione nel dopoguerra), l’intero settore privato sopravvissuto.
Per muoversi in questa direzione, va anzitutto effettuata una rigorosa ricognizione
dell’attuale struttura produttiva, delle capacità tecniche, scientifiche e culturali
disponibili.
Queste politiche pubbliche dal lato dell’offerta sono le premesse logico-politiche per
poter realisticamente porre in essere politiche dal lato della domanda, cioè della tutela del
lavoro (e in ultima analisi, di favor demografico), che oggi non possiamo permetterci di
fare. Il passaggio principale, divenuto indispensabile, è quindi perseguire una
reindustrializzazione per mano pubblica.
Ma ciò, a sua volta, presuppone un totale mutamento istituzionale, (compreso il rilancio
dell’istruzione pubblica italiana, ad ogni livello): ovvero è necessario (attraverso atti giuridici del massimo livello di decisione politica) lo smantellamento dei vincoli monetari e fiscali euro-unionisti.
Un aspetto aggiuntivo emerge ora (ma avrebbe dovuto essere chiaro anche in precedenza, in un paese trasformatore e manifatturiero come l’Italia), con enorme evidenza, a causa
dell’atteggiamento dell’Ue sulle “sanzioni” adottate a seguito del conflitto russo-ucraino:
senza un’abbondante disponibilità di energia a basso costo questi sforzi, e prima ancora la
nostra stessa sopravvivenza, sarebbero per lo più impossibili.
E’ dunque evidente come la stessa transizione energetica non sia nel nostro immediato
interesse; essa è incompatibile con l’orientamento utile, per l’interesse nazionale, degli
investimenti, con la tutela del lavoro – e con il relativo rilancio dei livelli retributivi e, quindi, di redditività delle piccole e medie imprese -, che permetterebbe la ripartenza dell’economia.
VIII. LE TECNOLOGIE DIGITALI E IL SISTEMA MEDIATICO MINANO LA
CONSAPEVOLEZZA DEL POPOLO ITALIANO
È quasi impossibile difendere gli interessi nazionali, anche nel caso di una forte decisione
politica unilaterale di “rottura”, a meno che, prima, non si passi per una diffusa
consapevolezza del popolo italiano, e dei partiti che dovrebbero esserne i rappresentanti,
delle condizioni per realizzare una realistica fase di transizione verso il recupero della
sovranità e della legalità costituzionali.
Ed infatti, l’integrazione delle filiere globali – anche in caso di catastrofiche crisi economiche come quelle in cui è sprofondato il mercato globalizzato – rende di difficile la comprensione una politica economica realmente sovrana volta a perseguire gli interessi degli Italiani. Infatti le attuali forze politiche sono divenute timorose (dei “mercati” e delle reazioni della BCE) e disabituate, ormai da decenni, a fare scelte politico-economiche, industriali e fiscali al di fuori delle soffocanti regole euro-unioniste. Tra queste regole “intoccabili” emergono i vincoli all’azione della BCE, le regole di austerità fiscale che governano l’eurozona e il regime degli aiuti di Stato.
Le tecnologie digitali, a quasi totale controllo estero, gettano una luce sinistra sulle possibilità di riconquistare quel minimo di indipendenza tecnico-produttiva che esigerebbe, in un immediato futuro, una ritrovata autonomia economica.
Inoltre la capillarità dell’uso del digitale toglie qualsiasi necessaria riservatezza alla vita
economica, sociale e politica del Paese, esponendola all’ossessiva sorveglianza
angloamericana e più in generale di chi controlla lo sviluppo delle tecnologie digitali: il
controllo politico-culturale “estero” diviene così sempre più profondo ed irreversibile.
Di fatto la prostrazione economica prodotta dai Trattati UE, e in particolare dall’euro, è stata presentata dal sistema mediatico come frutto di una colpa umiliante di cui gli italiani si sarebbero macchiati. Una tale “narrazione” non corrisponde affatto alla realtà delle cause del declino nazionale: il controllo mediatico, oltre a quello della digitalizzazione, è
chiaramente un tema di primaria importanza.
Non si può perseguire l’interesse nazionale senza il controllo democratico dell’informazione.
Il relativo “vantaggio” che possiamo vantare, in questa difficile opera di salvezza, è che il
mutamento istituzionale qui indicato come necessario, coincide con il modello sociale e
politico-economico della nostra Costituzione del ‘48 ed è quindi più facile, e legittimo,
trovare una soluzione sulla base della Legge fondamentale della nostra comunità nazionale.
Si può utilmente rivendicare, finché essa formalmente esista, che la parte essenziale e
immodificabile della nostra Costituzione diverge radicalmente dal sistema dei trattati, con le sue regole sul ruolo della banca centrale, sugli aiuti di Stato, con i suoi severi limiti fiscali, con le sue imposizioni di «privatizzazioni» e «liberalizzazioni», con la sua scarsa attenzione al risparmio e alla tutela del sistema bancario: “vincoli esterni” che, nel loro insieme, sono la causa del declino italiano.
Questo risveglio culturale, istituzionale e, nelle condizioni attuali, di consapevolezza
“geopolitica”, è l’unica difficile via rimasta per avere un futuro dignitoso.
IX. LO SVILUPPO POSSIBILE: SOLUZIONI POLITICO-ECONOMICHE AI
PROBLEMI STRUTTURALI DELL’ECONOMIA ITALIANA.
1. L’analisi dello scenario evolutivo dell’eurozona – soprattutto dopo l’inizio della guerra in
Ucraina – pone il quesito relativo al “come” ritornare a un livello di crescita stabile ed
adeguato.
La risposta a tale interrogativo esige l’adozione di alcune misure di salvaguardia dal
“vincolo esterno” imposto sia dai mercati finanziari, in termini di spread, sia dalla ampia
“discrezionalità” della BCE nel concedere liquidità al nostro sistema bancario e,
indirettamente, al nostro sistema fiscale.
È immaginabile un ventaglio di rimedi adottabili senza dover mettere in discussione le norme dei trattati, in particolare:
– misure di incentivazione ai risparmiatori italiani, – che tengono più di 2000 miliardi
“immobilizzati” sui conti correnti- a tornare ad acquistare i titoli del debito pubblico
italiano senza timori;
– misure per il pagamento dei crediti dei privati verso la pubblica amministrazione e
per la circolazione dei crediti fiscali (vedi il caso del “Superbonus 110%).
Questo insieme di provvedimenti sono infatti adottabili dentro le maglie delle previsioni dei
trattati e del diritto europeo. Ma purché vi sia una forte volontà politica in tal senso
all’interno di un Governo che abbia la chiarezza di idee e la determinazione concorde di
difendere l’interesse nazionale.
Va aggiunto che di fronte all’evoluzione dell’eurozona impressa con la riforma
dell’MES, sono necessarie altre adeguate “misure di difesa”, oltre il rifiuto categorico di
ratificare questo trattato.
2. Alla fase di “assestamento difensivo” dell’interesse nazionale, va fatta immediatamente
seguire una serie politiche economico-industriali, per così dire, attiva, costruttiva.
Ciò deve comunque basarsi sulla consapevolezza che ogni possibile politica economica e
sociale si inserisce in un quadro istituzionale, quello determinato dalla nostra permanenza
nell’area euro, composto di regole rigidamente applicate (sicuramente nei confronti
dell’Italia).
Quindi, determinare tali politiche presuppone il prendere atto di alcune caratteristiche
del nostro sistema istituzionale ed economico, generate dalla prolungata applicazione
delle regole Ue, che hanno appunto modificato, indebolendolo, il nostro sistema produttivo e industrial-manifatturiero; caratteristiche che appaiono trascurate dai governi, tutti presi dalla contingenza dei “conti in ordine”.
3. Ed infatti, il sistema Ue-eurozona presenta i seguenti elementi di forte vincolo:
a) divieto legalmente sancito (e non meramente corrispondente ad una prassi osservata
autonomamente dalla banca centrale) di intervento della BCE nel finanziamento diretto
dell’azione economico-fiscale dello Stato, nonché di ogni forma di solidarietà fiscale (si
vedano gli artt.123-124-125 del TFUE);
b) aggiustamenti degli squilibri commerciali e finanziari entro l’eurozona, perseguibili
solo entro la cornice del fiscal compact, (principio del pareggio di bilancio,
imprudentemente recepito in Costituzione): cioè mediante consolidamento fiscale incessante, che dà luogo ad una indiscriminata compressione della domanda interna che riduce sì i consumi, avendo come obiettivo quelli di beni e servizi importati, ma finisce per tagliarli generalmente tutti e per ridurre la produzione interna, la corrispondente occupazione e la propensione all’investimento nazionale. Al più propiziando spinte deflazionistiche che affidano alla competitività forzata (sul costo decrescente del lavoro), e quindi alle sole esportazioni, le magre possibilità di crescita del prodotto nazionale:
c) cesura del legame vitale tra banche e economia “sul territorio” dovuto all’Unione
bancaria, laddove la vitalità del sistema produttivo italiano è invece legata alle piccole e
medie imprese originate da una intraprendenza creativa diffusa e decentrata;
d) crescente peso dei servizi nell’economia; fenomeno che incentiva sia lo spiazzamento
degli investimenti dal fondamentale settore manifatturiero, sia la sotto-offerta, il sottoinvestimento e la sotto-occupazione, determinati, per loro notoria fisiologia operativa, da monopoli, e oligopoli concentrati, gestiti dai proprietari privati, o privatizzati, che
controllano il settore dei servizi (fenomeno ulteriormente accentuato dall’apertura
dell’economie, – sia all’interno del mercato unico Ue, sia per via della c.d. “globalizzazione”-, e che induce un crescente controllo estero sul settore dei servizi, inclusi quelli di interesse generale “a rete”);
e) difficoltà estrema a correggere tale dannosa “struttura di mercato”, e la conseguente
stagnazione deflazionista, in conseguenza dei limiti all’intervento fiscale (pareggio di
bilancio) e del regime del divieto di aiuti di Stato, quale interpretato (specialmente nei
confronti dell’Italia) dalle autorità Ue.
4. È necessario quindi un complesso di misure di intervento pubblico mirato a ridurre,
attraverso diretti investimenti industriali in settori strategici, i limiti al livello dei
moltiplicatori fiscali che sono dovuti al fatto che, ormai, crescendo spesa pubblica e
privata, si verifica un insostenibile aumento delle importazioni.
A ciò, può porsi rimedio soltanto consolidando un rilancio della capacità industriale
nazionale fondabile prevalentemente sulla domanda interna. In altri termini, va perseguita,
grazie all’intervento pubblico “mirato”, una ripresa che non comprometta l’equilibrio delle
partite correnti, la solidità della posizione patrimoniale netta sull’estero (problema acuito
dall’invocazione degli “investitori esteri”) e ricrei un’adeguata propensione ad investire del
settore privato.
La ripresa industriale e occupazionale legate alla domanda interna, risolvono anche gli
pseudo-problemi posti sui principali aggregati della spesa pubblica: servizio sanitario
universale (reddito delle famiglie indiretto) e sistema pensionistico pubblico (reddito delle
famiglie differito).
Ed infatti, il maggior gettito, sia fiscale che contributivo, che sarebbe determinato da una
crescita dell’occupazione connessa al rafforzamento della produzione interna effettivamente consumata sul territorio nazionale, sgonfierebbe il problema dei conti pubblici; mentre, allo stesso tempo, se il rafforzamento industriale e occupazionale si consolidasse, darebbe soluzione (progressiva) al problema della traiettoria demografica negativa (riducendo anche il simmetrico problema di invecchiamento della popolazione).
Peraltro, reddito indiretto e reddito differito sono, per la stessa Costituzione, oltre che tutela dei bisogni essenziali della società, gli strumenti privilegiati di un risparmio diffuso, fondato sul lavoro (adeguatamente retribuito), che costituisce lo strumento più sano per alimentare autonomamente gli investimenti produttivi (come emerge dallo stesso
art.47 Cost.) e finanziare la stessa azione dello Stato.
5. Le soluzioni qui auspicate per linee generali, possono condurre, dapprima, allo
sfruttamento mirato di regole del diritto europeo (si pensi al regime derogatorio del divieto di aiuti di Stato relativo ai SIEG, cioè ai Servizi di interesse economico generale, e al nuovo
regime di praticabilità delle iniziative industriali pubbliche “In House”); e successivamente,
al raggiungimento di una ripresa autonoma della crescita e della capacità industriale
nazionali, al punto da rendere quasi naturale, per mutamento delle posizioni di forza
negoziali, una riforma concordata del quadro istituzionale UE.
Il rafforzamento della capacità industriale nazionale è perseguibile promuovendo “l’effetto
sostituzione”, cioè impiegando, almeno nella fase iniziale del ciclo, gli investimenti
pubblici per iniziare a produrre ciò che viene consumato in Italia, specialmente nelle
filiere a più alto valore aggiunto, opportunamente individuabili in base al know-how
tecnologico e alle competenze della forza lavoro ancora disponibili in Italia. Ciò mantiene e
rilancia anche la qualità dell’occupazione e, più ampiamente, della convivenza sociale.
Lo stesso intervento pubblico può contemporaneamente essere indirizzato a “rimuovere le
strozzature” (di disponibilità di capitale, di accesso ai risultati della ricerca teorica e
applicata, di regime tributario) al fine di potenziare i settori italiani già competitivi e ben
orientati all’esportazione.
In sostanza, riprendendo la citazione keynesiana fatta da Federico Caffè, l’azione fiscale
espansiva, per raggiungere una sostenibilità, nei conti con l’estero e, naturalmente,
occupazionale, deve porsi l’obiettivo: “cosa produrre e cosa scambiare con l’estero in modo
da assicurare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti nel medio-lungo termine”.
6. In questo quadro è fondamentale rinegoziare il PNRR per indirizzarlo verso politiche
industriali ed economiche realmente utili per la nostra Nazione: meno transizione
energetica e digitale, più infrastrutture e finanziamenti per la politica industriale pubblica.
In particolare per la transizione energetica bisogna rendere centrale la manutenzione e
l’efficientamento energetico del nostro patrimonio immobiliare pubblico e privato (vedi
Superbonus 110%). In più bisogna allungare i tempi previsti per mettere a bando i
progetti per evitare caotiche accelerazioni che di per sé generano nuova inflazione e
valutare una riduzione dell’utilizzo di risorse ottenute attraverso prestiti che dovranno
essere restituiti, aumentando di fatto il debito pubblico e i costi del suo servizio (i fondi del
PNRR, infatti, devono essere pagati non solo negli interessi ma, a differenza dei titoli di
Stato, anche per la sorte capitale). Nell’immediato le risorse del PNRR devono essere
utilizzate per ridurre l’impatto dei rincari energetici sulle famiglie e sulle imprese.
7. Infine il rilancio del nostro sistema economico è impensabile senza una profonda
revisione ed un rapido superamento delle sanzioni contro la Russia, che si sono rivelate
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delle “auto-sanzioni” che oggettivamente danneggiano più i paesi europei che il regime di
Vladimir Putin. È evidente che tutto questo non è pensabile senza ottenere almeno un
cessate il fuoco e l’apertura di un tavolo di trattative tra le parti in conflitto. Ecco perché
l’impegno per fermare la guerra è fondamentale non solo per ragioni umanitarie e per evitare il rischio di una pericolosissima escalation del conflitto, ma anche per salvare la nostra economia che senza un’abbondante disponibilità di energia a basso costo non può essere salvata.
Una svolta del Governo italiano in questo senso aprirebbe un inevitabile contenzioso non
solo con gli Stati Uniti ma anche con le istituzioni dell’Unione Europea, ma proprio questo
potrebbe essere l’innesco per un non più rinviabile negoziato con i nostri partner europei e
occidentali. Se si pretende l’allineamento dell’Italia come paese cobelligerante con l’Ucraina come è possibile negare una profonda revisione dei Trattati europei (e nell’immediato delle decisioni economiche della BCE e della Commissione europea) e dei costi economici delle forniture energetiche tra l’Italia e gli Stati Uniti, nella chiave di una “economia di guerra” che possa salvare il nostro sistema produttivo? È evidente che la forza negoziale dell’Italia sarebbe rafforzata dall’adozione delle misure di salvaguardia dal “vincolo esterno” accennate all’inizio di questo capitolo.
8. Tra i punti in sospeso ereditati dal Governo Draghi c’è anche quello del Superbonus 110% per l’adeguamento energetico degli edifici. Si tratta di un tema di portata sistemica: i crediti non smobilizzati sono quasi a 4 miliardi e le imprese edili a rischio default oltre 20.000. Non solo: nella “Direttiva sul rendimento energetico nell’edilizia” che sarà emanata dalla Commissione europea è prevista l’inalienabilità degli immobili che non rispondono a requisiti energetici progressivamente sempre più alti. Quindi i comuni cittadini che non avessero i soldi per adeguare i propri immobili alla costosa normativa energetica, si troverebbero con le loro case ridotte a valore commerciale zero. L’unica soluzione possibile è costituire un veicolo pubblico/privato che acquisti i crediti dalle banche che hanno fatto da collettori e li cartolarizzi emettendo note garantite dal MEF o da SACE. Il mercato degli investitori internazionali con questi tassi potrebbe facilmente impiegare risorse, avendo un rischio default prossimo allo zero. I crediti sarebbero a loro volta gestiti tramite piattaforma di nuovo a disposizione delle banche per compensarli sugli F24 di imprese e contribuenti dando la possibilità di frazionarli anche infra-anno. Questa manovra genererebbe quasi 100 miliardi di euro di liquidità rotativa sul settore: a questo punto anche il 90% sarebbe un credito gradito e la manovra sostenibile. Un vero e proprio esempio di moneta fiscale, fino ad ora sempre sconfessato dal MEF su input delle autorità europee.
9. Il Ministro Giorgetti ha dichiarato l’Italia è pronta a ratificare la riforma dell’ESM (o
MES, il fondo salva-stati) se la Corte costituzionale tedesca darà il via libera all’adesione
della Germania. C’è da sperare che questa sia solo un’uscita estemporanea per prendere
tempo, perché sarebbe veramente un disastro se il Governo Meloni si intestasse questa ratifica che dal 2019 i governi Conte e Draghi hanno comunque evitato. Ratificare la riforma dell’ESM per l’Italia significa condannarsi ad andare in default. Il Meccanismo Europeo di Stabilità prevede una serie di condizionalità che a un paese indebitato come l’Italia consentono solo di accedere a una “linea di credito a condizioni rafforzate” che
comporterebbe una preliminare ristrutturazione del debito e quindi il fallimento delle finanze pubbliche. Non solo: l’ESM, per meglio esercitare i propri compiti, cioè scrutinare gli Stati per le loro eventuali future richieste di assistenza, procederà “d’ufficio” all’accertamento della sostenibilità del debito pubblico di concerto con la Commissione e la BCE. Quando da queste verifiche d’ufficio risulterà che l’Italia non è in condizione di accedere alle normali linee di credito dell’ESM, sui mercati si scatenerà il panico rispetto ai nostri titoli, poiché sono le stesse autorità che dovrebbero “sostenerci” che dicono che siamo destinati ad una preventivari strutturazione del debito.
Questa ratifica è quindi qualcosa da evitare ad ogni costo, perché l’esito sarebbe nel caso
migliore quello di sprecare le ingenti risorse con cui l’Italia dovrebbe finanziare questo nuovo ESM senza però poter accedere al suo utilizzo, oppure nel caso peggiore quello di condannare l’Italia ad una ristrutturazione economica “lacrime e sangue” peggiore di quella inflitta a suo tempo da Mario Monti.

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Le mirabilie di Giorgia_Con Augusto Sinagra

Giorgia Meloni si è offerta al pubblico votante come l’alternativa rifondatrice, il nuovo che avanza. Ha seguito sin dal suo insediamento, oserei affermare, già nelle sue intenzioni, il solco tracciato dai suoi predecessori con qualche marginale aggiustamento di buon senso ed una retorica baldanzosa che non riuscirà a nascondere per molto tempo la sostanza dei suoi indirizzi di governo. Non è stata attraversata nemmeno dalle bizze che hanno colto Salvini a suo tempo, alla scoperta della differenza che può intercorrere tra i proclami e una condotta coerente nell’azione di governo. Una coerenza con gli indirizzi del suo predecessore in un contesto, per meglio dire in un barile ormai abbondantemente raschiato. La novità più importante è, paradossalmente, il sorgere dalle sue fila di una area di opinione legata alla definizione e al perseguimento dell’interesse nazionale e disposta ad aprire un confronto con forze dalle medesime ambizioni, ma con retaggi ideologici a suo tempo preclusivi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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L’umiliazione di Blinken

L’umiliazione di Blinken

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Ovunque si sia rivolto in Medio Oriente, il Segretario di Stato americano ha incontrato l’opposizione, come riferisce Joe Lauria.

Antony Blinken in July. (Office of U.S. Department of State Spokesperson Matthew Miller/Wikimedia Commons)

di Joe Lauria
Riservato a Consortium News

Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha concluso la sua escursione di quattro giorni in Medio Oriente, dove è stato pubblicamente respinto da Israele, istruito da Egitto e Giordania e contestato in Turchia.

Blinken tornerà negli Stati Uniti dove centinaia di migliaia di americani, tra cui molti elettori del Partito Democratico, sono in piazza per sviscerare l’Amministrazione Biden per il suo ruolo nel genocidio.

Torna in un Dipartimento di Stato dove un funzionario si è dimesso per il sostegno incondizionato dell’amministrazione a Israele e un secondo dipendente del Dipartimento ha accusato Joe Biden sui social media di essere “complice del genocidio”.

Gli elettori arabo-americani del partito di Blinken, che hanno aiutato Joe Biden a conquistare la Casa Bianca nel 2020 consegnandogli lo swing state del Michigan, questa volta si stanno apertamente ribellando perché vedono sui loro schermi ciò che chiunque abbia un po’ di cuore sta vedendo e sanno che Biden è coinvolto.

Secondo un nuovo sondaggio del New York Times e del Siena College, Biden è in vantaggio su Donald Trump solo in uno dei sei swing state. Il livello di barbarie scatenato dal regime rabbioso e di destra di Tel Aviv ha colto di sorpresa Blinken e Biden, se non altro per le conseguenze politiche.

I funzionari statunitensi sono così abituati ad appoggiare automaticamente Israele che hanno difficoltà a capire cosa stiano appoggiando esattamente questa volta. Ma si sta iniziando a capire. Se in Biden e Blinken è rimasto un briciolo di coscienza umana, non sono indifferenti. Privi di reazioni umane normali, è chiaro che non sanno cosa fare se non quello che hanno sempre fatto: appoggiare Israele fino in fondo, nonostante quello che dicono i loro occhi.

Il calcolo politico è confuso a causa dell’inequivocabile potere della lobby israeliana di distruggere le carriere politiche americane “facendo le primarie” di un candidato o appoggiando un avversario alle elezioni generali. Tutto ciò si aggiunge al dilemma di Biden.

Caitlin Johnstone, in una rubrica ripubblicata oggi su Consortium News, commenta un articolo del Washington Post che dice:

Con l’intensificarsi dell’invasione di terra di Israele a Gaza, l’amministrazione Biden si trova in una posizione precaria: I funzionari dell’amministrazione affermano che il contrattacco di Israele contro Hamas è stato troppo severo, troppo costoso in termini di vittime civili e privo di una strategia finale coerente, ma non sono in grado di esercitare un’influenza significativa sul più stretto alleato dell’America in Medio Oriente affinché cambi rotta. …Ad ogni missile sganciato su Gaza, ad ogni uccisione di un bambino palestinese – e Israele ha ucciso in questa guerra più bambini di tutti i conflitti globali dal 2019 – l’intera regione sta affondando in un mare di odio che definirà le generazioni a venire”. ”
Considerando che Washington è il finanziatore militare di Israele e che la Casa Bianca ha chiesto al Congresso altri 14 miliardi di dollari per Israele nel bel mezzo delle sue atrocità, Johnstone osserva: “L’amministrazione Biden ha in realtà tonnellate di leva che può usare per fermare il massacro genocida a Gaza, solo che non vuole farlo perché sarebbe ‘politicamente impopolare’ e perché ‘Biden stesso ha un attaccamento personale a Israele‘”.

Umiliato da Netanyahu

Blinken meets Netanyahu in Tel Aviv on Friday. (Israeli Government Press Office)

Blinken è volato in Israele venerdì per fare pressioni su Benjamin Netanyahu affinché accettasse ciò che gli Stati Uniti, pochi giorni prima, avevano posto il veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: pause umanitarie per far entrare gli aiuti a Gaza e far uscire i cittadini stranieri. È un po’ come fermare il torturatore per un minuto per dare alla vittima un sorso d’acqua prima di incoraggiare la ripresa della tortura.

Il fatto che l’amministrazione stia ora spingendo queste pause – invece di un cessate il fuoco – laddove prima esercitava il proprio veto contro di esse – una questione non da poco – dimostra in che situazione si trovi e quanto disperata sia la ricerca di una via d’uscita.

Lo sprovveduto Blinken non può competere con un machiavellico di livello mondiale come Benjamin Netanyahu. Tuttavia, ha dovuto incontrare Blinken perché dopo tutto ci sono 14 miliardi di dollari sul tavolo. Ritirarli sarebbe una grave battuta d’arresto per Netanyahu e un sollievo per i gazesi. Così ha dato una pacca sulla testa a Blinken e gli ha detto: “Grazie per essere venuto, ma non grazie alle tue pause”.

Blinken ha dovuto rilasciare una dichiarazione alla stampa da solo, quando normalmente sarebbe stato accanto al leader che aveva appena incontrato. Ma Netanyahu era troppo impegnato. Ha un’operazione di pulizia da portare avanti.

In seguito Netanyahu si è presentato da solo in camicia nera per dire no alle pause umanitarie, no al carburante, no a tutto ciò che arriva a Gaza tranne che alla morte.

Netanyahu at the Ramon Air Force Base on Sunday: “There will be no ceasefire without the return of the hostages. We say this to our friends and to our enemies. We will continue until we defeat them.” (Israeli Government Press Office)

Una lezione dall’Egitto e dalla Giordania

Poi è stata la volta di Amman, dove Blinken è stato completamente surclassato dai ministri degli Esteri di Giordania ed Egitto, che lo hanno istruito sugli enormi crimini che Israele sta commettendo 24 ore su 24. Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha parlato dell'”importanza del rispetto” del

“il diritto umanitario internazionale… e il rifiuto dello sfollamento dei palestinesi, della loro terra. … Riteniamo che questo sia un crimine di guerra che fermeremo con tutte le nostre forze. … Le uccisioni devono cessare e anche l’immunità israeliana dal commettere crimini di guerra deve cessare. … Come possiamo anche solo pensare a ciò che accadrà a Gaza quando non sappiamo che tipo di Gaza rimarrà dopo la fine di questa guerra? Parleremo di una terra desolata? Parleremo di un’intera popolazione ridotta a profughi?”.
Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry non avrebbe potuto essere più diretto quando ha detto, con Blinken nella stanza:

“La punizione collettiva – Israele che prende di mira civili innocenti e strutture, strutture mediche, paramedici, oltre a cercare di costringere i palestinesi a lasciare le loro terre – non può assolutamente essere una legittima autodifesa. … Vorrei chiedere un immediato e intenso cessate il fuoco a Gaza, senza alcuna condizione, e che Israele cessi … le sue violazioni del diritto internazionale e delle leggi di guerra”.
C’è un grave scollamento nel pensiero di Blinken, quando dice: “Crediamo che le pause possano essere un meccanismo critico per proteggere i civili, per far entrare gli aiuti, per far uscire i cittadini stranieri, pur consentendo a Israele di raggiungere il suo obiettivo: sconfiggere Hamas”.

Non capisce che l’obiettivo di Israele è la distruzione del popolo palestinese a Gaza per sconfiggere Hamas?

Completamente ignaro di dove si trovasse o con chi si stesse presentando, Blinken ha pensato ad alta voce, giustificando la mostruosa politica israeliana di bombardare obiettivi civili come gli ospedali a causa della presunta presenza di Hamas e del loro uso di “scudi umani”.

Tamer Smadi di Al Jazeera ha chiesto a Blinken: “Quali sono i risultati che Israele ha ottenuto, e qual è il numero esatto di vittime, di civili, che indurrebbe gli Stati Uniti a fermarsi a riflettere e a guardare a questo massacro più aperto e a chiedere a Israele di fermare con decisione questo spargimento di sangue nella Striscia di Gaza?”.

Blinken ha risposto giustificando esplicitamente i crimini di guerra di Israele:

“Hamas si è cinicamente, mostruosamente inserito in mezzo ai civili; mette i suoi combattenti, i suoi comandanti, le sue armi, le sue munizioni, il comando e il controllo in edifici residenziali, sotto le scuole e nelle scuole, sotto gli ospedali e negli ospedali, sotto le moschee e nelle moschee – mostruoso”.
Farsi impagliare in Turchia

Dopo una deviazione inaspettata a Baghdad, Blinken è volato ad Ankara, dove solo una settimana prima il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva guidato una manifestazione di quasi un milione di persone all’aeroporto, che aveva condannato duramente Israele.

Due giorni prima dell’arrivo di Blinken, Erdogan lo ha messo in imbarazzo richiamando l’ambasciatore turco da Israele. (Ovviamente non taglierà il 40% delle forniture di petrolio di Israele che passano attraverso la Turchia). Blinken è arrivato nella capitale turca, ma Erdogan non ha avuto il tempo di incontrarlo. La Turchia chiede un cessate il fuoco e non crede alle pause tardive di Blinken.

Prima dell’incontro di Blinken con il ministro degli Esteri turco, la polizia turca ha dovuto usare gas lacrimogeni e cannoni ad acqua per impedire a centinaia di manifestanti di prendere d’assalto la base aerea di Incirlik, che ospita le truppe statunitensi. Circa 1.000 manifestanti hanno anche manifestato davanti all’ambasciata statunitense ad Ankara.

È stato un fine settimana che dovrebbe catturare le menti di Washington.

Come ha detto Blinken ad Amman,

Quando vedo un bambino o una bambina palestinesi estratti dalle macerie di un edificio, mi colpisce allo stomaco come colpisce lo stomaco di tutti, e vedo i miei stessi figli nei loro volti. E come esseri umani, come possiamo non sentirci allo stesso modo?”.
Allora agite di conseguenza. Fermate Israele.

Joe Lauria is editor-in-chief of Consortium News and a former U.N. correspondent for The Wall Street Journal, Boston Globe, and numerous other newspapers, including The Montreal Gazette, the London Daily Mail and The Star of Johannesburg. He was an investigative reporter for the Sunday Times of London, a financial reporter for Bloomberg News and began his professional work as a 19-year old stringer for The New York Times. He is the author of two books, A Political Odyssey, with Sen. Mike Gravel, foreword by Daniel Ellsberg; and How I Lost By Hillary Clinton, foreword by Julian Assange. He can be reached at joelauria@consortiumnews.com and followed on Twitter @unjoe

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