Cutro e la carica degli indignati, con Augusto Sinagra

La strage di migranti sulla spiaggia di Cutro ha vellicato gli impulsi peggiori e più strumentali di reazione e denuncia di un fatto e di una realtà di per sè così drammatica. Tutto per nascondere ed eludere l’incapacità politica e la postura acriticamente remissiva di un ceto politico e di una classe dirigente ampiamente responsabile dell’attuale condizione pietosa ed irrilevante di un paese e di una nazione nell’attuale contesto geopolitico. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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La diplomazia cinese “affronta i lupi faccia a faccia”, ottenendo risultati gloriosi tra le difficoltà: Editoriale del Global Times

Crescendo rossiniano. Toni sempre più duri. Scelte politiche sempre più nette. Buona lettura, Giuseppe Germinario

https://www.globaltimes.cn/page/202303/1286861.shtml

La diplomazia cinese “affronta i lupi faccia a faccia”, ottenendo risultati gloriosi tra le difficoltà: Editoriale del Global Times

Pubblicato: Mar 07, 2023 11:35 PM

Martedì il ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha risposto alle domande dei giornalisti nazionali ed esteri sulla politica estera e le relazioni esterne della Cina. La conferenza stampa del ministro degli Esteri è uno dei momenti salienti delle due sessioni annuali. In particolare, quella di quest’anno è la prima conferenza stampa dopo tre anni in cui il ministro degli Esteri cinese incontra la stampa di persona e la prima da quando Qin ha assunto l’incarico. Naturalmente ha ricevuto l’attenzione di tutte le parti.

 

In 114 minuti, Qin ha risposto a un totale di 14 domande, utilizzando un linguaggio vivace e umoristico per spiegare in modo vivace gli obiettivi e le missioni della diplomazia cinese, oltre a esprimere chiaramente le proposte e la posizione del Paese sulle relazioni con i Paesi principali, sulla diplomazia di vicinato e sui temi caldi. Le sue parole riflettevano la continuità e la certezza della diplomazia cinese, nonché lo stile personale di Qin. La sincerità, la franchezza, l’ampiezza di vedute e la fiducia in se stessi sono le impressioni più evidenti di questa conferenza stampa.

 

La stampa ha coperto una gamma molto ampia di argomenti, senza evitare i temi più scottanti che interessano il mondo. Ad esempio, per quanto riguarda gli scambi con l’estero, Qin ha espresso la sua ferma volontà di sviluppare l’amicizia e la cooperazione con altri Paesi, osservando che la Cina genererà nuove opportunità per il mondo con il suo nuovo sviluppo. Parlando dell’Iniziativa Belt and Road, ha detto che “la sua cooperazione è condotta attraverso la consultazione e le sue partnership sono costruite con amicizia e buona fede“. In effetti, dalla conferenza stampa, il mondo intuisce che la Cina salvaguarderà con fermezza i suoi interessi fondamentali e sarà sempre un costruttore della pace mondiale, un contributo allo sviluppo globale e un difensore dell’ordine internazionale. Questo è anche lo stile generale della diplomazia cinese nella nuova era.

 

L’opinione pubblica internazionale ha prestato particolare attenzione alla dichiarazione di Qin sulle relazioni tra Cina e Stati Uniti, che da un lato sottolinea l’importanza di questa relazione bilaterale e dall’altro mostra le preoccupazioni realistiche del mondo esterno riguardo alle relazioni tra Cina e Stati Uniti. Qin ha sottolineato senza mezzi termini che la percezione e la visione della Cina da parte degli Stati Uniti sono seriamente distorte, come “il primo bottone di una camicia messo male“. Se gli Stati Uniti non tirano il freno e continuano a percorrere la strada sbagliata, “ci saranno sicuramente conflitti e scontri“. Ha inoltre affermato che le relazioni tra Cina e Stati Uniti dovrebbero essere determinate dagli interessi comuni e dalle responsabilità condivise dei due Paesi e dall’amicizia tra i popoli cinese e americano, piuttosto che dalla politica interna degli Stati Uniti o dall’isterico neo-maccartismo. Questo non è solo un avvertimento a Washington, ma dimostra anche l’atteggiamento responsabile e serio della Cina nei confronti delle relazioni Cina-USA.

 

Abbiamo notato che alcuni media occidentali stanno esaminando questa conferenza stampa con la lente d’ingrandimento, cercando di etichettare la diplomazia cinese come “moderata” o “dura”, ma si tratta chiaramente di un errore di orientamento. In realtà, Qin ha chiarito in conferenza stampa che la cosiddetta “diplomazia del lupo guerriero” è una trappola narrativa. Nella diplomazia cinese non mancano la buona volontà e la gentilezza, ma se dovessero trovarsi di fronte a sciacalli o lupi, i diplomatici cinesi non avrebbero altra scelta che affrontarli di petto e proteggere la nostra madrepatria, ha detto Qin. In altre parole, ovunque si trovino gli interessi nazionali della Cina e la moralità del mantenimento della pace e della stabilità, i diplomatici cinesi saranno lì.

 

“Vale la pena sottolineare che la trappola narrativa menzionata da Qin è proprio il mezzo spregevole che Washington ha ripetutamente usato negli ultimi anni per cercare interessi geopolitici privati. Approfittando della sua egemonia sull’opinione pubblica, Washington ha costantemente teso trappole narrative come la “trappola del debito cinese“, le “regole dell’ordine internazionale” e la “democrazia contro l’autoritarismo” e, diffamando continuamente la Cina, tenta di metterla in difficoltà e di coprire le proprie azioni impopolari di iniziare una nuova guerra fredda sotto il nome di “competizione“. È chiaro che la politica statunitense nei confronti della Cina si è completamente allontanata da un percorso razionale e sano, e gli Stati Uniti non possono aspettarsi che la Cina non risponda con parole o azioni. È assolutamente impossibile”.

Allo stesso tempo, Qin ha anche affermato che il popolo americano, proprio come quello cinese, è amichevole, gentile e sincero, e desidera una vita e un mondo migliori. Pur affrontando di petto i lupi, la diplomazia cinese non ha mai rinunciato a perseguire l’unità, la cooperazione e lo sviluppo pacifico. Ciò si riflette in modo evidente nella crescente cerchia di amicizie della Cina. La Cina ha sempre più nuovi amici e vecchi amici sempre più vicini. Agli occhi della stragrande maggioranza dei Paesi normali della comunità internazionale, la Cina è un buon vicino e un partner amichevole, entusiasta e disposto a condividere. Alcuni media e l’opinione pubblica occidentali sostengono che la diplomazia cinese stia diventando sempre più “dura“, e alcuni si sono sentiti addirittura presi di mira durante la conferenza stampa, il che dimostra chi sono i “lupi” nelle relazioni internazionali di oggi – lo sanno molto bene.

 

Una Cina che si concentra sempre sullo sviluppo, con grandi certezze e un forte senso di responsabilità, porterà al mondo un senso di stabilità e di fermezza, che sarà trasmesso innanzitutto attraverso la diplomazia. Come ha detto Qin, il nuovo viaggio della diplomazia cinese sarà una spedizione con glorie e sogni, ma anche un lungo viaggio attraverso mari tempestosi. Più difficile sarà la missione, più glorioso sarà il suo compimento. Ci auguriamo che la diplomazia cinese nella nuova era possa ottenere risultati ancora più straordinari sotto la guida del Pensiero di Xi Jinping sulla diplomazia.

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Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo (integrale), di Massimo Morigi

 

 

Monica Vitti, nella parte di Giuliana in una scena del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, girato nel 1964 a Ravenna

 

 

“L’ Italia e il Mondo” pubblica ora in un’unica soluzione il saggio di Massimo Morigi Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo.  Con due “piccole” differenze rispetto alla pubblicazione in quattro puntate. La prima che   al saggio introduttivo alla biografia su Arnaldo Guerrini e alla biografia stessa sul martire repubblicano ed antifascista sono state aggiunte le scansioni PDF degli originali delle tre “veline di Guerrini” che erano pur presenti da p. 83 a p. 89 del saggio ma che vi erano riportati solo nella loro trascrizione ma non nella loro autentica immagine. È un po’ un’emersione fantasmatica dalla notte dei tempi, tanto più, come preciseremo ora, che l’archivio dai quali questi importanti documenti erano stati recuperati e riconsegnati alla storia degli uomini ora probabilmente non esiste più. La seconda differenza è che il saggio che nella sua interezza “L’Italia e il Mondo” propone ai suoi lettori contiene anche una commemorazione dell’avvocato Vincenzo Cicognani di Lugo, che non solo fu amico e collaboratore di Arnaldo Guerrini (ed anche fra i fondatori del Partito d’Azione) ma che di quell’archivio che serbava i tre importantissimi documenti redatti da Arnaldo Guerrini era stato il creatore ed il custode e che, probabilmente a causa, mettiamola così, di una notevole insensibilità storica da parte di chi avrebbe dovuto custodirlo, oggi non esiste più. Leggerete anche che per Morigi l’occasione per commemorare Vincenzo Cicognani è stata l’ultima ricorrenza del IX Febbraio, col quale quest’anno i residuali mazziniani italiani hanno celebrato il 174° anniversario della fondazione della Repubblica Romana del 1849. Siamo sempre in tema di spettrali “emergenze”  ma, come ben si vede anche in questi giorni, anche (se non soprattutto) di queste fantasmatiche apparizioni politico-religiose, così nel bene come nel male, è indissolubilmente impastata e generata la geopolitica…

Giuseppe Germinario

https://ia801605.us.archive.org/31/items/repubblicanesimo-repubblicanesimo-geopolitico-neomarxismo-monica-vitti/Repubblicanesimo%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Neomarxismo%2C%20Monica%20Vitti.pdf

Voi e l’esercito di chi?_di Aurelien

Voi e l’esercito di chi?

La NATO farebbe bene a rimanere fuori dall’Ucraina.

di Aurelien

https://aurelien2022.substack.com/p/you-and-whose-army

 

I will do such things –
What they are yet I know not, but they shall be
The terrors of the Earth! – 
Shakespeare, King Lear.

 

Politici ignoranti e opinionisti confusi hanno fatto rumore di recente, minacciando, o addirittura fantasticando, su una sorta di intervento formale della NATO in Ucraina. In generale, non hanno idea di cosa stiano parlando e di quali sarebbero le implicazioni pratiche di un intervento. Ecco alcuni esempi del perché è un’idea stupida.

 

Nel gennaio del 1990, mi trovavo nel quartier generale della NATO a Bruxelles per una riunione di routine. Era una di quelle giornate fredde e umide in cui il Belgio è specializzato, ma c’era molto di più dietro l’atmosfera gelida e da mausoleo dei corridoi deserti. Negli ultimi mesi, il terreno si era continuamente mosso sotto i piedi della NATO e, non molto prima di Natale, la Romania, l’ultimo rimasuglio del Patto di Varsavia, era andata in fiamme. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo la settimana successiva, per non parlare del mese successivo, e la NATO cominciava ad assomigliare a un manifestante con un cartello per una causa già superata. Le capitali nazionali facevano fatica a tenere il passo con ciò che stava accadendo. Ho chiesto a un collega appena tornato da Washington cosa dicevano i falchi dell’Amministrazione Bush. La risposta è stata: “Sono sotto shock”.

 

Il fatto che la NATO esista ancora quasi trentacinque anni dopo, e che ora abbia il doppio dei membri di allora, ha incoraggiato alcune persone che non hanno prestato attenzione a credere che la NATO sia ancora la stessa potente organizzazione militare che era nel 1989, e che quindi basti minacciare un suo coinvolgimento formale in Ucraina, e i russi si allontaneranno. Non potrebbero essere più pericolosamente in errore.

Il fatto che la NATO sia sopravvissuta dopo il 1989 è stata una sorpresa per alcuni. Ma, come ho sottolineato, l’Alleanza aveva in realtà una serie di scopi utili per gli Stati europei e, in ogni caso, il mondo stava cambiando così rapidamente che non solo era impossibile trovare un accordo intorno a con che cosa sostituirla, ma era anche impossibile sapere che tipo di compiti avrebbe dovuto svolgere una futura organizzazione. Le organizzazioni non si chiudono all’improvviso e, in ogni caso, la NATO aveva ancora molto da fare. Quel giorno del gennaio 1990, la NATO era ancora profondamente coinvolta nei negoziati per il controllo degli armamenti a Vienna, che avevano finalmente dato una degna sepoltura alla Guerra Fredda, e continuava ad avere molto da fare, mentre i partner negoziali dall’altra parte del tavolo iniziavano ad avere quelli che si potrebbero definire problemi di coordinamento, e uno di loro si avvicinava al nostro lato del tavolo. Quando quella saga e le relative complicazioni furono finalmente risolte, la NATO si ritrovò in Bosnia, poi ad accogliere nuovi membri in un modo che non era stato previsto, poi in Kosovo, poi in Afghanistan. Tutto questo è stato essenzialmente improvvisato: non c’era un piano generale, se non un consenso pervasivo sul fatto che la NATO era più utile che no, e che era necessario trovarle cose da fare per mantenerla in vita.

 

Ma dietro le quinte stavano cambiando molte cose. La struttura militare della NATO, creata in preda al panico dopo la guerra di Corea e sempre pronta a mobilitarsi con breve preavviso, non serviva più a nulla. All’inizio lentamente, poi sempre più rapidamente, i contingenti nazionali che avevano costituito le sue forze permanenti cominciarono a sciogliersi. Una dopo l’altra, le nazioni europee abbandonarono il servizio di leva nazionale, ridussero radicalmente le dimensioni delle loro forze militari e sospesero le procedure di mobilitazione. Le forze statunitensi tornarono progressivamente a casa. La generazione di equipaggiamenti militari che stava entrando in servizio all’epoca è stata infine dispiegata, in numero ridotto, e per la maggior parte è ancora in servizio. I carri armati e gli aerei che la NATO intende inviare in Ucraina (il Challenger II, il Leopard II, l’F-16) sono essenzialmente progetti degli anni ’70, anche se molto aggiornati.

 

Il riconoscimento che la capacità della NATO di condurre una guerra seria è l’ombra di ciò che era un tempo sta lentamente iniziando a diffondersi nella comunità strategica, che non vi ha prestato attenzione nell’ultima generazione o giù di lì, perché aveva lo sguardo fisso sull’Afghanistan e sull’Iraq. Ma in realtà la situazione è molto peggiore, e come spesso accade i veri problemi sono nascosti nelle complessità tecniche. Ne tratterò brevemente alcuni, per spiegare perché l’intervento della NATO in Ucraina non è realmente possibile, se fosse possibile non sarebbe auspicabile, e anche se fosse auspicabile sarebbe totalmente inefficace, e persino pericoloso. Poiché non ho una formazione militare, lascerò questa parte agli esperti e mi concentrerò sulle questioni più ampie.

 

Dato che di recente i britannici hanno emesso alcuni dei rumori più bellicosi, analizziamo cosa è cambiato in quel paese dai tempi della Guerra Fredda. Nel 1989, l’esercito britannico del Reno poteva schierare un corpo d’armata completo di quattro divisioni, circa 55.000 soldati, pronti a essere rinforzati in guerra da quasi altrettanti riservisti e unità regolari provenienti dal Regno Unito. (C’era anche una potente componente aerea. Durante la cosiddetta fase di transizione verso la guerra, la mobilitazione sarebbe avvenuta con poteri bellici d’emergenza, togliendo le persone dai posti di lavoro e requisendo le risorse logistiche e di trasporto per trasferire decine di migliaia di combattenti in Europa, mentre le famiglie venivano evacuate nella direzione opposta. Il governo normale sarebbe stato sostituito e il Parlamento si sarebbe, di fatto, dissolto. Decine di migliaia di altre truppe sarebbero state mobilitate per la difesa interna. Si sarebbero introdotte misure di difesa civile per far fronte ai bombardamenti e alle operazioni di sabotaggio previsti. Il governo stesso sarebbe stato disperso e i ministri avrebbero operato come commissari regionali.

Anche sul continente, naturalmente, si stavano prendendo disposizioni simili. Milioni di riservisti sarebbero stati richiamati, inviati alle loro unità e, in alcuni casi, trasferiti a centinaia di chilometri nelle loro sedi di guerra. La vita ordinaria si sarebbe di fatto fermata, perché la mobilitazione avrebbe richiesto tutte le risorse delle nazioni coinvolte. Questo è il significato della “guerra” moderna: perché i russi dovrebbero accettare ora un accordo che ci causa meno problemi? Perché dovrebbero accettare una sorta di “guerra light”, limitata solo all’Ucraina?

 

C’è quindi da chiedersi se le nullità che parlano di “guerra” con la Russia abbiano una qualche idea di cosa significhi, e se capiscano come al giorno d’oggi non esistano nemmeno i meccanismi più elementari per renderla possibile. Tanto per cominciare, la guerra non è solo qualcosa che facciamo agli altri. Non si tratta di salutare i ragazzi che salpano per andare a combattere in un paese straniero, ma di combattere deliberatamente con qualcuno che può farci molto più male di quanto noi possiamo farne a lui. Le implicazioni pratiche sono molteplici: vediamo solo alcune delle più importanti.

 

Oggi nessuno “dichiara guerra”. Dopo il processo di Norimberga e la Carta delle Nazioni Unite, in cui le nazioni si impegnano ad astenersi dall’uso della forza, non è più possibile iniziare proattivamente uno stato di guerra con un’altra nazione. Dire, come alcuni hanno fatto, “siamo in guerra con la Russia” non ha quindi alcun senso, se non come slogan politico. Non ha alcuna forza legale. L’unico organo in grado di “dichiarare guerra” è il Consiglio di Sicurezza, e questo non accadrà in questo caso. Poiché i russi si sono guardati bene dall’attaccare il territorio della NATO o dall’impegnare deliberatamente le forze della NATO, non si può parlare di “stato di guerra” con le nazioni della NATO.  Esiste invece uno stato di “conflitto armato”, che ha una sua definizione: essenzialmente violenza armata prolungata tra Stati o tra Stati e altri gruppi armati. Ma il “conflitto armato” è appunto uno stato di cose, non un processo o una dichiarazione, ed esiste o non esiste come questione di fatto e di diritto. Quindi, se è ovvio che esiste un conflitto armato in Ucraina, è altrettanto ovvio che gli Stati occidentali non ne sono parte. È quindi difficile capire come le fantasie dei politici bellicosi possano effettivamente realizzarsi.

 

L’unico modo in cui ciò potrebbe potenzialmente avvenire sarebbe se l’Ucraina facesse una richiesta formale di assistenza militare agli Stati occidentali. È così che i russi hanno giustificato le loro operazioni in Ucraina, sostenendo che stanno assistendo le repubbliche secessioniste nell’esercizio del loro diritto di autodifesa, che è preservato (anche se ovviamente non è stato stabilito) dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ma non è chiaro cosa significherebbe in pratica e fino a che punto le forze occidentali potrebbero effettivamente spingersi. Attacchi diretti al territorio russo, ad esempio, sarebbero probabilmente esclusi se si utilizzasse questo argomento.

Ma mettiamo che in qualche modo questi problemi possano essere superati e che si annunci con gioia che le nazioni della NATO entreranno nel conflitto come belligeranti a tutti gli effetti. Questo farebbe tremare i russi, non è vero? In realtà no. Vedete, se siamo in stato di guerra con un altro Paese e siamo liberi di attaccarlo, allora anche lui è libero di attaccarci. Non c’è modo di circoscrivere un simile conflitto all’Ucraina e non c’è motivo per cui i russi dovrebbero volerlo fare. Quindi la prima conseguenza è che le nazioni della NATO, le forze della NATO e gli obiettivi della NATO sarebbero esposti all’attacco immediato della Russia, in un momento in cui i sottocomitati stanno ancora lavorando a Bruxelles per cercare di generare forze. Cosa farebbero quindi i russi?

 

In uno stato di guerra, qualsiasi “obiettivo militare” può essere attaccato. In pratica, oggi questo significa unità militari, quartieri generali militari, la catena decisionale politica per la guerra e le infrastrutture di trasporto, energia, industria ecc. necessarie per sostenerla. Ora non sappiamo, e i russi ovviamente non ce lo diranno, quali siano le loro capacità di attacco a lungo raggio con armi convenzionali. Non sappiamo, ad esempio, di quali capacità dispongano per bombardare gli Stati Uniti con munizioni convenzionali da navi e sottomarini e se intendano usarle, ma non sarebbe saggio escludere questa possibilità. Ma dobbiamo presumere, anche solo a fini di pianificazione, che abbiano modo di colpire obiettivi importanti nella maggior parte o in tutti i Paesi occidentali, con missili lanciati da aerei, navi o sottomarini. Se limitiamo in modo molto prudente le capacità russe all’attacco di venticinque obiettivi principali, cosa potrebbero fare, tenendo presente che la NATO non ha una difesa efficace contro tali attacchi? Alcuni obiettivi sono ovvi: il Pentagono e la Casa Bianca, ad esempio, o le sedi della CIA e della NSA. Il quartier generale della NATO a Bruxelles non resisterebbe a lungo, così come il suo quartier generale militare a Mons. Anche i ministeri della Difesa, i quartieri generali militari e le cancellerie delle principali potenze europee possono essere considerati obiettivi probabili.

 

Ma ovviamente i russi non sono obbligati a consegnare una lista di obiettivi e quindi, in pratica, gli Stati occidentali dovrebbero considerare centinaia di siti come potenziali bersagli, a seconda delle scorte di missili di cui i russi dispongono e di come decidono di usarli. Ovviamente, tutti gli aeroporti militari sarebbero potenziali obiettivi. Ma mentre si concentrano le forze di terra in un momento di tensione, si disperdono le forze aeree. Durante la Guerra Fredda, molti Paesi tenevano in stand-by campi d’aviazione di riserva: mi stupirei se ce ne fossero molti oggi. In pratica, gli aerei dovrebbero essere dispersi in aeroporti civili, che diventerebbero obiettivi militari e dovrebbero essere chiusi ai voli civili. Tutte le basi militari, le guarnigioni militari, i quartieri generali, le strutture di stoccaggio delle munizioni, i depositi di riparazione, le basi navali, i porti civili in cui le navi militari potrebbero essere disperse, le strutture di raccolta dell’intelligence e i principali snodi di trasporto, tra le altre cose, dovrebbero essere considerati obiettivi potenziali.

 

Tutto questo è importante per due motivi. In primo luogo, nessun governo oggi ha preso provvedimenti seri per continuare a gestire il Paese durante una guerra convenzionale, con il rischio di attacchi aerei e missilistici. All’inizio della Guerra Fredda, i governi avevano previsto di nascondersi in rifugi speciali durante la fase convenzionale di una guerra, alcuni dei quali esistono ancora. Ma verso la fine, le armi nucleari erano diventate così precise e potenti che si riteneva molto improbabile che una di queste strutture potesse sopravvivere a un successivo attacco nucleare, e quindi tendevano a cadere in disuso. Quindi, di fatto, i Paesi della NATO non solo non sono in grado di difendersi da un attacco missilistico convenzionale, ma non hanno nemmeno i mezzi per proteggere la cosiddetta “continuità di governo” da tali attacchi. Quindi un missile sul Palazzo dell’Eliseo, uno sul Ministero della Difesa e uno sul Quartier Generale delle Forze di Terra a Lille, e questo sarebbe tutto per la Francia, ad esempio.

 

In secondo luogo, sebbene la nuova generazione di missili russi sia presumibilmente piuttosto precisa, dobbiamo ricordare che la precisione è relativa e non può essere garantita. La precisione viene normalmente espressa in base a una misura nota come Errore Circolare Probabile, o CEP. Si tratta del raggio dal bersaglio entro il quale si prevede che il cinquanta per cento dei missili cadrà. Non vengono fornite garanzie su dove atterrerà il restante cinquanta per cento. Quindi, se un missile ha un CEP di 200 metri, il cinquanta per cento delle volte si prevede che atterri entro un cerchio di 400 metri di diametro, il cui epicentro è il bersaglio previsto. Alla luce di ciò, del raggio d’azione delle esplosioni e della tendenza di alcuni missili a perdersi, si può affermare che chiunque o qualsiasi edificio si trovi nel raggio di un chilometro da un potenziale obiettivo di alto valore è potenzialmente a rischio. In tutto il mondo occidentale, centinaia di migliaia di persone vivono spesso vicino ad aeroporti, porti marittimi e sedi centrali. (Il quartier generale permanente del Regno Unito si trova in un tranquillo sobborgo di Londra).

In molte città europee, le strutture governative e militari sono raggruppate nel centro della capitale. Ciò significa che gran parte del centro stesso della città sarebbe a rischio. Nella maggior parte dei Paesi non è affatto chiaro dove il governo potrebbe trasferirsi, in caso di crisi, per continuare a operare. Anche se fosse possibile evacuare le figure di spicco del governo in un luogo nominalmente più sicuro, sarebbe necessario chiudere completamente al pubblico almeno il centro di alcune città (poiché alcuni servizi governativi dovrebbero rimanere e quindi essere obiettivi) e non ci sarebbe modo di prevenire l’evacuazione spontanea di decine o centinaia di migliaia di residenti comuni. In effetti, con i moderni livelli di possesso di automobili, le autostrade sarebbero presto intasate di persone in fuga da siti che si prevede, o si dice, siano sulla lista degli obiettivi russi. Nessun governo moderno ha piani per l’evacuazione e l’alloggio di un gran numero di rifugiati, al giorno d’oggi, e nemmeno per gestire un esodo popolare spontaneo. Tutto questo, ovviamente, comincerebbe ad accadere prima che il primo missile russo venga lanciato, ammesso che ne venga lanciato uno. Il fatto che i governi occidentali debbano spiegare che non esiste una difesa efficace contro tali missili, e che non ci sono piani né strutture per proteggere la popolazione civile da essi, non aiuterebbe nemmeno a calmare il clima politico. Nessun governo occidentale ha le forze o i piani disponibili per contenere il panico e la confusione che probabilmente ne deriverebbero.

 

Ma sicuramente, direte voi, l’opinione pubblica occidentale sarà confortata dal pensiero che le proprie forze stanno eseguendo una punizione contro la Russia? Non è detto. Semplicemente, le nazioni occidentali hanno visto una scarsa necessità di missili convenzionali a lungo raggio e non si sono impegnate molto per svilupparli. I più noti sono i missili da crociera subsonici della famiglia Tomahawk, con gittate che si aggirano per lo più intorno ai 1000-1500 km e con una testata di circa 500 kg (più o meno equivalente a una singola bomba sganciata da un bombardiere tedesco nel 1940). Queste armi possono essere efficaci, ma vengono lanciate da navi e sottomarini e quindi i bersagli devono essere abbastanza vicini al mare. A questo punto è utile prendere una mappa.

 

La prima cosa che colpisce è che la Russia è un posto grande. La seconda è che Mosca è molto lontana. I missili Tomahawk lanciati dal Baltico o dal Mediterraneo orientale potrebbero avere la gittata necessaria per raggiungere Mosca, almeno in teoria. D’altra parte, come la stessa opinionista ricorda di aver detto, la Russia ha ereditato dall’Unione Sovietica il sistema di difesa aerea più completo del mondo. Quale sia la sua efficacia contro i missili da crociera subsonici ma a bassa quota, non lo sanno nemmeno gli esperti. Detto questo, la NATO non può rappresentare per la Russia la stessa minaccia che i nuovi missili russi possono rappresentare per i Paesi della NATO, e si deve presumere che i russi sarebbero in grado di individuare e colpire il sistema di lancio della NATO stessa. Gli aerei con equipaggio che tentano di sganciare bombe convenzionali su Mosca da basi in Europa, anche se ne avessero il raggio d’azione, potrebbero subire perdite tali che nessun governo ne riterrebbe utile l’uso.

 

Ma supponiamo che le città e le aree bersaglio possano essere evacuate in sicurezza e che i governi e le economie occidentali possano essere messi in condizioni di guerra. La potenza aerea e i missili saranno inefficaci, quindi l’unica vera opzione è quella di formare e dispiegare una forza multinazionale meccanizzata di qualche tipo, presumibilmente per aiutare gli ucraini a recuperare il territorio che rivendicano come proprio.

 

Ebbene, fermiamoci qui. Le nazioni occidentali non sanno più come fare queste cose. Sto parlando della dottrina militare: l’insieme dei principi che indicano ai comandanti come combattere. La NATO non ne ha per le operazioni offensive meccanizzate lontano dal territorio nazionale, e non ne ha mai avute. Durante la Guerra Fredda l’orientamento della NATO, e quindi la sua dottrina, era difensivo. Il presupposto era che le sue forze avrebbero affrontato un attacco da parte di un nemico più grande e più potente, e che avrebbero condotto una ritirata combattiva, sperando di fermare l’incursione nemica il più vicino possibile al confine con la Germania interna. In ogni momento, quindi, le forze della NATO avrebbero ripiegato sulle proprie linee di rifornimento, verso le proprie riserve e i propri depositi di manutenzione e rifornimento, mentre le forze nemiche si sarebbero progressivamente allontanate dalle loro.

 

Per quanto ne so, i comandanti della NATO non si sono mai addestrati o esercitati per una guerra meccanizzata aggressiva a lunga distanza, e non esiste una dottrina al riguardo, il che significa che nessuno sa come farla, né tanto meno come integrare le forze di terra con quelle aeree e con altri mezzi. In Bosnia, la NATO era un esercito di occupazione, che non combatteva. Dopo la campagna aerea contro la Serbia, la situazione in Kosovo era simile. In Afghanistan, la NATO in quanto tale si è schierata solo dopo la sconfitta del regime talebano e la maggior parte delle sue attività sono state di controinsurrezione su piccola scala. L’equivalente più vicino al tipo di operazione che sarebbe necessaria in Ucraina (anche se allora con forze soverchianti e completa superiorità aerea) è stato l’Iraq del 2003, ma i comandanti anziani di quell’epoca sono andati in pensione da tempo e la conoscenza istituzionale è andata perduta.

Inoltre, sebbene negli eserciti occidentali esistano ancora unità a dimensione di brigata, si tratta sempre più di formazioni amministrative, che raramente o mai si addestrano insieme. Qualsiasi forza occidentale dovrebbe passare settimane o mesi ad addestrarsi insieme, con tanto di riservisti mobilitati, prima di poter essere considerata pronta a schierarsi. Poi, naturalmente, dovrebbe addestrarsi con brigate di altre nazioni, il tutto in assenza di una dottrina militare coerente e concordata. Poiché a quel punto la NATO avrebbe inevitabilmente dovuto ammettere di essere in stato di guerra con la Russia, si può solo sperare che i russi, sportivamente, non prendano di mira le unità mentre si addestrano.

 

E soprattutto, quale sarebbe l’obiettivo? “Uccidere russi” non è un obiettivo militare. Quando il Comandante supremo delle Forze Alleate in Europa si presenta al Consiglio Nord Atlantico dopo tutti questi preparativi e dice “cosa volete che faccia?”, sarà meglio che riceva una risposta. Ma non c’è, o per essere precisi non c’è nemmeno una risposta che risponda al clamore politico. Con notevoli difficoltà (vedi sotto) alcune unità militari occidentali potrebbero essere trasportate nell’Ucraina occidentale, dove potrebbero formare un presidio improvvisato intorno ad alcune delle principali città ucraine. Questo potrebbe essere politicamente efficace nel breve termine, ma le forze stesse sarebbero completamente esposte, poiché potrebbero essere attaccate dai russi senza essere in grado di rispondere. E non è certo quanto a lungo le opinioni pubbliche occidentali accetterebbero di avere i loro interi eserciti utilizzabili legati in una posizione statica in Ucraina. Inoltre, molte unità da combattimento europee dipendono pesantemente dai riservisti: l’unica unità da combattimento seria dell’esercito olandese, ad esempio, la 43esima brigata meccanizzata con la sua manciata di carri armati, conta sui riservisti per circa un quarto della sua forza operativa: per quanto tempo è possibile tenerli lontani dal loro lavoro e dalle loro famiglie?

 

Ma ovviamente, per cominciare, bisogna portarli fino a quel punto. Nella Guerra Fredda, le truppe della NATO (e anche quelle sovietiche) si trovavano essenzialmente nelle posizioni in cui avevano combattuto nel 1945. In entrambi i casi, hanno occupato strutture esistenti della Wehrmacht. Nel corso dei decenni, nuove unità e nuove attrezzature sono state costruite a poco a poco, sono stati edificati alloggi e così via. Questo tipo di infrastruttura dovrebbe essere riprodotta in Ucraina e, anche se venissero utilizzate le strutture dell’UAF, ci sarebbe comunque un massiccio programma di dispiegamento e di costruzione di infrastrutture che richiederebbe anni.

 

E in ogni caso, i combattimenti non sono lì. Si svolgono a circa mille chilometri a est, quindi le truppe della NATO dovrebbero spostarsi di nuovo, a una distanza pari all’incirca a quella che separa Parigi da Monaco, solo per raggiungere il luogo dei combattimenti. Non credo ci siano precedenti nella storia per questo tipo di movimento di attrezzature pesanti e di uomini su una tale distanza, sotto attacco aereo e missilistico, e a contatto con forze superiori.

 

I carri armati occidentali della Guerra Fredda, come il Leopard, il Challenger e l’M1, sono stati costruiti per combattere una guerra difensiva. Sebbene alcuni modelli fossero più leggeri di altri, tutti dovevano utilizzare le eccellenti infrastrutture, i solidi ponti e i sistemi ferroviari dell’Europa occidentale e iniziare la guerra non molto lontano dal luogo in cui erano stanziati. Il solo fatto di portarli in prima linea, con i loro veicoli per il recupero e i pezzi di ricambio, ecc. sarebbe stata una sfida. Ma ovviamente c’è di più. Anche i veicoli cingolati corazzati “leggeri” non possono facilmente muoversi lungo alcune strade senza danneggiarle, o attraversare tutti i ponti. Per avere un’idea di cosa comporterebbe lo spostamento di una brigata, anche su terreni permissivi, date un’occhiata a questo diagramma di una tipica brigata di fanteria corazzata britannica. Vedrete che ha circa 500 veicoli da combattimento, di cui circa il dieci per cento sono carri armati principali, che a loro volta richiederebbero grandi e pesanti trasportatori per spostarli a qualsiasi distanza. A questi vanno aggiunti i veicoli di recupero, i veicoli per le riparazioni, i veicoli per i meccanici, i veicoli medici e tutta una serie di veicoli di trasporto e di rifornimento. Tutto questo potrebbe facilmente portare a una colonna lunga una decina di chilometri, che deve viaggiare lungo percorsi autorizzati e protetti attraverso la maggior parte dell’Europa. (Per tacere dell’attraversamento del Canale della Manica). Una volta in posizione, la Brigata dovrebbe essere rifornita, fornita di nafta, olio e lubrificanti, ricambi e materiali di consumo, officine e un piccolo ospedale. Se dovesse entrare in azione, le vittime dovrebbero essere evacuate, i rinforzi dispiegati e le attrezzature danneggiate riparate, se possibile, poiché è improbabile che possano essere sostituite. E questa è solo una Brigata di un Paese.

 

Quante brigate di questo tipo la NATO potrebbe effettivamente schierare? Nessuno lo sa, ma la stima migliore sembra essere tra le sei e le dieci, tenendo presente che, se siamo in guerra con la Russia, potrebbe essere utile avere anche qualche truppa in patria. Lascio agli esperti militari giudicare il valore di una forza meccanizzata leggera di queste dimensioni, ma onestamente dubito che Mosca sia troppo preoccupata.

 

E questo è il problema. L’Occidente è così inebriato dalla percezione della propria potenza che presume che anche gli altri lo siano. Dopo tutto, gli Stati Uniti spendono per la difesa molto più della Russia, quindi dovrebbero essere molto più potenti, no? Ebbene, in alcuni settori, come i gruppi tattici di portaerei, lo sono. Ma i russi non vogliono giocare a questo gioco: vogliono giocare alla guerra terrestre/ aerea ad alta intensità in Europa, un gioco a cui l’Occidente ha sostanzialmente rinunciato una generazione fa e che può giocare solo per una o due settimane al massimo prima di esaurire le munizioni. L’altra illusione è che l’Occidente sia intoccabile. Non oserebbero mai lanciare un missile sul quartier generale della NATO, vero? Voglio dire, se lo facessero, noi… noi… beh, cosa faremmo? Le minacce nucleari sono riconosciute come pericolose, inutili e irrilevanti. Come Re Lear nella citazione all’inizio di questo saggio, la NATO farà… qualcosa, quando capirà cosa. Ma se fossi nei russi sarei scettico: dopo tutto, ricordate cosa è successo a Lear.

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DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE E DOTTRINA DELLO STATO BORGHESE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE

E DOTTRINA DELLO STATO BORGHESE

  1. E’ tradizionale nella dottrina del diritto francese, di uno Stato formato da otto secoli di monarchia, iniziare la trattazione dei poteri pubblici dalla giustificazione teologica del potere stesso[1]. A cui si fa seguire l’esposizione della teoria del diritto divino e la distinzione tra “doctrine du droit divin surnaturel” e “doctrine du droit divin providentiel” attribuendo l’affermazione della prima ai Re di Francia (Barthélemy – Duez) e particolarmente a Luigi XIV e Luigi XV, ovvero a Bossuet (Hauriou); mentre per la seconda l’attribuzione è concorde a de Maistre e de Bonald[2]. La distinzione tra le due concezioni è così esposta da Hauriou: “La dottrina teologica ha avuto due forme successive in Francia: 1) la dottrina del diritto divino soprannaturale (Bossuet) che consiste nel sostenere che Dio stesso sceglie i governanti e l’investe dei loro poteri: questa concezione è compatibile solo con la monarchia assoluta; 2) La dottrina del diritto divino provvidenziale (de Maistre e de Bonald) secondo cui il potere, nel suo principio fondamentale fa parte dell’ordine provvidenziale del mondo, ma è a disposizione dei governanti mediante mezzi umani; questa dottrina permette altrettanto adeguatamente sia la giustificazione del potere minoritario, esercitato da un’élite, che del potere maggioritario, esercitato dalla maggioranza del popolo (vox populi vox Dei)” e prosegue sottolineando i vantaggi di questa seconda teoria: 1) di significare che l’istinto del potere è nella natura umana, e in tal senso, pre-sociale; 2) di collocare l’origine del potere al di sopra sia della collettività sociale, sia del diritto dei governanti, sia di chiunque: ossia di non portare a nessun assolutismo; è la più propizia alla libertà; 3) provenendo da Dio il potere è per natura orientato verso la ragione, la giustizia ed il bene comune.

E soprattutto come appare dal contesto sistematico di tali considerazioni, permette di ricollegare pouvoir de fait e pouvoir de droit, di “aprire” cioè il diritto ai mutamenti della storia. In un senso più specifico, di fondare il potere costituente (umano) al di sopra della stessa costituzione. Barthélemy e Duez sostengono, del pari, che la dottrina del diritto divino provvidenziale non è necessariamente aristocratica o monarchica, perché ogni uomo o classe può essere scelto dalla Provvidenza per eseguire i propri disegni: quindi non è contraria alla democrazia[3]. Sia Barthélemy che Carré de Malberg considerano la dottrina del diritto divino provvidenziale come già formulata da S. Tommaso e seguita dalla maggior parte dei teologi cattolici[4].

Tale concezione tuttavia non è considerata da tutti i giuristi un “antecedente” della democrazia moderna. Jellinek, nello scrivere della democrazia – e delle repubbliche – moderne le ricollega alle concezioni della Riforma, in particolare a quelle calviniste[5]. Otto Von Gierke ritiene che fu “la Riforma a far rivivere con nuova energia il pensiero teocratico. Attraverso tutte le differenze delle loro concezioni, Lutero, Melantone, Zwinglio e Calvino concordano nell’insistere sulla funzione cristiana e quindi sul diritto divino dei governanti. Anzi, dato che per un verso sottomettono più o meno decisamente allo Stato il dominio della Chiesa e per l’altro legittimano l’esistenza dello Stato in base all’adempimento dei suoi doveri religiosi, essi conferiscono al principio di S. Paolo omnis potestas a Deo una portata fino allora sconosciuta”. Tuttavia non trascura la dottrina della Seconda Scolastica, e scrive che i più accaniti avversari della Riforma, “particolarmente i  Domenicani ed i Gesuiti impugnarono tutte le loro armi spirituali a favore di una costruzione puramente temporale dello Stato e del diritto di sovranità” (anche per sostenere la tesi della potestas indirecta implicante una limitata subordinazione dello Stato alla Chiesa) “Lasciando però fuori causa i rapporti con la Chiesa, essi svilupparono in effetti una dottrina dello Stato scevra di qualsiasi presupposto dogmatico, su fondamenti puramente filosofici: Questo vale non soltanto per gli autentici monarcomachi di questo gruppo: Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[6]

Carl Schmitt sostiene  “Secondo la concezione medievale solo Dio ha una potestas constituens, per quanto di questa si possa parlare: La frase:” Ogni potere (o autorità) viene da Dio” (Non est enim potestas nisi a Deo, Rom. 13,1) significa  il potere costituente di Dio. Anche la letteratura politica dell’epoca della Riforma si attiene a ciò, soprattutto la teoria dei monarcomachi calvinisti” e continua che, con la dottrina del pouvoir constituant di Sieyés, è la nazione il soggetto del potere costituente, malgrado lo sviluppo dell’assolutismo  “Nel XVII secolo il principe assoluto non è ancora definito come soggetto del potere costituente, ma solo perché l’idea di una libera decisione totale, presa dagli uomini, sulla forma e la specie della propria esistenza politica assai lentamente poteva svilupparsi in azione politica: Le conseguenze delle concezioni teologiche-cristiane del potere costituente di Dio nel XVIII secolo,nonostante l’illuminismo, erano ancora troppo forti e vitali”.[7]

  1. Resta da vedere in che misura la teoria del pouvoir constituant – e di riflesso della sovranità nazionale – sia il risultato non solo dell’Illuminismo, delle concezioni di Rousseau e dei giacobini, ma della teologia politica cristiana e più specificamente, della teoria del diritto divino “provvidenziale”.

Che la concezione di Sieyés fosse la secolarizzazione della teologia politica, con la Nazione onnipotente al posto del Dio Onnipotente è chiaro; meno è se tale concezione fosse tributaria delle riflessioni dei filosofi del XVII secolo – in particolare Hobbes e Spinoza (e, poi, Rousseau) – o della teologia cattolica e riformata, in particolare del XVI e XVII secolo [8], ovvero dei giuristi   teorici   del diritto naturale. In effetti i connotati di tale concezione, che valgono a distinguerla, sono, oltre a quelli indicati da Hauriou, altri, presenti nel pensiero dell’abate rivoluzionario.

Sieyés sostiene che la “La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto: La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa: Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale” e prosegue “ In ogni sua parte la Costituzione non è opera del potere costituito, ma del potere costituente: Nessun tipo di potere delegato può cambiare alcunchè delle condizioni della propria delega. E’ in tal senso e non in altro che le leggi costituzionali sono fondamentali. Le prime, quelle costitutive del potere legislativo, vengono fondate dalla volontà nazionale prima di qualunque Costituzione, Esse ne formano il primo gradino”[9]. Insiste ripetutamente sul concetto di volontà, “che è al di fuori di ogni forma” e che “ una Nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”; per cui “ Quand’anche le fosse concesso, una Nazione non deve insabbiarsi nelle pastoie di una forma positiva: equivarrebbe a rischiare di perdere irrevocabilmente la propria libertà, perché sarebbe sufficiente una sola occasione favorevole alla tirannia, per legare i popoli, con il pretesto della Costituzione, ad una forma che impedirebbe loro di esprimere liberamente la propria volontà, e di liberarsi dunque dalle catene del dispotismo”; è chiaro che in tal modo, viene  fondato il “diritto” della comunità a darsi la forma istituzionale che preferisce senza che la volontà morfopoietica  della Nazione possa essere sottoposta ad alcun vincolo giuridico.

In effetti tale concezione di Sieyés significa che non esiste un diritto al potere di chicchessia per investitura divina, ma solo la potestas della comunità di darsi la forma che preferisce: la modellazione della forma, e quindi il diritto e la scelta di chi esercita il potere è rimesso alla volontà e all’opera umana. In qualche misura “aggiorna” il pensiero della teologia cristiana, e tomista in particolare, sulla tirannide, basato sul principio che “tota respublica superior est rege[10].

Parimenti in Sieyés è naturale la tendenza umana ad associarsi: l’uomo è un animale politico, come sempre ripetuto dalla teologia cristiana, per cui è naturalmente portato ad associarsi: l’istinto politico – dell’ordine e del potere –  è quindi naturale e, addirittura, pre-sociale, come sostiene Hauriou. E i teologi in vario modo avevano argomentato sia il carattere di legge naturale che la ragionevolezza dell’ aggregazione degli uomini in società; per lo più spiegandolo con la debolezza umana, non avendo l’uomo armi naturali come zanne, artigli e dovendo difendersi dalle fiere[11], nonchè  dagli altri uomini; da ciò la necessità  di costituire un potere comune e far rispettare la legge[12]. Non dissimile dalle rappresentazioni dei teologi è quanto scriveva Sieyés: “Esiste, a dire il vero, una grande ineguaglianza di mezzi fra gli uomini. La natura li crea forti o deboli; ad alcuni concede un’intelligenza, mentre ad altri la rifiuta. Ne consegue che vi sarà fra essi ineguaglianza di lavoro, ineguaglianza di risultati, ineguaglianza di consumo o di godimento; ma non ne consegue che possa esservi ineguaglianza di diritti”, per cui “il diritto del debole sul forte è lo stesso di quello del forte sul debole. Quando il forte riesce ad opprimere il debole, produce un effetto senza produrre un obbligo. Lungi dall’imporre un nuovo dovere al debole, rianima in esso il dovere naturale ed imperituro di resistere all’oppressore” e “Dunque una società fondata sulla reciproca utilità è in sintonia con i mezzi naturali che si offrono all’uomo per raggiungere il proprio fine; in tal senso questa unione è un bene, e non un sacrificio e l’ordine sociale diviene un’estensione, un complemento dell’ordine naturale……”[13]; la associazione in  società è ragionevole perché lo stato sociale non tende a degradare, ad avvilire gli uomini,ma, al contrario, a nobilitarli, a perfezionarli. Dunque “la società non indebolisce, non riduce i mezzi particolari che ogni individuo apporta all’associazione per sua personale  utilità; al contrario, li accresce;; li moltiplica, sviluppando le facoltà morali e fisiche; li accresce ancora attraverso il fondamentale concorso dei lavori e dei pubblici soccorsi” e “L’uomo, entrando in società, non sacrifica dunque una parte della sua libertà: anche quando non esisteva il vincolo sociale, nessuno aveva il diritto di nuocere  ad un altro” e “Lungi dal limitare la libertà individuale, lo stato sociale ne amplifica e ne assicura il godimento; esso allontana una moltitudine di ostacoli e di pericoli ai quali era esposta, quando era garantita unicamente dalla forza privata, e la affida al controllo onnipotente dell’intera associazione. Così, poiché nello stato sociale l’uomo accresce i suoi mezzi morali e fisici, sottraendosi nello stesso tempo all’inquietudine che ne accompagna l’uso, non è errato affermare che la libertà è più completa e assoluta nell’ordine sociale di quanto non possa esserlo nello stato detto di natura”. Diversamente da quanto affermava Rousseau, quindi il giudizio sullo stato sociale è positivo, come sempre sostenuto dalla teologia cristiana. Non c’è nulla dell’accorato inizio del Contrat social : “L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene”, né della spiegazione che Rousseau da dello stato sociale nel  Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes , come soluzione che favorisce i più ricchi, che assicurano  col potere pubblico le proprie posizioni.[14]

  1. D’altra parte la concezione di Sieyés si distingue da quella del diritto divino soprannaturale, comune a Bossuet, come a Lutero e Calvino.

Lutero ritiene che la ribellione ai poteri costituiti sia contraria alle Sacre Scritture e che il cristiano, anche se vessato da un potere malvagio , deve sottomettersi e rimettersi alla volontà (e diritto) divino[15], perché farsi giustizia da soli significa abusare di un diritto che appartiene solo a Dio. Calvino contesta la tesi degli anabatttisti che non sia  lecito  al cristiano essere magistrato o  sovrano[16], perché è “manifestamente contrario alla Scrittura che non ci debba essere più alcuna forma di governo”[17]; i governanti “ricevono la loro autorità da (Dio), e ne rappresentano la persona essendo in qualche  modo i suoi vicari;” condanna rivolte e sollevazioni popolari[18], poiché si deve essere sempre sottomessi alla volontà di Dio che ha    costituito dei re sui regni.[19]

Bossuet spiega il noto passo dell’Epistola ai Romani di S. Paolo così: i principi agiscono come ministri di Dio e suoi luogotenenti in terra; il loro trono non è quello di un uomo,ma quello di Dio stesso; la persona del Re è sacra, anche se non cristiano come Ciro  , perché  rappresenta sempre la maestà Divina[20]. L’autorità è ad immagine di Dio: il principe è l’immagine materiale della (di Dio) immortale autorità. Nel principe l’uomo può morire ma l’autorità non muore mai[21]; il solo principio che possa assicurare              la stabilità degli Stati è che ogni suddito deve rispettare l’esercizio dei poteri  e dei giudizi pubblici[22] . D’altra parte, secondo Bossuet solo al principe appartiene il potere di comandare legittimamente e a lui solo l’esercizio della coazione. Se così non fosse lo Stato (la comunità) ricadrebbe nell’anarchia[23]; da cui è uscita proprio perché si è costituita (è divenuta) popolo sotto un sovrano.[24]

  1. In effetti, come si può notare, la concezione del pouvoir constituant presenta una stretta affinità con la concezione del diritto divino provvidenziale con la quale condivide i principali punti di contatto: Che poi la teoria sia in se, come cennato, la secolarizzazione della teologia cristiana, con la Nazione cui vengono attribuiti i connotati di Dio è ancor più evidente: l’assenza di limiti (giuridici) – l’onnipotenza della volontà della nazione; la sua capacità di “creazione” dell’ordine, donando con la costituzione da un lato un ordinamento (una forma) che “supera” il caos, e dall’altro la stessa capacità di azione (ed esistenza) politica; la risoluzione della distinzione/antitesi tra essere e dover-essere[25]:

Ma non è men vero che, nella sua difesa della “bontà” dell’associazione degli uomini Sieyés riprendeva quanto sempre sostenuto dalla teologia cristiana: in effetti già S.Agostino legava ordine, pace, e civitas[26], sottolineando la concordia, che, nelle cose “temporali” vi era tra la città terrena e quella celeste[27]. D’altra parte la concezione del diritto divino provvidenziale è stata esposta sotto altri profili, più articolati di quelli fin qui ricordati, da S. Roberto Bellarmino. Questi, nel confutare anch’egli le tesi degli anabattisti, adduce cinque prove, tre delle quali “logiche” (deduttivo-razionali) e due “storiche”. Di particolare interesse è la distinzione tra autorità (voluta da Dio è quindi buona in se, facendo parte dell’ordine della creazione) e chi la esercita, cioè il governante (che, quale essere umano è sempre soggetto al peccato ed all’errore): “A quanto dicono in contrario gli Anabattisti affermo innanzi tutto non essere vero che i re e i principi siano generalmente malvagi: non si tratta infatti qui di uno Stato particolare, ma del potere politico in generale, e in questo senso fu re e principe anche Abramo.” E prosegue: “gli esempi dei re malvagi non provano che il potere politico sia malvagio in se stesso; spesso infatti i cattivi si servono di cose buone; gli esempi invece dei re buoni provano che il potere politico è buono, perché i buoni non si servono di cose cattive. Di più: i principi cattivi sono spesso più di giovamento che di danno, come fu di Saul, Salomone e altri. Del resto è ancora più utile per uno Stato avere un principe cattivo che non averne nessuno; dove infatti non ce n’è alcuno, lo Stato non può conservarsi a lungo: Salomone stesso lo disse, Prov., c. 11: Dove non c’è un principe, il popolo va in rovina; invece dove c’è, anche se cattivo, viene almeno conservata l’unità del popolo[28]. Meglio un cattivo governante che l’anarchia del non-governo.

Sul potere politico “A questo proposito però son da farsi alcune osservazioni. La prima è questa: il potere politico in generale, cioè non considerato nelle sue forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, viene immediatamente soltanto da Dio, poiché è una conseguenza necessaria della natura dell’uomo”; ed in origine risiede nella moltitudine “Essendo infatti questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualche uomo particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine.” E “lo stesso diritto naturale trasferisce il potere politico dalla moltitudine a uno o a più individui. La moltitudine infatti non può esercitare essa stessa questo potere, e perciò è obbligata a trasferirlo a uno o ad alcuni pochi individui. Pertanto il potere dei principi, considerato in generale, è esso pure di diritto naturale e divino, e il genere umano, anche se tutti gli uomini in ciò s’accordassero, non potrebbe stabilire il contrario, che cioè non vi fossero principi e capi.”; tuttavia “le forme particolari di regime politico sono “de jure gentium” e non di diritto naturale, poiché è chiaro che dipende dalla libera volontà della moltitudine stabilire che governi un re o alcuni consoli o altri magistrati; e, se v’è una legittima causa, la moltitudine può mutare un regime monarchico in aristocratico o democratico e viceversa, come sappiamo che è avvenuto a Roma”. La conclusione è “da quanto è stato detto segue che il potere politico, considerato in particolare, viene certamente da Dio, mediante però una deliberazione e un’elezione umana, come tutto ciò che è “de jure gentium”. Questo “jus gentium” è come una conseguenza dedotta dal diritto naturale mediante un intervento umano. In tali tesi di Bellarmino sono chiari i presupposti di altrettanti capisaldi del pensiero politico e costituzionalistico moderno; la distinzione tra l’autorità (buona e necessaria perché ordinata da Dio) e chi la esercita (uomo e quindi peccatore, come coloro che sono governati)[29]. Questo è il fondamento della concezione sviluppata nello Stato borghese per cui, proprio perché i governanti non sono degli angeli, occorrono dei controlli su di essi, come scritto nel Federalista[30]. Il che ha portato all’incremento eccezionale nell’organizzazione delle democrazie liberali, del sistema giuridico (e politico) dei “freni e contrappesi”; e, parimenti, alla impossibilità di controlli giuridici sul sovrano (soggetto solo a limitazioni di carattere etico, religioso ed ontologico cioè di “diritto naturale” non di diritto positivo, comunque non suscettibili di coazione). Conferma ad un tempo la necessità del potere politico (di diritto divino) e l’accidentalità delle forme in cui è ordinato e dei soggetti scelti ad esercitarlo. Ribadisce la distinzione tra “titolarità” del potere politico a tutta la moltitudine, obbligata a trasferirla a uno o più, per “diritto naturale” (cioè per necessità oggettiva) e così afferma il carattere necessario della rappresentanza; mentre le forme in cui si organizza, che non sono di diritto naturale (v. sopra) dipendono dalla libera volontà della moltitudine che può sempre cambiarle proprio perché non di diritto naturale ma de jure gentium. E il tutto può avvenire per decisione (con un “atto”) il che anticipa anche la concezione del moderno costituzionalismo che vede la costituzione (per lo più) come deliberazione del potere costituente.

  1. Anche tali ultime tesi sono transitate nel diritto e, ancor più, nella dottrina (politica e) giuridica dello Stato democratico liberale. A volerne ricordare una, la più importante: nella Dichiarazione dei diritti dell’uno e del cittadino, all’art. 3 così si proclama “Le principe de toute souveraineté réside essentiellement dans la nation. Nul corps, nul individu, ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément». Questa dichiarazione in cui alla “moltitudine” si sostituisce la Nazione, sempre contrapposta ai pouvoirs constituées, fu ripetuta in forme simili in tutte le successive  costituzioni francesi (tranne, ovviamente in quella del  1814)[31].

Hauriou sostiene che il diritto non sfugge alla regola che, dietro ogni fisica,        c’è una metafisica. La quale normalmente,non si manifesta, anzi è occultata accuratamente da uno strato di diritto, e così rimane, se ci si ferma all’apparenza (come è normale in una situazione normale, cioè quasi sempre). Ma “ quando il rivestimento giuridico viene a mancare, come nel potere di fatto, si ricade sul fondo metafisico o teologico”[32].  Il che succede quando si produce un cambiamento rivoluzionario radicale. Per la Francia moderna questo si è ripetuto – scrive Hauriou nel 1929 – almeno quattro volte dopo la rivoluzione del 1789. Il potere di fatto tende a diventare – e per lo più vi riesce – un potere di diritto: ma per far questo una legge è completamente inutile “Un gouvernement provisoire n’a jamais fait voter une loi pour déclarer qu’il devenait légitime”.[33] In tali vicende la régle de droit non trova impiego, anzi spesso è convalidata dalla giurisprudenza gran parte del diritto creato da tali governi, anche se non ratificato: questo perché, scrive Hauriou, il  governo è necessario, un governo di fatto è meglio che nessun governo, e il potere è una cosa naturale e d’origine divina. E conclude “Tel est l’enseignement de la morale théologique; tel est celui de la sagesse et telle est la pratique”.[34]

C’è da chiedersi per quale ragione la concezione del diritto divino provvidenziale sia presente così vistosamente nella teoria del diritto e nello Stato borghese. Le risposte potrebbero essere diverse e concorrenti: che in effetti la filosofia moderna, specie quella del XVII e XVIII secolo è largamente tributaria del diritto naturale e della teologia della Seconda Scolastica e che attraverso questa “secolarizzazione” sia arrivata ai costituenti francesi e di qui al costituzionalismo europeo; o perché a far la rivoluzione è stata una nazione cattolica come la Francia, e in essa vi avuto grande importanza un sacerdote come l’abbé Sieyès[35], educato dai Gesuiti; ma l’argomento che pare più importante – e preferibile- è che tale concezione, come ben visto da Hauriou permette di spiegare in modo a un tempo realistico e razionale il rapporto tra fatto e diritto, essere e dover essere, potere ed ordine, trasformazione e conservazione, libertà e necessità. In effetti la diversa concezione del diritto divino soprannaturale porta in se difetti analoghi a quelli che Hauriou individuava nelle teorie del diritto, ad esso contemporanee, di Duguit e di Kelsen, che accomunava come sistemi statici. Tali sistemi “si presentano volentieri come oggettivi, e lo sono effettivamente perché eliminano l’opera dell’uomo che è la sorgente del soggettivo; ma sono soprattutto statici per la loro concezione erronea dell’ordine sociale, e sotto questo aspetto statico li esamineremo perché rende manifesta la loro incompatibilità con la vita”[36]. Nel sistema di Kelsen l’ordine giuridico e statale è considerato l’espressione di un imperativo categorico della ragion pratica; peraltro è un “monismo idealistico”, dove Stato e diritto si confondono[37]. E in effetti è il profilo statico che prevale su quello dinamico[38]. Per cui se tale teoria riesce ad evitare la concezione del potere di dominio, non evita il dominio di un imperativo categorico che comporta un ordine sociale necessitante[39]. Ma il giogo di una filosofia del genere “serait pour le droit pire que celui de la théologie. La théologie catholique pose le primat de la liberté humaine: l’ordre divin se propose à l’homme par la grace ». Invece nel sistema di Kelsen l’ ordine del “panteismo idealista” s’impone come necessità costrittiva. Per cui conclude che in Francia non avrà fortuna “parce que ses tendances sont inconciliables avec celles du droit. Seule une philosophie de la liberté créatrice est compatible avec lui. ». Quanto al sistema di Duguit, questo prende come punto di partenza « la notion positiviste d’un ordre des choses sociales conçu comme le prolongement de l’ordre des choses physiques. De cet ordre des choses découlent des normes. » ; la sua grande preoccupazione è sopprimere il potere come fonte del diritto. Ma questo comporta la staticità del sistema, per la negazione « du pouvoir subjectif de création du droit, le mouvement juridique, qui résulte surtout des forces subjectives, est arreté ». E, tranne i casi di eccezioni nel sistema « le droit ne peut se développer que dans la mesure des normes établies ou par l’établissement de nouvelles normes, mais c’est là une formation coutumière d’une extreme lenteur. Le système tend donc vers l’immobilité coutumière ». E ne conclude che il sistema di Duguit è, come quello di Kelsen “impropre à la vie”.

In effetti, ad analizzare le conseguenze della dottrina del diritto divino soprannaturale, si vede che, ovviamente per ragioni diverse, presenta gli stessi inconvenienti di quelle di Kelsen e di Duguit. In primo luogo d’essere statica, poiché cristallizza i rapporti di potere e le regole per accedervi: chi ha il potere, ha diritto al comando e a pretendere l’obbedienza che gli si deve; ogni innovazione è, non provenendo da chi detiene il potere, contro il diritto divino. In secondo luogo di mettere il diritto davanti al fatto, che è proprio il contrario di quanto succede, ad esempio in diritto internazionale, dove è il fatto del controllo di uno Stato (della popolazione e del territorio), e non la legalità dell’insediamento, a fare d’un governo rivoluzionario un interlocutore internazionale. Se così non fosse, se ci si dovesse basare sul criterio di “diritto divino soprannaturale” (o di una pura valutazione “normativa”), l’Italia  dovrebbe essere rappresentata da un Savoia[40], la Germania da un Hohenzollern e la Russia da un Romanov. Con l’effetto di porre in contrapposizione il diritto con la realtà (e la vita); e di rendere (anche) inidoneo quello a indirizzare questa. C’è inoltre un’antitesi radicale tra la distinzione di Bellarmino tra autorità e governante (peccatore) e quel “vous étes des dieux” rivolto da Bossuet ai monarchi: che giustamente Hauriou ritiene compatibile solo con la monarchia assoluta.

Ma la fortuna della concezione del diritto divino provvidenziale non è solo di essere “dinamica”, e cioè realistica, ma anche di spiegare il rapporto tra forza e diritto, sempre in termini realistici. Ritenendo necessario il vivere in società e sotto un governo ma non le relative forme, è aperta all’innovazione e al carattere nomogenetico della forza, finalizzata a garantire l’esistenza comunitaria Il tasso d’innovazione che questo introduce serve a garantirne l’adattamento alle mutevoli condizioni della storia, cioè la vitalità. Il realismo della concezione in esame è dato  essenzialmente dal rapporto delineato tra legge naturale e jus gentium; in altri termini tra necessità e libertà umana.

Riconoscendo che tra le leggi di natura v’è quella di associarsi sotto un governo politico, la teologia cristiana aveva individuato una delle “costanti”, definite da Miglio come le regolarità della politica[41]; in quanto tali immodificabili dalla volontà umana. Che, di converso, le utopie “assolute”[42], ritengono di poter modificare, credendo di aver trovato “la soluzione dell’enigma della Storia”, come scriveva il giovane Marx[43]; dalla storia puntualmente smentita, col crollo pressochè contemporaneo di quasi tutti i regimi del socialismo reale, che di quella visione utopistica erano le realizzazioni.

Ma la credenza di poter modificare le “regolarità”, che si rivela particolarmente chiara nel caso, come il comunismo, di utopie realizzate – e confinate sollecitamente nell’archivio della storia – non è esclusiva di quelle, essendo presente sia pure in misura più limitata in altre concezioni ideologiche, da certi tipi di pacifismo a frange liberali (non al liberalismo, che mantiene un’impostazione realistica, com’è evidente dalla concezione “problematica” dell’uomo, derivata sia dalla teologia cristiana che dal pensiero politico).

A questa immutabilità delle “costanti” si contrappone- e la integra – la mutevolezza delle forme politiche, rimesse al potere-e quindi alla libertà- delle comunità umane: tale concezione fonda la libertà politica nel senso primario della libera “conformazione” dell’ordinamento sociale e politico: in ciò è la specificazione, all’interno della comunità della definizione di S. Tommaso “Liber est qui sui causa est”: non esser limitati se non dalla legge divina (e naturale), della quale nessuno è dispensato[44]. Di tal guisa questa concezione riconosce alle comunità umane tutta la libertà possibile, senza alcun vincolo giuridico se non auto-impostosi dalle stesse.

Inoltre ritornando sul carattere della dinamicità, è il caso di ricordare che Hauriou, come altri grandi giuristi, non ricollega il concetto di ordine sociale alla “conformità” tra norme e comportamenti, cioè a qualcosa di statico, ma a tutt’altro ovvero al movimento “lento e uniforme” della comunità umana. Su questo concetto ritorna più volte specificando che è il movimento “d’un insieme ordinato, è il risultato di una organizzazione e risulta da ciò che l’ordine è essenzialmente organizzazione”; e per chiarire il concetto ricorre a un paragone biologico. Come gli organismi viventi conservano la forma (che cambia, ma lentamente), pur soggetti a un ricambio di cellule e tessuti estremamente rapido, così i gruppi sociali si comportano come organismi viventi, a condizione d’essere organizzati, e durano secoli conservando una forma simile, pur essendo del tutto mutate le “cellule”, cioè gli uomini[45]. E per tali ragioni, cioè (anche) per la capacità di adattarsi alla vita politica e sociale, giudicava che la dottrina del diritto divino provvidenziale, ponendo l’origine del potere al di sopra della collettività sociale e di chiunque altro, non conduce ad alcun assolutismo, ed è quindi la più propizia alla libertà. Non solo alle individuali, ma anche a quella della comunità di darsi la forma che preferisce.

  1. Avevamo iniziato col chiederci il perché nella dottrina francese a cavallo tra XIX e XX secolo sono considerate attentamente le dottrine del diritto divino, e in particolare quella “provvidenziale”. Nei limiti del presente scritto ne abbiamo individuata qualche ragione, per lo più tra quelle già indicate dallo stesso Hauriou, relative all’essenza dell’ordinamento e del rapporto) sociale e politico.

C’è anche un’altra ragione, implicita nel pensiero del doyen: è che Hauriou era un convinto sostenitore della civiltà (e del pensiero) occidentale, cui dedica alcune delle pagine più interessanti, anche per chi le legge oggigiorno. La civiltà occidentale – scrive – per la sua forza, la sua attività e per le sue idee, domina il mondo, ma non lo ha completamente assimilato. Nello stesso tempo sta subendo una delle sue crisi interne[46]; molti dubitano del valore dei suoi caposaldi. Anche se la civiltà sedentaria probabilmente sopravvivrà in forme parzialmente diverse, i popoli europei rischiano di sparire in una tormenta, dopo molte sofferenze. In questo frangente non è il nemico esterno, ma quello interno il più pericoloso[47]; perciò – continua Hauriou – non si deve dubitare della civiltà occidentale, poiché quanto da essa realizzato “en fait d’oeuvres de beauté et de vérité intellectuelle, est devenu classique, c’est-à-dire a réalisé l’idéal humain[48]. Lo stesso comunismo, allora da poco realizzato in Russia, gli appare incompatibile con la società sedentaria ed individualista, e, piuttosto che una fase “estrema” della modernità, gli pare un ritorno alle forme giuridiche tipiche delle società nomadi[49]. Di questa civiltà occidentale fanno parte tanto la libertà che la proprietà; il diritto romano e la teologia cristiana; la scienza come l’arte. La dottrina del diritto divino provvidenziale esprime alcune delle idee base su cui si può modellare l’organizzazione sociale dell’ “ordre individualiste”.

Contrariamente all’attenzione che la dottrina francese rivolge alla concezione in esame è raro leggere analoghe considerazioni altrove, soprattutto in Italia. Ad esempio a consultare la voce “Democrazia” del classico “Dizionario di politica” si può leggere di tutto, da Erodoto a Rousseau, dalle democrazie degli antichi a quelle socialiste (ed oltre): manca tuttavia qualsiasi cenno a questa, che probabilmente ha influenzato la forma dello Stato contemporaneo non meno delle altre[50] e le cui tracce sono (largamente) presenti nella nostra Carta Costituzionale; e, il che è parimenti rilevante, le conseguenze di questa sono, oggi più che ieri, e malgrado tutti gli sforzi contrari, common sense.

[1] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929 p. 29 ss. ; J. Barthélemy e Paul Duez Traité de droit constitutionnel Paris 1929 p. 67 ss. ; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie generale de l’État Paris 1929, Tome 2° p. 149 ss.., v. Anche (meno diffusamente) A. Esmein Eléments de droit constitutionnel français et comparé. Paris 1914 p. 281 e 283 ; L. Duguit L’État, le droit objectif et la loi positive, Paris 1901

[2] Ovviamente sintetizziamo, perché in effetti deriva da S. Tommaso, come Barthélemy , Duez  (e Carrè de Malberg ricordano).

[3] « La doctrine du droit divin providentiel ne répugne donc pas nécessairement à la démocratie par la volonté de Dieu, donc divine », Op. cit. p. 68

[4] Barthélemy-Duez op. cit. « Si enfin Saint Paul a dit : « Omnis potestas a Deo », les théologiens ont indiqué le sens de cette parole en ajoutant : « per popolum ». Le pouvoir, qui est de droit divin, appartient au peuple : c’est la thèse de Sain Thomas, de Bellarmin, de Suarez; Carré de Malberg scrive : La parole de saint Paul «omnis potestas a Deo » ne signifie que les Gouvernements ou leurs chefs soient directement créés désignés par Dieu (doctrine du droit divin surnaturel) ; elle ne signifie pas davantage qu’ils soient indirectement  par la façon dont la Providence divine dirige le coirs des éveneméts (droit divin providentiel). Mais, le principe de l’origine divine du pouvoir doit  etre entendu seulement en ce sens, précisé par saint Thomas d’Aquin (Somme théologique, 2° partie,I, question 96, art. 4), que Dieu, ayant créé l’homme sociable, a aussi voulu le pouvoir social, attendu qu’il n’est pas de société qui puisse subsister sans une autorité supérieure douée de la puissance de commander  à chacun en vue du bien de tous. Ainsi, le pouvoir, envisagé en soi, procéde de Dieu ;  il est, en son essence, d’origine divine, en ce que sa nécessité découle des lois memes qui conditionnent l’ordre social, lois dont Dieu est l’auter ;  mais il n’e demeure  pas moins certain que, dans les domaine des réalités positives, le pouvoir ne peut etre organise que par des moyens humains. En d’autres termes, c’est aux hommes qu’il appartit de régler ses formes et ses conditions d’exercice, comme aussi de déterminer ses titulaires ». Op. cit. p. 151

[5] “Questa esigenza si afferma per la prima volta in conseguenza delle dottrine politiche, che si vennero maturando nelle lotte della Riforma. Già altrove fu spiegato come la dottrina calvinistica, che della comunità fa il titolare del reggimento della Chiesa, si sia sviluppata nella Scozia, nell’Olanda ed in Inghilterra in una teoria, la quale rappresenta anche l’ordinamento laico come un prodotto della volontà comune ed eleva la pretesa che al popolo, unificato nello Stato mediante un contratto, debba competere durevolmente il potere supremo nello Stato e che da esso debba anche essere esercitato” G. Jellinek La dottrina generale del diritto dello Stato, trad. it. di M. Petrozziello, Milano 1949, p. 254

[6] v. Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien (i corsivi sono nostri) , trad. it. Torino 1974 pp. 69-71; e così prosegue “ Questa dottrina si presenta nella sua completezza soprattutto presso il geniale e profondo Suarez: Questi fa derivare direttamente e necessariamente il potere sovrano dal “corpo politico e mistico” che gli uomini singoli costituiscono per un atto di unione assolutamente libero, sebbene corrispondente alla ragione naturale e quindi alla volontà divina. Non sono però i singoli che con la loro volontà stabiliscono la sovranità della collettività sopra i propri membri : essi infatti non possiedono inizialmente alcuno dei diritti sorti con la collettività stessa (per es. il diritto di vita e di morte e il vincolo di coscienza), né, volendo l’associazione, possono impedire che divenga sovrana. Ma nemmeno è Dio ad attribuire, con un atto particolare alla collettività (come al Papa), la sovranità, pur essendo, in qualità di “primus auctor”, la fonte di ogni potere. Il potere sovrano spetta piuttosto ad essa “ex vi rationis naturalis”, e Dio lo concede come “ proprietas consequens naturam” , “ medio dictamine rationis naturalis ostendentis, Deum sufficienter providisse hunano generi et consequenter illi dedisse potestatem ad suam conservationem et convenienter gubernationem necessariam”.

[7]  Verfassungslehore, trad. it. di A. Caracciolo,   Milano 1984 p. 112

[8]  Si tenga presente che appare evidente l’ influsso del pensiero teologico su Hobbes, ed ancora più su Spinoza e sui  giusnaturalisti  “giuristi”  come Grozio e Vattel

[9] Qu’est-ce-que le Tièrs état, trad. it. in Opere, tomo I°, Milano 1993, p. 255.

[10] V. F. Suarez De charitate  Disp. 13 De bello sectio VIII° ; v. Anche Juan De Mariana De rege et regis institutione, trad. it., Napoli 1996, Lib. I, cap. VI°, p. 54. S. Tommaso d’Aquino, De regimine principum, Lib. I°, cap. VI°; v. anche F. Suarez Defensio fidei catholicae et apostolicae…, Lib. III, 3 (sulla attribuzione solo alla comunità perfetta del supremo potere civile).

[11]“ Quello che è stato detto è sufficiente a dimostrare che l’uomo ha bisogno delle forze e dell’aiuto altrui, dal momento che da solo non è capace di procurarsi tutti gli aiuti per vivere, nemmeno la più piccola parte di quelli. Si aggiunga a tutto questo la debolezza del suo corpo per respingere le forze esterne ed evitare gli attentati alla sua persona: La vita degli uomini, infatti, non era sicura dalle numerose bestie feroci, quando ancora la terra non era stata coltivata e le erbacce estirpate e distrutte.” v. Juan de Mariana op. cit. p. 18, S. Tommaso op. cit. Cap. I°, “Naturale autem est homini ut sit animal sociale et politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat. Aliis enim animalibus natura praeparavit cibum, tegumenta pilorum defensionem, ut dentes, cornua, unguens, vel saltem velocitament ad fugam. Homo autem institutus est nullo horum sibi a  natura praeparato, sed loco omnium data est ei ratio, per quam sibi haec omnia officio manuum posset praeparare, ad quae omnia praeparanda unus homo non sufficit. Nam unus homo per se sufficienter vitam transigere non posset”; v. anche il Compendio di dottrina sociale della Chiesa dove la tesi è ribadita “ La Chiesa si è confrontata con diverse concezioni dell’autorità, avendo sempre cura di difenderne e di proporne un modello fondato sulla natura sociale delle persone:”Iddio, infatti, ha creato gli esseri umani sociali per natura” e poiché non vi può essere “società che si sostenga, se non c’è chi sovrasti gli altri, muovendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l’autorità che la regga; la quale, non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio”” L’autorità politica  è pertanto necessaria a motivo dei compiti che le sono attribuiti e deve essere una componente positiva ed insostituibile della convivenza civile”” (prgf. 393) (Roma, 2004)

[12] E gli stessi uomini, confidando ciascuno sommamente nelle proprie forze, alla stregua di una bestia feroce e solitaria, che alcuni atterrisce ed altri teme, si appropriarono, senza che nessuno potesse proibirlo, dei beni e della vita dei più deboli, specialmente quando, formata una certa società con altri, le mani di molti irrompevano nei campi, tra le greggi e le case, saccheggiando e rubando ogni cosa, con pericolo anche della vita di chi tentasse resistere loro: Aspetto miserabile della vicenda! Ovunque ladrocini, scorrerie e stragi si esercitavano impunemente senza lasciare alcun riparo all’innocenza ed alla debolezza altrui. Così, poiché la vita di ognuno era esposta ai mali esterni, e neppure i consanguinei tra loro e i congiunti si astenevano da mutue violenze, quanti erano oppressi dai più forti, cominciarono a stringersi con altri in un mutuo accordo di società e a rivolgersi ad uno solo che primeggiasse in giustizia e lealtà, con l’aiuto del quale fossero impediti i soprusi interni ed esterni; dovendo instaurare la giustizia, tutti, dai superiori agli inferiori, furono sottomessi ad una stessa legge. Da qui sorsero per la prima volta l’aggregazione urbana e la regia potestà, che a quel tempo non si ottenevano con ricchezze e intrighi, ma con moderazione, onore e provata virtù ” vJuan de Mariana op. loc. cit.

[13] Reconnaissance et exposition raisonée…..in  Sieyés Opere  cit. p 383 ss.

[14] Così Rousseau vi descrive l’origine della società civile “Questa fu e dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuova forza al ricco, distrussero irrimediabilmente la libertà naturale, stabilirono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, di un’abile usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e per il profitto di alcuni ambiziosi assoggettarono per sempre il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” in R. Parenti “Il pensiero liberale e democratico nei secoli XVII e XVIII°”, Napoli 1973 p. 117.

[15] V. ad es. Esortazione della pace… in Oevreus tomo IV Ginevra p. 157 v. anche “I soldati possono essere in stato di graziaop. cit. p. 243

[16] v. “Pertanto, noi dobbiamo considerare se essere cristiano ed essere magistrato, oppure sovrano di uno Stato,siano cose incompatibili al punto che per essere l’uno, un uomo sia costretto a rinunciare ad essere l’altro. Pongo una prima domanda: se esercitare l’ufficio di magistrato oppure di sovrano di uno Stato è una condizione che contrasta con la vocazione dei credenti, come mai se ne sono valsi i giudici dell’Antico testamento, e così pure i re giusti – come Davide, Ezechia, Iosia – e anche alcuni profeti come Daniele?” Calvino Opere scelte, tomo II, Torino 2006

[17] op. cit. p. 205

[18]Mais si ceux qui, par la volonté de Dieu, vivent sous des princes, et sont leurs sujets naturels, transférent cela a eux, pour etre tentés de faire quelque révolte ou changement, ce sera non seulement une folle et inutile spéculation, mais aussi méchante et pernicieuseL’institution chrétienne, tomoIV Lib.  IV   Cap. XX

[19] “ Car si c’est  son plasir de constituer des rois sur les royaumes, et sur les peuples libres d’autres supérieures quelconques, c’eest à nous de nous rendre sujets et obèissant aux supèrieurs quels qu’ils soient qui domineront au lieu où nous vivrons »  op. ult. cit.

[20]  Politique de Bossuet (Raccolta di brani di Bossuet) Paris, p. 80 – 81

[21] “N’importe, vous etes des dieux, encore que vous mouriez, et votre autorité ne meurt pas; cet esprit de royauté passe tout entier à vos  successeur, et imprime partout la meme crainte, le meme respect, la meme vénération; L’homme meurt, il est vrai; mais le Roi, disons-nous, ne meurt jamais: l’image de Dieu est immortelle” op. cit. P.82

[22] Op. cit. p. 91

[23] Op. cit. p. 111

[24] Op. cit. p. 84

[25] Com’è palese dalla frase (v. sopra). “La nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa”.

[26] v. De Civitate Dei, lib. XIX, cap. XII-XVIII

[27] Op. cit., lib. XIX, cap. XVIII

[28] in Scritti politici, Bologna, 1950, p. 231

[29] E’ bene precisare che anche secondo la concezione del diritto divino soprannaturale, il governante, essendo uomo, è peccatore e comunque soggetto ad errore. La differenza (essenziale) consiste nel quis judicabit?. Infatti secondo la prima è solo Dio che può giudicare il sovrano (v. sopra, in particolare Lutero, che ritiene usurpazione del potere divino da parte dell’uomo giudicare – e ribellarsi – al sovrano); mentre per i teologi – giuristi ricordati il re può essere giudicato – e detronizzato – dalla comunità. Analoghe considerazioni si trovano nelle pagine di Thomas Müntzer “i prìncipi non sono i signori ma i servitori della spada; essi non devono fare ciò che gli aggrada (Deuteroniomio 17:18-20), ma ciò che è giusto. Perciò bisogna, secondo l’antica e buona consuetudine, che il popolo sia presente quando si giudica secondo la legge di Dio (Numeri 15:35). E perché? Qualora le autorità intendessero pervertire il giudizio, allora i cristiani che le stanno intorno devono impedirlo e non tollerarlo, poiché si dovrà rendere conto a Dio del sangue innocente” (Salmo 79:10). V. Scritti politici, Torino 1972, pp. 192-193.

[30] Federalist papers n. 10, trad. It, p. 96; è noto che la tematica del potenziale conflitto d’interessi tra governati e governanti attraverso tutto il pensiero politico e giurispubblicistico, a partire dalla filosofia greca e medievale fino ai giorni nostri, con gli elitisti e la scuola di “public choice”. Per più dettagliati riferimenti ci sia consentito rimandare al nostro scritto “Interesse generale ed espropriazione”  Consiglio di Stato, p. II aprile 1982.

[31] Carré de Malberg op. cit. Tome II p. 167

[32]  Op. cit. p. 29

[33] Op. cit p. 31 In effetti una legge del genere sarebbe oltreché inutile, anche un frutto d’umorismo involontario

[34]  Op. cit. p. 33

[35] V. G. Troisi Spagnoli Vita di Sieyès in Opere, cit. p. 31 (e seguenti)

[36] op. cit. p. 8

[37]Mais notre auteur n’est pas seulement kantiste, il est aussi, il le déclare lui-meme, panthéiste idéaliste et par conséquent moniste. Son monisme va se traduire immédiatement par un second postulat, à savoir que, dans le plan statique, l’Etat et le Droit se confondent.”, op. Cit.  p. 9; e poco dopo “Dans ce système exclusivement idéaliste, les êtres réels disparaissent, n’étant tous représentés que par des ordonnancements de règles.”

[38]N’oublions pas que, pour lui, le plan dynamique reste dominé par le plan statique et que, par suite, les sources du droit positif resteront dominées et limitées par le droit transcendant.” Op. cit. p. 10

[39]Le primat de la liberté est remplacé par celui de l’ordre et de l’autorité. La maxime fondamentale n’est plus: “Tout ce qui n’est pas défendu est permis jusqu’à la limite”, elle est: “Tout ce qui n’est pas conforme à la constitution hypothétique est sans valeur juridique.”, op. cit. p. 11

[40] Almeno a voler considerare gli eventi del 1944 e 1946, e particolarmente il referendum del 2 giugno 1946 come inidoneo e/o illegittimo.

[41] V. Presentazione a «Le categorie del politico” p. 13, Bologna 1972.

[42] Intendiamo come tali quelle che si possono ricondurre all’assunto di poter modificare la natura (umana) come il marxismo o (talune eresie chialiastiche); v. sul punto Behemoth n. 40 (recensione a Gnerre) p. 68.

[43] E’ il caso di ricordare il periodo nei Manoscritti economico filosofici del 1844, di cui quella frase è la conclusione “il comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione”.

[44] Sulle varie accezioni del diritto naturale e sulle forme di giusnaturalismo (per volontà divina, quale legge naturale e quale dottrina della ragione) v. G. Fassò “Giusnaturalismo” in Dizionario di politica, cit. vol. II, p. 94.

[45]On verra dès lors, des organismes sociaux traverser des siècles, alors que leur matière humaine et une grande partie des situations sociales qu’ils contiennent auront été renouvelées, parce qu’ils ont un gouvernement et parce que leurs équilibres essentiels ayant été maintenus, les formes auront survécu”, op. cit. p. 71

[46]Au XIX siècle, l’esprit critique l’avaint emporté sur l’esprit de foi créatrice. Il en est résulté que beaucoup d’Occidentaux se sont pris eux-memes à douter de la valeur de leurs directives. Cette défalillance passagère serait sans importance, si elle ne coincidait pas avec l’esprit de résistance qui se marque chez les populations moins évoluées qui nous entourent. », op. cit. P.55.

[47] Op. cit. p. 56

[48] Op. loc. cit.

[49] « Il est possible que des sociétés nomades, avec leur faible population et leurs habitudes de subsistance à base de produits spontanés, aient vécu sous des régimes communistes; il n’y avait point d’obstacle majeur, puisqu’il n’y avait pas à assurer la production”. Op. cit. p. 43. v.

[50] Fanno eccezione i cenni nella voce “Assolutismo” di  R. De Mattei in Edd, vol. III pp. 917-923, e nella voce “Democrazia” di G. Fassò in Noviss. Digesto it. vol. V p. 442 ss.

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StElly nel paese dei balocchi, di Giuseppe Germinario

Così Elly Schlein, a sorpresa, almeno per chi ama farsi sorprendere, è la nuova segretaria del Partito Democratico.

Niente di originale. Una clonazione, un pollo da batteria come tanti altri, tutti identici, che avrebbero potuto emergere dal brodo di coltura sorosiano ormai coltivato da anni in quegli ambienti progressisti e nella sua città di adozione. Elly avrebbe potuto assurgere indifferentemente a Primo Ministro in Finlandia e Moldova, Ministro degli Esteri in Germania; le è capitato invece di conquistare il posto di segretario di partito in una fase a dir poco avventurosa di quella realtà politica.

Un possibile trampolino di lancio per lei a futura gloria e soddisfazione; molto probabilmente, il contestuale de profundis di un partito dalle lontane radici gloriose ormai disperse.

Una nemesi amara per il vecchio gruppo dirigente dalle lontane origini approssimativamente comuniste, in realtà in buona parte socialdemocratiche, impersonate per ultimo dal buon Stefano Bonaccini.

Agli “illuminati sulla via di Damasco” l’elettorato più o meno interessato, non si sa bene se alla resurrezione o alla dipartita, delle primarie ha preferito le certezze dell’originale, mi si perdoni l’ossimoro, clonato nel laboratorio filantropico di grandi propositi e inconfessabili misfatti.

In tempi così incerti e smarriti, l’alea del buon governo non è evidentemente più sufficiente a conservare e nemmeno a rimanere aggrappati alle leve.

Ad una lettura anche superficiale delle mozioni congressuali, gli argomenti del documento del neosegretario sono i più conformi allo spirito della carta dei valori del partito da poco resa pubblica. Ne pare di fatto una scopiazzatura più estesa della quale si tratterà a margine a parte una anticipazione irrefrenabile di tre amenità difficili da concettualizzare pur con ogni buona volontà:

  • la nozione di “giustizia climatica” se non associandola a quella biblica di “diluvio universale”

  • l’asserzione del nesso causale diretto e univoco tra la crisi climatica e la disuguaglianza sociale, quando in realtà, se proprio si vuol sottilizzare, è da una concezione elitaria e di ceto della crisi climatica, confusa per altro con quella ambientale, che si dipana il nesso causale diretto con le disuguaglianze

  • l’asserzione della formazione sociale italiana retta da un regime patriarcale.

L’aspetto dirimente di questa fase politica di quel partito è un altro.

Elly Schlein è stata eletta segretario in piena fase costituente del partito.

L’avvio di una fase “costituente” o “ricostituente” dovrebbe quantomeno prevedere una analisi rigorosa, se non proprio una revisione impietosa dell’approccio culturale, delle scelte politiche fondamentali adottate a partire almeno dagli anni ‘90 e delle ragioni della attuale condizione del paese e della nazione.

Nella carta e nelle mozioni congressuali non c’è niente di tutto questo se non qualche rara riga di adesione fideistica alla Unione Europea, di sostegno a scatola chiusa alla resistenza ucraina, di rappresentazione dello scontro geopolitico tra una democrazia assediata e un autoritarismo prevalente, di auspicio di un ritorno ad un multilateralismo a trazione statunitense.

Una rigidità dogmatica e una superficialità che fa apparire le prese di posizione dell’attuale leadership statunitense un esempio di flessibilità.

Sarebbe improprio pretendere dal Partito Democratico un ripensamento radicale o un ribaltamento delle sue ragioni costitutive. Trasformerebbe la lenta e soporifera agonia che sta percorrendo in un trauma esistenziale esiziale.

Un atto di lucidità ed onestà compatibile con le ragioni fondative del partito sarebbe però una carta dei valori che tracciasse degli orientamenti di fondo e ponesse degli interrogativi da offrire alle mozioni come traccia per risposte che giustificassero le diverse candidature.

  • La Carta avrebbe dovuto quindi contenere una riflessione critica sulla narrazione agiografica del processo di globalizzazione, sull’interpretazione del ruolo degli stati nazionali in esso, sulla funzione di collante delle dinamiche esercitata dalla condizione egemonica emersa con l’implosione del blocco sovietico e indurre quindi i candidati, con le rispettive mozioni di tentare almeno di tracciare quantomeno obbiettivi e comportamenti autonomi ed attivi, sia pure in una logica “entrista” propria della natura di quel partito. Del resto l’azione di classi dirigenti di un numero sempre maggiore di paesi, a cominciare dalla Turchia e dall’Ungheria, ma anche a modo loro della Polonia, ha evidenziato l’agibilità all’interno delle logiche di schieramento. Cosa è, del resto, alla fine, il perseguimento di obbiettivi politici interni alla Unione Europea, più ancora che nella NATO, se non una continua contrattazione e un continuo aspro confronto e conflitto tra centri decisori nazionali e statuali in una dinamica di asservimento alla forza egemone! Se sono reali l’intenzione e l’obbiettivo politico, ammesso e non concesso che sia realizzabile, di una politica estera e di difesa europea autonome, le mozioni dovrebbero essere indotte a delimitare quantomeno i livelli massimi compatibili di integrazione degli eserciti della NATO e dei complessi militari-industriali.

  • A scalare la Carta avrebbe dovuto spingere a riflettere sul trentennio di politica interna a cominciare dalle privatizzazioni e dismissioni o quantomeno nelle loro modalità di esecuzione, per poi risalire alla atavica incapacità del capitale privato di sostenere il peso politico ed organizzativo di una grande industria ed impresa strategica e sul ruolo conseguente del capitale pubblico, magari a gestione privatistica nelle sue varie modalità e possibilità; come pure a giustificare e, quindi, porre rimedio al fatto che l’ancora importante saldo attivo del risparmio nazionale non riesca ad essere reinvestito in gran parte nel territorio e a tutela e sviluppo dell’industria e delle attività nazionali. Potrebbe finalmente emergere qualche seria considerazione sulla necessità di ripristino di una serie di agenzie di supporto tecnico allo sviluppo di attività di produzione ed infrastrutturali completamente distrutto in quei decenni fatali e della cui mancanza si sente persino nella attuazione del cavallo di battaglia, di nome PNRR, del fronte più ottusamente europeista. In pratica la Carta dei Valori avrebbe dovuto porre il quesito fondamentale sui motivi del progressivo stallo e degrado del paese e della nazione negli ultimi quarant’anni, coincisi con la trasformazione del PCI e della DC e la fondazione del PD.

  • Ci sarebbe da sindacare sulla adeguatezza della Carta ad avviare una seria fase costituente su altri temi: la gestione manipolatoria ed arru(a)ffona della crisi pandemica come pure la tematica fondativa legata al cosiddetto transumanesimo. Quest’ultima introdotta in ritardo ed in forma puramente imitativa e parodistica, ma con la possibilità di arrecare altrettanti, se non peggio, danni di quanto indotti negli Stati Uniti. Un culto della singolarità, del determinismo culturale rispetto alle leggi della natura, della tecnocrazia scientifica che meriterebbero assoluta attenzione e precauzione, ma che si vedono introdotte di soppiatto nella Carta e nelle mozioni, probabilmente anche in maniera scontata ed inconsapevole. Sarebbe, forse, pretendere troppo ad una classe dirigente di questo livello.

La sorprendente incapacità di impostare correttamente, quantomeno, un percorso congressuale non è, quindi, un mero incidente in un partito dalle gloriose tradizioni organizzative.

È la conseguenza della cieca miseria intellettuale di una intera classe dirigente; della sua autoreferenzialità e della sua incapacità a porsi a rappresentare un qualsiasi modello di blocco sociale in grado di garantira una minima coesione ed una minima capacità di pesare nelle dinamiche geopolitiche per quanto deleterie e limitative.

Più che una fase costituente, si sta rivelando sempre più una sua parodia, destinata rapidamente a spegnersi nella continuità e nell’esaurimento di un processo iniziato almeno quaranta anni fa, ma dall’esito allora non interamente segnato.

Non è un caso che gli aneliti di rinnovamento e di allargamento della platea dai quali attingere i futuri gruppi dirigenti si riducano alla fine, leggendo attentamente le mozioni, ad attingere al serbatoio degli amministratori locali.

Una parodia dall’esito scontato ma attraverso un processo che richiederà, paradossalmente, il sacrificio della componente più pragmatica, ma culturalmente del tutto omologata o passiva, la quale ha saputo, nelle proprie esperienze di gestione amministrativa, almeno approfittare di qualche margine di azione consentito da questo appiattimento ed allineamento.

La sconfitta di Bonaccini rappresenta esattamente questo.

Non sarà l’unico fìo da pagare e nemmeno il più pesante.

La mozione di Elly, più delle altre, è soprattutto l’appello che con più fervore urla alla riduzione e al superamento delle disuguaglianze, al raggiungimento dell’equità fiscale, alla rivendicazione dei diritti.

Una enfasi che ha indotto gran parte dei commentatori ad attribuirle audacemente una impronta “socialdemocratica” più che “radical chic”.

Nell’economia di questo scritto si deve purtroppo glissare sull’approfondimento sulle varie accezioni attribuibili al termine di lotta alle disuguaglianze e al conseguimento dei diritti; come pur sulla mancata associazione del termine di equità fiscale a quello di vessazione, attraverso il quale il sistema fiscale colpisce indistintamente dipendenti ed autonomi e sulla mancata associazione al problema della tutela dei salari più bassi di quello dell’appiattimento dei livelli salariali normati e del basso livello di quasi tutte le retribuzioni.

Una connotazione socialdemocratica storicamente più attendibile ad un documento e ad una formazione politica dovrebbe avere il carattere specifico di un nesso stretto e inscindibile tra una politica di normazione dei diritti sociali ed il sostegno ad una politica economica in generale, industriale in particolare, fondata sulla impresa, in particolare la grande impresa e sul ruolo pubblico diretto in economia sul quale plasmare la coesione e il dinamismo di una formazione sociale. Un indirizzo, ma con modalità diverse, riconducibile anche alla connotazione comunista di un movimento.

Nelle mozioni congressuali, in particolare in quello della Schlein, non c’è niente di tutto questo, non ostante le crepe all’ortodossia liberista aperti nella fase trumpiana ed anche nel recente documento sulla sicurezza strategica (NSS) varato da Biden e trattato recentemente su questo blog.

Niente se non la caricatura dell’aperto ed acritico sostegno al piano di riconversione ecologica ed energetica e digitale che si risolve in realtà, nel suo dogmatismo e catastrofismo, in un vero e proprio programma di destrutturazione ed indebolimento non solo del residuo apparato industriale e tecnologico avanzato europeo, ma anche di altri ambiti strategici come l’agricoltura.

Tutta l’enfasi che ammanta le parole d’ordine della redistribuzione, del lavoro sicuro, dell’equità fiscale non porteranno a niente di buono; nel migliore e improbabile dei casi a qualche successo temporaneo, tipico del rivendicazionismo sindacale radicale o sedicente tale.

Si potranno regolare più rigidamente i contratti individuali di lavoro, stabilire per legge i livelli minimi salariali e magari gli standard sanitari, rendere ancora più draconiane, sulla lettera, le normative e le sanzioni fiscali, ma le dinamiche socio-economiche, la struttura economico-industriale e dei servizi, il sistema politico-amministrativo troveranno innumerevoli e fantasiose nuove vie per perpetuare una condizione di sottosalario, di basso reddito e di mercato nero, magari in una condizione di apparente legalità. Potrei citarne io stesso decine di modalità.

Rimarrà l’enorme implicazione politica di una simile impostazione. In mancanza di una questione nazionale e, soprattutto, di una politica di difesa di interesse nazionale unificante, nel migliore dei casi non farà che spingere singoli settori alla autotutela in una visione potenzialmente corporativa e intaccare ulteriormente il già precario tasso di interconfederalità delle politiche sindacali magari sotto la nobile veste di un radicalismo del quale abbiamo conosciuto già, assieme al collaborazionismo, gli esisti sterili e nefasti.

La dirigenza sindacale, con tutto il peggio di cui è capace, navigata com’è e desiderosa di non disperdere l’attuale principale legittimazione legata al riconoscimento reciproco con Confindustria, è in grado di cogliere il pericolo, ma non di contrastare efficacemente l’inerzia innescata da questi indirizzi; un ulteriore passo verso un sindacato compassionevole è ormai maturo.

L’unico aspetto positivo è che la gestione piddina della Schlein, dovesse durare, metterà a nudo l’imbroglio politico che è stato e si è rivelato il M5S (Movimento Cinque Stelle); al prezzo di portarsi, però, la serpe in casa, ma con minori infingimenti.

L’unico fattore che potrebbe prolungarne indefinitamente l’agonia, è il processo accellerato di omologazione del centrodestra ed il suo pericolosissimo avvicinamento politico e diplomatico all’ordine statunitense e all’avventurismo ottuso delle classi dirigenti polacche e baltiche.

Peggio dell’azzardo cialtrone della “buonanima”, ottanta anni fa.

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/Bonaccini_Mozione_A4-1.pdf

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/mozione_schlein_def.pdf

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/PromessaDemocratica-GIANNI-CUPERLO-2023-v8_WEB_paginedoppie.pdf

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 LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. SECONDA PARTE a cura di Luigi Longo

 LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. SECONDA PARTE

a cura di Luigi Longo

Connie, per tutta la vita ho cercato di

                                               elevarmi socialmente, perché credevo

                                               che in alto tutto fosse legale e corretto.

                                               Ma più in alto salgo, e più il fetore aumenta.

Michael Corleone*

 

Propongo la lettura di alcuni stralci tratti dalle opere di: Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia politica, Einaudi Torino, 1975, libro primo; Umberto Santino, La mafia come soggetto politico, di Girolamo editore, Trapani, 2013; Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015; Etienne de La Boètie, Discorso sulla servitù volontaria, Piccola biblioteca della felicità, Milano, 2007.

Perché suggerisco la lettura di questi stralci?

Perché i citati scritti portano a riflettere su quattro questioni importanti: 1) la propaganda, l’ideologia, la mistificazione e l’inganno della cattura di Matteo Messina Denaro (latitante da 30 anni con coperture istituzionali a tutti i livelli che sono indicative delle relazioni tra la mafia e i decisori che utilizzano lo strumento stato per l’affermazione del proprio potere e dominio sociale) che segue la stessa scenografia di altre catture eccellenti da quella di Michele Greco a quella di Bernardo Provenzano; 2) l’ipotesi che la criminalità organizzata (mafia, n’drangheta, camorra, quarta mafia, eccetera) sia una questione che riguarda la struttura sociale della cosiddetta società capitalistica; cioè, la criminalità organizzata non è una patologia della società de le magnifiche sorti e progressive che va estirpata, ma è una configurazione sistemica della società dove il potere legale e il potere illegale si intrecciano, si innervano; 3) gli agenti strategici della criminalità organizzata fanno parte del blocco di potere e di dominio che decide le sorti del Paese; 4) la cattura di Matteo Messina Denaro chiude una fase della mafia non più sufficiente per le nuove trasformazioni (la stessa riflessione può valere anche per le altre organizzazioni criminali che si stanno ristrutturando e trasformando) che la vecchia società gravida di una società nuova impone e si apre a nuove configurazioni (nuove alleanze, nuove direttrici, nuove strategie) che tengono conto delle trasformazioni che la fase multicentrica impone e determina con i nuovi modelli sociali che avanzano nello scontro tra le potenze mondiali per l’egemonia (abbiamo visto come Matteo Messina Denaro, espressione di gruppo di potere, era ben introdotto nelle trasformazioni della cosiddetta transizione energetica così come lo sono le altre criminalità organizzate).

Preciso che i suddetti agenti strategici non vanno confusi con quelli che gestiscono ed eseguono le strategie; un esempio storico è la morte di Enrico Mattei, i cui mandanti sono da ricercare nei cotonieri lagrassiani per il loro progetto di sviluppo servile agli Stati Uniti, ma è opera degli esecutori che gestiscono ed eseguono gli ordini strategici. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano intuito quale fosse la profondità del problema (questo era il terzo livello di cui parlava Giovanni Falcone, non altro) che necessitava di altri saperi e di altri soggetti in grado di capire, conoscere, interpretare e agire per contrastare un modello sociale egemone (gramscianamente inteso di consenso e di coercizione) basato sulla violenza del dialogo politico, dove la coercizione viene attuata anche con mezzi criminali e non con raffinati metodi democratici. Nella lotta alla criminalità organizzata non bastava l’aspetto giudiziario insufficiente e in via di costruzione, oltre ai limiti dati dalla farsa della divisione dei poteri che scambia gli equilibri egemonici degli agenti strategici dominanti con l’autonomia dei poteri.

A questo punto pongo tre domande: esiste una sorta di azione giuridica preventiva con cui ridurre il potere della criminalità organizzata considerato che tutte le Relazioni del Ministero dell’Interno al Parlamento sulla attività svolta e i risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia presentano mappature dei territori con la loro spartizione delle aree di controllo, di influenza e le relative relazioni internazionali (anche con supporto informatico contenente le proiezioni mafiose regionali-specificità provinciali) con tanto di riferimento dei decisori della sfera militare e della sfera economica (legale e illegale) della criminalità organizzata e relative relazioni internazionali? Quali sono le conseguenze politiche delle suddette relazioni ministeriali (qui la politica è intesa come prassi reale di cambiamento!)? L’azione giuridica esprime un libero rapporto o esprime un vincolo sistemico del rapporto di potere e di dominio?

La criminalità organizzata, declinata nelle varie realtà regionali (Sicilia-mafia; Calabria-n’drangheta; Campania-camorra; Puglia-quarta mafia; eccetera) con le relative articolazioni territoriali e ramificazioni nazionali e internazionali, è presente in tutte le sfere sociali tramite l’intreccio tra potere legale e potere illegale storicamente dato. Pertanto, non bisogna fermarsi all’aspetto giudiziario che riguarda solo la sfera militare e la sfera economica della criminalità organizzata (e poco sa delle altre sfere sociali: istituzionale, politica, territoriale, eccetera) ma occorre allargare lo sguardo all’insieme della società cosiddetta capitalistica. La peculiarità della criminalità organizzata è nello strumento violento del conflitto tra gli agenti strategici non nella finalità dell’accumulazione del denaro (inteso sia come rapporto sociale del capitale sia come investimento in sé) che rientra nelle relazioni sociali del funzionamento del sistema capitalistico basato sia sul potere che si viene a configurare nelle diverse sfere sociali sia sul dominio dell’intera società.

Chi deve allargare lo sguardo e farsi portatore di un nuovo modello sociale della maggioranza della popolazione? Chi deve dare nome al volgo disperso di manzoniana memoria? Occorre un nuovo soggetto storico di trasformazione che tenga conto della lezione della storia rivoluzionaria che, dispiace per Giambattista Vico, non va ridotta solo all’eterogenesi dei fini ma va letta soprattutto per la mancata costruzione di un soggetto sessuato come sintesi di differenze di intendere i rapporti sociali storicamente dati (oggi forse cominciano a esserci le condizioni per riflettere seriamente).

In questa cornice di ipotesi di ragionamento ho pensato al capolavoro di Karl Marx sulla violenza, sulla illegalità, sulla legge come strumento della criminalità nell’accumulazione originaria che ha preparato la strada al nuovo modello sociale basato sul modo di produzione capitalistico; così come ho pensato a Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo (il primo centro studi sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata sorto in Italia, 1977), che con i suoi lavori sulla mafia come soggetto politico può stimolare ricerche strutturali nelle altre regioni di consolidata e storica presenza della criminalità organizzata con le loro articolazioni territoriali, nazionali e internazionali. L’importanza delle radici, della storia, dell’ambiente, del costume, eccetera del territorio è fondamentale per gli agenti strategici criminali per costruire reti sociali e radicamento territoriale (inteso nell’accezione più ampia: città, campagna, ambiente, paesaggio): i teorici del superamento dello stato (quanta confusione tra stato e nazione e tra nazione e nazionalismi) devono andare a lezione da loro per capire il senso profondo di appartenenza ad una nazione come espressione storica e territoriale di un popolo; così come mi è sembrato utile il lavoro dello studioso Vincenzo Ruggiero, docente di Sociologia e direttore del Crime and Conflict Research Centre presso la Middlesex University di Londra, sull’intreccio tra potere legale e potere illegale che “convocando accanto alla criminologia e alla sociologia una vasta serie di altri saperi, dall’economia alla filosofia, […] illumina passo dopo passo la sottile ragnatela di strategie che consentono al potere di stare contemporaneamente dentro e fuori dalla legge, di piegare il discorso pubblico alle proprie necessità di giustificazione, di costruire contesti in cui i propri scopi possano assumere le sembianze degli scopi di tutti e di ciascuno”; infine ho pensato al concetto di servitù di Etienne de La Boètie, esperto ellenista e un conoscitore del pensiero e della saggezza antiche (1530-1563), come espressione di una ricerca della libertà come fondamento di un nuovo ordine sociale capace di valorizzare la individualità personale e sociale come espressione di un popolo che vive un determinato territorio (sul concetto di libertà si legga il Guglielmo Tell di Friedrich Schiller, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1968) chiamato nazione (possiamo chiamarlo paese per una nuova ri-elaborazione del concetto di nazione) in maniera autodeterminata in relazione ai diversi e peculiari territori mondiali.

 

* L’epigrafe è tratta dal film Il padrino, parte III, di Francis Ford Coppola, trilogia dei Corleone, 1990.

 

 

3.VINCENZO RUGGIERO, PERCHÉ I POTENTI DELINQUONO, FELTRINELLI, MILANO, 2015, pp. 10-185.

 

Introduzione

 

La forza dirompente del potere […] gli individui e i gruppi potenti possono trasgredire le regole che pure li favoriscono, possono ignorarle o riscriverle se ostacolano la loro azione, possono reclamare che i loro interessi corrispondono agli interessi di tutti e per questo vanno sostenuti dagli interventi governativi.

 

L’insufficienza delle leggi, delle norme, delle strategie tecniche, amministrative, ambientali, architettoniche, o semplicemente poliziesche per combattere e arginare il potere con la sua criminalità.

 

I potenti commettono violazioni mentre dichiarano implicitamente lealtà verso le loro stesse leggi, stimolando così “comportamenti di orda”, vale a dire condotte imitative incoraggiate dal loro visibile successo. Vi è un misto di consenso e imitazione, di coercizione e occultamento.

 

Una distinzione schematica tra norme come riflesso di valori universali applicati a tutti e norme come repertorio di tecniche per la perpetuazione del potere. […] l’apatia politica potrebbe degenerare in rapporti sociali disfunzionali, mentre l’assenteismo dalla vita pubblica potrebbe incoraggiare individualismo estremo e criminalità. “Giocare a bocce da soli” è ormai divenuta un’espressione comune per descrivere il declino dello spirito pubblico, la perdita del senso di comunità e il crescente egoismo.

 

Il potere criminale e non (mia specificazione, LL) è esercitato da attori (agenti strategici, mia specificazione, LL) il cui potere costituisce una risorsa disponibile anche in altri contesti e per altre iniziative, attori che, dopo aver utilizzato il proprio potere per commettere crimini, possono facilmente tornare nelle altre sfere della loro esistenza e continuarlo a esercitarlo.

 

1.Una classificazione criminologica

 

Crimini di potere

 

La formulazione “i crimini del colletto bianco sono crimini commessi da persone rispettabili e di alto status sociale nel corso della loro occupazione” […] In alternativa a “crimini dei colletti bianchi” sono state suggerite definizioni come devianza di èlite, devianza ufficiale e devianza d’impresa […] Altre definizioni intese a ridurre il raggio di quella originaria e identificare condotte più specifiche sono: reato economico, crimine politico, delitto governativo e criminalità degli affari.

 

 

 

Agenti di stato e attori economici

 

Il conflitto tra gruppi […] diventa causa prima, esclusiva variabile esplicativa della criminalità dei potenti, mentre le stesse definizioni di criminalità diventano l’esito di battaglie ingaggiate nell’arena del diritto, dove i potenti riescono a distanziarsi dalle imputazioni di illegalità e attribuirle ai deboli.

 

Organizzazioni e loro costituenti

 

Quando le organizzazioni diventano complesse, le responsabilità vengono decentrate, mentre chi ne fa parte si ritrova in un ambiente opaco nel quale i fini da perseguire e le modalità per perseguirli si fanno vaghi e negoziabili. Le organizzazioni possono essere “meccaniche” oppure “organiche”, con le prime che operano in condizioni di relativa stabilità, e le seconde che si adattano a condizioni mutevoli […] Le pratiche illegali possono essere il risultato delle mutate condizioni, in quanto è in opera un impulso incessante teso a individuare nuovi modi di raggiungere gli obiettivi e, di conseguenza, di innovare attraverso la reinvenzione o la violazione delle regole. Ogni organizzazione, d’altro canto, è costituita da individui e gruppi che perseguono i propri limitati interessi, sebbene i conflitti interni vengono raramente resi ufficiali ma nascosti dietro immagini pubbliche di armonia […] Le alleanze si intrecciano e si dissolvono, i fini contingenti e il clima di costante antagonismo caratterizzano l’esistenza quotidiana delle organizzazioni, i cui obiettivi sono indefiniti quanto l’esito delle lotte di potere che si combattono al loro interno.

 

Concorrenza senza freni, arroganza pervasiva e un’etica della titolarità (o del merito). Ecco perché la devianza germoglia non solo nelle taverne e nei lupanari, ma anche negli uffici delle grandi compagnie corporate (estendibile a tutte le sfere sociali, mia precisazione LL).

 

Crimine operativo di potere

 

Il primo tipo di “crimine di potere” […] si manifesta quando i gruppi e gli individui potenti violano le loro stesse regole e la loro stessa filosofia.

 

 

 

Crimine di potere gangsteristico

 

[…] quegli episodi che vedono attori potenti commettere reati convenzionali. […] imprenditori che rubano, investono capitali in droghe illecite o finanziano sequestri di persone, spinti da urgente bisogno di danaro […] Queste condotte vanno collegate ai contesti che consentono l’accesso a reddito illegale supplementare, a situazioni che offrono la prospettiva di profitti rapidi quando nella routine degli affari si avvertono declino o crisi. A questo proposito, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di “isole illegali” a disposizioni delle imprese, le quali possono farvi delle incursioni periodiche o occasionali pur mantenendo il proprio status di imprese legittime.

 

Crimine di potere delegato

 

[…] il “crimine di potere delegato” comporta l’utilizzo da parte di attori ufficiali potenti di un braccio armato illegittimo o clandestino. Si tratta di un crimine commesso per interposta persona.

 

Crimine di potere associato

 

[…] i reati commessi congiuntamente da individui o gruppi legittimi e illegittimi. Anche in questo caso i reati consistono nell’erogazione di un servizio illegale, su delega ricevuta da attori legali, con un accordo tra le parti che però si presenta come esplicita transizione tra pari.

 

Crimine di potere filantropico

 

“Gli stati moderni uccidono e saccheggiano su una scala che nessuna banda di rapinatori potrebbe emulare”. […] I criminali filantropi, insomma, riescono a respingere l’etichetta criminale da se stessi e dalla propria attività e a persuadere gli altri che i loro fini corrispondono ai fini della collettività.

 

Crimine di potere fondativo

 

Molti crimini di potere fondativo si verificano nella sfera economica e riguardano, ad esempio, la legislazione sul lavoro, che è soggetta alla logica sperimentale degli imprenditori (il lavoro nero può diventare flessibilità, ad esempio). Altri vanno attribuiti alle grandi imprese, che nel violare le regole cercano di creare di nuove, in una corsa che vede la legge inseguire l’economia, non viceversa (per esempio, il caso dell’ex Ilva di Taranto, mia precisazione LL). Tuttavia, il terreno più significativo nel quale si verificano crimini di potere fondativo è quello contrassegnato dall’uso di una risorsa cruciale: la violenza. […] In nome dell’emergenza, comunque, le libertà sacrificate potrebbero non essere ripristinate: l’idea di uno scambio tra libertà e sicurezza è a sua volta fondante e ridisegna i diritti umani e civili mentre decriminalizza la loro violazione.

 

E’ l’economia stupido!

 

Clinton […]: è l’economia, stupido!

Attraverso questa espressione, vorrei designare quei reati di potere che sono collocati all’estremo del continuum legale-illegale, vale a dire quell’area dove il comportamento economico e quello criminale si confondono e rivelano una intima contiguità. Penso a pratiche legittime ma dannose, a condotte ispirate dai valori cardinali delle economie di mercato. Queste pratiche possono essere associate allo sfruttamento senza limiti del lavoro e della natura, o alle innovazioni perpetue introdotte nel sistema produttivo alle quali Schumpeter aveva dato il nome di processo di creazione distruttiva. In questo terreno, gli studiosi hanno ampia scelta: possono analizzare la natura criminale della distanza tra costi e prezzi (come in Weber), l’origine criminale dell’accumulazione capitalistica (come in Marx), le specifiche qualità psicologiche che dispongono gli imprenditori a saccheggiare il prossimo (come Sombart).

 

Conclusione

 

I delitti dei potenti sono esempi di come le condotte in se stesse riprovevoli e le condotte proibite per legge possono convivere nella medesima categoria. Il crimine dei potenti, insomma, incorpora mala in se e mala prohibita, ma anche comportamenti che non sono ancora percepiti come mala tout court in quanto nessuna

legge li proibisce […].

 

 

 

  1. Paura del futuro

 

Mercati e comunità

Seguendo una distinzione weberiana, il potere implica l’uso o la minaccia dell’uso della forza su coloro che ricevono ordini, mentre il dominio va interpretato come propensione legittimata, interiorizzata, a ubbidire.

“Il potere è la probabilità che un attore in un rapporto sociale imponga il proprio volere contro ogni resistenza. La dominazione è la probabilità che un ordine di un determinato contenuto venga eseguito. La disciplina è la probabilità che, grazie all’abitudine, un ordine riceva obbedienza immediata e automatica” (Weber…).

Simmel mostra che le relazioni “molecolari” determinano i fenomeni sociali e che le aggregazioni e i sistemi “preservano la loro visibilità ed esercitano le loro funzioni solo se sostenuti giorno dopo giorno da una moltitudine di piccoli, invisibili episodi di interazione”. I gruppi potenti […] riproducono se stessi e il proprio modo di operare grazie alle modalità poco appariscenti con le quali scelgono gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli. Quello che è importante notare è che tutto questo avviene attraverso rapporti “molecolari”, tra individui connessi e integrati in “reti” di costante e minuta interazione. […] “Sui lunghi periodi storici, le reti di fiducia più persistenti formate da predatori efficaci sono costituite da agenti governativi che svolgono semplicemente le loro funzioni” (Tilly…). Le reti di fiducia possono trasformare e catturare dei segmenti rilevanti delle attività governative: ad esempio, acquistare favori da burocrati e politici, ricoprire cariche pubbliche per servire interessi privati e creare dal nulla “delle agenzie governative interamente dedite ai vantaggi di gruppi specifici” […] Le relazioni “molecolari” di Simmel, dalle quali l’analisi delle reti di fiducia sembra derivare, spiegano perciò come possono prendere forma quegli aggregati durevoli dai quali origina la criminalità dei potenti, e come quest’ultima possa divenire uno tra gli altri aspetti del dominio. […] Anche il desiderio astratto di dominare, secondo Simmel, si inscrive in una relazione sociale. I “super-ordinati” ricavano soddisfazione dal fatto che è il loro volere a determinare le azioni e le sofferenze dei “sub-ordinati”. Il significato di un atto di dominazione consiste perciò nella consapevolezza da parte di chi lo esercita della propria efficacia nel dominare. D’altro canto, il desiderio di dominio incorpora una certa attenzione per la persona dominata, e il concetto di società sparisce soltanto quando una delle due parti coinvolte nell’interazione viene eliminata.

  1. La legge del potere

 

La legge come truffa

 

La legge, che sia positiva, incerta, vestita di penombra o indeterminata, costituisce comunque un veicolo attraverso cui le ideologie egemoni e le ineguaglianze sociali si riproducono. Qui arriva Trasimaco, ben accolto nella tradizione marxista, secondo il quale occorre sempre svelare le relazioni sociali inique che si nascondono dietro le categorie giuridiche: l’ingiustizia viene riprodotta ed esacerbata da statuti e costituzioni. […] “Le relazioni tra soggetti sono semplicemente l’altra faccia delle relazioni tra i prodotti del lavoro diventati merci”, asserisce Pashukanis (…), reiterando così che il diritto è un aggregato di regole artificiali, un’astrazione inanimata che giustifica lo sfruttamento. Le norme giuridiche non avrebbero senso in società prive di un’economia monetaria e di mercato e il soggetto giuridico, per questo motivo, “ha la propria base materiale nella persona che opera nei mercati egoisticamente” (…).

 

Insaziabilità e regole d’eccezione

 

Le categorie giuridiche sono politicamente orientate e “le èlite sociali si sono raramente preoccupate dell’ordine sociale in astratto, ma dell’ordine sociale concreto e delle norme specifiche che promuovono i loro interessi economici, politici e di status” (Chambliss e Mankoff…) […] Secondo Schmitt, le leggi vanno esaminate contestualmente, nell’ambito in cui assumono validità, e non possono sostituire l’autorità sovrana, che a volte è costretta a ignorare le procedure, a prendere decisioni di fronte al mutare delle circostanze e a esprimere comando e dominio che prescindono dai dettati legislativi (Gottfried…). In breve, contrariamente all’apparato esplicativo che da Trasimaco giunge fino a Marx, Schmitt suggerisce che la razionalità è l’ultima delle caratteristiche che dobbiamo attribuire alla legge. […] I criminali potenti […] assumeranno la qualità di “funzioni”, agenti del progresso privi di obblighi rispetto alle norme stabilite. La legittimità del loro agire, penseranno, è testimoniata dal successo che conseguono.

 

 

 

 

Norme e azione

 

I criminali potenti vengono aiutati nella loro impresa dalla plasticità dei principi di giustizia, che sono mutevoli e offrono a una varietà di azioni umane una corrispondente, legittima esplicazione. Questa plasticità connota la legge, che non va vista come arena di un mondo separato o delimitato dai suoi stessi principi: la sua agilità la rende sensibile agli eventi che hanno luogo in altre sfere, come quella politica, quella economica, o nella vita quotidiana. […] La logica giuridica, insomma, deriva dalle reti sociali che le danno significato e forma. Parafrasando Latour, possiamo affermare che la verità giuridica senza una rete sociale che la sostiene è come un filo elettrico senza elettricità, un gas senza tubature, una conversazione telefonica senza telefono.

 

Cavalieri fuorilegge

 

I sostenitori della stretta legalità vanno ritenuti dei formalisti, in quanto fanno derivare le norme di condotta dai testi scritti, senza attribuire una speciale funzione ai valori, alle inclinazioni ideologiche o alla cultura di chi amministra la giustizia. Per i formalisti è un compendio di testi, come una Bibbia, “e il compito del giudice e di altri operatori di giustizia consiste nel discernere e applicare la logica di quel compendio” (Posner…). Chi si limita a interpretare i testi giuridici è indifferente alle conseguenze pratiche delle sue interpretazioni. Al contrario, i realisti sono sensibili all’esito che deriva dall’applicazione delle norme scritte, e ne esaminano le conseguenze sistemiche insieme a quelle specifiche, contingenti. […] Nel primo caso i potenti confermeranno che la loro impunità si deve al sostegno preferenziale che ricevono dalle norme, mentre nel secondo caso invocheranno il proprio diritto a ignorarle e, pragmaticamente, modificarle. […] Per Holmes […] la contesa politica equivale a un processo naturale di selezione, e a vincere è sempre il più forte. Il diritto, a sua volta, rifletterà sempre la forza relativa delle parti sociali in conflitto.  E se cambiamento legislativo deve esserci, che sia semplice e rapido, e soprattutto che segua la traiettoria e l’evoluzione del potere, la sua accumulazione e polarizzazione: “Gli interessi più forti devono trovare rispecchiamento nella legislazione che, al pari di altri dispositivi umani e animali, tendono a favorire la sopravvivenza dei più forti” (Posner…). […] Don Chisciotte e Sancho Panza simboleggiano il dibattito sulla storia della giurisprudenza, esprimendo stupore di fronte all’uso che i potenti fanno del diritto. Non vi è segno di umanità o divinità nelle pratiche di cui i nostri eroi sono testimoni: la gente comune viene gettata in galera, mentre gli ufficiali crudeli e i ripugnanti proprietari di schiavi sono protetti dalle leggi. […] i potenti utilizzano e allo stesso tempo sfidano le leggi, avendo il diritto di sospendere i diritti e di disegnarne altri a loro vantaggio. […] Queste leggi sono state create da coloro che regolarmente le violano. E se tra i potenti vi è qualche genuino cavaliere che prova un senso di vergogna, particolarmente se di lignaggio elevato, la maggioranza è costituita da bulli volgari e fuorilegge.

 

  1. Dominazione, egemonia e violenza

 

[…] la politica mette in gioco il potere, vale a dire la capacità dei gruppi sociali di mantenere o modificare i modelli della convivenza e le modalità di distribuzione delle risorse. Inoltre, fornisce definizioni dello stato [da intendere come luoghi istituzionali dove viene esercitato il dominio degli agenti strategici egemonici, LL], spiega la sua abilità nel creare consenso e la sia idoneità a promuovere rapporti significativi con i cittadini, tra i cittadini e con gli altri stati.

 

La polis dell’èlite

 

La polis è allo stesso tempo un artificio sociale e una associazione naturale, in quanto gli esseri umani sono animali politici per natura. E in maniera altrettanto “naturale” mirano all’eudaimonia, a quella condizione generale di benessere che è un fine in se stesso, qualcosa che gli umani perseguono senza chiedersene motivo [mica tanto un fine in se stesso. C’è la questione del senso della vita, LL]. Questo fine sufficiente a se stesso può essere raggiunto attraverso la ragione, che guida i nostri atti e conferisce valore alla vita (Aristotele…). “La vita buona è una vita durante la quale esercitiamo bene questa funzione, cioè uniformemente ai dettati dell’eccellenza e della virtù” (Stalley…). […] Soltanto una piccola frazione di cittadini, comunque, sarà in grado di conseguire la virtù, anche se è necessario lo sforzo di tutti affinchè la polis possa prosperare. La maggioranza […] dovrà mettere la minoranza in condizioni di dedicarsi allo svago, alla contemplazione, alle imprese collettive che creano benefici materiali ma anche valori condivisi. Ecco perché Aristotele concepisce una polis abbastanza piccola da consentire a coloro che vi abitano di conoscersi l’un l’altro e di interagire costruttivamente. Ma questa concezione della polis come aggregato dai fini comuni non può esistere “senza l’esistenza degli schiavi e degli stranieri residenti che non sono legittimi membri della polis e non condividono i privilegi”. […] l’èlite sia il “guardiano” della legge e della moralità, incapsulate in un’unica parola, nomos, una serie di regole che vincolano gli “animali umani”, stabiliscano i costumi, guidano le pratiche e, in ultima istanza, suggeriscono una distinzione tra quello che è giusto e quello che non lo è. La criminalità dei potenti, in questa prospettiva, rivela l’abilità dell’èlite di controllare, modificare e ricostruire un nomos favorevole alle sue azioni. […] Le violazioni della legge da parte dei gruppi potenti vengono analizzate da Aristotele congiuntamente alle cause dei conflitti tra fazioni. L’èlite, con la sua “passione per l’ineguaglianza” e il suo “senso di superiorità”, si sente in diritto  di possedere i vantaggi di cui gode e manifesta un crescente appetito per vantaggi sempre nuovi. Le sue azioni illecite sono il risultato di uno “stato d’animo”, che fa apprezzare oltre misura “i profitti e gli onori” […]. La promulgazione di nuove regole, che rientra tra i poteri politici dell’èlite, permetterà di decriminalizzarne le condotte.

 

La polis di Dio

 

[…] Il mondo della politica, secondo sant’Agostino (…), è caratterizzato da interesse privato, mancanza di attenzione per il benessere collettivo e coesistenza del bene e del male. I destinati alla salvezza e i destinati alla dannazione tendono anch’essi ad amalgamarsi, anche se costituiscono due classi di persone che Agostino designa col nome collettivo e allegorico di città: la città di Dio e quella terrena. Nella seconda troviamo la progenie mai affrancata di Adamo ed Eva, giustamente condannati per la loro “caduta”. Si tratta di persone aliene all’amore di Dio, come dimostrano la loro disposizione ribelle, l’attrazione che provano per i beni materiali e il desiderio di dominare gli altri. Sono questi i fondatori dello stato politico, che si suppone dominato da volgarità, abusi e ingordigia. La mancanza di giustizia rende i gruppi politici simili a bande di criminali, anche perché nessun stato incorpora la giustizia vera, e la legittimità di qualsiasi regime politico va valutata solo in termini relativi. Il confine tra quello che è legale e quello che è illegale cambia con la distanza che separa il potere politico dalla giustizia vera, che i sistemi terreni, comunque, non raggiungeranno mai. […] Al potere, tuttavia, è concesso delinquere sia quando persegue il bene più elevato sia quando è motivato da fini più bassi. La salvezza, in altre parole, è assicurata a tutti, anche a coloro che si macchiano di azioni deprecabili: la fede libera ognuno dall’obbligo di compiere atti virtuosi, la rettitudine del credente trascende la legge e la moralità.

 

Potere come contratto

 

Rousseau ritiene che le società stabili e democratiche siano ispirate da una “religione civile”, vale a dire da sentimenti intensi di obbligazione reciproca, appartenenza e dovere. I cittadini legati tra loro da simili sentimenti esprimono attaccamento per uno specifico ordine sociale e politico […]. In questo modo, all’ordine sociopolitico viene attribuita una forma di santità che richiede dedizione e affetto per le istituzioni e le norme. Chi dissente dai principi di questa religione civile deve essere bandito, in quanto gli asociali non sono in grado di apprezzare la giustizia e sono sempre disposti a complottare per sovvertirla. “Il senso civico, quindi, è incompatibile con la critica all’assetto politico”, né è accettabile che un individuo si separi dal gruppo: il sistema richiede unanimità (Nussbaum…).

 

Tra ragione e passione

 

[…] L’autorità politica, secondo Montaigne, non si basa sulla ragione, e tanto meno sulla legge naturale. Gli attori politici seguono una necessità umana e prendono decisioni in circostanze mutevoli, contingenti, per cui l’ordinamento politico è una sintesi di bisogni immanenti, passione umana e depravazione. […] Montaigne traccia il profilo del regno della politica come regno di attività umana nel quale ha luogo il conflitto sulla distribuzione delle risorse. La politica, insomma, non viene assimilata al dibattito razionale o alla conciliazione pacifica degli interessi, ma a un repertorio di intimidazioni, minacce e violenze […] La criminalità dei potenti, da questo punto di vista, consiste in azioni pratiche che stabiliscono nuove norme attraverso la violazione di quelle correnti, in un susseguirsi di iniziative avventurose che mirano a conservare o espandere i privilegi. Siamo lontani dal razionalismo di Cartesio, secondo cui la politica unisce conoscenza intima ed esercizio pubblico del potere, una sfera di azione umana nella quale le autorità diffondono ragione e insegnano rispetto per il benessere della collettività […]. Siamo anche distanti dalla giustizia universale di Leibniz, che annulla il male rendendo il potere politico il risultato dell’amore divino e della perfezione. Piuttosto, siamo molto prossimi alla nozione di Pascal (…) secondo cui il potere riflette la pura volontà del sovrano e la forza costituisce lo strumento chiave della vita pubblica. Si tratta di una forza che, contemporaneamente, rende accettabile ogni condotta dei potenti, fa dei privilegi altrettanti meriti e della loro approvazione un segno di ordine sociale.

La variabile “forza” fa ritorno in Voltaire (…), il quale non la condanna come criminale ma la glorifica come mezzo per sconfiggere le energie sparse che sfidano l’autorità centrale. Al contrario, in Vico (…) potere e forza si combinano in una miscela adatta a governare i conflitti sociali e bilanciare gli interessi in concorrenza. Il crimine, in questa formulazione, si può intravedere nel suggerimento che i governi, per sopravvivere, devono adottare tecniche e modalità arbitrarie, e che il potere politico ideale si costituisce come apparato unitario capace di fare dell’impostura uno strumento accettabile. Il potere, quindi, per funzionare come potere, deve essere criminale. […] Montesquieu sembra evocare una nozione di potere come capacità di forgiare soggetti che accetteranno ogni sua manifestazione, benevola o malvagia. La criminalità dei potenti, da questo punto di osservazione, rientra tra i mezzi necessari utilizzati dai governi per tenere salda l’unità nazionale.

 

Imperativi e sovrastruttura

 

In Kant […] lo sviluppo culturale della specie umana trova ancora nella guerra uno strumento indispensabile al suo perfezionamento, nonostante la “mercificazione” degli altri che la guerra comporta. […] Kant (…) articola la sua dottrina di “male radicale” parallelamente alla sua filosofia delle legge morale: esiste negli umani un nemico invisibile che spinge alla competizione, all’amore per se stessi, all’invidia, alla dipendenza dal potere, all’avidità, alla corruzione. […] La criminalità dei potenti […] è tra le innumerevoli manifestazioni di questo “male radicale”, è un esito della realtà incorreggibile della natura umana. […] anche le componenti separate, criminali, dello stato fanno parte del “tutto” come unica entità reale esistente. Forse è per questo motivo che, mentre invoca punizioni di severità crudele nei confronti dei criminali di strada, evita di enumerare le pene adatte a sanzionare i criminali potenti (Ruggiero…) Questi ultimi, nella sua costruzione filosofica, sono privi di specifica singolarità, sono perciò logicamente inesistenti. Seguendo la sua classificazione, possiamo collocare la criminalità dei potenti tra gli atti involontari di chi non ha intenzione di violare le leggi e che condivide con le persone oneste l’opinione di che cosa si debba intendere per comportamento accettabile. I criminali potenti, in altre parole, possono anche negare la validità e la supremazia morale di certe norme in determinate circostanze, ma non negano il carattere universale delle leggi nel loro complesso. […] L’autorità politica non è idonea a incoraggiare la moralità, né incorpora la spiritualità dei cittadini; è semplicemente il potere organizzato di una classe che ne opprime un’altra. […] la politica viene ritenuta una componente della sovrastruttura, un corollario della base economica che dà fondamento a un sistema sociale (Marx…) Il potere politico, quindi, emana rapporti sociali prevalenti in uno specifico assetto produttivo e riflette quei rapporti, caratterizzati da antagonismo e sfruttamento. Sradicare entrambi, ad esempio attraverso un cambiamento radicale, implica che si ponga fine alla politica in quanto strumento di dominazione, ma significa anche appropriarsene affinchè il cambiamento possa aver luogo. […] Nella tradizione marxista, l’ideologia è un sistema di rappresentazioni, con la sua logica e il suo rigore, che offre immagini, miti, idee e concetti, narrazioni e discorsi che aiutano i gruppi a dare un senso al contesto in cui vivono. Le sue funzioni costituiscono un repertorio di strumenti simbolici e materiali che ci consentono di interpretare le condizioni della nostra esistenza (Althusser…). Da una prospettiva marxista […] i gruppi potenti che operano nella sfera economica e in quella politica sono criminali per definizione, in quanto hanno interesse a perpetuare e intensificare l’ineguaglianza e lo sfruttamento. L’ideologia che sostiene il loro operare non è che un artificio capace di neutralizzare le imputazioni di criminalità, una gamma di convinzioni che vengono trasmesse alla sfera giuridica per essere trasformate in impunità. I potenti, in questo senso, si battono per sfuggire ai processi di stigmatizzazione e ai meccanismi dell’etichettamento, mirando a presentare le loro condotte come legittime e altamente morali. Per questo motivo […] i pensatori di fede marxista sostengono che, per comprendere a fondo la criminalità dei potenti, occorre esaminare le condotte socialmente dannose, non soltanto quelle formalmente criminalizzate.

 

Ideologia come scienza?

 

[…] Il modello base-sovrastruttura postulato dal marxismo […] viene criticato in quanto traccia una linea troppo netta tra un mondo materiale ritenuto scientificamente osservabile e un mondo fantasmatico popolato da illusioni, costruzioni artificiali e astratte. Si suggerisce, al contrario, che l’analisi dovrebbe svelare come la verità viene prodotta attraverso pratiche e dispositivi logici che in se stessi non sono né veri né falsi (Foucault…) […] i sistemi di potere non distorcono o deformano la verità, ma la creano e la rafforzano, e spesso lo fanno ai margini della società, dove il vero e il falso sono inizialmente concepiti prima di essere utilizzati dalle diverse istituzioni per i loro rispettivi propositi (Foucault…) […] l’innovazione ha luogo ai margini, in aree periferiche inesplorate dove le norme vengono simultaneamente osservate e ignorate, e dove nuove norme hanno la possibilità di prendere forma. E’ qui che le condotte innovative vengono valutate e il loro potere normativo sondato. Ai margini, in altre parole, troviamo un’area grigia dove i comportamenti attendono l’esito di un conflitto etico che determinerà se le pratiche possono diventare routine o vanno bandite. […] le condotte degli attori potenti sono pragmatiche, nel senso che ignorano i principi preesistenti e i precedenti giuridici, così come tralasciano di considerare l’ingiustizia sociale che possono potenzialmente produrre. […] la criminalità dei potenti può possedere forza fondativa, nel senso che può ispirarsi a una logica “sperimentale” e, sospinta da una filosofia consequenzialista, trasformare vecchie pratiche, innovare, creare di nuove e sancirne la legittimità.

 

Antiumanesimo

 

[…] il potere è costretto a limitare l’incertezza e, allo stesso tempo, minimizzare le reazioni individuali e collettive al suo operare. Ridurre la complessità, allora, comporta anche la riduzione delle sfere nelle quali i cittadini possono esprimere giudizio, il che impedisce a questi ultimi di valutare le condotte dei potenti. Per il potere, le decisioni sono importanti, ma lo sono anche le decisioni non prese, le proposte mai considerate e le idee innovative mai ascoltate. “Governare un paese significa controllare l’agenda politica, definire quello che è pensabile e impensabile, e tutto questo viene sempre fatto dietro la facciata della democrazia (Walzer…). Le attività selettive e riduttive si trasformano in impunità al cospetto della criminalità dei potenti; questo avviene in quanto i cittadini interagiscono con le fonti del potere solo sporadicamente e in sfere estremamente limitate della loro vita sociale. Ricevono ingiunzioni, delibere vincolanti, ma la complessità della condizione in cui vivono non consente loro di orientarsi eticamente e politicamente. Negando orientamento ai cittadini e riducendone l’autonomia di giudizio, i potenti possono rendere invisibile la propria criminalità. […] In realtà, la scelta elettorale riproduce i sistemi che neutralizzano il conflitto e, attraverso l’esercizio parziale e selettivo del potere, nascondono le pratiche non ortodosse che li attraversano. Insomma, impegnati come sono in un’economia del consenso, i gruppi potenti si liberano dalle interferenze e dal dissenso politico e si sottraggono al giudizio sulla propria condotta.

 

Politica, violenza, morte

 

Una linea di pensiero all’interno della teoria politica esamina il passaggio dal “potere di detrazione” al “potere di organizzazione”. La fine delle monarchie europee, si sostiene, segna il declino del diritto da parte dei potenti di impossessarsi delle cose, del tempo, dei corpi e della stessa vita (Foucault…). […] sul concetto di “organizzazione”, che racchiude nuove strategie per controllare, potenziare, monitorare, ottimizzare e appunto organizzare: in breve, il potere di generare forze, ordinarle, alimentarle anziché reprimerle. […] Il potere “prende in carico” la vita, si infiltra nei corpi, non si limita a distruggerli, cataloga i viventi attribuendo loro un rango in termini di valore e utilità. […] Il potere sovrano comporta il diritto di dichiarare lo stato di eccezione, di sospendere la legge e i diritti in nome della protezione dei soggetti da pericoli fondati e improvvisi (Santner…). Durante i pericoli di emergenza i cittadini vengono trattati come corpi nudi, appena meritevoli di esistere (Agamben…). Qui siamo ben oltre la continuazione della politica con altri mezzi postulata da von Clausewitz. […] La politica comporta criminalità, violenza e guerra, essendo un terreno di conflitto, dove ognuno sceglie gli amici e i nemici (Schmitt…). E la guerra è parte essenziale della politica: quando la teoria politica si incontra con la disciplina delle relazioni internazionali, ne risulta un’analisi della criminalità dei potenti di grande interesse. […] Si tratta di una forma estrema di criminalità dei potenti che induce l’adozione di forme basse di sopravvivenza: uccidere conferisce la sensazione di immortalità, in quanto consente di sopravvivere (Ruggiero…). La guerra causa vittimizzazione di massa, violazione dei diritti umani e una gamma infinita di crimini di stato. Le zone belliche diventano enormi mercati gestiti da grandi imprese e da gruppi criminali (Whyte…). […] la tortura diventa azione patriottica, e lo stupro un atto di eroismo (Ruggiero…). Chi combatte riceve uno stipendio, ma insieme a questo una licenza non scritta di saccheggiare, e può assaporare l’emozione di uccidere senza i sensi di colpa. […] In altre parole, la guerra è criminogena, mentre i “crimini di guerra” sono norma e includono atti predatori e violenti compiuti da polizie, eserciti e bande paramilitari. In molti casi non è facile distinguere tra forze dell’ordine, soldati, mercenari e criminali: tutti ricoprono la funzione di agenti del controllo sociale e i delitti diventano parte integrante delle loro rispettiva missione. Il coinvolgimento diretto di compagnie private, agenzie per la sicurezza e aziende che forniscono servizi militari e consulenza paramilitare descrive la creazione di un apparato complesso il cui profilo è vago e in cui il militarismo missionario, l’impeto predatorio e la corruzione si fondono in una miscela inedita. Gli eventi recenti dimostrano che la guerra si manifesta come forma di crimine economico e dei potenti, e che la sua stessa illegalità trascende la sfera economica, essendo frutto di decisioni unilaterali non autorizzate dagli organismi internazionali (Sands…). Infine, la guerra è illegale negli strumenti utilizzati: tortura, sequestri di persona, armamenti proibiti. In questo modo, i crimini di guerra e i crimini dei potenti si confondono sovrapponendosi.

[…] In Gramsci, la dominazione mira a soggiogare o anche a liquidare i gruppi rivali, ma è la leadership, la capacità di comando, che permette l’esercizio del potere, attraverso la diffusione di idee e valori che vengono interiorizzati e, lentamente, formano un sistema morale e normativo dominante.

 

5.Attività umana ingloriosa

 

Per comprendere la criminalità dei potenti dalla prospettiva del pensiero economico, dobbiamo enumerare una serie di nozioni preliminari. In primo luogo, la nozione che spesso le attività inizialmente disprezzate diventano gradualmente onorabili. Max Weber (…) con la domanda: come hanno potuto l’accumulazione di danaro, l’amore per il lucro e l’avidità senza freni trionfare su tanti altri valori più nobili? La fame per i soldi e i possessi erano tra i peccati più gravi, al pari dell’attaccamento al potere e l’intemperanza sessuale. Anche la ricerca della gloria veniva condannata, come quella degli elogi: entrambe viste come vane e peccaminose. In un lungo processo, i mutamenti nella sensibilità collettiva, particolarmente nella sfera religiosa, riescono a “cristianizzare” le attività dei mercanti-banchieri e degli usurai e, allo stesso tempo, a imporre ad attori economici il precetto della fraternità. I filosofi, simultaneamente, si rassegnano alla fragilità umana; Hobbes e Spinoza, in maniera diversa, avvertono che gli esseri umani vanno presi così come sono, non come vorremmo che fossero, mentre Vico ammonisce che solo qualche sognatore potrebbe abitare la Repubblica perfetta di Platone, e Rousseau chiarisce che la sua ricerca di governo ideale è basata sulla natura reale delle donne e degli uomini (Hirschman…).

La passione malevole, d’altro canto, possono servire propositi più elevati di cui gli umani non sono consapevoli, e anche i desideri di possesso più ostinati possono risultare innocui, se non benefici. Il commercio, in questa maniera, diventa un deterrente contro l’ostilità, richiedendo cooperazione, accordo e scambio mutevolmente vantaggioso. […] Dal tardo diciassettesimo secolo in poi, la “gentilezza” del commercio viene messa in contrasto con la rudezza delle interazioni tradizionali. Montesquieu (…) espone la dottrina del doux commerce, che raffina e civilizza gli esseri umani, distanziandoli dai barbari. Fare soldi diventa una passione “calma”, e nessuna innovazione nella vita materiale degli individui può cancellare i sentimenti innati di solidarietà. Hume (…) ipotizza che persino il più sfrenato amore per se stessi può annullare “la nostra disposizione alla benevolenza e alla generosità, a sentimenti come la fratellanza, l’amicizia, la compassione e la gratitudine”.

E’ ovvio che questi pensieri sono rivolti alle passioni potenzialmente distruttive, quelle nutrite dalle persone potenti, che sono in grado di causare danno su larga scala, e la cui sete di eccessi, guadagni e gloria va temperata, almeno nell’immaginario sociale. I limiti imposti agli eccessi vengono presumibilmente stabiliti dalla “scienza economica”, che trova terreno propizio per il suo sviluppo ben prima di poter vantare ufficialmente status di scienza.

La ferocia, l’avarizia e l’ambizione, i tre vizi odiati da Giambattista Vico (…), si trasformano grazie a forze divine in appropriatezza civica con l’aiuto della ragione e dell’empatia, che sono inscritte nelle transazioni commerciali. Viene identificato un artificio civilizzatore capace di controllare il potere e di tradurre i suoi atti in operazioni costruttive: la concupiscenza può essere gestita e disposta in maniera da favorire un perfetto ordine sociale, la fragilità umana e l’ingordigia trasformate nel loro opposto: benessere generale e generosità. Simultaneamente, il danaro acquista legittimità pur essendo ostacolo alla salvezza, i mercanti e chi li finanzia vengono apprezzati perché favoriscono gli scambi con popoli remoti, gli avidi vengono rimossi dalla prima linea dei potenziali dannati, e persino gli usurai trovano il loro posto nella coscienza cristiana, diventando peccatori redimibili: il Purgatorio “laverà” la loro anima mentre aspetteranno con pazienza di essere ricevuti in Paradiso (Lefevre…, Le Goff…).

[…] In quanto mezzo peculiare per lo scambio, il danaro si presta idealmente alla rapina, anche perché nessuno può stabilire la sua origine (Simmel…). Quando lo scambio monetario viene finalmente purificato dalla colpa, dal peccato e dal crimine, finisce per coincidere con la totalità delle relazioni umane. I soldi diventano lo strumento assoluto, il punto unificante di ogni proposito e strategia, assumendo alcuni tratti che attribuiamo all’idea di Dio. L’essenza della nozione di Dio vuole che ogni diversità e contraddizione raggiunga unità in Lui, in quanto Lui è la coincidentia oppositorum. L’antica opposizione contro le transizioni monetarie da parte di clerici e credenti di fedi diverse era dovuta a quella che veniva percepita come un’analogia tra l’universo economico e quello cosmico. Si intravedeva, insomma, una pericolosa competizione tra interessi monetari e interessi religiosi. Il danaro, che attraversa indisturbato la fase di “rapina” dello sviluppo economico, giunge in fretta alla fase di “corruzione”. Questo accade quando la polarizzazione della ricchezza comincia ad accelerare, portando l’ineguaglianza materiale ai livelli orrendi dei nostri tempi. Più che ogni altra forma di misurazione di valore, il danaro rende possibili la segretezza, l’invisibilità e il silenzio degli scambi. Come nota Simmel, comprimendo il valore in un pezzo di carta, e lasciandolo scivolare da una mano all’altra, si può costruire una fortuna. Privo di forma, astratto, il danaro può essere investito in luoghi remoti, e perciò può essere sottratto allo sguardo dei vicini. Anonimo, incolore, inodore, furtivo, mobile, rapido e silente, il danaro non rileva la propria fonte, non necessita di certificato di nascita.

 

Autodeterminazione

 

La struttura sociale tende a tracciare barriere tra potere politico e potere economico, in maniera da scongiurare la trasmutazione dell’uno nell’altro. Tuttavia, può sempre accadere che le condizioni nelle quali quelle barriere vengono erette a loro volta si modifichino grazie all’iniziativa economica. Ogni contesto sociale, in verità, cela le reti di individui e gruppi appartenenti a sfere diverse che ne determinano il profilo e le possibilità di azione. Le reti sono associazioni costituite da soggetti che, nonostante la diversità di interessi, compongono un tutto omogeneo che garantisce una certa continuità operativa (Latour…). […] La criminalità dei potenti si avvale di queste reti e connessioni, che promuovono il movimento costante da un gruppo occupazionale all’altro, causando sedimentazione di consorzi e alleanze, solidarietà e complicità tra i rappresentanti di sfere di azioni formalmente distinte. I criminali potenti , insomma, professionisti dell’èlite che con loro amalgamano i valori, rafforzano lealtà e insieme continuano a colpire con furia giovanile. Questa furia viene animata da un linguaggio monetario che traduce ogni aspirazione in desiderio predatorio, e viene aiutata dalla bancarotta morale delpensiero economico. Il pensiero economico come utopia, o piuttosto come distopia, offre alla criminalità dei potenti numerose opportunità analitiche per poter essere concepita, compiuta e giustificata.

 

6.L’etica del potere

 

Costume, opportunità, fiducia

 

Il potere ha sempre bisogno di un amalgama di coercizione e consenso, è sempre chiamato a diffondere rassicurazione, e anche i criminali potenti devono offrire di se stessi un’immagine di criminali affidabili (Friedrich…)

 

Conclusione

 

Con Pascal, i potenti possono santificare le proprie scelte reclamando la purezza dei propri fini. In questo modo, i reati dei potenti possono diventare parte del costume, in una espansione evolutiva che genera reati sempre nuovi e più dannosi.

Ogni giustificazione dell’autorità si basa sulla fragilità degli esseri umani, da Hobbes a Kant. Il primo abolisce la società e le relazioni che vi si svolgono, sostituendo il tutto con puri rapporti di potere tra individui e sovrano. Il secondo vede negli umani dei pezzi di legno ricurvo, incapaci di moralità, se non costretti dalle leggi. Il potere, perciò, viene interpretato come il risultato della fragilità umana, anch’esso incontrollabile legno ricurvo (Esposito…). […] Il loro habitus [ dei potenti, mia precisazione], acquisito tramite l’interiorizzazione di una cultura e incorporato in una serie di abilità pratiche (Vaughan…, Bourdieu…), consente loro una costante ascesa sociale: si tratta di un habitus che include procedure lecite e illecite e ne suggerisce le opportune giustificazioni. La criminalità dei potenti, in ultima analisi, contribuisce a riprodurre l’assetto di potere nelle società, presentandosi come consonante con le norme che vengono violate.

 

Conclusione

 

Il potere, ovviamente, consiste nel costringere qualcuno, gli piaccia o meno, a fare qualcosa […] il potere quando è autore di reato, ha bisogno di inviare codici, diffondere narrazioni e valori che siano accettabili e riproducibili. Può servirsi di segretezza e occultamento, coercizione e violenza, ma […] non può fare a meno di generare meraviglia e imitazione. […] il potere come un’entità diffusa, una sorta di infezione pandemica che si occulta, viola le sue stesse leggi, sprigiona violenza, promuove emulazione e, allo stesso tempo, neutralizza chi vorrebbe opporvisi. Questo quadro disastroso è, ovviamente, incompleto, in quanto non contempla l’esistenza di soggettività altre inclini a perseguire la giustizia sociale. E’ vero, d’altro canto, che ai soggetti altri vengono negate le risorse per costituire identità autonome (Honneth…). I potenti hanno sicuramente ridotto le capacità degli esclusi di narrare e articolare le loro esperienze di ingiustizia. Gli esclusi, proprio in quanto tali, non sono forse in grado di farsi riconoscere come soggetti meritevoli di stima, credibilità e soggettività. E’ con intensa trepidazione che dovremmo tutti attendere e contribuire a questo processo di riconoscimento.

 

 

  1. 4. ETIENNE DE LA BOÈTIE, DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA, PICCOLA BIBLIOTECA DELLA FELICITÀ, MILANO, 2007, 25-77.

 

E’ il popolo che si fa servo e si taglia la gola; che, potendo scegliere fra essere soggetto o essere libero, rifiuta la libertà e sceglie il giogo; che accetta il suo male, anzi lo cerca…

 

Vi è una sola cosa che – non so perché – gli uomini non hanno la forza di desiderare: la libertà, un bene tanto grande e dolce! Non appena la si perde, sopraggiungono tutti i mali possibili e senza di essa, tutti i gli altri beni, corrotti dalla servitù, perdono gusto e sapore. Sembra che gli uomini tengano in poco conto la libertà, infatti, se la desiderassero, l’otterrebbero; si direbbe quasi che rifiutino di fare questa preziosa conquista perché è troppo facile.

 

Cerchiamo piuttosto di capire, se è possibile, come questa ostinata volontà di servire si sia radicata così profondamente da far credere che lo stesso amore della libertà non sia poi così naturale.

 

Dunque, la libertà è naturale e ritengo che non solo siamo nati con lei, ma anche con la passione di difenderla.

 

Così dunque, visto che ogni creatura dotata di sentimento è infelice nell’asservimento e aspira alla libertà; visto che gli animali, pur assuefatti al servizio degli uomini, si lasciano dominare solo dopo aver manifestato la volontà contraria, quale sventura ha potuto snaturare l’uomo – il solo che sia nato per essere veramente libero – sino a fargli smarrire il ricordo del suo stato originario e il desiderio di riacquistarlo?

 

Gli uomini nati sotto il giogo, poi nutriti e allevati nell’asservimento, sono paghi, senza guardare più lontano, di vivere così come sono nati e non pensano affatto di avere altri beni e altri diritti che non siano quelli che hanno trovato: prendono come stato di natura il proprio stato di nascita.

 

La tendenza naturale del popolo ignorante, in genere più numeroso nelle città, è di mostrarsi sospettoso verso chi lo ama, fiducioso verso chi lo inganna.

 

I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, gli animali esotici, le medaglie, i quadri e altre droghe di questo genere erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della libertà perduta, gli strumenti della tirannide.

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LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. PRIMA PARTE. a cura di Luigi Longo

 LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. PRIMA PARTE.

a cura di Luigi Longo

 

Connie, per tutta la vita ho cercato di

                                               elevarmi socialmente, perché credevo

                                               che in alto tutto fosse legale e corretto.

                                               Ma più in alto salgo, e più il fetore aumenta.

Michael Corleone*

Propongo la lettura di alcuni stralci tratti dalle opere di: Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia politica, Einaudi Torino, 1975, libro primo; Umberto Santino, La mafia come soggetto politico, di Girolamo editore, Trapani, 2013; Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015; Etienne de La Boètie, Discorso sulla servitù volontaria, Piccola biblioteca della felicità, Milano, 2007.

Perché suggerisco la lettura di questi stralci?

Perché i citati scritti portano a riflettere su quattro questioni importanti: 1) la propaganda, l’ideologia, la mistificazione e l’inganno della cattura di Matteo Messina Denaro (latitante da 30 anni con coperture istituzionali a tutti i livelli che sono indicative delle relazioni tra la mafia e i decisori che utilizzano lo strumento stato per l’affermazione del proprio potere e dominio sociale) che segue la stessa scenografia di altre catture eccellenti da quella di Michele Greco a quella di Bernardo Provenzano; 2) l’ipotesi che la criminalità organizzata (mafia, n’drangheta, camorra, quarta mafia, eccetera) sia una questione che riguarda la struttura sociale della cosiddetta società capitalistica; cioè, la criminalità organizzata non è una patologia della società de le magnifiche sorti e progressive che va estirpata, ma è una configurazione sistemica della società dove il potere legale e il potere illegale si intrecciano, si innervano; 3) gli agenti strategici della criminalità organizzata fanno parte del blocco di potere e di dominio che decide le sorti del Paese; 4) la cattura di Matteo Messina Denaro chiude una fase della mafia non più sufficiente per le nuove trasformazioni (la stessa riflessione può valere anche per le altre organizzazioni criminali che si stanno ristrutturando e trasformando) che la vecchia società gravida di una società nuova impone e si apre a nuove configurazioni (nuove alleanze, nuove direttrici, nuove strategie) che tengono conto delle trasformazioni che la fase multicentrica impone e determina con i nuovi modelli sociali che avanzano nello scontro tra le potenze mondiali per l’egemonia (abbiamo visto come Matteo Messina Denaro, espressione di gruppo di potere, era ben introdotto nelle trasformazioni della cosiddetta transizione energetica così come lo sono le altre criminalità organizzate).

Preciso che i suddetti agenti strategici non vanno confusi con quelli che gestiscono ed eseguono le strategie; un esempio storico è la morte di Enrico Mattei, i cui mandanti sono da ricercare nei cotonieri lagrassiani per il loro progetto di sviluppo servile agli Stati Uniti, ma è opera degli esecutori che gestiscono ed eseguono gli ordini strategici. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano intuito quale fosse la profondità del problema (questo era il terzo livello di cui parlava Giovanni Falcone, non altro) che necessitava di altri saperi e di altri soggetti in grado di capire, conoscere, interpretare e agire per contrastare un modello sociale egemone (gramscianamente inteso di consenso e di coercizione) basato sulla violenza del dialogo politico, dove la coercizione viene attuata anche con mezzi criminali e non con raffinati metodi democratici. Nella lotta alla criminalità organizzata non bastava l’aspetto giudiziario insufficiente e in via di costruzione, oltre ai limiti dati dalla farsa della divisione dei poteri che scambia gli equilibri egemonici degli agenti strategici dominanti con l’autonomia dei poteri.

A questo punto pongo tre domande: esiste una sorta di azione giuridica preventiva con cui ridurre il potere della criminalità organizzata considerato che tutte le Relazioni del Ministero dell’Interno al Parlamento sulla attività svolta e i risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia presentano mappature dei territori con la loro spartizione delle aree di controllo, di influenza e le relative relazioni internazionali (anche con supporto informatico contenente le proiezioni mafiose regionali-specificità provinciali) con tanto di riferimento dei decisori della sfera militare e della sfera economica (legale e illegale) della criminalità organizzata e relative relazioni internazionali? Quali sono le conseguenze politiche delle suddette relazioni ministeriali (qui la politica è intesa come prassi reale di cambiamento!)? L’azione giuridica esprime un libero rapporto o esprime un vincolo sistemico del rapporto di potere e di dominio?

La criminalità organizzata, declinata nelle varie realtà regionali (Sicilia-mafia; Calabria-n’drangheta; Campania-camorra; Puglia-quarta mafia; eccetera) con le relative articolazioni territoriali e ramificazioni nazionali e internazionali, è presente in tutte le sfere sociali tramite l’intreccio tra potere legale e potere illegale storicamente dato. Pertanto, non bisogna fermarsi all’aspetto giudiziario che riguarda solo la sfera militare e la sfera economica della criminalità organizzata (e poco sa delle altre sfere sociali: istituzionale, politica, territoriale, eccetera) ma occorre allargare lo sguardo all’insieme della società cosiddetta capitalistica. La peculiarità della criminalità organizzata è nello strumento violento del conflitto tra gli agenti strategici non nella finalità dell’accumulazione del denaro (inteso sia come rapporto sociale del capitale sia come investimento in sé) che rientra nelle relazioni sociali del funzionamento del sistema capitalistico basato sia sul potere che si viene a configurare nelle diverse sfere sociali sia sul dominio dell’intera società.

Chi deve allargare lo sguardo e farsi portatore di un nuovo modello sociale della maggioranza della popolazione? Chi deve dare nome al volgo disperso di manzoniana memoria? Occorre un nuovo soggetto storico di trasformazione che tenga conto della lezione della storia rivoluzionaria che, dispiace per Giambattista Vico, non va ridotta solo all’eterogenesi dei fini ma va letta soprattutto per la mancata costruzione di un soggetto sessuato come sintesi di differenze di intendere i rapporti sociali storicamente dati (oggi forse cominciano a esserci le condizioni per riflettere seriamente).

In questa cornice di ipotesi di ragionamento ho pensato al capolavoro di Karl Marx sulla violenza, sulla illegalità, sulla legge come strumento della criminalità nell’accumulazione originaria che ha preparato la strada al nuovo modello sociale basato sul modo di produzione capitalistico; così come ho pensato a Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo (il primo centro studi sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata sorto in Italia, 1977), che con i suoi lavori sulla mafia come soggetto politico può stimolare ricerche strutturali nelle altre regioni di consolidata e storica presenza della criminalità organizzata con le loro articolazioni territoriali, nazionali e internazionali. L’importanza delle radici, della storia, dell’ambiente, del costume, eccetera del territorio è fondamentale per gli agenti strategici criminali per costruire reti sociali e radicamento territoriale (inteso nell’accezione più ampia: città, campagna, ambiente, paesaggio): i teorici del superamento dello stato (quanta confusione tra stato e nazione e tra nazione e nazionalismi) devono andare a lezione da loro per capire il senso profondo di appartenenza ad una nazione come espressione storica e territoriale di un popolo; così come mi è sembrato utile il lavoro dello studioso Vincenzo Ruggiero, docente di Sociologia e direttore del Crime and Conflict Research Centre presso la Middlesex University di Londra, sull’intreccio tra potere legale e potere illegale che “convocando accanto alla criminologia e alla sociologia una vasta serie di altri saperi, dall’economia alla filosofia, […] illumina passo dopo passo la sottile ragnatela di strategie che consentono al potere di stare contemporaneamente dentro e fuori dalla legge, di piegare il discorso pubblico alle proprie necessità di giustificazione, di costruire contesti in cui i propri scopi possano assumere le sembianze degli scopi di tutti e di ciascuno”; infine ho pensato al concetto di servitù di Etienne de La Boètie, esperto ellenista e un conoscitore del pensiero e della saggezza antiche (1530-1563), come espressione di una ricerca della libertà come fondamento di un nuovo ordine sociale capace di valorizzare la individualità personale e sociale come espressione di un popolo che vive un determinato territorio (sul concetto di libertà si legga il Guglielmo Tell di Friedrich Schiller, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1968) chiamato nazione (possiamo chiamarlo paese per una nuova ri-elaborazione del concetto di nazione) in maniera autodeterminata in relazione ai diversi e peculiari territori mondiali.

 

 

 

* L’epigrafe è tratta dal film Il padrino, parte III, di Francis Ford Coppola, trilogia dei Corleone, 1990.

 

 

1.KARL MARX, IL CAPITALE. CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA, EINAUDI TORINO, 1975, LIBRO PRIMO, pp. 879-934.

 

Capitolo ventiquattresimo. La cosiddetta accumulazione originaria

 

L’arcano dell’accumulazione originaria

 

Abbiamo visto come il denaro viene trasformato in capitale, come col capitale si fa il plusvalore, e come dal plusvalore si trae più capitale. Ma l’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore, e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, e questa presuppone a sua volta la presenza di massa di capitale e di forza lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci. Tutto questo movimento sembra dunque aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo un’accumulazione <<originaria>> […] precedente l’accumulazione capitalistica: una accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico.

Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccomandandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorso, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che accresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare. […] Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e <<lavoro>> sono stati da sempre gli unici mezzi d’arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per <<questo anno>>. Di fatto i metodi dell’accumulazione originaria sono tutto quel che si vuole fuorché idilliaci.

[…] Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione del lavoratore della proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati. Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare <originario>> perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione capitalistico ad esso corrispondente.

[…] Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco

[…] Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato quanto il capitalista, è stata la servitù del lavoratore. La sua continuazione è consistita in un cambiamento di forma di asservimento, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico.

[…] Nella storia dell’accumulazione originaria fanno epoca dal punto di vista storico tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege. L’espropriazione dei produttori rurali, di contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. La sua storia ha sfumature diverse nei vari paesi e percorre fasi diverse in successioni diverse e in epoche storiche diverse. Solo nell’Inghilterra, che perciò prendiamo come esempio, essa possiede forma classica.

 

Espropriazione della popolazione rurale e sua espulsione dalle terre

 

Nuovo e terribile impulso ebbe il processo d’espropriazione forzosa della massa della popolazione nel secolo XVI, dalla Riforma e al seguito a questa, dal colossale furto dei beni ecclesiastici. Al momento della Riforma la Chiesa cattolica era proprietaria feudale d’una gran parte del suolo inglese. La soppressione dei conventi ecc. ne gettò gli abitanti nel proletariato. I beni ecclesiastici vennero donati in gran parte a rapaci favoriti regi o venduti a prezzi irrisori a fittavoli e cittadini speculatori, che scacciavano in massa gli antichi fittavoli ereditari dei conventi riunendo i loro poderi in grandi unità. La proprietà che la legge garantiva agli agricoltori impoveriti di una parte delle decime ecclesiastiche venne tacitamente confiscata.

[…] Sotto la restaurazione degli Stuart i proprietari fondiari riuscirono a imporre in forma legale una usurpazione che sul continente fu attuata dappertutto anche senza lungaggini giuridiche. Essi abolirono la costituzione feudale del suolo, cioè scaricarono sullo Stato gli obblighi di servizio che essa comportava, <<indennizzarono>> lo Stato per mezzo di tasse sui contadini  e sulla restante massa della popolazione, rivendicarono la proprietà privata moderna su quei fondi, sui quali possedevano soltanto titoli feudali, e si degnarono infine di concedere benignamente quelle leggi domicilio (laws of settlement) le quali, mutatis mutandis, ebbero sui coltivatori inglesi lo stesso effetto che l’editto del tartaro Boris Godunov ebbe sui contadini russi.

La <<glorious revolution>> (rivoluzione gloriosa) portò al potere, con Guglielmo III di Orange, i facitori di plusvalore, fondiari e capitalistici, che inaugurarono l’era nuova esercitando su scala colossale il furto ai danni dei beni demaniali che fino a quel momento era stato perpetrato solo su scala modesta. Le terre demaniali venivano regalate, vendute a prezzo irrisorio, oppure annesse a fondi privati per usurpazione diretta. Tutto ciò avveniva senza osservare minimamente l’etichetta legale. I beni statali così fraudolentemente appropriati costituiscono assieme al frutto del furto dei beni della chiesa, questo per la parte che non era andata perduta durante la rivoluzione repubblicana, la base degli odierni domini principeschi dell’oligarchia inglese. I capitalisti borghesi favorirono l’operazione, fra l’altro allo scopo di trasformare i beni fondiari in un puro e semplice articolo di commercio, di estendere il settore della grande impresa agricola, di aumentare il loro approvvigionamento di proletari eslege provenienti dalle campagne, ecc.

[…] La proprietà comune – completamente distinta dalla proprietà statale che abbiamo or ora considerato – era una antica istituzione germanica, sopravvissuta sotto l’egida del feudalesimo. Si è visto come l’usurpazione violenta della proprietà comune, per lo più accompagnata dalla trasformazione del terreno arabile in pascolo, cominci alla fine del secolo XV e continui nel secolo XVI. Ma allora il processo si attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione combatté, invano, per centocinquant’anni. Il progresso del secolo XVIII si manifesta nel fatto che ora la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo, benché i grandi fittavoli continuino ad applicare, per giunta, anche i loro piccoli metodi privati indipendenti.

La forma parlamentare del furto è quella dei Bills for Inclosures of Commons (leggi per la recinzione delle terre comuni), in altre parole, decreti per mezzo dei quali i signori dei fondi regalano a se stessi, come proprietà privata, terra del popolo; sono decreti di espropriazione del popolo.

[…] Il furto dei beni ecclesiastici, l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà del clan in proprietà privata moderna: ecco altrettanti metodi idillici dell’accumulazione originaria. Questi metodi conquistarono il campo dell’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra al capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege.

 

Legislazione sanguinaria contro gli espropriati dalla fine del secolo XV in poi. Leggi per l’abbassamento dei salari.

 

Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subìto. La legislazione li trattò come delinquenti <<volontari>> e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti.

[…] Così la popolazione rurale espropria con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato.

Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato senza ogni resistenza; la costante produzione di sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle <<leggi naturali della produzione>>, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per <<regolare>> il salario, cioè per costringerlo entro i limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. E’ questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria.

[…] La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro. […] I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologia, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vai momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata dalla società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica.

[…] Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è…il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che il popolo diventa tanto ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.

Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usuraio.

[…] Se il denaro, come dice l’Augier, << viene al mondo con una voglia di sangue in faccia>>, il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro.

 

 

  1. 2. UMBERTO SANTINO, LA MAFIA COME SOGGETTO POLITICO, DI GIROLAMO EDITORE, TRAPANI, 2013, pp. 14-47.

 

1.La mafia come soggetto politico. Vent’anni dopo

 

[…] La mafia, le mafie, hanno anch’esse la loro finanziarizzazione, rappresentata dall’incremento esponenziale dell’accumulazione illegale. Viviamo in una fase di transizione, di interregno, in cui la dimensione transnazionale convive con quella nazionale e la modella secondo le sue esigenze. Il potere ha pur sempre un ancoraggio territoriale, i maggiori centri finanziari e i loro guardiani, come le agenzie di rating (Standars & Poor’s, Moody’s, Fitch), sono negli Stati Uniti, che continuano ad esercitare un’egemonia, anche se sempre insidiata, nonostante siano il paese con maggior debito e con la bilancia dei pagamenti perennemente passiva. E i paradisi fiscali, che nella geografia del capitale finanziario hanno un ruolo fondamentale, non per caso si raggruppano nei pressi dell’Europa e degli Stati Uniti. I soggetti del potere finanziario, la Banca mondiale, il Fondo monetario, l’Organizzazione mondiale del commercio, dettano le politiche reali in nome del liberismo come “pensiero unico”. […] In questo contesto le mafie sono diventate attori globali, ma non hanno perso il radicamento nel territorio. Signoria territoriale e ruolo mondiale possono essere reciprocamente funzionali. Non c’è una Supermafia, ci sono le mafie nazionali, vecchie e nuove, e traffici transnazionali.

[…] il potere delle mafie è sempre più legato all’accumulazione, ma non può prescindere dai legami che si costruiscono all’interno del sistema relazionale, indispensabile per estendere e rafforzare l’attività delle organizzazioni criminali. Il rapporto con le istituzioni è stato e rimane irrinunciabile. E le istituzioni sono disseminate sul territorio.

 

  1. Introduzione

 

Un’ipotesi definitoria

 

La concezione di mafia che anima il lavoro mio e del Centro Impastato mira a un rovesciamento o a un’integrazione delle visioni correnti, partendo dalla considerazione che la mafia non è un fatto patologico che si sviluppa in un corpo sano ma è un insieme prodotto e riproduttore di un ecosistema sociale. Essa è un fenomeno polimorfico, risultante del convergere e intrecciarsi di vari aspetti: la violenza e l’illegalità, la sua finalizzazione all’accumulazione della ricchezza e all’acquisizione del potere, un codice culturale, un certo consenso sociale. Da un punto di vista strutturale si possono distinguere due ambiti: le organizzazioni criminali vere e proprie e un vasto e ramificato sistema di cointeressenze, complicità, contiguità, un blocco sociale di natura transclassista che va dagli strati più svantaggiati della popolazione, coinvolti nelle varie articolazioni delle attività lecite o illecite, agli strati più alti: politici e amministratori legati in un modo o nell’altro ai mafiosi, professionisti (avvocati, consulenti finanziari, tecnici etc.) che prestano la loro opera a servizio di mafiosi, imprenditori consoci o prestanomi etc. All’interno di tale blocco la funzione dominante è svolta dai soggetti legali-illegali più ricchi e potenti che abbiamo definito borghesia mafiosa.

[…] La nostra attenzione si è rivolta allo studio del sistema relazionale dei gruppi mafiosi, nelle sue molteplici articolazioni, che vanno dal piano economico a quello politico-istituzionale e includono una dimensione culturale che, coniugandosi con gli altri aspetti, genera e sedimenta consenso sociale. […] i gruppi mafiosi non sono né ghetti né isole, ma sono parte di un blocco sociale, la cui consistenza è difficilmente quantificabile, ma potrebbe coinvolgere in Sicilia, in modo diretto o indiretto, alcune centinaia di migliaia di persone.

 

Un’ipotesi di periodizzazione

 

[…] La mafia, come del resto tutti i fenomeni di durata, si sviluppa intrecciando continuità e trasformazione, tradizione e innovazione-modernizzazione, per cui aspetti vecchi, se non arcaici, convivono con i nuovi e, al di là di contraddizioni apparenti, possono essere reciprocamente funzionali.

E’ possibile individuare delle fasi, ma solo in quanto si può indicare un aspetto come prevalente rispetto ad altri e facendo riferimento ai mutamenti del contesto sociale, a cui la mafia si è sempre dimostrata, per la sua elasticità, capace di adeguarsi.

Un quadro dell’evoluzione storica della mafia può così delinearsi:

  • una lunga fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo, in cui più che di mafia vera e propria può parlarsi di fenomeni premafiosi;
  • una fase agraria, che va dalla formazione dello Stato unitario agli anni ’50 del XX secolo;
  • una fase urbano-imprenditoriale, negli anni ’60;
  • una fase finanziaria, dagli anni ’70 ad oggi.

[…] Con la creazione dello Stato unitario si afferma un blocco dominante composto dai grandi industriali del Nord e dai proprietari terrieri meridionali. L’economia rimane prevalentemente agricola fino agli anni ’50 del XX secolo. La stratificazione sociale nella Sicilia occidentale vede al vertice i grandi agrari, al centro gli affittuari dei latifondi (gabelloti) e alla base i contadini, frammentati in piccoli proprietari, mezzadri, braccianti. La mafia agraria è formata dagli affittuari, che, pur avendo un ruolo parassitario tra proprietari e contadini, sono degli imprenditori in quanto agenti di una prassi combinatoria dei fattori produttivi possibile entro quell’assetto sociale, ma la presenza mafiosa è capillare e forte anche nei giardini di agrumi della Conca d’oro palermitana. Le funzioni della mafia agraria sono: accumulazione del capitale, controllo e repressione del movimento contadino, suo principale antagonista dai Fasci siciliani (1891-94) alle lotte per la riforma agraria degli anni ’40 e ’50, governo locale, mediazione tra comunità locale e istituzioni centrali, costituendo no dei pilastri del sistema clientelare attraverso cui avviene l’integrazione del Mezzogiorno nel contesto nazionale.

Dalla seconda metà degli anni ’50 comincia la trasformazione dell’economia italiana in industriale-terziaria e nel Mezzogiorno e in Sicilia la terziarizzazione è soprattutto parassitaria, con lo sviluppo dell’impiego pubblico e il ruolo sempre più rilevante che assume la spesa pubblica, dopo la creazione della Regione a statuto speciale (1946) e della Cassa per il Mezzogiorno (1950). In questa fase non c’è tanto un trasferimento dei gruppi mafiosi dalle campagne alle città, quanto un loro inserimento nella nuova realtà, con l’ingresso in attività imprenditoriali, legate soprattutto all’edilizia. […] un ruolo decisivo nella nascita del mafioso-imprenditore ha il denaro pubblico, sotto forma di appalti di opere pubbliche o di finanziamenti erogati da istituti di credito di diritto pubblico. Cioè la mafia urbano-imprenditoriale nasce come borghesia di Stato, intendendo per tali strati medio-alti che si formano e assumono un ruolo dominante per il loro collegamento con le fonti di denaro pubblico e con le istituzioni. La mafia ha il controllo del mercato edilizio, dei mercati alimentari, del credito, delle assunzioni negli enti locali e svolgendo tali funzioni diventa sempre di più borghesia egemone a livello locale, mantenendo e sviluppando le fonti di accumulazione illegale (estorsioni, contrabbando di sigarette, inserimento nel traffico internazionale di droga).

Il ruolo sempre maggiore nel traffico di droghe dagli anni ‘70 ad oggi caratterizza la mafia attuale come mafia finanziaria, cioè come una grande macchina di accumulazione di capitale illegale, con la conseguente lievitazione del ruolo dei gruppi mafiosi nel mercato e nella società. La richiesta di occasioni di riciclaggio e investimento del denaro sporco e di spazi di potere raggiunge livelli mai toccati in precedenza, per cui saltano le compatibilità, e in parallelo con lo svilupparsi di una sanguinosa concorrenza interna (che raggiunge il massimo di conflittualità nella guerra di mafia degli anni 1981-1983) si innesca una gara egemonica esterna che porta all’abbattimento degli ostacoli che si frappongono al processo di espansione.

 

La soggettività politica della mafia

 

[…] Si può parlare di soggettività politica della mafia in duplice senso:

  • in quanto associazione criminale la mafia è un gruppo politico, presentando tutte le caratteristiche individuate dalla sociologia classica per la definizione di tale tipo di gruppo;
  • essa concorre come gruppo criminale e con il blocco sociale di cui fa parte alla produzione della politica in senso complessivo, cioè determina, o contribuisce a determinare, le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse.

 

La produzione mafiosa della politica

 

La mafia concorre alla produzione della politica in vari modi. Ne indichiamo alcuni, risultanti dal materiale studiato o di cui siamo a conoscenza:

  • uso politico della violenza. I delitti politico-mafiosi […] costituiscono un intervento sul quadro generale. Essi sono, o possono essere, il frutto di una convergenza di interessi e si può ipotizzare, anche se non sempre è dimostrabile in sede giudiziaria, la responsabilità di più soggetti (logge massoniche, gruppi terroristici, servizi segreti, etc.) nella loro ideazione ed esecuzione;
  • formazione delle rappresentanze nelle istituzioni, attraverso la selezione dei quadri, il finanziamento delle campagne elettorali, il controllo sul voto e altre forme di intervento o anche con la partecipazione diretta di membri di organizzazioni mafiose alle competizioni elettorali e alle assemblee elettive;
  • controllo sull’attività politico-amministrativa attraverso rapporti con gruppi politici e apparati burocratici, dagli enti locali alle istituzioni centrali. La tipologia di tali rapporti va dall’identificazione-comprenetazione, allo scambio permanente o limitato, all’affinità culturale o d’interessi;
  • c’è un altro complesso di fenomeni di cui occorre tenere conto, e cioè lo svilupparsi di forme di privatizzazione-clandestinizzazione-criminalizzazione dell’attività politico-amministrativa o attraverso collegamenti tra gruppi mafiosi e altri gruppi che mutuano metodi di tipo mafioso, o con la generalizzazione di pratiche che non implicano un ruolo diretto di soggetti mafiosi né il ricorso a forme dirette o indirette di violenza, ma si configurano come illegalità sistemica, permanente e diffusa (è questo il quadro che viene alla luce dalle inchieste sulle varie tangentopoli), costituendo il contesto più ospitale per l’eventuale insediamento di interessi mafiosi. Questi fenomeni attestano che si è metabolizzata una forma-mafia come modello di comportamento che va ben oltre i gruppi organizzati in associazioni di stampo mafioso.

 

Doppia mafia in doppio Stato: una duplice dualità

 

[…] In realtà l’esperienza storica italiana ci dice che il monopolio formale della forza da parte dello Stato non è mai venuto a cessare, ma che di fatto c’è stata, e continua ad esserci, una demonopolizzazione, per cui si può individuare una duplice dualità, riguardante la mafia e lo Stato.

A differenza dalla criminalità comune, la mafia non viola il diritto ma nega il diritto, cioè non riconosce il monopolio statale della violenza e quindi è fuori e contro lo Stato, considerando il ricorso all’omicidio come la sua forma di giustizia; ma per le sue attività legate al denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica essa è dentro e con lo Stato, per cui la definizione di “criminalità istituzionalizzata” coglie pienamente nel segno.

[…] Il doppio binario della violenza ha assolto la funzione del mantenimento del potere da parte delle classi dominanti, ogni volta che l’intervento diretto dello Stato o era impossibile, per la sua palese illegalità, o non avrebbe potuto avere la speditezza e la brutalità della violenza mafiosa. Non è una forzatura ideologica affermare che non c’è stato, in Italia, Stato senza mafia, come non c’è stata mafia senza Stato.

[…] la soggettività politica della mafia sarebbe completamente incomprensibile se considerata come una serie di fatti, gravi ma tutto sommato parziali ed episodici, e non come prodotto di un meccanismo complessivo costituito dal rapporto mafia-istituzioni nella sua concreta dinamica, che vede operanti soggetti formalmente contrapposti ma in realtà portatori di duplicità, per cui al posto del paradigma astratto alterità-contrapposizione agisce quello alterità-interazione.

[…] La mafia non si è formata e non si è sviluppata per e nel vuoto di mercato, ma dentro il mercato, così come si è realizzato storicamente e non come avrebbe dovuto essere o dovrebbe essere secondo i teoremi dell’” economia degli economisti”.

La dualità del fenomeno mafioso e dello Stato produce la particolare situazione in cui vengono a trovarsi magistrati e rappresentanti delle istituzioni impegnati nell’attività antimafia, ma ciò vale anche per altri terreni- dai servizi segreti al sistema della corruzione- coinvolti in prassi di “criminalità istituzionale”, considerabili cioè come gemmazione naturale, filiazione sistemica, e non devianze patologiche. La funzione giurisdizionale e repressiva si trova a vivere una condizione schizofrenica ed espone a gravissimi rischi gli operatori più conseguenti che debbono contrastare un nemico armato […] e alle spalle non hanno il sostegno e la copertura che si aspetterebbero, se non operasse il collegamento che il criminologo statunitense Sutherland definiva “fraternizzazione tra le forze contrapposte”, cioè tra criminali “dal colletto bianco” e Stato, mentre per gli altri soggetti criminali opera la stigmatizzazione.

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RAGION DI STATO E RAZIONALISMO GIURIDICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

Questo breve saggio era stato pubblicato sul n. 3/2001 di “Palomar”. Lo
si propone perché presenta spunti d’attualità.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

RAGION DI STATO E RAZIONALISMO GIURIDICO

  1. Malgrado le vicende del secolo scorso, in particolare le guerre mondiali e i regimi totalitari poterebbero contraddirlo, è un fatto che l’idea di Stato e la realizzazione della stessa è un’opera, a un tempo, in larga misura della ragione e del razionalismo (politico e giuridico) dell’età moderna.

Non a caso, appena nato lo Stato, per definire a un tempo il criterio di azione di questo e del Principe, si usò l’espressione “Ragion di Stato”; ma non è men vero che se essa individua il dovere e la “bussola” del governante (e in larga misura l’ambito, anche giuridico, dei poteri del medesimo) quello moderno è, insieme, mutuando il titolo di un’opera di Fiche, uno Stato secondo ragione. Anche se sull’esatta definizione di questa espressione e su cosa s’intenda per essa, è bene capirsi, per non confondere la ragione “storica” e “concreta” con le costruzioni intellettualistiche, (e nelle intenzioni, spesso utopiche), di cui la modernità ci ha fornito una pletora di esempi (al punto che De Maistre, affermava di non conoscere, nell’epoca pre-rivoluzionaria, un giovane letterato che non avesse scritto almeno un trattato di pedagogia e una costituzione); mentre il carattere peculiare della ragion di Stato, è sì d’essere “razionale”, ma di esserlo in una situazione data e su presupposti concreti, ovvero di costituire la regola di scelta in un contesto reale; è cioè l’applicazione – conseguenza del realismo politico, e non dell’intellettualismo utopico (e ucronico).

Se la ragion di Stato è nient’altro che la “tecnica” di difesa dell’unità politica e della sicurezza collettiva ed individuale (salus rei publicae suprema lex esto), lo strumento principale con cui si è attuato e garantito quelle è, per l’appunto, lo “Stato secondo ragione”, attraverso la progressiva e costante “razionalizzazione” delle strutture pubbliche. Funzionalizzazione, de-patrimonializzazione, centralismo, legalità, burocratizzazione sono state le principali vie percorse per innestare sul vecchio ceppo delle monarchie feudali la razionalità funzionalistica di un apparato che è, in larga parte, il prodotto di un processo cosciente (ed autocosciente) di costruzione della “gran macchina”, dell’ “uomo artificiale” concepito per la sicurezza (e il benessere) collettivo. Questo è nel contempo il risultato della secolarizzazione o meglio, in relazione al tema qui trattato, del weberiano “disincanto del mondo”, della cesura del legame tra cielo e terra; chiaro nella sfera politica, lo è meno, ma di poco, nell’ambito giuridico, probabilmente perché la razionalizzazione del diritto e del processo, nella cristianità occidentale, ha preso l’avvio diversi secoli prima della “scoperta” dello stesso termine di Stato (e della, di poco successiva, “Ragion di Stato”), ed è la risultante della recezione del diritto romano (del Corpus juris) e dello sviluppo di quello canonico. Ambedue costruzioni razionali, ancorché l’una “Deo auctore”, secondo l’espressione di Giustiniano, l’altro ordinamento di una  ierocrazia; ma al riguardo occorre notare che, ancora, la concezione del monarca (e del magistrato) come rappresentante di Dio, tipica della Riforma e, in parte anche, della Controriforma, fornisce la base legittima e “sacra” per la prima fase della razionalizzazione politica (e la seconda di quella giuridica)[1].

Per cui la stessa razionalizzazione “politica” ha un fondamento “aperto alla trascendenza”. Ciò non toglie che l’una (e l’altra) si fondino, come detto, sul “disincanto del mondo”, sulla costruzione di decisioni razionali, su presupposti realistici e razionalmente argomentati, su responsabilità umane, con l’esclusione sia di interventi “magici” o “divini”, che di norme non aventi una “promulgazione”, o un consenso all’applicazione, da parte dell’autorità sovrana.

  1. In questi termini, il razionalismo giuridico si coniuga con la razionalizzazione prodotta dallo Stato, che è, in primo luogo e, a un tempo, sia separazione-delimitazione (tra interno ed esterno, tra potere temporale e spirituale) che centralizzazione.

Il primo aspetto è stato ampiamente considerato, nei suoi aspetti (politici e quel che più interessa, giuridici) da Thomas Hobbes. Questi rifiutava sistematicamente di considerare vincolante qualsiasi norma che non fosse legge di natura o comando del Sovrano, negava di conseguenza che fosse norma applicabile quella non proveniente (anche se tacitamente assentita) dall’unica autorità sovrana e che altre autorità avessero il potere di emanarle (nell’ambito dell’unità politica). Con ciò impediva la possibilità di conflitto tra centri diversi di (potere e) produzione normativa. A un sovrano corrisponde un solo diritto applicabile dallo stesso e dai giudici da questi istituiti. Daltro canto fa parte dello spirito dell’epoca, e in larga misura della modernità, ritenere che “non vi è mai tanta perfezione nelle opere composte di pezzi fatti da artefici diversi quanto in quelle costruite da uno solo”, come scriveva Cartesio[2]. Così la semplificazione andava di pari passo con la razionalizzazione. E con la centralizzazione: la quale non è identificabile solo con la struttura dello Stato francese, ovvero di quello che più coerentemente l’aveva e l’ha perseguita e realizzata, ma è connaturale alla stessa idea di Stato; anche se le forme per la sua realizzazione sono le più diverse, e spesso fanno ampio spazio a poteri decentrati ed autonomie regionali e locali. Tuttavia il “monopolio della violenza legittima” (il che significa anche dell’esecuzione delle pretese)  ed alcuni istituti ed uffici particolarmente significativi come, per esemplificare, le Corti supreme uniche (Cassazione, Consiglio di Stato) e il potere generale di annullamento amministrativo sovente riconosciuto all’organo statale apicale, ne sono la conferma per gli aspetti non solo politici, ma anche giuridici. Ed ancor più le “codificazioni” con le quali, dal ‘700 in poi, si sostituiva al diritto di formazione dottrinale-giurisprudenziale e consuetudinaria, una legislazione unitaria, emanata dall’autorità sovrana, di guisa che dal XIX secolo in poi non poteva generalmente più affermarsi quanto scriveva, sul finire del secolo precedente, il giovane Hegel della Germania pre-napoleonica, che si cambiava il diritto con la frequenza con cui si sostituivano i cavalli della diligenza.

D’altra parte Thomas Hobbes  non è stato solo il più conseguente teorico della sovranità, ma anche quello di un diritto razionale, sia perché chiaro ed applicabile, sia perché giusto (in quanto razionale o almeno ragionevole). In particolare nei capitoli XXVI-XXVIII del “Leviathan” ne elabora alcuni principi, quali la comprensibilità (“perché altrimenti un uomo non saprebbe come obbedire”) la conoscibilità (la legge positiva deve essere pubblicata, secondo la nota tesi di S. Tommaso) la non obbligatorietà delle “leggi positive divine” (cioè quelle oggetto di “rivelazione”) non “recepite” e “comandate” dal sovrano; il principio nulla poena sine lege; tutti caposaldi del diritto dello Stato moderno; meno attenzione Hobbes dava agli aspetti organizzativi e, per così dire, “professionali”, dato che l’esempio della organizzazione giudiziaria inglese non lo induce a preferire il magistrato “giurista” (cioè esperto di diritto) rispetto al giudice non professionale. La coniugazione tra sovranità e razionalismo giuridico è evidente anche in Rousseau: all’onnipotente legislateur corrispondono i caratteri intriseci della loi: conoscibile, durevole, chiaramente applicabile. Così anche nei giacobini la dittatura sovrana della convenzione si associa all’aspirazione alla semplificazione ed alla chiarezza legislativa. Anche se tra la concezione della sovranità e il razionalismo giuridico non c’è un rapporto di implicazione necessaria (ben può esistere un Sovrano che governi in base ai principi del “sultanismo” e della volontà arbitraria come nelle monarchie dispotiche orientali) tuttavia il rapporto, nell’età moderna, è stato costante, sia sotto l’aspetto delle realizzazioni pratiche, che sotto quello teorico. Allo sviluppo dello Stato sovrano moderno corrisponde quello del razionalismo giuridico; i teorici del primo , di solito, sono gli stessi che auspicano il secondo. Questo nesso è verosimilmente rafforzato dall’identità dei poteri che sovranità e razionalizzazione limitano e riducono: i poteri “intermedi”, “indiretti” e “spirituali” progressivamente privati dallo Stato sia della possibilità di regolare e giudicare, sia di eseguire coattivamente le loro pretese. Alla soluzione del problema politico, risolto dall’unità del comando, è corrisposta così quella, giuridica, della razionalità – sia del comando che dell’obbedienza: quest’ultima garantita in primo luogo, dall’unità di quello.

  1. Max Weber ha delineato i postulati del razionalismo giuridico, con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla pandettistica[3]; sempre allo stesso Weber notoriamente dobbiamo le analisi del “tipo” di potere dello Stato moderno, ovvero quello razionale-legale con amministrazione (prevalentemente) burocratica, che è l’altro volto della razionalizzazione politica e giuridica; e l’individuazione del carattere distintivo del diritto borghese (e della funzione giudiziaria), costituito sia dalla “misurabilità” delle norme che dalla previsione di una puntuale applicazione delle stesse da parte del giudice “professionale ed esperto”, bouche de la loi. Tali principi, valevoli sia per un diritto codificato (continentale), sia per un sistema basato sull’autorità del precedente (come quello anglosassone), trovano comunque le proprie condizioni irrinunciabili da un lato in norme giuridiche, come scriveva Thibaut, chiare, inequivocabili e, complessivamente esaurienti, dall’altra nella razionale applicazione di esse da parte di giudici (competenti ed) indipendenti da tutti fuorché dalla legge medesima: ambedue caratteristiche dello Stato (borghese) di diritto, con la sua concezione della legge (che è tale perché ha precise “qualità”); e del giudice “bouche de la loi”. Il razionalismo giuridico trova pertanto le condizioni più favorevoli al proprio sviluppo nella fase “liberaldemocratica” dello Stato, cioè quella che inizia con la rivoluzione francese (anticipata, per certi aspetti che qui interessano, dall’Illuminismo); e trova il proprio “punto d’Archimede” nell’ethos e nelle istituzioni politiche della borghesia, al di fuori delle quali non è (compiutamente) realizzabile: il legame con lo Stato (e la politica) moderna ne è confermato.

Proprio al periodo immediatamente precedente la rivoluzione risalgono le prime codificazioni dell’età moderna, frutto, come cennato, del secolo dei Lumi, e diffusesi nei decenni successivi. Coerentemente con l’esigenza di “stabilità” della legislazione borghese (necessaria al capitalismo) alcuni di quei codici pre e post-rivoluzionari sono tuttora in gran parte vigenti. Le necessità di “sistematizzazione” e di “sicurezza” che stanno alla base delle codificazioni in genere, e di quelle in particolare sono state descritte da Max Weber; ed a questi, come a Tarello, dobbiamo l’osservazione, d’esser spesso state osteggiate dal ceto dei pratici del diritto, dei “causidici” che sovente trovano occasioni di lucro nelle situazioni d’incertezza ed oscurità del medesimo[4].

4 Così come aveva trovato l’ “ambiente” più favorevole nelle istituzioni dello Stato borghese, così il razionalismo giuridico l’ha perso in quello del XX secolo: in modo evidente negli Stati totalitari, in forma meno netta e decisa (“correttiva”) altrove. Quanto alle ideologie totalitarie queste negano proprio quei due caposaldi della legge “qualificata” e della neutralità/indipendenza del Giudice; e più in generale negano (riducono) l’essenza dello Stato (come “idea direttiva”, non come apparato di coazione, chè, anzi, è esasperato). Così che la legge debba essere interpretata in conformità ai principi della rivoluzione o del regime, significa renderne assai incerta l’applicazione; che questa poi possa essere modificata con disposizioni varie (dall’ “ordnung” al “befehl”, alle norme “interpretative” del Praesidium del Soviet supremo) e se ne teorizzi anzi la mutevolezza a seconda dello stadio raggiunto dalla rivoluzione (o della situazione) è l’esatto contrario del roussoviano “imiter les immuables décrets de la divinité”; peraltro una certa, marcata, inclinazione alla weberiana “razionalità materiale” (che spesso si trasforma nel contrario) serve anch’essa a vanificare quella “formale” legando la decisione del giudice a principi di carattere etico, politico o utilitaristico. In quei regimi, poi, parlare di neutralità/indipendenza del giudice era umoristico più che assurdo: basta leggere una delle costituzioni (qualsiasi) degli Stati del “socialismo reale” – veri reperti di archeologia giuridica – per rendersi conto che il sistema giudiziario era di nomina – e sotto controllo – politico.

Ancor di più, è connaturale a comunismo e nazismo – le forme più coerenti di totalitarismo – negare (o limitare) l’idea direttiva dello Stato[5]. Il primo perché è un’ideologia dell’estinzione dello Stato: nella società comunista vagheggiata, lo stato di perfezione impedirà l’insorgere di conflitti (dovuti, notoriamente, al meum e tuum individuale), o se insorti ne consentirà la conciliazione ad un arbitro non “professionale”, dotato di bontà  e rettitudine naturale. In questa utopia, giudici ed avvocati “tecnici” sono altrettanto superflui di polizie e eserciti professionali. Nel nazismo, lo Stato più che forma dell’unità politica, è la macchina asservita al Führer ed al Bewegung, vere componenti attive (cioè politicamente decisive) dell’unità politica a tre “membra” come ricostruita da Carl Schmitt[6]. Il che conferma che, sviluppato (ancorché non esclusivamente) nello Stato moderno, il razionalismo giuridico deperisce con quello.

Sotto un diverso profilo il nesso tra Stato moderno (in particolare liberal-democratico) e razionalismo giuridico è dato dall’identica sottesa concezione della natura umana (e del potere pubblico). Nell’ideologia dello Stato moderno alla concezione “problematica” dell’uomo, come esposta da Machiavelli (che non cade né nel paradosso dell’uomo buono per natura, ma neppure nel pessimismo antropologico protestante), corrisponde, da un canto che un solo potere, quello sovrano, non ha bisogno di avere ragione per far eseguire le proprie decisioni, dall’altro che tutti gli altri, devono “giustificare” le proprie decisioni, sulla base delle norme emanate, o consentite dal primo. E tranne il sovrano, vige per lo Stato liberal-democratico la regola, esposta nel 51° saggio del “Federalista” laddove si legge “se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo sarebbe superfluo. Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere  altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi”.

Dato che per l’appunto i funzionari pubblici non sono degli angeli, ovvero non sono dotati di moralità ed intelligenza superiore a quella degli amministrati, si pone il problema delle giustificazioni e dei controlli, in modo non esclusivo, ma sicuramente assai più acuto che in altre forme  politiche. La motivazione, il richiamo alla norma “superiore” in minor misura lo stesso contraddittorio, l’uso di regole logiche e così via sono le garanzie che oltre a norme “misurabili” le stesse decisioni prese siano “controllabili” e “verificabili” (in particolare rispetto alle norme – alle leggi – applicabili, che impone la rispondenza della decisione al parametro “astratto”). In una forma di potere carismatico o tradizionale, tale esigenza non sussiste o lo è in misura ridotta. Il “profeta” può giustificare la propria decisione sulla rivelazione divina, o su un sogno; il cadì su un detto del Profeta più o meno applicabile al caso; Sancho Panza col buonsenso e la furbizia del contadino; ma il funzionario – amministrativo o giudiziario – dello Stato moderno ha il dovere di farlo in base alle norme, sia attributive di competenza, che di “merito”, razionalmente interpretate e sa fatti comprovati. Gli uni e gli altri molto più controllabili di profezie, sogni, esempi o detti, sia dal destinatario della decisione che dall’autorità di verifica (superiore “gerarchico”).

  1. Il razionalismo giuridico ha pertanto trovato nel secolo passato avversari meno diretti, aperti e determinati delle ideologie totalitarie, ma, a dispetto della minore incidenza, più persistenti e duraturi.

Si può identificarli, in generale, con alcuni presupposti – e conseguenze – delle ideologie del c.d. “Stato sociale” (altrimenti connotato come “Stato totale quantitativo” da Carl Schmitt); in particolare, per l’Italia, quelle ideologie hanno fortemente condizionato la prassi legislativa e l’evoluzione istituzionale della Repubblica. Connotato comune è l’aumento d’importanza della razionalità materiale rispetto a quella “formale” verso la quale quella viene fatta giocare in contrapposizione; e in effetti lo è oggettivamente, come  rilevato acutamente da Max Weber. Secondo il quale legislazione e giurisdizione “sono materialmente irrazionali quando per la decisione assumono rilevanza valutazioni concrete del caso singolo – siano esse di natura etica, affettiva o politica – e non invece norme generali”. Ma anche il diritto razionale può essere tale o formalmente, ossia perché individua le caratteristiche giuridicamente rilevanti “attraverso un’interpretazione logica, dando luogo alla formazione e all’applicazione di concetti giuridici definiti sotto forma di regole rigorosamente astratte” o in senso materiale. Ma questo non fa che accrescere “l’antitesi rispetto alla razionalità materiale. Quest’ultima implica infatti precisamente che la decisione delle questioni giuridiche deve essere influenzata da norme di dignità qualitativa diversa dalle generalizzazioni logiche di interpretazioni astratte – cioè da norme come imperativi etici o regole di opportunità utilitaristica e di altra specie, o massime politiche – che infrangano sia il formalismo della caratteristica esteriore, sia quello dell’astrazione logica”. In realtà nella legislazione italiana contemporanea troviamo sia elementi di irrazionalità materiale (in misura minore ma non trascurabile), sia, come cennato, il tentativo (l’espediente) di contrapporre la razionalità materiale a quella formale.

In un ordinamento giuridico coerente sia questa che quella (come, in certa misura, anche la valutazione concreta del caso singolo, ovvero il “materialmente irrazionale”) trovano una collocazione “armonica”. Così la discrezionalità (soprattutto amministrativa) viene esercitata in base ai presupposti “circoscritti” ed alle finalità determinate formalmente (cioè essenzialmente in base al principio di legalità), nell’ambito consentito dalla legge.

Quando invece si giustifica l’inosservanza o la disapplicazione di una norma legislativa, per le nobili finalità esternate dall’interprete (lottare contro la mafia, la criminalità, la plutocrazia, o più semplicemente provvedere per il bene di tutti, determinato dall’esegeta) si ha l’esempio di come l’una possa contrapporsi all’altra.

Quel certo eudemonismo, quell’aspirazione più intensa a realizzare la giustizia anche sociale sono elementi suscettibili d’introdurre e che spesso introducono dei discordi parametri valutativi nelle decisioni pubbliche. Ma è più interessante notare come, nella Repubblica dei partiti, è stata usata la razionalità materiale contro la formale, e come si è ridotto l’ordito del parametro principale di riferimento – la legge – nelle decisioni pubbliche.

Entrambi in modo spesso surrettizio, indiretto, e comunque non del tutto preponderante, sia per l’appartenenza al mondo occidentale (e all’economia di mercato) che per i vincoli costituzionali.

Quanto alla legge, cioè al principale parametro normativo delle decisioni, sono stati largamente disapplicati quei principi della legge “qualificata” tipici del Rechtstaat. Due ne sono i fenomeni più evidenti: la tendenza alla de-codificazione (ovvero alla sostituzione – talvolta totale, ma assai di più, parziale, di testi organici, come codici e testi unici con una miriade di leggi particolari e/o speciali), per cui gli stessi codici “tradizionali” costituiscono soltanto le stelle di prima grandezza di una nebulosa normativa d’incerta visibilità; e quella alla “amministrativizzazione” della legge.

Tra le distinzioni “classiche” dello Stato borghese c’è quella tra legge e provvedimento, la prima ratio, il secondo actio; la prima destinata a regolare situazioni e rapporti in modo durevole, il secondo a soddisfare necessità e bisogni mutevoli e concreti, spesso contingenti. Coerentemente al carattere “materiale” di Stato amministrativo della Repubblica, e non potendosi incidere sui principi costituzionali di legalità e riserva di legge, si è piegata, in larga misura, la legge a divenire essa stessa, nella funzione e nella sostanza un atto amministrativo preso con deliberazione parlamentare.

Basta leggere, tra le tante similari, una delle ricorrenti “finanziarie” per rendersene conto: l’esigenza che “unifica” una congerie di disposizioni disparate, spesso raggruppate nello stesso articolo, è lo scopo “gestionale” di soluzione di uno o più problemi contingenti che certe misure si propongono. A ciò si aggiunge la pletora legislativa, in larga parte determinata sia dalla de-codificazione che dall’amministrativizzazione, ma anche dalla settorializzazione e corporativizzazione (norme fatte per esigenze di piccoli gruppi, pubblici e/o privati); e la vieppiù scadente tecnica legislativa. Di guisa che a trovare nella Gazzetta ufficiale una “legge” che abbia le caratteristiche dei teorici dello Stato borghese (generale, astratta, destinata a durare, chiara, non ridondante ecc. ecc.) vi sono le stesse probabilità che incontrare una vergine in un bordello. In una situazione del genere, il problema più urgente ed essenziale che si pone a chi la deve applicare, non è tanto l’interpretazione, ma la ricerca e la “scoperta” della norma applicabile al caso: con l’inevitabile potenziamento sia della “discrezionalità interpretativa”, cioè della possibilità di scelta, per l’interprete, di due o più soluzioni plausibili, che dell’incremento degli errori.

Quanto alla “razionalità materiale”, nei testi normativi non risulta un deciso incremento di quelle norme, volutamente – e, in parte, anche necessariamente – indeterminate, che consentono all’interprete d’introdurre parametri etici o di opportunità nella decisione (il “comune senso del pudore”, la “diligenza del buon padre di famiglia” e così via); e questo potrebbe consolare, se il diritto fosse un insieme di norme. Ma questo è, in primo luogo, come riteneva Santi Romano, istituzione, cioè la varia e complessa organizzazione dello Stato, con i suoi rapporti di sovra – e sotto-ordinazione, i collegamenti di potere e autorità, la ripartizione di competenze. Se da un lato il clima politico e sociale incentiva o sollecita l’introduzione di regole etiche o di opportunità, anche attraverso il “pluralismo dei valori”; e dall’altro l’istituzione non reprime o, addirittura, facilita certi comportamenti, è naturale che, queste si diffondano nell’applicazione del diritto. Se l’oscurità e la proliferazione delle norme aumentano le incertezze interpretative, queste vengono applicate secondo il filtro dei giudizi di “valore” fatti propri dall’interprete. Il vincolo del funzionario alla legge viene così doppiamente attenuato. Anche perché il “pluralismo dei valori” con cui si delinea un aspetto – importante – del liberalismo, viene qui, trasposto, in modo nient’affatto liberale, dal privato al pubblico.

Se nel “privato” – nella società civile – è del tutto ammissibile la coesistenza di realtà, credenze e “sistemi di valori” diversi, come per esempio, le confessioni religiose – nel “pubblico” si richiede l’osservanza di un “sistema di valori” unitario, che consente solo modesti e parziali aggiustamenti, autorizzati legalmente. Se un cittadino italiano può legittimamente essere musulmano o buddista, un funzionario dello stato civile, pur musulmano o buddista, non può celebrare matrimoni poligamici o “a termine”.

Pluralità di credenze ed opinioni “private” non si trasforma nella pluralità di diritti, doveri e “garanzie istituzionali” tutelati (o imposti) dallo Stato. In realtà un simile “pluralismo” o “politeismo” di valori, oltre ad essere dissolutorio dell’unità e dell’omogeneità, connotati peculiari del pubblico, appare come la giustificazione di un assetto policratico di poteri, organi ed uffici non (o poco) coordinati e autoreferenziali.

Il tutto sfocia poi nel soggettivismo interpretativo, che è proprio ciò che il razionalismo giuridico è vocato ad evitare. Sulle forme in cui il soggettivismo si esercita ed articola, è importante leggere le acute pagine dedicate da Hegel alla fenomenologia della soggettività elevante se stessa ad assoluto “der sich als das Absolute behauptenden Subjektität”, con riferimento alla morale, ma utili anche nel diritto[7]: specie alle “figure” del “probabilismo”, della “buona intenzione”, dell’ “etica della convinzione” e dell’ “ironia romantica”, si possono ricondurre le giustificazioni esternate di una prassi interpretativa che finisce col negare oggettività al diritto e controllabilità alle decisioni, per cui costituisce un catalogo del soggettivismo burocratico: ma, purtroppo, al contrario di quello, più celebre, di Laparello, che si riferisce a un’attività forse non morale, ma piacevole, questo inquadra comportamenti immorali e  – per lo più – dannosi per tutti, fuorché, s’intende, per chi li pone in essere.

Che poi il tutto abbia effetti dissolutori verso lo Stato (di diritto e non) e incrementativi del potere – un potere non, o poco, funzionale all’ordine, in particolare a quello di una società moderna – è altrettanto evidente: lo notava già Hegel, contrapponendo la soggettività “particolare” alla soggettività del potere sovrano “identisch mit dem substantiellen Willen”, proprio perciò garante e conservatrice dell’unità politica, al contrario dell’altra, che la decompone[8]. Quanto al potere, quando chi lo esercita viene dispensato dal’onere di aver ragione – o quantomeno di doverla argomentare logicamente – e dalle correlative responsabilità, è moltiplicato per il numero di coloro che lo esercitano, anche se attenentisi alle loro (più o meno) limitate competenze[9]: invece di avere un Grande Fratello, ne abbiamo qualche centinaia di migliaia, spesso dannosi od inutili, e talvolta avidi: e nel cambio tra l’uno e i molti non c’è da guadagnare.

P.S.. Qualche mese fa suscitò commenti ironici, da parte degli (allora) futuri        oppositori, l’affermazione dell’on. Berlusconi che il suo futuro governo avrebbe operato come “Napoleone e Giustiniano” togliendo dalle leggi “il troppo e il vano”, e ci sia permesso di aggiungere, l’oscuro e l’equivoco. L’immagine più usata dagli oppositori (attuali) fu quella del Cavaliere con lo scolapasta in testa. In effetti per esponenti di partiti che hanno nel DNA l’estraneità ai principi dello Stato democratico-liberale e la diffidenza (a dir poco) verso il razionalismo giuridico, la pretesa di voler fare l’inverso di quanto da loro praticato può apparire incomprensibile e folle, anche perché vi sono tanti interessi (di partiti e di corporazioni) alla conservazione dello statu quo, e quindi l’impresa non sarà facile. Per gente abituata a pesare il potere col bilancino e ad adeguarsi di conseguenza è un argomento decisivo. Ma, a voler infondere coraggio al centro-destra a proseguire in quella (difficile quanto ragionevole) via occorre ricordare il giudizio di Max Weber “che tutte le innovazioni politiche favoriscono le codificazioni”.

Nella misura in cui il governo è innovatore, non può sottrarsi a confermare questa tendenza, a sostegno della quale sta che  la mera enunciazione di essa ha intimorito le forze della conservazione. C’è da sperare, pertanto, che le future azioni confermino la constatazione di Weber.

T.K.

[1] A tale proposito basti ricordare Calvino, il quale definisce così i magistrati – cioè i governanti – “En somme,  s’ils se souvienent qu’ils sont vicaires de Dieu, ils ont à s’emploiyer de toute leur étude, et mettre tout leur soin de répresenter aux hommes en tous leurs faits, comme une image de la providence, sauvegarde, bonté, douceur ed justice de Dieu ”; e Bossuet, che a sua volta, considera il monarca “ rappresentante” di Dio (v. ne “Politique tireé de l’écriture sante” e nel “Sermon sur les devoirs des rois”).

È inutile aggiungere che mentre il primo negava al Papa di rappresentare alcunché, il secondo negava allo stesso di poter intervenire nelle questioni temporali (v. la “Cleri gallicani de ecclesiastica potestate declaratio” secondo l’opinione più seguita, redatta da Bossuet).

 

 

[2] E poco dopo “se Sparta è stata un tempo così fiorente, ciò si deve, non alla bontà delle sue leggi particolari… ma al fatto che dettate da uno solo, tendevano tutte a uno stesso fine”. Discours de la méthode, p. II.

[3] V. Max Weber Wirtshaft und gesellshaft, trad. it., vol. III, Milano 1980, p. 17.

[4] v. G. Tarello Le ideologie della codificazione nel secolo XVIII, III edizione p. 25-26, Genova.

[5] Su questo concetto v. M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social) trad. it., Milano 1967, pp. 14-15.

[6] v. Carl Schmitt, Staat, Bewegung, Volk, trad. it. nei Principi politici del naziolsocialismo, Firenze 1936, pp. 186-190.

[7] Lineamenti di filosofia del diritto, prgf. 140.

[8] Op. cit., prgf. 320.

[9] Evitiamo, per motivi di spazio, di approfondire, nel contesto contemporaneo, l’opinione di Weber sul contributo a ciò delle “ideologie interne di ceto dei pratici del diritto” e degli interessi intellettualistici, che incidono, ovviamente sulla distribuzione del potere e sull’ “onore sociale” (v. M. Weber, op. cit. p. 192 ss.)

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COSTITUZIONE E CANZONETTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE E CANZONETTE

A vedere l’omelia di Benigni a Sanremo sulla “Costituzione più bella del mondo” (di cui è l’interprete certificato), mi è venuto in mente quello che scriveva della sovranità del popolo Massimo Severo Giannini – e può essere adattato alla Costituzione nel frangente – che il popolo sovrano esiste solo nelle canzonette. Non posso dire con certezza quale dei molti significati possibili tale espressione volesse privilegiare.

Se quello dei realisti politici, che a governare è sempre la classe dirigente e non le norme né le “masse”; ovvero che il giurista pensasse alla tesi di Lelio Basso (e non solo) che la sovranità (del popolo) italiano fosse andata persa con la sconfitta in guerra e la subordinazione al vincitore più potente; ovvero all’incapacità del popolo di dirigere una macchina così complessa (e altro).

Tuttavia resta il fatto che il pistolotto sul palco dell’Ariston ha collocato la Costituzione nel posto  dall’ironia di Giannini assegnato alla sovranità: nelle (o almeno tra) le canzonette. E anche il ritornello che la Costituzione è la più bella del mondo esprime una (profonda) verità, da collegare per l’appunto (anche) alle canzonette.

Attribuire il predicato della bellezza è un giudizio estetico: si può legittimamente dire che è bella la Vittoria di Samotracia, ma è più bella un’auto di Formula 1 (come sosteneva Marinetti), che lo è la Carmen o la Nona Sinfonia; può piacere il Giudizio Universale di Michelangelo e l’Entierro del Senor de Orgas di El Greco. Tuttavia nessuno attribuirebbe, al contrario, quale (primo) giudizio positivo a un sant’uomo che è bello; o che S. Francesco e S. Martino donando beni ai poveri avessero fatto una bella azione anziché buona. Ovvero che era bello il Piano Marshall e brutte le riparazioni del Trattato di Versailles. Per il diritto che è bello il corpus juris e brutto l’Editto di Rotari. A seconda delle attività umane vi sono delle qualificazioni – positive o negative – appropriate alla natura delle stesse. Per le costituzioni da Polibio in poi, passando per de Bonald il giudizio positivo è dato (prevalentemente) dalla durata e dall’aver contribuito all’indipendenza e potenza dell’unità politica. Ci sono anche costituzioni belle; ma così belle che non furono mai applicate come la costituzione giacobina francese o quella polacca del 1791 (tra l’altro la prima costituzione europea scritta – che durò pochi mesi). Onde dare un attributo positivo (e improprio) di bellezza non le distingue (e non le santifica).

Tuttavia nel chiamare bella la costituzione vigente c’è qualcosa di vero e di necessitato. Vero perché se non la più bella del mondo, quella italiana è un compromesso, tuttora appetibile, almeno sul piano dei principi tra diritti umani, sociali ed economici, cui hanno contribuito le più influenti culture politiche del XX secolo; dell’altro, dati i risultati degli ultimi trent’anni, non resta che riferirsi al testo piuttosto che alla sua “applicazione”, in particolare a quella più recente. E ai partiti che si sono più “intestati” la difesa della Costituzione, come il PD, riportando un consenso deludente che dimostra, semmai, come l’entusiasmo verso la stessa è variegato, ma ormai minoritario.

C’è un’altra ragione perché il giudizio sulla bellezza della Costituzione abbia comunque un significato. Le opere d’arte definite belle sono un frutto dell’immaginazione umana, del poeta, del musicista o del pittore. La Divina Commedia è una straordinaria costruzione dell’immaginazione e non un atlante del pianeta e dell’universo. Come gli orologi di Dalì non sono un prodotto della tecnica o la Venere di Botticelli un disegno di anatomia. O che Astolfo sia stato sulla Luna a cercare il cervello di Orlando. Tutti tali artisti hanno immaginato mondi, uomini, cose (ed imprese). La fantasia poetica e la bellezza hanno compensato l’irrealtà di queste.

Ma in politica vale come principio generale quello di Machiavelli, da me spesso citato, che è “più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa”. Ma proprio la “verità effettuale”, così modesta costringe ad illudersi, scambiando l’immaginario (bello) per il reale “brutto”. Come d’altra parte, abitudine consolidata negli ultimi decenni.

Teodoro Klitsche de la Grange

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