Guerra asimmetrica, di Vladislav B. Sotirovic

Guerra asimmetrica

Almeno dal punto di vista accademico, la guerra è una condizione di conflitto armato tra almeno due parti (ma, di fatto, Stati). Storicamente esistono diversi tipi di guerra: guerra convenzionale, guerra civile, guerra lampo (blitzkrieg in tedesco), guerra totale, guerra egemonica, guerra di liberazione, guerra al terrorismo, ecc. Tuttavia, in base alla tecnica di guerra utilizzata, esiste, ad esempio, la piccola guerra (guerriglia in spagnolo) o in base al (contro)equilibrio degli schieramenti bellici, esiste la guerra asimmetrica.

La guerra asimmetrica esiste quando due schieramenti di forze combattenti (due Stati, due blocchi, uno Stato contro un blocco militare, ecc.) sono molto o addirittura estremamente diversi per quanto riguarda le loro capacità militari e di altro tipo di combattimento. Pertanto, il confronto tra questi due diversi schieramenti si basa sull’abilità/capacità di uno dei due belligeranti di costringere l’altro a combattere alle proprie condizioni.

Un’altra caratteristica della guerra asimmetrica è che le strategie che la parte più debole ha costantemente adottato contro la parte più forte (il nemico) spesso coinvolgono la base politica interna del nemico tanto quanto le sue capacità militari avanzate. Tuttavia, in sostanza, di solito tali strategie prevedono di infliggere dolore nel tempo senza subire in cambio ritorsioni insopportabili.

In pratica, un esempio molto illustrativo di guerra asimmetrica è stato quello del 20 marzo 2003, quando le forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti hanno invaso (aggredito) l’Iraq di Saddam Hussein per individuare e disarmare le presunte (e non esistenti) armi di distruzione di massa irachene (WMD). Le forze della coalizione condussero una campagna militare molto rapida e di grande successo con l’occupazione della capitale irachena Baghdad. Di conseguenza, le forze militari irachene sono crollate e si sono infine arrese agli occupanti. Il Presidente degli Stati Uniti Bush Junior dichiarò la fine ufficiale delle operazioni di combattimento in Iraq il 2 maggio 2003. Da un lato, storicamente parlando, le perdite durante la parte convenzionale della guerra sono state basse per i principali conflitti militari moderni e contemporanei. D’altro canto, però, i combattimenti si sono presto evoluti in un’insurrezione in cui la combinazione di guerriglia e attacchi terroristici contro le forze della coalizione occidentale e i civili iracheni è diventata la norma quotidiana. Pertanto, nella primavera del 2007, la coalizione aveva subito circa 3.500 uomini e circa 24.000 feriti. Alcune fonti indipendenti stimano che il totale dei morti legati alla guerra in Iraq sia di 650.000 (il minimo è 60.000). La guerra in Iraq del 2003 è un esempio di come la guerra asimmetrica possa trasformarsi in guerriglia con conseguenze imprevedibili per la parte originariamente vincitrice. Lo stesso è accaduto con la guerra in Afghanistan del 2001, iniziata come guerra asimmetrica ma terminata vent’anni dopo con la vittoria della guerriglia talebana sulla coalizione occidentale.

Ciononostante, la guerra in Iraq del 2003 ha illustrato diversi temi che si sono imposti nelle discussioni sullo sviluppo futuro della guerra, compresa la questione della guerra asimmetrica. In questo caso particolare, una delle caratteristiche principali della guerra asimmetrica è stato il fatto che la rapida vittoria militare della coalizione guidata dagli Stati Uniti ha visto le forze armate irachene sopraffatte dalla superiorità tecnologica delle armi avanzate e dei sistemi informativi dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti. Ciò suggeriva semplicemente che la rivoluzione militare era in arrivo (RMA – revolution in military affairs).

Un’altra caratteristica della guerra asimmetrica in Iraq nel 2003 è stata l’importanza focale della dottrina militare (operativa) impiegata dagli Stati Uniti. In altre parole, il successo militare delle forze della coalizione occidentale non è stato solo il risultato di una pura supremazia tecnologica, ma anche di una superiore dottrina operativa. Una vittoria molto rapida e relativamente incruenta per la coalizione guidata dagli Stati Uniti ha lanciato l’idea che nell’ambiente strategico post-Guerra Fredda 1.0, c’erano poche inibizioni all’uso della forza da parte dell’esercito statunitense, che a quel tempo era ancora una iper-potenza nella politica globale e nelle relazioni internazionali. Pertanto, rispetto ai tempi della Guerra Fredda 1.0, non c’era la minaccia che un conflitto regionale o una guerra potessero degenerare in una guerra nucleare tra due superpotenze. Inoltre, Washington stava curando il trauma del Vietnam attraverso guerre asimmetriche contro la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001 e l’Iraq nel 1991/2003.

Si può dire che nel caso della guerra asimmetrica contro l’Iraq nel 2003, un punto focale è stato il dominio statunitense della guerra dell’informazione, sia in senso militare (utilizzo di sistemi satellitari per la comunicazione, il puntamento delle armi, la ricognizione, ecc. Di conseguenza, Washington è riuscita, almeno in Occidente, a produrre una comprensione della guerra come pro-democratica e preventiva (contro l’uso di armi di distruzione di massa da parte delle forze irachene, in realtà contro Israele).

Tuttavia, il punto è che questo conflitto non si è concluso con la resa delle forze regolari (esercito) dell’Iraq. In realtà, ha confermato alcune argomentazioni di coloro che sostenevano l’idea di una guerra “postmoderna” (o di “nuove” guerre) al di fuori del tipo di guerre regolari (standard) (esercito contro esercito). D’altra parte, la capacità di operare utilizzando complesse reti militari informali ha permesso ai ribelli iracheni, dopo la fase regolare della guerra del 2003, di condurre un’efficace guerra asimmetrica, indipendentemente dalla schiacciante superiorità della tecnologia militare occidentale. Gli insorti, inoltre, sono stati in grado di utilizzare i media globali per presentare la loro guerra come una guerra di liberazione contro il neo-imperialismo occidentale. Tuttavia, le tecniche utilizzate dai ribelli sono state brutali (terrorismo), spietate e in molti casi mirate contro la popolazione civile, in una campagna sostenuta da strutture esterne (sia governative che non governative) e da finanziamenti. È sostenuta da una campagna apertamente identitaria e riflette allo stesso tempo le caratteristiche del concetto di guerre “postmoderne” o “nuove”.

Dr. Vladislav B. Sotirovic
Ex professore universitario
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic2014@gmail.com
©Vladislav B. Sotirovic 2024

Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

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Punti fondamentali del conflitto sionista israelo-arabo-palestinese, di Vladislav B. Sotirović

Punti fondamentali del conflitto sionista israelo-arabo-palestinese

Di che cosa si tratta?

Il conflitto sionista israelo-arabo-palestinese è oggi uno dei problemi di sicurezza globale più importanti da affrontare, se non il più importante. Tuttavia, questo conflitto non è storicamente molto antico: è una questione piuttosto moderna, che risale, infatti, al Primo Congresso Sionista del 1897. La domanda centrale è: che cos’è il conflitto? In altre parole: Per cosa combattono i due diversi gruppi?

A prima vista, si può capire che dietro le ragioni del conflitto c’è una confessione, poiché questi due popoli sono di confessioni diverse: gli ebrei sono prevalentemente giudaici, mentre la confessione palestinese predominante è l’Islam, ma comprende anche cristiani e drusi. Tuttavia, le ovvie differenze religiose non sono la causa fondamentale della lotta. In realtà, il conflitto è iniziato un secolo fa e continua ad essere una lotta per la terra.

La Palestina, la terra rivendicata da entrambe le parti, era conosciuta con questo termine nelle relazioni internazionali (IR) dal 1918 al 1948. Inoltre, lo stesso termine è stato applicato dall’Islam, dal Cristianesimo e dall’Ebraismo per designare la Terra Santa. Tuttavia, a seguito delle guerre dal 1948 al 1967 tra gli arabi e Israele, questa terra (circa 10.000 miglia quadrate) è diventata oggi divisa in tre parti: 1) Israele; 2) la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

Tuttavia, entrambi i gruppi hanno un background diverso nel rivendicare questa terra per sé:

1. Le rivendicazioni ebraiche sioniste sulla Palestina si fondano sulla promessa biblica ad Abramo e a tutti i suoi discendenti. Le basi storiche di tali rivendicazioni si fondano sul fatto che sul territorio della Palestina sono stati stabiliti gli antichi regni degli ebrei: Israele e Giudea. Dal punto di vista politico, questa rivendicazione storica è sostenuta dalla necessità degli ebrei di avere uno Stato-nazione per liberarsi dall’antisemitismo europeo, soprattutto dopo l’olocausto della Seconda guerra mondiale.

2. Gli arabi palestinesi rivendicano la stessa terra sulla base del fatto che vivono in Palestina da centinaia di anni e che erano la maggioranza demografica fino al 1948. Inoltre, essi rifiutano la nozione confessionale-ideologica degli ebrei sionisti, secondo cui i regni ebraici basati sull’Antico Testamento possono costituire un fondamento razionale e morale/scientifico da utilizzare per una rivendicazione moderna accettabile, soprattutto tenendo conto del fatto che gli ebrei lasciarono la Palestina dopo l’occupazione dell’Impero romano nel I secolo d.C. (per 2000 anni!). Tuttavia, gli arabi palestinesi utilizzano anche gli argomenti della Bibbia e, quindi, sostengono che il figlio di Abramo, Ismaele, è il capostipite degli arabi e che Dio ha promesso la Terra Santa a tutti i figli di Abramo, il che significa semplicemente anche agli arabi (gli arabi sono semiti come gli ebrei). Ma la questione cruciale dal punto di vista degli arabi palestinesi è che essi non possono dimenticare la Palestina come una questione di compensazione per l’olocausto contro gli ebrei commesso in Europa (al quale gli arabi palestinesi non hanno partecipato affatto).

I palestinesi e la diaspora

Il termine palestinese, dal punto di vista storico-politico, si riferisce oggi a quei popoli della Palestina le cui radici storiche sono riconducibili a questa terra, così come definita dai confini del Mandato britannico, e cioè agli arabi di confessione cristiana, musulmana o drusa. Si stima che oggi circa 5,6 milioni di palestinesi vivano all’interno dei confini della Palestina del Mandato Britannico, oggi divisa in tre parti: 1) lo Stato di Israele sionista; 2) il territorio della Cisgiordania; 3) la Striscia di Gaza. Gli ultimi due sono stati occupati da Israele durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Si afferma inoltre che oggi circa 1,5 milioni di palestinesi vivono come cittadini di Israele. Pertanto, i palestinesi costituiscono circa il 20% della popolazione israeliana. Inoltre, circa 2,6 milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania, di cui 200.000 a Gerusalemme Est, e circa 1,6 milioni nella Striscia di Gaza (almeno prima dell’attuale genocidio israeliano sui gazani, iniziato nell’ottobre 2023). Tuttavia, sono circa 5,6 milioni i palestinesi che vivono nella diaspora, al di fuori della Palestina, principalmente in Libano, Siria e Giordania.

Tra tutti i gruppi della diaspora palestinese, il più numeroso (circa 2,7 milioni) vive in Giordania (senza considerare il territorio della Cisgiordania che legalmente apparteneva al Regno di Giordania). Molti di loro vivono ancora nei campi profughi istituiti nel 1949, mentre altri sono diventati abitanti delle città. Alcuni rifugiati palestinesi si sono rifugiati in Arabia Saudita o in altri Stati arabi del Golfo, mentre altri si sono trasferiti in altri Paesi del Medio Oriente o nel resto del mondo. Tra tutti gli Stati arabi, solo la Giordania concesse la cittadinanza ai palestinesi che vivevano lì. Questo è diventato, tuttavia, il motivo formale per alcuni ebrei sionisti di sostenere che la Giordania è, di fatto, già uno Stato nazionale dei palestinesi e, quindi, non c’è alcun bisogno di creare uno Stato indipendente di Palestina. D’altra parte, però, molti palestinesi sostengono che gli Stati Uniti sono, fondamentalmente, lo Stato nazionale degli ebrei e, di conseguenza, Israele in Medio Oriente non ha bisogno di esistere (come secondo Stato nazionale degli ebrei).

Tuttavia, la situazione dei rifugiati palestinesi nel Sud del Libano è particolarmente disastrosa, poiché molti libanesi li incolpano della guerra civile che ha rovinato il Paese nel 1975-1991 e, pertanto, chiedono che tutti i palestinesi libanesi siano reinsediati altrove come condizione preliminare per ristabilire la pace nel Paese. Soprattutto i cristiani libanesi sono molto ansiosi di liberare il Paese dai palestinesi musulmani, poiché temono che i palestinesi stiano minando l’equilibrio religioso del Libano.

Palestinesi israeliani

Quando Israele fu proclamato Stato indipendente nel maggio del 1948, all’interno dei suoi confini c’erano solo 150.000 arabi palestinesi. Da un lato, a tutti loro fu concessa la cittadinanza israeliana, cioè automaticamente e con diritto di voto. Tuttavia, dall’altro lato, essi sono stati de facto cittadini di seconda classe (cioè la minoranza etnica e confessionale) proprio per il motivo che Israele è stato ufficialmente definito come Stato ebraico e Stato del popolo ebraico. Gli arabi palestinesi non sono gli ebrei (anche se entrambi sono semiti). La maggior parte dei palestinesi israeliani è stata sottoposta, prima della guerra arabo-israeliana del 1967, all’autorità militare che ha limitato la loro libertà di movimento e altri diritti civili come il lavoro, la libertà di parola, l’associazione, ecc. I palestinesi non potevano essere membri a pieno titolo della federazione sindacale israeliana (l’Histadrut) fino al 1965. Tuttavia, il problema principale era che lo Stato di Israele confiscò circa il 40% della terra palestinese per utilizzarla in progetti di sviluppo. Tuttavia, dalla maggior parte dei progetti di sviluppo dello Stato hanno tratto vantaggio soprattutto gli ebrei israeliani, ma non i palestinesi arabi israeliani.

Una delle rivendicazioni fondamentali degli arabi palestinesi in Israele è che tutte le autorità israeliane li discriminano sistematicamente, assegnando pochissime risorse per l’assistenza sanitaria, l’istruzione, i lavori pubblici, lo sviluppo economico o le risorse per le autorità governative municipali alle terre popolate da arabi. Un’altra affermazione generale è che i palestinesi israeliani sono sistematicamente discriminati anche per il diritto di preservare e sviluppare la loro identità culturale, nazionale e politica. Di fatto, fino al 1967 i palestinesi israeliani sono stati totalmente isolati dal mondo arabo, ma anche molto considerati dagli altri arabi come traditori che hanno lasciato per vivere nell’oppressivo Stato sionista anti-arabo di Israele. Tuttavia, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, la maggioranza dei palestinesi israeliani è diventata più sicura di sé nella propria identità nazionale arabo-palestinese, soprattutto negli ultimi 20 anni, quando le autorità israeliane sioniste hanno proibito di commemorare la Nakba, ovvero l’espulsione o la fuga di almeno 500.000 arabi palestinesi nel 1948-1949 durante la prima guerra arabo-israeliana.

Dr. Vladislav B. Sotirović
Ex professore universitario
Vilnius, Lituania
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic1967@gmail.com
© Vladislav B. Sotirović 2024
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SE QUESTO È UN POPOLO, di Marco Giuliani

SE QUESTO È UN POPOLO

Ennesima strage di civili a Gaza per mano di Israele. Il silenzio e la complicità delle grandi potenze

Noi speranzosi, ci siamo spesso domandati come potrà – semmai dovesse avvenire – evolvere in meglio, generando pace, il processo geopolitico mediorientale, e nella fattispecie le tormentate relazioni israelo-palestinesi. In questa prima parte di agosto 2022, però, è ancora un dovere riflettere (amaramente) sul sopracitato argomento storico-politico perché si è appena perpetrata un’ulteriore strage di civili a seguito dell’ennesima “operazione di sicurezza” degli israeliani. Sul campo di Gaza, tra sabato 6 e domenica 7 agosto sono caduti molti bambini e molte donne innocenti, e l’indifferenza dei grandi capi di stato, al contrario di ciò che è successo per gli ucraini, provoca indignazione. Il sentimento di pietas a giorni alterni delle nazioni cosiddette “democratico-liberali” e più sviluppate è ormai arcinoto e diviene tanto più disgustoso quanto più è premeditato.

Allora, facciamo un paio di esempi non troppo a caso: Usa e Italia, che per ovvie ragioni ci interessano di più essendo oggi due governi fratelli e simbiotici anche in fatto di riarmo. La Casa Bianca è l’antico alleato di Israele e da questa variabile indipendente se ne generano altre, altrettanto importanti e decisive. Suddetta condizione garantisce una protezione non solo politica e militare a Tel Aviv, ma genera a sua volta un concatenarsi di elementi per cui l’Occidente Atlantico si senta vincolato a comportarsi di conseguenza, senza intromettersi né esprimersi, neanche dal punto di vista formale. Oppure, quando lo fa, come nel caso della Farnesina dopo gli ultimi attacchi aerei sulla Striscia, sembra mentire al mondo intero e a sé stesso. I morti palestinesi passano in secondo piano, mentre al contempo entra in circolo un meccanismo secondo cui la vittima si trasforma in aggressore, e al contrario, chi invade diviene vittima. La frase fatta, ritrita, pubblicata sui profili social del Ministero degli Esteri italiano, è la solita «condanna per il lancio di razzi verso Israele». Okay, e le oltre 40 vittime palestinesi (e zero israeliane) che significato hanno? Sono state assassinate per scherzo? Il signor Di Maio, mentre si prepara a traslocare, ci spieghi quale tipo di sudditanza malata scaturisce, visto l’artificioso rovesciamento dei ruoli a mezzo stampa, pur di non contravvenire all’amicizia interessata con lo stato ebraico. Che tipo di messaggio invia a quella parte di comunità che non è bene informata sulla annosa questione mediorientale e sul suo sviluppo in divenire? Lo sappiamo, è banale e scontato ripeterlo. Il rapporto del do ut des è sempre attuale, ma in alcune circostanze suona come un lubrico servilismo verso il potente di turno.

Povera Palestina, ridotta a una prigione a cielo aperto che non permette di fuggire a chi tenta di farlo come rifugiato di guerra. Già, neanche questo è consentito a quei cittadini sotto le bombe che attendono di far parte di uno Stato legittimo da circa un secolo. Se questo è un popolo; se lo è, parafrasiamo al plurale il libro di Levi, che tanti strumentalizzano. E allora i potenti della terra intervengano, parlino e condannino, o perlomeno smettano di trafficare in armi ipertecnologiche con Israele, che oramai è tra i paesi più all’avanguardia dal punto di vista militare. Se questo è un popolo, continuare a parlare di guerra è ipocrita, perché Tel Aviv da anni gioca al gatto col topo, ripetendo sempre più frequentemente migliaia di operazioni definite “preventive”, le quali uccidono migliaia di poveracci che con il terrorismo islamico non c’entrano nulla. Se questo è un popolo, tutti i piagnoni che dal divano di casa “abbaiano” – cit. papa Francesco – all’invasione russa in Ucraina (scordandosi del massacro di migliaia di russofoni da parte di Kiev) e si scandalizzano della propaganda del Cremlino (come se dall’altra parte non ci fosse) urlino anche adesso, se hanno un minimo di credibilità; si dissocino dal bagno di sangue che avviene periodicamente presso la Striscia di Gaza. Anzi, facciano prima: siccome è un triste teatrino che oggi va di moda, chiedano ai rispettivi governanti di spedire armi al popolo aggredito in modo che possa difendersi. No, non lo fanno, perché i bambini palestinesi sembrano appartenere a un mondo lontano e forse perché non hanno gli occhi chiari come tanti ucraini. Forse perché sono musulmani? O forse perché POCHI fanno credere a MOLTI che Tel Aviv sia l’unico modello di democrazia del quadrante mediorientale (pensate se non lo fosse…).

Se questo è un popolo, infine, gli venga permesso di accedere agli ospedali quando ha dei feriti da curare, e non vengano sbarrati gli accessi alle autorità sanitarie, come denunciato poche ore fa da Medici senza Frontiere. Sempre se questo è un popolo.

 

MG

 

 

BIBLIOGRAFIA

Televideo Rai, pagina 150 del 07/08/2022 –

Sky TG24, edizioni del 6 agosto 2022 –

 

SITOGRAFIA

Profilo Twitter del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, consultato il 07/08/2022 –

Profilo Facebook di Medici senza Frontiere, pagina consultata l’8/08/2022 –

www.adnkronos.com, pagina del 7 agosto 2022 consultata il 9 agosto 2022 –

www.centrostudiamericani.org, pagina del 9 agosto 2022, consultata il 9 agosto 2022 –

 

 

 

IO SONO ISRAELE, a cura di Luigi Longo

IO SONO ISRAELE

a cura di Luigi Longo

 

Sul blog di Diego Siragusa (http://diegosiragusa.blogspot.com) è stato pubblicato, il 17/5/2021, uno scritto di Norman Finkelstein (storico e politologo statunitense) con il titolo Io sono Israele. Tutto mi è permesso (con traduzione di Grazia Parolari). Lo ripropongo all’attenzione, con l’aggiunta di un mio inserimento, perché è un interessante sintesi storica di Israele, anche se non condivido l’affermazione in cui si sostiene che Israele ha il potere di controllare la politica americana. No, massima chiarezza: Israele è uno strumento, così come lo è per altri versi la Turchia, delle strategie degli agenti strategici statunitensi nel Medio Oriente, per contrastare il blocco imperniato sulle potenze mondiali in ascesa (Cina e Russia) che condividono un dominio mondiale multicentrico in contrasto con quello monocentrico degli Stati Uniti.

Lo scritto di Norman Finkelstein è apparso in seguito agli scontri tra israeliani e palestinesi (rivolta arabo-palestinese con ruolo particolare di Hamas) di questi giorni conclusosi con un cessate il fuoco dopo 11 giorni di massacri da parte degli israeliani e le ipocrite dichiarazioni di Joe Biden (USA), Antonio Guterres (ONU), di Ursula vor der Leyen (UE) e di Hamas (Palestina). Una buona sintesi delle ipocrisie può essere quella del segretario di Stato statunitense Antony Blinken che si recherà in Medio Oriente nei prossimi giorni e incontrerà le sue controparti “israeliane, palestinesi e regionali” per “lavorare insieme per costruire un futuro migliore per israeliani e palestinesi” (redazione Ansa del 21 maggio 2021).

Avanzerò una breve riflessione che riguarda l’aspetto esterno alla questione israeliano-palestinese (tralasciando l’aspetto interno che ripropongo con un mio scritto del 2014), cioè il ruolo che gli israeliani e i palestinesi hanno all’interno dei due blocchi, in via di configurazione sempre più chiara in questa fase multicentrica, quello euroatlantico imperniato sugli USA e quello euroasiatico imperniato sulla non facile costruzione del coordinamento tra la Cina e la Russia (dottrina Evgenij Primakov, decenni di collaborazione, creazioni di accordi, eccetera), coordinamento che Zbigniew Brzezinski <<a suo tempo aveva fatto risuonare un campanello di allarme prevedendo la creazione o <<l’emergere di una coalizione ostile [con base in Eurasia; N.d.A.] che potrebbe potenzialmente puntare a sfidare l’egemonia americana>>. La natura puramente offensiva della strategia statunitense risulta estremamente chiara da una lettura della terminologia utilizzata da Brzezinski; egli ha definito questo potenziale blocco euroasiatico come una forma di alleanza o controalleanza antiegemonica le cui fondamenta sarebbero in una <<coalizione sino-russa-iraniana>> con i cinesi a fare da baricentro>> (Mahdi Darius Nazemroaya, La globalizzazione della NATO. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate, Arianna editrice, Bologna, 2014, pag.260).

Gli scontri israeliano-palestinesi di questi giorni sono prova e verifica di scenari di conflitti prossimi futuri nell’area del Medio Oriente, tra i due blocchi succitati, tramite le potenze regionali di Israele (coordinata dagli USA, sia direttamente sia indirettamente via NATO) e dell’Iran (supportata dalla Cina e dalla Russia).

Così leggo gli attacchi israeliani con F-35 su Gaza; a tal fine riporto quanto afferma Manlio Dinucci << Il portavoce delle Forze israeliane Zilberman, annunciando l’inizio del bombardamento di Gaza, ha specificato che «prendono parte all’operazione 80 caccia, inclusi gli avanzati F-35» (The Times of Israel, 11 maggio 2021). È ufficialmente il battesimo di fuoco del caccia di quinta generazione della statunitense Lockheed Martin, alla cui produzione partecipa anche l’Italia quale partner di secondo livello. Israele, che ha già ricevuto dagli Usa 27 F-35, ha deciso lo scorso febbraio di acquistarne non più 50 ma 75. A tal fine il governo ha decretato un ulteriore stanziamento di 9 miliardi di dollari: 7 provenienti dall’«aiuto» militare gratuito di 28 miliardi concesso dagli Usa a Israele, 2 concessi come prestito dalla Citibank statunitense. Mentre i piloti israeliani di F-35 vengono addestrati dalla U.S. Air Force in Arizona e in Israele, il Genio dello US Army costruisce in Israele speciali hangar rinforzati per gli F-35, adatti sia per la massima protezione dei caccia a terra, sia per il loro decollo rapido quando vanno all’attacco. Allo stesso tempo le industrie militari israeliane (Israel Aerospace ed Elbit Systems), in stretto coordinamento con la Lockheed Martin, potenziano il caccia, ribattezzato «Adir» (Potente): soprattutto la sua capacità di penetrare le difese nemiche e il suo raggio d’azione, che è stato quasi raddoppiato. Capacità non certo necessarie per attaccare Gaza. Perché allora vengono impiegati contro i palestinesi i più avanzati caccia di quinta generazione? Perché serve a testare gli F-35 e i piloti in un’azione bellica reale, usando le case di Gaza come bersagli del poligono di tiro. Poco importa se, nelle case-bersaglio, ci sono intere famiglie.

Gli F-35A, che si aggiungono alle centinaia di cacciabombardieri già forniti dagli Usa a Israele, sono progettati per l’attacco nucleare, in particolare con la nuova bomba B61-12 che gli Stati uniti, oltre a schierare tra poco in Italia e altri paesi europei, forniranno anche a Israele, unica potenza nucleare in Medioriente, con un arsenale stimato in 100-400 armi nucleari. Se Israele raddoppia il raggio d’azione degli F-35 e sta per ricevere dagli Usa 8 aerei cisterna Pegasus della Boeing per il rifornimento in volo degli F-35, è perché si prepara a sferrare un attacco, anche nucleare, contro l’Iran>> (Manlio Dinucci, Gli F-35 bombardano Gaza, il Manifesto, 18/5/2021).

Così leggo la pioggia di razzi (oltre mille) lanciati su Israele; per questo riporto quanto scrive Emanuele Rossi << […] Le azioni militari di questi giorni testimoniano come le forze palestinesi siano cresciute di capacità: sia tattiche che tecniche. La salva di missili che è stata sparata contro il territorio ebraico è evidente che non sia una risposta di indignazione spontanea per le violenze della polizia israeliana ad al Aqsa. C’è un coordinamento e c’è un piano di attacco. Fondamentalmente tutto si basa su quella che viene definita “saturazione”: si sparano tanti, tantissimi razzi contemporaneamente perché in quel modo lo scudo aero israeliano Iron Dome […] non riesce a compiere le intercettazioni. I bersagli diventano troppi, e questo permette di rendere più efficiente l’attacco, nonostante l’altissima efficacia dello scudo israeliano che ha intercettato circa l’80 per cento degli attacchi battezzati pericolosi dal sistema. […] “Il martire Qassem Soleimani ha inviato le armi ai mujaheddin in Palestina”, “Gloria alla Resistenza. Gloria all’Iran”: sui social network gli attivisti palestinesi sono chiari. Per il collegamento simbolico è usato Soleimani, generale dei Pasdaran che ha ideato e gestito la strategia delle milizie e che è finito sotto un Hellfire di un drone americano appena fuori all’aeroporto di Baghdad. Era il gennaio 2020, all’operazione aveva partecipato anche il Mossad, l’Iran aveva reagito all’uccisione di quell’ufficiale mitologico con un barrage di missili contro basi irachene che ospitavano soldati americani (le stesse basi che sono costantemente bersagliate con razzi Katyusha e simili sparati dalle milizie sciite irachene).

Dallo scorso anno, Hamas ha iniziato a propagandare con maggiore intensità il collegamento con l’Iran. La morte di Soleimani e il ricordo del generale sono stati il proxy narrativo usato dal gruppo; e forse l’elemento che ha spinto i Pasdaran ad aumentare il sostegno per vendicarsi contro Israele, accusato di aver condotto una serie di operazioni e di sabotaggio all’interno della Repubblica islamica. I Pasdaran hanno anche intensificato le relazioni con la Saraya al-Quds, il braccio armato della Jihad islamica, che ieri, martedì 11 maggio, ha rivendicato di aver utilizzato nel suo attacco contro Israele una raffica di missili del tipo “Badr 3”. Sono stati usati per colpire Ashkelon — sulla costa mediterranea, appena a nord della Striscia — e sono stati in grado di violare Iron Dome.

Il Badr 3 è un missile di fabbricazione iraniana che per per la prima volta è stato usato nel maggio 2019, quando il braccio militare del movimento ribelle Houthi, “Ansar Allah”, lo ha utilizzato in Yemen. Gli Houthi sono collegati militarmente ai Pasdaran, e hanno uno slogan chiaro: “morte a Israele e siano maledetti gli ebrei”. La Jihad islamica dalla Striscia di Gaza è stato il secondo gruppi armati a utilizzare questo missile.

Il Badr 3 trasporta una testata esplosiva del peso di 250 kg e ha una portata di oltre 160 km. Ha un altro importante vantaggio: non esplode quando colpisce il bersaglio, ma quando è a circa 20 metri sopra l’obiettivo e

massimalizza cosi l’effetto. Spara 1.400 schegge, il che espande la sua capacità di distruggere installazioni e case vicino al punto di esplosione in cui cade. La Saraya al-Quds lo ha modificato per trasportare una testata da 350 kg.

Un’altra analogia con la guerra in Yemen riguarda l’uso del missile anticarro di fabbricazione russa “Kornet”. Sempre la Saraya al-Quds ha rivendicato la responsabilità di un attacco contro un veicolo militare israeliano al confine di Gaza con un missile guidato, dichiarando esplicitamente di aver usato questo tipo di missile. Un ufficiale

israeliano è stato ucciso. In precedenza un altro Korner aveva colpito una jeep civile. Modalità analoghe a quelle usate dagli Houthi dello Yemen contro i mezzi blindati sauditi come dimostra un video pubblicato dalla formazione ribelle nel 2016 — gli yemeniti usano i Kornet in una versione modificata dagli iraniani che chiamano “Dehlavieh”.

Israele ieri sera ha bombardato un deposito di questo genere di missili>>. (Emanuele Rossi, Grazie all’Iran i palestinesi hanno potuto sparare mille razzi su Israele, www.formiche.net, 12/5/2021; sul funzionamento del sistema Iron Dome (cupola di ferro) si rimanda a Stefano Pioppi, Come funziona Iron Dome, il sistema che protegge Israele, www.formiche.net, 12/5/2021).

L’area del Medio Oriente è definita come una regione che abbraccia tre diversi continenti (Asia, Europa ed Africa) e ne fa necessariamente un’area di importanza strategica nel conflitto tra le potenze mondiali sia in declino (USA) sia in ascesa (Cina e Russia). E’ all’interno di questo conflitto che va letto il controllo delle risorse energetiche presenti nell’area (si pensi alla guerra economica statunitense per controllare le risorse energetiche a danno delle economie cinese, russa e iraniana; all’uso geopolitico delle risorse per ridurre le aree di influenza del blocco euroasiatico). Gli USA violano sistematicamente tutti i trattati internazionali (per esempio il TNP, Trattato di Non Proliferazione sulle armi nucleari) per riaffermare con l’arroganza e con la violenza la loro volontà storica di dominio assoluto. Non resta loro che la dialettica delle armi perché le armi della dialettica presuppongono una nuova idea di sviluppo e di società che essi non hanno perché i loro agenti strategici dominanti non fanno più sintesi nazionale e perché tutta la cosiddetta civiltà occidentale è in profonda crisi. Per tutto questo gli USA sono la potenza pericolosa per l’intero sistema mondiale.

Non ci resta che sperare nella affermazione di una lunga fase multicentrica per un equilibrio dinamico tra le potenze per il dominio del mondo con un peso specifico di quelle orientali. Ricordo che stiamo parlando di dominio che è la relazione più stupida che l’essere umano abbia realizzato nello specifico ordine simbolico maschile storicamente dato. Per capire questa semplice ma profonda verità bisogna confrontarsi e ragionare col pensiero femminile, quello in coscienza critica, per un cambiamento dei rapporti sociali cosiddetti capitalistici (delle diverse nazioni) e pensare ad un’altra società, ad altri sistemi di rapporti sociali.

 

 

 

IO SONO ISRAELE. TUTTO MI E’ PERMESSO

di Norman Finkelstein*

 

Io Sono Israele.

Sono venuto in una terra senza popolo per un popolo senza terra. Quelle persone che si trovavano qui, non avevano il diritto di starci, e la mia gente ha mostrato loro che dovevano andarsene o morire, radendo al suolo 400 villaggi palestinesi, cancellando la loro storia.

 

Io Sono Israele.

 

Alcuni dei miei hanno commesso massacri e in seguito sono diventati primi ministri per rappresentarmi. Nel 1948 Menachem Begin era a capo dell’unità che massacrò gli abitanti di Deir Yassin, tra cui 100 donne e bambini. Nel 1953 Ariel Sharon guidò il massacro degli abitanti di Qibya e nel 1982 fece in modo che i nostri alleati massacrassero circa 2.000 palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila.

 

Io Sono Israele.

 

Sono nato nel 1948 nel 78% della terra di Palestina, espropriando i suoi abitanti e sostituendoli con ebrei dall’Europa e da altre parti del mondo. Mentre i nativi le cui famiglie hanno vissuto su questa terra per migliaia di anni non sono autorizzati a tornare, gli ebrei di tutto il mondo sono i benvenuti e ottengono la cittadinanza istantanea.

 

Io Sono Israele.

 

Nel 1967 ho inghiottito le restanti terre della Palestina – Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza – e ho posto i loro abitanti sotto un dominio militare opprimente, controllando e umiliando ogni aspetto della loro vita quotidiana. Alla fine, dovrebbe essere chiaro per loro che non sono i benvenuti e che farebbero meglio ad unirsi ai milioni di profughi palestinesi nelle baraccopoli del Libano e della Giordania.

 

Io Sono Israele.

 

Ho il potere di controllare la politica americana. La mia Commissione per gli Affari Pubblici Israeliani americana può creare o distruggere qualsiasi politico di sua scelta e, come vedete, fanno tutti a gara per accontentarmi. Tutte le forze del mondo sono impotenti contro di me, comprese le Nazioni Unite, poiché ho il veto americano per bloccare qualsiasi condanna dei miei crimini di guerra. Come Sharon ha detto in modo eloquente, “Controlliamo l’America”.

 

Io Sono Israele.

 

Influenzo anche i media mainstream americani e troverai sempre le notizie su misura per me. Ho investito milioni di dollari nelle pubbliche relazioni e la CNN, il New York Times e altri hanno svolto un ottimo lavoro nel promuovere la mia propaganda. Guarda altre fonti di notizie internazionali e vedrai la differenza.

 

Io Sono Israele.

 

Vuoi negoziare la “pace !?” Ma non sei intelligente come me; negozierò, ti permetterò di avere i vostri comuni, ma io controllerò i vostri confini, la vostra acqua, il vostro spazio aereo e qualsiasi altra cosa importante. Mentre “negoziamo”, ingoierò le vostre colline e le riempirò di insediamenti, popolati dai più estremisti dei miei estremisti, armati fino ai denti. Questi insediamenti saranno collegati a strade che non potrete usare e sarete imprigionati nei vostri piccoli Bantustan, circondati da posti di blocco in ogni direzione.

 

Io Sono Israele.

 

Ho il quarto esercito più forte del mondo, in possesso di armi nucleari. Come osano i tuoi figli affrontare la mia oppressione con le pietre, non sai che i miei soldati non esiteranno a sparargli in testa? In 17 mesi, ho ucciso 900 di voi e ne ho feriti 17.000, per lo più civili, e ho il mandato di continuare, poiché la comunità internazionale rimane in silenzio. Ignora, come me, le centinaia di ufficiali di riserva israeliani che ora si rifiutano di esercitare il mio controllo sulle tue terre e sul tuo popolo; le voci della loro coscienza non ti proteggeranno.

 

Io Sono Israele.

 

Vuoi la libertà? Ho proiettili, carri armati, missili, Apache e F-16 per annientarti. Ho messo sotto assedio le vostre città, confiscato le vostre terre, sradicato i vostri alberi, demolito le vostre case e ancora chiedete libertà? Non hai ricevuto il messaggio?

 

Non avrai mai pace, o libertà, perché IO SONO ISRAELE

 

*Norman Gary Finkelstein (New York, 8 dicembre 1953) è uno storico statunitense.

Storico e politologo statunitense, Norman Gary Finkelstein ha compiuto i suoi studi nella Binghamton University di New York, poi nell’École pratique des hautes études di Parigi, conseguendo infine un dottorato in Scienze Politiche all’Università di Princeton. Ha insegnato nel Brooklyn College, nell’Hunter College, nella New York University e infine nella DePaul University a Chicago (fino al settembre del 2007).

Figlio di sopravvissuti ebrei del ghetto di Varsavia e poi del campo di concentramento di Auschwitz, Finkelstein si mise in luce con i suoi scritti relativi al conflitto arabo-israeliano e grazie alle polemiche suscitate dalla sua critica per ciò che egli chiama «L’industria dell’Olocausto»: termine col quale indica le organizzazioni e le personalità ebraiche (in particolare il Congresso ebraico mondiale o Elie Wiesel) che, a suo parere, hanno strumentalizzato la Shoah a fini politici (per sostenere la politica israeliana) o mercantili (ottenere indennizzi finanziari da parte della Germania e della Svizzera.

 

 

 

Il mio inserimento

 

Dalla introduzione del libro di Norman G. Finkelstein, L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, BUR, Milano, 2004, pp.9-10 e 15-16.

 

Questo libro si propone di essere un’anatomia dell’industria dell’Olocausto e un atto di accusa nei suoi confronti. Nelle pagine che seguono, dimostrerò che <<l’Olocausto>> è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista*. Come la maggior parte delle ideologie, mantiene un legame, per quanto labile, con la realtà. L’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe. Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di <<vittima>>, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano. Aggiungerei che coloro che godono di questa immunità non sono sfuggiti alla corruttela morale che di norma accompagna. Da questo punto di vista, il ruolo di Elie Wiesel come interprete ufficiale dell’Olocausto non è un caso. Per dirla francamente, non è arrivato alla posizione che occupa grazie al suo impegno civile o al suo talento letterario: Wiesel ha questo ruolo di punta perché si limita a ripetere instancabilmente i dogmi dell’Olocausto, difendendo di conseguenza gli interessi che lo sostengono.

[…] Mio padre e mia madre si chiesero spesso perché m’indignassi di fronte alla falsificazione e allo sfruttamento del genocidio perpetrato dai nazisti. La risposta più ovvia è che è stato usato per giustificare la politica criminale dello Stato d’Israele e il sostegno americano a tale politica. Ma c’è anche un motivo personale. Ho infatti a cuore che si conservi la memoria della persecuzione della mia famiglia. L’attuale campagna dell’industria dell’Olocausto per estorcere denaro all’Europa in nome delle <<vittime bisognose dell’Olocausto>> ha ridotto la statura del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo. Ma anche tralasciando queste preoccupazioni, resto convinto che sia importate preservare l’integrità della ricostruzione storica e lottare per difenderla. Alla fine di questo libro sostengo che nello studio dell’Olocausto nazista possiamo imparare molto non solamente riguardo ai <<tedeschi>> o ai <<gentili>>, ma a noi tutti. Eppure penso che per fare questo, cioè per imparare sinceramente dall’Olocausto nazista, occorre ridurre la sua dimensione fisica ed enfatizzarne quella morale. Troppe risorse pubbliche e private sono state investite nella commemorazione del genocidio e gran parte di questa produzione è indegna, un tributo non alla sofferenza degli ebrei, ma all’accrescimento del loro prestigio. E’ da tempo che dobbiamo aprire il nostro cuore alle altre sofferenze dell’umanità: questa è la lezione più importante impartitami da mia madre. Non l’ho mai sentita dire: <<Non fare paragoni>>. Lei li fece sempre. Certo si devono fare distinzioni storiche, ma porre distinzioni morali tra la <<nostra>> sofferenza e la <<loro>> è a sua volta un travisamento morale. <<Non potete mettere a confronto due sventurati>> osservò Platone << e dire quale dei due sia più felice.>> Di fronte alle sofferenze degli afroamericani, dei vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre: siamo tutti vittime dell’Olocausto.

 

* Nel testo, con l’espressione <<Olocausto nazista>> si fa riferimento all’evento storico, con il termine <<Olocausto>> alla sua rappresentazione ideologica.

 

 

 

UNA RIFLESSIONE E UNA DOMANDA A PROPOSITO DI << DUE POPOLI DUE STATI>>.

di Luigi Longo

La riflessione che pongo necessiterebbe di un lungo racconto sull’uso del territorio (meglio sarebbe spazio) nel conflitto tra Israele e la Palestina, a partire dal 1948 anno di proclamazione formale dello stato di Israele. Mi limito qui a constatare che si tratta di un conflitto tra un aggressore, Israele, che sta malvagiamente ridimensionando un popolo palestinese che cerca di resistere e di difendere legittimamente i residui territori a propria disposizione che non possono più formare una nazione.

La questione avanti posta va vista nei giochi strategici che le potenze mondiali (soprattutto gli USA) hanno fatto, fanno e continueranno a fare per ottenere l’egemonia dell’area mediorientale, tutto storicamente dato.

La riflessione è: non ci sono più le condizioni territoriali per la creazione di due popoli e due stati. La politica territoriale di Israele, con lo strumento delle colonie e con tutta la sua strumentazione scientifica e tecnica (che non è mai neutrale, è bene ricordarlo), di fatto non permette più di parlare di due stati e di due popoli, ma bensì di uno stato per gli israeliani e di enclave per i palestinesi. Usando un linguaggio lagrassiano direi che storicamente gli agenti sub-dominanti della sfera politica, della sfera religiosa, della sfera militare e della sfera istituzionale-territoriale hanno avuto un ruolo fondamentale nel concentrare il popolo palestinese in enclave e distruggere l’idea stessa di una loro nazione con un territorio, una istituzione, delle risorse, una storia e una cultura propri.

Esiste un popolo israeliano con uno stato, gestito da agenti strategici sub dominanti spietati e insaziabili di potere e di egemonia, che è una pedina fondamentale (fino a poco tempo fa) degli USA e delle loro strategie mediorientali nella scacchiera del conflitto per l’egemonia mondiale.

Esiste un popolo palestinese rinchiuso in enclave le cui condizioni di vita sono sempre più difficili e al limite della sopravvivenza (almeno per la maggioranza della popolazione).

Una domanda ora sorge spontanea: perché si continua a lanciare missili innocui su Israele sapendo delle conseguenze inenarrabili sulla popolazione palestinese (donne, bambini e anziani, i numeri dei morti della guerra in atto lo stanno a dimostrare)?

Avanzo un dubbio: siamo sicuri che i gruppi dominanti del popolo palestinese (con le loro articolazioni in forze politiche: OLP, Hamas, eccetera) non utilizzano ideologicamente l’obiettivo dei <<due popoli due stati>> per le loro strategie di potere e di egemonia per meglio posizionarsi, sia negli accordi di pace sia nelle strategie complessive delle potenze mondiali, con i gruppi strategici egemonici sub dominanti (israeliani e non solo) e dominanti ( USA e non solo) in questa crisi d’epoca di chiaro avvio della fase multipolare?

Se rimaniamo nella dialettica << due popoli due stati >> non riusciamo a capire i rapporti sociali e le trasformazioni sociali che avvengono in quell’area nevralgica del medioriente. E non riusciremo mai a capire perchè si lanciano missili innocui su Israele, ritorsivi e autodistruttivi per la maggioranza dei palestinesi.

 

le guerre di Israele e il nomos della terra secondo Fabio Falchi

Da sempre il richiamo della terra, la sedimentazione dello spirito, della cultura e dell’anima di un popolo in un particolare territorio hanno suscitato l’interesse di studiosi ed analisti entrando a pieno titolo tra i fattori che determinano le dinamiche geopolitiche, il confronto e il conflitto tra stati e popoli. La retorica sulla globalizzazione in primo luogo e la tesi delle dinamiche del conflitto politico dettate dalla lotta di classe sembravano aver messo definitivamente in secondo piano questo interesse sino a prevederne la totale rimozione. Con il suo ultimo libro “le guerre di Israele e il nomos della terra” Fabio Falchi ci offre un esempio concreto di quanto sia illusoria questa rimozione e di come sia una che l’altra non possano prescindere dalla forza delle radici. Ne discutiamo in questa conversazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

LE CONSEGUENZE POLITICHE DEL SANGUE INNOCENTE NELLA GUERRA MODERNA, di Antonio de Martini

LE CONSEGUENZE POLITICHE DEL SANGUE INNOCENTE NELLA GUERRA MODERNA

Le reazioni al bagno di sangue che ha inaugurato l’apertura della nuova ambasciata americana ha avuto una serie di conseguenze che possono valere quanto una battaglia vinta per molti dei protagonisti.

HA VINTO HAMAS che si è vista implorata per fermare il massacro. Cosa abbia ottenuto in cambio al momento non è noto, ma certamente non ha cessato il suo attacco senza contropartite.

HA VINTO ABU ABBAS che ha mostrato di poter gestire la nuova situazione di contenzioso anche in assenza dell’arbitrato USA, rappresentando tutti i palestinesi, anche Hamas, nei media mondiali.

HA VINTO LA NON VIOLENZA dimostrando che nel villaggio globale le truppe più imbattibili sono quelle disarmate. L’impatto è stato tanto più forte proprio perché tra le truppe armate non c’è stato nemmeno un ferito lieve.

HA VINTO ERDOGAN corteggiato a Londra come un principe reale che ha ritirato gli ambasciatori da Israele e dagli USA ( questo la TV non l’ha detto) proprio nel momento in cui gli americani credevano di averlo obbligato , in piena campagna elettorale, a prendere posizione tra loro e la Russia. Può rimandare la risposta a dopo le elezioni.

HA VINTO L’IRAN che vede l’attenzione del mondo sviata dal tema delle sanzioni e della minacciata guerra americana e israeliana. Missili e bombe hanno perso importanza di fronte alle moltitudini disarmate che vanno all’assalto cantando.

HA VINTO NETANYAHU che nessuno più associa alle indagini di polizia sui trenta milioni di dollari incassati per l’acquisto di otto sottomarini dai cantieri tedeschi. La polizia deve attendere per riprendere l’inchiesta.

HA VINTO PUTIN che adesso rimane unico possibile mediatore del conflitto israelo-palestinese. Gli americani, squalificati dalla scelta di spostare l’ambasciata, ora devono colmare con un fiume di dollari, il fiume di sangue.

PERDE LO STATO DI ISRAELE che, costretto a rappresaglie permanenti, sta subendo la strategia che Churchill applicò alla Germania con le incursioni e i sabotaggi del SOE.

Quando l’intelligence Service di Stewart Menzies protestò perché l’attività di intelligence ne soffriva, rispose che “queste azioni di sabotaggio erano utili perché avevano trasformato i tedeschi nella razza (sic) più odiata del mondo.”

Con ” soli” sessantadue morti e 1360 feriti è una battaglia che ha portato i suoi frutti e per i militari una vittoria di Pirro.
Con truppe armate il costo in vite umane, da entrambe le parti, sarebbe stato molto più pesante.

PALESTINA INFELIX, di Luigi Longo

Si pubblicano due brevi articoli, il mio di un paio di anni fa, sulla distruzione del popolo palestinese per rafforzare e rilanciare la potenza regionale di Israele come contrafforte delle altre due potenze emergenti regionali come l’ Iran e la Turchia. Sullo sfondo l’attacco USA al nascente asse Russia-Cina  probabili  poli di potenze mondiali che hanno la visione di un ordine mondiale multicentrico. Luigi Longo

Una riflessione e una domanda a proposito di << due popoli due stati>>.

di Luigi Longo

La riflessione che pongo necessiterebbe di un lungo racconto sull’uso del territorio ( meglio sarebbe spazio) nel conflitto tra Israele e la Palestina, a partire dal 1948 anno di proclamazione formale dello stato di Israele. Mi limito qui a constatare che si tratta di un conflitto tra un aggressore, Israele, che sta malvagiamente ridimensionando un popolo palestinese che cerca di resistere e di difendere legittimamente i residui territori a propria disposizione che non possono più formare una nazione.

La questione avanti posta va vista nei giochi strategici che le potenze mondiali (soprattutto gli USA) hanno fatto, fanno e continueranno a fare per ottenere l’egemonia dell’area mediorientale, tutto storicamente dato.

La riflessione è: non ci sono più le condizioni territoriali per la creazione di due popoli e due stati. La politica territoriale di Israele, con lo strumento delle colonie e con tutta la sua strumentazione scientifica e tecnica (che non è mai neutrale, è bene ricordarlo), di fatto non permette più di parlare di due stati e di due popoli, ma bensì di uno stato per gli israeliani e di enclave per i palestinesi. Usando un linguaggio lagrassiano direi che storicamente gli agenti sub-dominanti della sfera politica, della sfera religiosa, della sfera militare e della sfera istituzionale-territoriale hanno avuto un ruolo fondamentale nel concentrare il popolo palestinese in enclave e distruggere l’idea stessa di una loro nazione con un territorio, una istituzione, delle risorse, una storia e una cultura propri.

Esiste un popolo israeliano con uno stato, gestito da agenti strategici sub dominanti spietati e insaziabili di potere e di egemonia, che è una pedina fondamentale (fino a poco tempo fa) degli USA e delle loro strategie mediorientali nella scacchiera del conflitto per l’egemonia mondiale.

Esiste un popolo palestinese rinchiuso in enclave le cui condizioni di vita sono sempre più difficili e al limite della sopravvivenza (almeno per la maggioranza della popolazione).

Una domanda ora sorge spontanea: perché si continua a lanciare missili innocui su Israele sapendo delle conseguenze inenarrabili sulla popolazione palestinese (donne, bambini e anziani, i numeri dei morti della guerra in atto lo stanno a dimostrare)?.

Avanzo un dubbio: siamo sicuri che i gruppi dominanti del popolo palestinese ( con le loro articolazioni in forze politiche: OLP, Hamas, eccetera) non utilizzano ideologicamente l’obiettivo dei << due popoli due stati >> per le loro strategie di potere e di egemonia per meglio posizionarsi, sia negli accordi di pace sia nelle strategie complessive delle potenze mondiali, con i gruppi strategici egemonici sub dominanti (israeliani e non solo) e dominanti ( USA e non solo) in questa crisi d’epoca di chiaro avvio della fase multipolare?

Se rimaniamo nella dialettica << due popoli due stati >> non riusciamo a capire i rapporti sociali e le trasformazioni sociali che avvengono in quell’area nevralgica del medioriente. E non riusciremo mai a capire perchè si lanciano missili innocui su Israele, ritorsivi e autodistruttivi per la maggioranza dei palestinesi.

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Italia costruirà gasdotto a Israele (per rubare il greggio palestinese)
www.maurizioblondet.it/italia-costruira-gasdotto-israele-aiutarla-rubare-greggio-palestinese/
“Non esiste ancora una pipeline così lunga e così profonda”, esulta il ministro dell’energia sionista Juval Steinitz. L’Italia e la Grecia (ma soprattutto l’Italia) gli costruiranno il gasdotto che costerà 6 miliardi e sarà completato nel 2025, che pomperà gas e greggio del grande giacimento davanti a Gaza, che ovviamente i sionisti si sono accaparrati, rubandolo ai palestinesi, in condominio con Cipro (che ha perfettamente diritto, perché il giacimento è nelle sue acque territoriali). Il memorandum in questo senso è stato firmato martedì a Nicosia, fra l’ambasciatore italiano a Cipro, e i ministri dell’energie di Israele, Cipro, Grecia. Benediceva l’operazione il commissario europeo all’energia Miguel Arias Cañete. E’ probabile che sarà la UE a pagare il progetto, perché l’eurocrazia persegue instancabilmente la strategia di svincolare l’Europa dalla “dipendenza energetica da Mosca” (oltre a quella di fare regali allo Stato razziale mediterraneo). Il tubo, chiamato EastMed che approderà in Italia nel 2025, trasporterà fino a 16 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, pari a circa il 5% del consumo annuale in Europa, secondo quanto riferito da EUObserver. Si è costituita allo scopo una joint venture fra Edison e la consorella greca Depa.
Lasciamo perdere la presunta “polemica” e “presa di distanza” dell’Europa dalla decisione trumpiana di dichiarare Gerusalemme capitale indivisa di Sion, lo “scontro” di Netanyahu con Macron, i “disaccordi” di costui coi ministri degli esteri della UE che sa per incontrare a Bruxelles. Quello è teatro per la scena. La realtà è che gli europei restano legati a filo doppio, anzi sempre più soggetti, agli interessi israeliani.

LA GERUSALEMME LIBERATA_UNA SFIDA CAPITALE_una conversazione con Antonio de Martini

Trump ha dato seguito ad un altro degli impegni elettorali. Con la sua decisione di procedere al trasferimento, entro due anni, dell’ambasciata americana a Gerusalemme ha sparigliato le carte e strappato il velo di ipocrisia che ammantava il groviglio mediorientale, e gli atteggiamenti delle classi dirigenti arabe; ha privato gli Stati Uniti del ruolo di mediatore; sta sancendo la realtà dell’ingresso di nuovi soggetti politici nel gioco di quella zona cruciale. Qui sotto una interessante conversazione con Antonio de Martini