VIRTU’ E STATO MODERNO. di Teodoro Klitsche de la Grange

VIRTU’ E STATO MODERNO

 

  1. Scriveva un giurista di valore come Ernst Forsthoff[1] che la dottrina dello Stato occidentale ha avuto inizio da Platone ed Aristotele con una concezione dello Stato come istituzione volta alla realizzazione della virtù, e, finché il pensiero classico e cristiano accompagnarono “sulla sua strada lo spirito occidentale, anche la virtù ebbe assicurato il suo posto nella dottrina dello Stato”. Solo nel periodo più recente, successivo alla rivoluzione francese “la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane e per conseguenza anche dalla virtù”[2]. Cosi, ricorda Forsthoff, nelle opere di Jellinek non se ne parla più. Tantomeno in quelle di Kelsen e di quasi tutti i giuristi del XX secolo: se comunque alcuni di essi non sottovalutavano le qualità umane (e presupposti e condizionamenti concreti e “fattuali”) nessuno, a quanto risulta, ha considerato la virtù alla maniera di Montesquieu come principio di (una) forma di governo.

Il che è, in qualche misura, comprensibile: in un periodo storico, connotato, per il diritto, dalla prevalenza del positivismo, per cui la legge è il dato che l’operatore giuridico deve interpretare ed applicare, attraverso idonei strumenti  logici ed ermeneutici, chiedersi quale sia nel “sillogismo giudiziario” il posto che compete alla virtù, può provocare, e correttamente, solo una risposta: nulla. O tutt’al più, si può rispondere, il ruolo del disturbatore: perché se in un elegante ragionamento fatto di deduzioni, valutazioni, presunzioni, s’inserisce il parametro della virtù, l’esito può essere uno solo: una gran confusione. Ciò non toglie, che, da altra prospettiva, come quella della dottrina dello Stato “classica”, la tematica della virtù abbia un ruolo tutt’altro che secondario. Peraltro le vicende politiche italiane dell’ultimo decennio sono state connotate da un continuo richiamo alla morale, alla bontà, alla necessità di governi e governanti irreprensibili sotto il profilo etico: cose che con la virtù hanno una certa affinità. Ma, nel contempo, generano equivoci se non scompiglio: perché al di là dell’uso strumentale che può farsi della morale in politica, non pare proprio che la virtù, come intesa da Aristotele o Machiavelli, da Montesquieu o da Saint-Just abbia tanto in comune con la morale e la bontà di politici e rotocalchi nostri contemporanei.

Pertanto, è il caso di chiedersi in primo luogo se, (e quanto) la virtù abbia in comune con la dirittura morale, quali ne siano le differenze, e cosa si possa intendere per virtù. Secondariamente se la virtù sia necessaria allo Stato e in che modo ci si può assicurare che non manchi.

  1. Quanto al primo problema, già Aristotele se lo pone nella Politica[3] in relazione al buon cittadino ritenendo che “si può essere buoni cittadini senza possedere la virtù per la quale l’uomo è buono…non è assolutamente la stessa la virtù dell’uomo buono e del buon cittadino” e, interrogandosi su cosa sia la virtù (del cittadino), sostiene “c’è una forma di comando col quale l’uomo regge persone della stessa stirpe e libere. Questa forma di comando noi diciamo politico…la virtù di chi comanda e di chi obbedisce è diversa, ma il bravo cittadino deve sapere e potere obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino…” Aristotele con ciò non solo distingue nettamente tra privato (bontà dell’uomo) e pubblico (virtù del cittadino) ma fa consistere la virtù nella conoscenza (e pratica) di un altro dei “presupposti del politico”, come denominati da Freund; il rapporto tra comando ed obbedienza. Rapporto particolarmente importante, giacché assicura coesione e capacità d’agire alla comunità, e con ciò l’esistenza della medesima: senza una catena “gerarchica” di comando ed obbedienza che organizzi l’unità politica dal vertice alla base, questa infatti non si tiene in piedi (e non agisce).

Non molto diverso è quanto pensava Machiavelli: nel pensiero del quale è fin troppo evidente che la morale non deve essere confusa in alcun modo con la politica, perché è il fine e la necessità politica l’imperativo primario, e se osservare regole religiose e morali può metterlo in pericolo, è bene violarle: “è necessario a un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono e usarlo o non l’usare secondo la necessità”[4]; perché la patria “è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria”.

Quanto alla virtù, tante volte ricorrente negli scritti del Segretario Fiorentino, a volerne intendere il significato, è quello della prudenza nel (costituire e) reggere lo Stato: cioè essenzialmente legata al ruolo pubblico.

A Montesquieu si devono le più penetranti osservazioni del rapporto tra virtù e (assetto dello) Stato. Com’è noto distingue tra natura del governo (cioè della forma di Stato)  e principio del medesimo “Fra la natura del governo e il suo principio esiste questa differenza: che è la sua natura a farlo tale, ed il suo principio a farlo agire. L’una è la sua struttura particolare, l’altro le passioni umane che lo fanno muovere. Ora, le leggi non debbono essere meno relative al principio di ciascun governo”[5]; e relativamente alla democrazia: “Ad un governo monarchico o ad uno dispotico non occorre molta probità per mantenersi o sostenersi. La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe ognora levato nell’altro, regolano o reggono ogni cosa. Ma in uno Stato popolare occorre una molla in più, la quale non è altri che la virtù[6], mentre queste “molle” sono diverse per le altre forme di governo (moderazione, onore e timore), per cui conclude “Questi sono i principi dei tre governi; il che non vuole affatto dire che in una particolare repubblica si sia virtuosi, ma che si dovrebbe esserlo. E nemmeno prova che, in una data monarchia, regni l’onore, in un certo Stato dispotico la paura, ma bensì che essi vi dovrebbero regnare, altrimenti il governo sarebbe imperfetto” (il corsivo è nostro); quanto all’essenza della virtù, già nell’Avertissement all’Esprit des lois, chiarisce che, quando parla della virtù, parla di quella politica, non di quella religiosa o morale, tanto ne temeva la confusione. Sempre nell’ “avertissement” aggiunge che “ciò che chiamo virtù in una repubblica è l’amore di patria ossia l’amore dell’eguaglianza”[7]

Saint-Just pone la questione nel solco del pensiero di Montesquieu (con una variante essenziale) “un governo repubblicano ha per principio la virtù; altrimenti il terrore” e insiste nel concetto, con riguardo alla rivoluzione “In ogni rivoluzione occorre o un dittatore per salvare lo Stato con la forza o censori per salvarlo con la virtù”[8]. Per cui se la virtù non c’è, o se non ve n’è a sufficienza, occorre far ricorso alla forza e incutere paura: è escluso che senza questi “principi” (o “sentimenti”) uno Stato possa reggersi.

Ma non era questo il solo “filone” di pensiero che determinava la dottrina  dello Stato nell’epoca delle rivoluzioni americana e francese. L’altro, e principale, si può sintetizzare nel giudizio di Sieyés che “sarebbe un cattivo conoscitore degli uomini chi legasse il destino della società agli sforzi della virtù”; occorrono infatti accorgimenti idonei a far si che gli interessi particolari cospirino a realizzare quello generale. Il principio del costituzionalismo liberal-democratico non è solo di salvaguardare la libertà e il rispetto della volontà popolare, ma anche quello di modellare le istituzioni in modo da conseguire l’interesse di tutti  attraverso quelli particolari, gli equilibri e le sanzioni (afflittive e premiali) relative. E’ questa la principale preoccupazione dei costituzionalisti. Tuttavia l’altra tesi non è dimenticata: Benjamin Constant scrive infatti che “Occorre agli uomini perché associno reciprocamente i loro destini ben altra cosa che l’interesse”[9]; per cui, pur essendo primaria l’esigenza di “governare” gli interessi, non era l’unica, né la (sola) sufficiente .

  1. Non stupisce che, al riguardo, il collegamento più stretto tra virtù e assetto statale l’abbia formulato proprio Montesquieu, perché l’esprit des loi consiste nelle varie relazioni che le leggi possono avere con diverse cose[10], cioè con condizioni, situazioni, dati reali. La razionalità (o la non razionalità) delle norme è verificata in base alle circostanze e alle determinanti concrete e “fattuali”. Il che significa che il normativo vola basso sul fattuale; o con altre parole che l’esistente (il reale) condiziona le norme assai più di quanto queste possano su quello. Tale impostazione non era dimenticata neanche dai teorici politici del ‘700. Lo stesso Rousseau ricorda che se il legislatore “se trompant dans son objet, prend un principe different de celui qui naît de la nature des choses… l’État ne cessera d’être agité jusq’a ce qu’il soi détruit ou changé, et que l’invincible nature ait repris son empire[11].

D’altra parte Montesquieu chiarisce molto bene, nell’Avertissement a l’ “Esprit des lois” in che senso la virtù per la democrazia, l’onore per la monarchia (e così via) sono principi di quei regimi politici, e lo fa paragonando lo Stato ad un orologio, e la virtù (o l’onore, la moderazione o il timore) alla molla, che contrappone a rotelle e pignoni: questi, che non danno impulso, quella che da ed assicura il movimento dell’insieme. Onde il “peso” e il connotato specifico del principio rispetto alle altre qualità, è di costituire il motore dell’istituzione statale: quello che la fa funzionare, mobilitando sentimenti ed energie dei cittadini.

Nella dottrina del diritto e dello Stato successiva, a partire dalla seconda metà del XX secolo la virtù non è, come scrive Forsthoff, affatto considerata: come, d’altra parte, anche gli altri principi di Montesquieu; nulla anche in molti autori e assai ridotta in altri è poi la valutazione, nella costituzione dello Stato, di tutti gli altri fattori concreti e “fattuali”. Se ancora Hegel e Tocqueville spiegavano la Costituzione federale degli Stati Uniti con l’assenza, nel continente americano, di nemici credibili ai confini, di ragionamenti simili v’è punta o poca traccia nei giuristi[12].

In effetti a ciò contribuiscono almeno tre ragioni. Da un canto la specializzazione scientifica ed accademica tendeva a separare lo studio del diritto (e dello Stato inteso restrittivamente  come ordinamento normativo) come legge (positiva) da quella dei fattori determinanti quelle norme come tali. Per cui tale indagine è ritenuta di competenza di altre discipline scientifiche, come sociologia, scienza politica e così via.

Dall’altro che, da un punto di vista normativistico, l’angolo visuale tipico dell’interprete – applicatore del diritto, il “peso” che nell’esegesi possono avere i fattori condizionanti le norme, è, rispetto a queste, praticamente nullo.

Infine anche le teorie del diritto o dello Stato più attente alle determinanti “fattuali” dell’ordinamento si sono per lo più indirizzate verso lo studio e la valutazione degli interessi in qualche misura sviluppando quelle teorie precedenti (e contemporanee) alla Rivoluzione francese ed americana; Jhering costruisce il diritto come meccanica sociale, cui sono essenziali scopo e molle (ricompensa e coercizione) per ottenere una società regolata e ordinata. E’ l’interesse la categoria cui è , in ultima istanza, ricondotto il diritto – e lo Stato[13].

Peraltro anche la teoria marxista del diritto e dello Stato, considerando l’uno e l’altro come riflesso dei rapporti reali di produzione – e conseguentemente di potere – non prendeva affatto in considerazione la virtù (o l’onore e così via): certi rapporti di produzione determinano un assetto sovrastrutturale corrispondente: cambiando quelli muterà anche questo. Non c’è spazio per altro che non sia una relazione economica.

La conseguenza di queste teorie e ideologie, così diverse, è che tutte tendono a ricondurre o a espungere quei moventi dell’agire umano non riconducibili al meccanismo  premio/afflizione. Il quale ne spiega molto (e forse la maggior parte) ma non è idoneo a spiegare tutto. Il meccanismo di premio/afflizione facente leva sull’interesse non può dar conto del perché, in guerra, i soldati sacrificano la vita, giacchè nessuna afflizione le è superiore e nessun premio può essere goduto da chi muore, come notava Schmitt. Anche se può argomentarsi che in tal caso è l’interesse generale a determinare il comportamento inducendo al sacrificio di quello individuale, è chiaro che, in tali espressioni, a fare la differenza  – e di sostanza – è l’aggettivo non il sostantivo.

Parimenti a una costituzione giuridicamente perfetta, con i rapporti tra poteri ed organi, freni e contrappesi ben studiati, non si capisce chi dovrebbe dare il movimento, giacché questo non è indotto, se non in parte minima, e non può quindi essere assicurato, dall’ammirazione per la sapiente opera del legislatore. Se fosse vero l’inverso, le migliori costituzioni sarebbero quelle redatte a tavolino, e sarebbe sufficiente per organizzare uno Stato comprarne il testo in libreria; mentre è noto che le migliori sono quelle modellate dal tempo, dall’esperienza e dalla lotta. Perché nella realtà lo Stato non è paragonabile – malgrado la radice del termine che richiama la staticità – a qualcosa d’immobile come un affresco, una fotografia, uno scritto: ma è vita e movimento, non foss’altro perché elemento determinante e costitutivo ne sono i milioni di persone che formano la popolazione. Dalle cui volontà, scelte, sentimenti ed anche credenze e pregiudizi non si può prescindere .

Se a un assetto (astrattamente) perfetto nessuno di coloro ha volontà di partecipare, lo Stato nascerà morto, come un corpo senz’anima, o una macchina senza motore[14]. Cioè proprio quello che sosteneva Montesquieu, quando in mancanza – all’epoca – di motori termici, doveva ricorrere alla metafora della molla (che da movimento) e delle rotelle, per spiegare la differenza tra principio e natura del regime politico.

E che il problema sussista è dimostrato dal fatto che indurre a cooperare, obbedire, comandare ed agire gli uomini e i gruppi sociali richiamandosi all’ “imputazione” o alla “competenza” appare altrettanto irreale del pretendere di avviare un’automobile declamando le leggi della termodinamica. Per cui la struttura ed il motore sono ambedue necessari all’esistenza – ed all’azione – dell’istituzione.

Neppure le teorie marxiste del diritto, pur così ancorate a un dato reale, come i rapporti di produzione, arrivano a spiegare la necessità del “principio”: e ciò non solo perché l’introduzione del concetto d’interesse non egoistico (cioè non economicistico) ne falsifica il presupposto, ma anche perché la teoria montequieuviana del “principio” rende irriducibile il rapporto politico alla sola relazione comando-obbedienza. In buona sostanza perché chiarisce una delle ragioni per cui si presta obbedienza al comando.

  1. A questo punto occorre chiedersi cosa sia la virtù. La prima determinazione ovvia è che la stessa non è la bontà dell’onest’uomo (privato) né quella del credente. Ciò comunque non appare sufficiente a determinare il concetto per cui occorre cercare, oltre a ciò che non è, ciò che è.

In tal senso la virtù consiste in un sentimento “pubblico”, cioè attinente all’esistenza ed all’agire dell’unità politica; per cui la virtù è l’amore (e l’azione a favore) dell’unità politica. Sono virtuose qualità ed atti che si risolvono a favore di quella, in particolare ove costituenti condizioni necessarie  e sufficienti alla stessa.

Criterio che vale a distinguere le qualità positive dell’onest’uomo, del bonus paterfamilias caro ai manuali di diritto civile, da quelle del cittadino. Sulle prime si può costruire(e fino ad un certo punto) una società ben regolata, ma non una comunità politica, come aveva compreso Aristotele. Lavorare onestamente, pagare i creditori, non arrecar torto ad altri non sono condizioni sufficienti a costituire e mantenere la comunità politica (anzi talvolta possono essere controproducenti). Questa richiede la disponibilità dei componenti al sacrificio dei propri interessi a quello generale: in certi casi al sacrificio della vita per garantire l’esistenza della comunità. Quando Montesquieu (e gli scrittori che di tale tema si sono occupati) parlavano di virtù non pensavano a quella di S. Genoveffa o di S. Sebastiano, ma alla qualità e all’esempio di Leonida, di Attilio Regolo o di Catone l’uticense. Al valore generale – in senso hegeliano – di azioni finalizzate all’interesse generale per cui gli uomini “zugleich in und für das Allgemeine wollen und eine dieses Zwecks bewuβte Wirksamkeit haben”[15]

Del pari le qualità del bonus paterfamilias non sono neppure necessarie: orde barbariche, carenti di quelle, hanno saputo espandersi, vincere e costituire nuovi Stati. Anzi talvolta la bontà è controindicata come sostenevano, tra gli altri, Machiavelli e Hobbes. Proprio il Segretario fiorentino elogia come esempi di virtù (politica) i costruttori di nuovi Principati, personaggi tra i quali, di solito, la bontà (privata) non costituiva una primaria regola di condotta, perché di sicuro impedimento. La stessa carenza si presenta in una teoria dello Stato (e del diritto pubblico) che voglia spiegarlo col solo interesse individuale. Tale via è percorribile per il diritto privato, che presuppone individui tesi a realizzare e garantire il proprio interesse e che nulla può legittimamente costringere a sacrificare. Una società in cui tutti  scambiano tutto e non rinunciano a nulla: questa è l’essenza (il “tipo ideale”) della bürgerliche gesellshaft. Ma nello Stato, in cui la disponibilità (in concreto) a rinunce e sacrifici è essenziale, una impostazione simile appare non tanto erronea, ma sicuramente insufficiente[16].

Comunque l’evoluzione delle idee nel XIX e XX secolo è stata tale da espungere  la virtù, anche se poi questa è stata praticata, senza che tuttavia se ne avesse, a livello di massa, grande consapevolezza e se ne traessero le conseguenze. Rilevabili anche dalla desuetudine del termine. Se per Machiavelli o Montesquieu sarebbe stato ovvio qualificare virtuosi De Gaulle o Bismarck, Cavour o De Gasperi, non consta che a quegli  statisti sia stata riconosciuta tale qualità, anche se la possedevano. Forse perché nell’epoca della tecnica – e della tecnocrazia – la virtù appare qualcosa di desueto, da relegare nei libri di storia o nelle declamazioni dei poeti d’altri tempi. Se a determinare i successi politici – ivi compresi quelli bellici – è l’abbondanza dei mezzi materiali e il progresso tecnico-scientifico, i protagonisti ne diventano capitani d’impresa e tecnocrati, per cui la virtù diviene un elemento decorativo, tutt’altro che indispensabile.

Ma, a prescindere  che la storia del XX secolo – e l’inizio della cronaca del XXI – danno copiosi esempi del contrario, di successi politici riportati da uomini e gruppi sociali enormemente inferiori per mezzi e cultura tecnica rispetto ai loro avversari (da ultimo l’11 settembre) altro è il problema sul tappeto. Ovvero di capire perché, in piena era della tecnica (e della tecnocrazia) si sia riproposto, prepotentemente, in Italia, nel corso degli anni ’90, il problema della “virtù”, in modo così acuto da cancellare una classe dirigente. E, in particolare, perché sotto un aspetto così diverso, difficilmente riconoscibile da Machiavelli o da Montesquieu, al punto da assumere altri nomi, peraltro più congeniali alle “nuove” connotazioni. In effetti il profilo più interessante è che, mentre la virtù ha un carattere essenzialmente pubblico la, “bontà” o la “legalità”, lo hanno, in altrettanta misura, privato. Si potrebbe indicarne la ragione nelle necessità di propaganda, di utilizzo politico dell’accusa di immoralità: ma, pur consentendo a questo, il tutto risolve il problema a metà: perché resta da spiegare perché tale mutamento corrisponda a convinzioni e credenze diffuse.

Proprio quelle credenze e teorie che in crescendo dalla metà del XIX secolo, predicano e prevedono la fine della politica, la sua sostituzione con l’economia, il venir meno del governo degli uomini sostituito dall’amministrazione delle cose. Ma in un mondo senza politica, non servirebbero né istituzioni politiche (come lo Stato) né capacità e sentimenti politici (come quelli riassunti nella virtù).

La lunga pax americana nella metà del mondo di cui fa parte l’Italia, ha, nel nostro Paese, rafforzato ed accresciuto, in misura maggiore che in altre nazioni occidentali, quella tendenza, peraltro comune a tutti: non aveva tutti i torti Lelio Basso quando diceva che finchè l’Italia era nella NATO, il Ministero degli Esteri era inutile, perché bastava quello delle Poste per ricevere i telegrammi da Washington. Ma una sovranità dimezzata, una politica estera imposta su “binari” e con limiti (esogeni) invalicabili, non porta ad altro che ad identificare la politica con l’amministrazione, o, al massimo, con l’attività di polizia (interna) in senso lato[17].

E’ la figura del tecnico, e soprattutto del funzionario che, in questo frangente, appare insostituibile e necessaria. L’etica “professionale” del funzionario non è quella – o meglio, è solo in parte – quella del politico, come sosteneva Max Weber, non foss’altro perché           questi è sopratutto un efficiente ed intelligente esecutore di ordini, mentre il politico gli ordini li deve dare, e suscitare consenso tale da garantirne l’esecuzione e in un certo senso l’interiorizzazione e l’identificazione dei governanti con il progetto e l’impresa politica (l’integrazione). Sotto altro angolo visuale, quello della responsabilità e del rischio, è più vicino al politico virtuoso il “tipo ideale” dell’imprenditore di successo: ma la direzione dello scopo e degli interessi tra (l’impresa e) l’imprenditore politico  e quello economico, e l’irriducibilità del politico all’economico, è tale da costituire differenze essenziali tra le due figure.

  1. Ciò stante siamo ritornati al problema che Montesquieu aveva risolto, se cioè sia necessario allo Stato, specificamente a quello liberaldemocratico (ma non solo), un certo tasso di virtù. Il fatto che questa non sia più presente negli scritti degli addetti ai lavori ,“non implica naturalmente che anche la virtù sia assente dagli ordinamenti degli Stati”, come scriveva Forsthoff. Perché ogni unità politica “si basa sulla qualità degli uomini che la sorreggono e che esercitano le sue funzioni”: altrimenti, nella prima metà del secolo scorso, non si capirebbe come milioni di europei (e non solo) si siano sacrificati combattendo in guerra se non avessero posseduto qualità virtuose.

Ma, anche in società e situazioni politiche in cui la possibilità reale della guerra sia ritenuta (e di fatto è stata) lontana, o tutt’al più circoscritta ed episodica, come quella europea occidentale nella seconda metà del XX secolo, la necessità di una certa dose di virtù non appare ridondante ma, all’inverso, necessaria. Concorrono a ciò sia l’espansione  delle funzioni e attività dello Stato, cioè l’innestarsi dello “Stato sociale” o del “benessere” sul corpo dello Stato legislativo, nato con le rivoluzioni borghesi, sia l’esigenze proprie allo Stato legislativo medesimo.

Il principio di legalità – ovvero la “sottomissione” del potere giudiziario e amministrativo (burocratico) alla legge – richiede, per non ridursi ad un’applicazione soggettiva – quindi variabile e imprevedibile – ed episodica, una certa dose di virtù, indipendentemente dai diversi rimedi modellati, con maggiore o minore efficacia, dal legislatore per reprimere abusi ed omissioni dei funzionari (spesso risolventisi in autoassoluzioni reciproche e collettive). Anche perché le garanzie istituzionali del personale burocratico finalizzate a garantirne un certo grado d’indipendenza (massime quelle riconosciute alla magistratura) limitano o escludono che l’operato e le persone dei medesimi possono essere valutate e riesaminate da un potere in certa misura personale (contrariamente alla legge, per natura impersonale), come quello del Sovrano o del ministro, segnatamente di uno Stato assoluto[18]. Per cui il corretto uso di poteri e funzioni è, in misura maggiore che in altri ordinamenti, rimesso alla capacità ed all’inclinazione “virtuosa” del burocrate.

La querelle tra indipendenza ed imparzialità della magistratura che da tempo contrappone diverse visioni del ruolo del Giudice deriva da una situazione concreta, per cui, di fatto, l’uso improprio di atti e della funzione giudiziaria – sospetta in tali casi di parzialità – non può essere sanzionata. Specie quando alle garanzie stabilite dal legislatore se ne aggiungono altre, di origine politica, sindacale o anche, genericamente sociale. Indubbiamente l’esigenza di garantire una certa dose di virtù è condivisa assai largamente: ma c’è disparità – altrettanto ampia – di vedute su come fare. Ciò dipende, per lo più, da un equivoco e da un’illusione. L’equivoco è quello paventato da Montesquieu, del confondere virtù (pubblica) con quella privata, e, più in generale, diritti (e doveri) inerenti alla funzione pubblica con diritti del cittadino. Per cui, ad esempio, il funzionario che esterna e concede interviste, contravvenendo al dovere di riservatezza e anche al segreto d’ufficio, si appella alla libertà di parola; quando, di converso, è chiaro che lo status di funzionario (con gli obblighi e i diritti connessi) prevale su quello di cittadino.

La seconda è l’illusione di poter garantire ciò attraverso una (idonea) normativa: il che è, da un canto, condivisibile, ove non pretenda di essere la soluzione esclusiva, né prevalente.

Perché se di converso, si volesse cercare di imporre un sufficiente tasso di virtù con leggi, decreti, sentenze e Carabinieri la delusione sarebbe pari all’inutilità dell’apparato che si mobilita, in particolare non appena si manifestasse un’emergenza: frangente in cui dosi di virtù sono l’elemento decisivo per uscirne. In realtà della virtù si può dire ciò che don Abbondio sosteneva del coraggio: che se uno non ce l’ha non se lo può dare. E tutto l’armamentario di coazione e sanzioni può servire a incentivare, consolidare azioni virtuose, e reprimere le non virtuose, ma presuppone necessariamente di “operare” su una certa dose di virtù. E’ vero che per tutte le azioni umane può valere il giudizio espresso da due eccellenti professionisti della guerra, come il Maresciallo sovietico Zukov e il feldmaresciallo tedesco Schörner; i quali richiesti di come avevano fatto l’uno a superare le munite difese tedesche, l’altro a contenere gli impetuosi attacchi sovietici, rispondevano, in termini uguali, che i soldati da loro comandati avevano più timore di quanto poteva capitare loro volgendo le spalle al nemico che ad affrontarlo. Le pattuglie e le Corti volanti dell’NKVD da una parte, delle SS e della feldgendarmerie dall’altra erano efficienti corroboratori e moltiplicatori di virtù. Comunque presente nei soldati: infatti i generali zaristi, i cui modi non erano molto più soavi di quelli di Zukov, non riuscirono ad evitare il collasso – e la rivolta –  dell’esercito sfiduciato ed esaurito; né le fucilazioni alla schiena, praticate con tanta larghezza sull’Isonzo, a scongiurare Caporetto. Quanto vale per la guerra, cioè per una situazione per definizione eccezionale,  vale – anche se con misura minore – per una situazione normale. Vero è che frangente, difficoltà (e urgenza) sono assai diverse: ma lo è pure quanto concesso a un governo che lotti per l’esistenza di una nazione, non riconosciuto se quella non è in dubbio; se gli uomini tollerano lo stato d’assedio, non si può governare in permanenza con quello e, in genere, con misure eccezionali. Le quali, per essere accettate presuppongono uno stato di fatto proporzionato alla gravità delle stesse: per l’appunto uno stato d’eccezione. Fucilare alla schiena, o anche condannare a molti anni di reclusione un ladro di polli o un impiegato corrotto sarebbe meno idoneo a incentivare comportamenti virtuosi che a convincere i cittadini a sbarazzarsi di un governo repressivo, incompatibile col principio della repubblica, quanto vicino a quello del dispotismo. Montesquieu con l’assegnare un principio proprio (ed esclusivo) ad ogni forma di governo aveva ben capito come armonizzare situazioni concrete, spirito pubblico ed assetto istituzionale: perché come in una democrazia, connotata dal ruolo attivo di tutti i cittadini nella gestione delle funzioni pubbliche occorre una dose di virtù diffusa, così a un governo dispotico che non ha quel presupposto, occorre, di converso, ispirare altrettanto generalizzato timore. Governare con la paura una repubblica, è, alla lunga, altrettanto illusorio che, per un governo dispotico, presupporre la virtù dei cittadini

Addossare l’onere del tutto al “diritto” (intendendo con tale termine, in modo un po’ improprio, leggi, pene, polizia e Tribunali) è assai più che sottovalutare la virtù è, principalmente, pretendere di governare un gruppo umano prescindendo da qualità, inclinazioni, aspirazioni umane; voler costruire una “meccanica” sociale senza motore. Ma dato che il problema da risolvere è in sostanza, far agire la comunità, dargli movimento, e per far questo occorre il motore, la soluzione offerta è peggio che errata: è, a dir poco, bizzarra. Anche perché coniugata ad una visione normativistica del diritto: il che accanto all’eliminazione del “principio” dal regime politico, lasciando solo la nature cioè la forma, aggiunge l’ulteriore riduzione  dell’ordinamento alle norme. Con ciò se ne estromette un’altra componente necessaria ed insopprimibile, che Montesquieu intravedeva con chiarezza assai prima che la querelle tra concezioni normativistiche ed istituzioniste la portasse a generale consapevolezza. In effetti quando parla di leggi e in particolare nel delineare la distinzione dei poteri, da rilievo, per l’appunto, ai poteri e ai rapporti tra gli organi che li esercitano cioè alle choses non alle regole.

Proprio nell’XI libro dell’Esprit des lois, nel sostenere l’opportunità della distinzione dei poteri sostiene “perché non si possa abusare del potere, bisogna che per la disposizione delle cose, il potere freni il potere” (il corsivo è nostro). E concetti ed asserzioni simili sono continuamente ripetuti nell’Esprit des lois; Montesquieu sostiene che è la conformazione dei rapporti tra organi statali e “corpi” politici a determinare l’assetto complessivo dello Stato e non (solo) le regole enunciate e (formalmente) vigenti, le quali senza istituti, organi, poteri e “forze sociali”, rimarrebbero largamente inapplicate, e presto, per lo più, desuete. L’attenzione che dava a tutti i dati reali, all’esistente, lo vaccinava dal pensare che le gazzette ufficiali o anche un législateur onnipotente, quali quelli immaginati dai suoi posteri, potesse realmente e stabilmente rimodellare le comunità politiche. Opinione che, invece sarebbe stata alla base delle esperienze successive delle “dittature sovrane”, segnatamente quella giacobina e bolscevica, incisive ma, in sostanza, transeunti .

Nel pensiero di Montesquieu sono le condizioni oggettive (e “pre-giuridiche”) sia materiali che spirituali a condizionare l’assetto istituzionale; è questo, ovvero l’ordinamento, a determinare le norme[19], in modo simile a come avrebbe, con il paragone della scacchiera, sostenuto Santi Romano; per cui quelle, per il pensatore francese, sono l’ultimo risultato di una serie di “cause” e ragioni concrete che, di giuridico, prima delle norme, hanno solo l’istituzione.

Il positivismo giuridico, che Schmitt connota come un misto di decisionismo e normativismo, ha comportato conseguenze – e convinzioni – opposte.

A livello – e nei momenti – politicamente “alti” prevale il profilo decisionista del législateur come ordinatore della comunità. Nei casi estremi, quello, sintetizzato da Saint-Just, di salvare la repubblica con dittatori o censori. Ma la durata di  tali assetti è stata generalmente assai breve; per cui, anche se occorre dar atto alla Convenzione di aver salvato la Francia (e la rivoluzione) nel 1793, occorre tuttavia ascrivere gran parte del merito (di cui di cui beneficiavano assai più che i giacobini, i termidoriani) all’entusiasmo (alla “virtù”) dei francesi.

Il suscitatore (e fomentatore) del quale furono assai meno le ghigliottine ed i processi, che la nuova era (e il nuovo “progetto” di società) che si schiudeva: vedeva bene Marx quando, nelle armate rivoluzionarie e napoleoniche riconosceva il “codice civile in marcia”.

Se invece si scende a livelli e momenti più bassi – tra i quali sono da considerare i contemporanei – la prospettiva cambia, e la pretesa di suscitare qualcosa di simile alla virtù con gli sbirri e gli avvisi di garanzia si manifesta ancora più irreale. In primo luogo perché l’angolo visuale da cui parte è l’opposto: se nel primo il rapporto prevalente tra decisione e norma è nel senso che la prima precede e crea la seconda, nell’altro, attento quasi esclusivamente al momento applicativo, è, ovviamente, la norma a determinare la decisione di chi la esegue. All’onnipotente législateur si sostituisce così il fonctionnaire, il quale infatti è la figura centrale di questo positivismo dimezzato, che al circuito coerente decisione/norma/decisione ha sostituito quello, limitato e claudicante, norma/decisione[20]. Nel primo caso il rapporto era visto complessivamente e dall’alto; nel secondo parzialmente e dal basso. Come se le norme fossero create dal nulla, e non volute, prodotte e, quanto meno, accettate dagli uomini. D’altro canto questo positivismo dimezzato non elimina il problema della virtù, dato che sono sempre uomini a decidere, anche se in base a norme. Perché siano concretamente attuate le quali, e realizzato il carattere impersonale del comando occorre la conformità “fotografica” delle decisioni irrimediabilmente personali dei funzionari al contenuto astratto delle norme applicate. Il che sposta solo la collocazione nello Stato della virtù, non la sua necessità. Se, per un illuminista, a esser virtuoso doveva essere soprattutto(ma non solo) il législateur – secondo la nota espressione di Rousseau il faudrait des dieux pour donner des lois aux hommes -, ora, deve esserlo (almeno) l’interprete – applicatore, la cui virtù specifica deve porlo al riparo da soggettivismi, condizionamenti ideologici, interessi mondani, ipertrofia dell’ego e così via. E senza la quale, l’aspirazione ad un governo di leggi, non di uomini, rimane confinata nei manuali giuridici o nei fondi domenicali dei quotidiani. Credere di poter cancellare (sempre) e deprecare (spesso) la personalità della decisione della norma, non significa comunque eliminarla dalla decisione in base alla norma. Il fatto che quest’ultima sia impersonale  ed oggettiva ex se si rivela un puro atto di fede.

Secondariamente una tale credenza presta il fianco a un obiezione (principale) e a un’altra (derivata). La prima che, come prima ricordato, il diritto “vola basso” sul concreto, sul sociale. Onde pensare che una società carente di virtù possa essere resa virtuosa con gli sbirri è quanto meno azzardato, non foss’altro perché se i comportamenti poco “virtuosi” hanno una tale prevalenza, ciò vuol dire che sono largamente condivisi, e pretendere di cambiarli con i carabinieri va contro il common sense. La seconda è che una società così corrotta dovrebbe aver prodotto, comunque, dei “censori” virtuosi. Ma anche tale presupposto appare poco probabile. Che le funzioni esercitate possono produrre uomini di una tempra etica così diversa è assai difficile. Sarebbe in altri termini, la tesi su cui ironizzavano gli autori  del Federalista sostenendo che i governi non sono composti da angeli. E gli uffici neppure. D’altra parte, approfondendo tale punto, un tale sistema è in grado di funzionare (più o meno bene) se la dose di virtù dei funzionari è sufficiente e congrua rispetto ai compiti. Uno Stato legislativo dove la legge sia poco applicata, domini il soggettivismo interpretativo e il corporativismo burocratico, dove, in altre parole, ci sia poco di quella virtù che connota i buoni funzionari, le istituzioni saranno – anche perciò – tendenzialmente deboli e poco confortate dal consenso popolare. Correttamente Forsthoff rilevava, a tale proposito, che il successo del positivismo giuridico nel periodo bismarckiano e guglielmino era merito, più che del rapporto “idealizzato” tra legge e applicazione concreta della stessa, delle doti professionali della burocrazia tedesca, ovvero della virtù della medesima.

Ma, quel che più rileva, in una democrazia le sorti della comunità sono nelle mani dei cittadini, ai quali competono le decisioni più importanti. Se il popolo è sovrano, e il popolo non è virtuoso, ciò significa che il sovrano non è virtuoso; ma non che qualcuno può (ha il diritto di) castigare il sovrano per la sua scarsa virtù[21]. Che è, di converso, proprio ciò che certe concezioni sottendono.

La ragione di Montesquieu sul porre come principio della repubblica democratica la virtù è proprio il fatto che ivi i cittadini hanno il potere di determinare il proprio destino, qualunque esso sia: perciò ove non possiedano la virtù tale regime ha scarse possibilità di durare; di converso ne avrebbero maggiori altre forme di governo cui la virtù (diffusa) non sia così essenziale.

  1. Montesquieu è stato uno degli interpreti e teorici del costituzionalismo moderno (forse il principale): con la teoria della distinzione dei poteri e della “disposition des choses” ha mostrato come possibile un organizzazione statale razionalmente concepita per la tutela delle libertà politiche e civili (di cui era fautore). Cioè proprio quella teoria che, col tempo, si è radicalmente modificata nel modo qui sottoposto a critica. Curioso sviluppo di una concezione assai equilibrata, in cui la progettualità umana era ancorata a presupposti e condizioni “fattuali” e così tenuta con i piedi per terra. Ma gli esiti successivi, con la sottovalutazione di quei presupposti e condizioni, l’esaltazione del législateur (e poi quella, meno esplicita, del fonctionnaire) la riduzione del diritto da istituzione a norma hanno completamente stravolto la concezione, in se equilibrata e ragionevole, del pensatore francese. Un ritorno alla quale (e al pensiero politico “classico”) può apportare un contributo di chiarimento e consapevolezza, essenziale in tempi in cui la politica, ridotta spesso alla propria caricatura, perde il proprio carattere di regolazione dell’ordine sociale e protezione della comunità. Carattere che forse può recuperare (ed è essenziale che recuperi) nello spirito pubblico, ove riportata alle sue corrette dimensioni ed ai suoi realistici presupposti.

Ciò avveniva contemporaneamente al processo di democratizzazione, quando, avendo i popoli preso in mano il loro destino e il timone degli Stati, c’era, e c’è, maggior bisogno di virtù diffusa. Alla cui mancanza non c’è rimedio “giudiziario”; ma semmai il cambiamento della forma di Stato, con l’adeguamento di questo a un altro “principio” dominante, o più, verosimilmente, la rinuncia alla politica e/o ad un’esistenza indipendente. Senza volontà di esistere politicamente e il peso delle decisioni che ciò comporta, basta veramente la bontà di Jacques le bonhomme.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Lo Stato moderno e la virtù, trad. it. ne Stato di diritto in trasformazione, Milano, 1973, p. 11 ss.

[2] Op. cit. p. 12.

[3] Politica, 3,4, 1276b-1277b

[4] Principe, XV.

[5] Esprit des lois, lib. 3, cap. II°.

[6] Op. cit., Lib. III°, cap. 3 (il corsivo è nostro).

[7] Lo stesso concetto è ripetuto in Esprit des lois, lib. V°, cap. 3. occorre ricordare che nell’ Avertissement scrive anche  «Enfin l’homme de bien dont il est question dans le livre III, chapitre V, n’est pas l’homme de bien chrétien, mais l’homme de bien politique, qui a la vertu politique dont j’ai parlé ».

[8] Frammenti sulle istituzioni repubblicane, trad. it., Torino 1975, p. 197 e 239.

[9] De l’esprit de conquête.

[10] Riportiamo il testo originale più esteso …les lois politiques et civiles de chaque nation…Il faut qu’elles se rapportent à la nature et au principe du gouvernement qui est établi ou qu’on veut établir; soit qu’elles le forment, comme font les lois politiques; soit qu’elles le maintiennent, comme font les lois civiles. Elles doivent êtrerelatives au phisique du pays ; au climat glacé, brûlant ou tempéré ; à la qualité du terrain, à sa situation, à sa grandeur ; au genre de vie des peuples, laboureurs, chasseurs ou pasteurs : elles doivent se rapporter au degré de liberté que la constitution peut souffrir, à la religion des habitants, à leurs inclinations, à leurs richesses, à leur nombre, à leur commerce, à leurs mœurs, à leurs manières. J’examinerai tous ces rapports : ils forment tous ensemble ce que l’on appelle l’esprit des lois. Je n’ai point séparé les lois politiques des civiles : car, comme je ne traite point des lois, mais de l’esprit des lois, et que cet esprit consiste dans les divers rapports que les lois peuvent avoir avec diverses choses, j’ai dû moins suivre l’ordre naturel des lois que celui de ces rapports et de ces choses.

[11] Du contrat social, Lib II, cap. XI.

[12] V. per Tocqueville La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. I, cap. VII; per Hegel Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941, p. 231.

[13] In realtà Jhering riconosce che il comportamento umano può essere indotto anche da “molle” dell’agire umano diverse dall’egoismo, ricorrendo all’abnegazione che non nega l’interesse “ma si tratta di un interesse totalmente diverso da quello proprio dell’egoismo” Der Zweck in Recht, trad. it., Torino 1972, p. 52 (e seguenti).

[14] La teoria Kelseniana, così precisa nel distinguere tra casualità e imputazione, tra sein  e sollen, tra scienze empiriche e normative, non offre – nè intende offrire – una soluzione a tale problema (e a quelli analoghi), ritenuti estranei alla dottrina del diritto. Ma che il problema pur estraneo alla Reine Rechtslhere, sussista in concreto, ossia che per far funzionare la “gran macchina” occorre un motore, e che il centro d’ “imputazione” debba agire di fatto, è altrettanto innegabile.

[15] “Vogliono a un tempo e in vista dell’universale, e hanno un’attività consapevolmente rivolta a questo” G.G.F. Hegel Lineamenti di filosofia del diritto prgrf. 260.

[16] Oltre a non spiegare – ed è più importante – come una società del genere possa esistere e durare in un pluriverso politico, dove l’esistenza del nemico e la possibilità della guerra costituiscono dati concreti e reali. Vale, a maggior ragione in questo caso, il giudizio di Mably su Cartagine “ci sarà sempre in questo mondo qualche popolo sempre pronto a fare la guerra alle nazioni ricche, perché fino ad oggi le ricchezze che corrompono i costumi sono sempre il bottino del coraggio e della disciplina”. Destino comune generalmente a quei popoli, ricchi o non ricchi, cui la virtù – in senso precipuamente machiavellico – abbia fatto difetto.

[17] È sicuro comunque che anche in una dimensione ridotta, una politica (quasi esclusivamente) interna richiede comunque dati e sensibilità apposite, non riducibili alla dirittura morale o alle capacità imprenditoriali.

[18] Un esempio letterario ne è la conclusione del Tartuffe di Moliére, in cui il Re Sole “cassa” motu proprio l’ingiusta sentenza nei confronti di Orgon.

[19] È chiaro che nella concezione di Montesquieu c’è anche (ma assai di più) quella dell’ordinamento di Santi Romano, che è comunque un’idea squisitamente giuridica.

[20] Proprio Saint-Just, in parecchi passi, testimonia la considerazione di un pensiero borghese “forte” e in ascesa per gli “esecutori” della volontà nazionale espressa nella loi: “Quiconque est magistrat, n’est plus du peuple… Les autorités ne peuvent affecter ancun rang dans le peuple. Elles n’ont de rang que par rapport aux coupables et aux lois… Lorsqu’on parle à un fonctionnaire, on ne doit pas dire citoyen ; ce titre est au-dessus de lui » Fragments sur les Institutions républicaines, III, 4.

[21] Mentre è possibile punire il cittadino (o i cittadini) che trasgrediscono, non lo è, di fatto, quando costituiscono la larga maggioranza, e quando i comportamenti non “virtuosi” sono altrettanto  diffusi. Vale in tal caso comunque la regola Kantiana che il Sovrano non ha doveri suscettibili di coazione (cioè giuridici). Il che non esclude quelli non-giuridici e l’uso di strumenti non coattivi.

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un interessante saggio di Pierluigi Fagan (PF), con relativo link al sito originario di pubblicazione. L’argomento (la sinistra, la nazione e la geopolitica) prosegue sulla falsariga di saggi già pubblicati su questo sito e ovviamente sul blog dell’autore. Per accedervi è sufficiente digitare sulla voce dossier del menu in alto e sul nome dell’autore. Il tema è ricco di spunti; la finalità dell’autore è di contribuire a far uscire il dibattito e l’azione politica dei critici della Unione Europea dallo stallo abbarbicato com’è alle mere enunciazioni di principio e ad un approccio meramente negativo della proposta politica, specie della componente sinistrorsa. La chiosa non intende essere una critica al testo, quanto piuttosto un tentativo di focalizzare schematicamente alcuni punti sui quali sviluppare un dibattito proficuo.

Fagan in particolare, nella fase di multipolarismo complesso in via di affermazione:

  • ritiene imprescindibile il problema della dimensione degli stati nazionali. Una posizione nient’affatto scontata; sono numerosi i fautori della tesi che attribuisce anche agli stati più piccoli, purché attrezzati con una adeguata classe dirigente, significative condizioni di agibilità
  • le dinamiche geopolitiche sono altrettanto importanti delle dinamiche tra le classi sociali; anzi, una condizione ottimale nelle prime consente una migliore gestione delle formazioni sociali. In questo ambito il dibattito generale spazia tra la priorità attribuita alle dinamiche sociali e i rapporti tra stati, tema tipico della sinistra e della estrema destra e l’esclusività attribuita ai rapporti geopolitici tra stati e istituzioni, tipica degli analisti geopolitici. Nel mezzo, a dar man forte all’approccio “complesso” offerto da Fagan, trova posto a pieno titolo, come promettente chiave di interpretazione delle dinamiche politiche, la teoria lagrassiana del conflitto strategico tra centri decisori
  • affronta la questione fondamentale riguardante l’approccio al rapporto con l’Unione Europea con una importante delimitazione. Il suo discrimine riguarda non solo i sostenitori duri e puri della UE, ma anche i cosiddetti riformatori. Le possibili posizioni dipendono in pratica dalle combinazioni possibili delle relazioni tra gli stati europei eventualmente aggregati in aree omogenee
  • vede nella Francia il baricentro della costruzione europea. Una posizione originale rispetto alle tesi prevalenti che attribuiscono alla Germania il primato politico oppure agli Stati Uniti l’assoluta predeterminazione della costruzione e degli indirizzi politici comunitari.Una ricostruzione storica delle vicende comunitarie può sembrare un puro esercizio accademico; serve in realtà a determinare le dinamiche e il peso dei vari decisori. La letteratura, al netto dell’agiografia, offre diversi punti di vista. Uno di questi, ben presente nella ricerca francese e statunitense, attribuisce alla classe dirigente “sovranista” francese la volontà di sostegno al progetto comunitario nella misura in cui fosse stata la Francia, con inizialmente la Gran Bretagna, a determinare gli indirizzi. In soldoni, nella misura e nei momenti in cui sarebbe apparsa sempre più chiara l’assoluta influenza americana e la sua volontà di sostenere la Germania in funzione antifrancese e antibritannica e come importante risorsa antisovietica, l’afflato comunitario della Francia sarebbe a sua volta venuto meno. Con due eccezioni importanti tra le quali l’azione dell’oestpolitik tedesca negli anni ’70 che indusse i francesi a sostenere l’ingresso della Gran Bretagna
  • consiglia di prendere atto della progressiva formazione di più aree europee politicamente autonome per individuare in quella latino-mediterranea, il possibile coagulo di forze capace di sostenere il confronto.    

Si attendono sviluppi e contributi_Buona lettura_Giuseppe Germinario 

 

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO.

Tra un anno si va a votare per l’Europa. Su Micromega, G. Russo Spena (qui), sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.

La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche  alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.

C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon,  fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.

Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.

Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.

Tutti e tre gli schieramenti, si ripromettono sia la democratizzazione delle istituzioni europee, sia l’inversione delle politiche neoliberali che le hanno contraddistinte. Il secondo schieramento, quello di Varoufakis, più che inter-nazionale, è trans-nazionale nel senso che a quanto par di intuire, si ripromette di costruire una unica forza politica contemporaneamente presente in più paesi, posizione molto in auge negli ambienti federalisti.

Il terzo schieramento invece, si è trovato subito diviso, una divisione però sopita e rimandata, tra il famoso “Piano B” di France Insoumise e Podemos. I francesi si sono presentati alle ultime presidenziali con un programma corposo “L’avvenire in comune”, nel quale hanno declinato 83 tesi in 7 sezioni. Nella tesi 52, presentavano l’ipotesi subordinata “Piano B”. Si trattativa dell’alternativa all’eventuale (certo) fallimento dei tentativi di correzione della politica europea, l’ultima ratio era la rescissione unilaterale francese dei trattati. Come molti avevano notato ai tempi del referendum greco, le trattative politiche si basano su i rapporti di forza e chi aspira a contrastare il potere dominante deve poter -ad un certo punto- mettere sul piatto l’opzione alternativa, quella che rovescia il tavolo. Senza questa minaccia o concreata alternativa, inutile sedersi a far qualsivoglia trattativa, trattasi di verità negoziale a priori.

Il Piano B francese era “o cambiamo l’UE-euro o usciamo”, rimaneva aperta una successiva  possibilità in cui la Francia sovrana avrebbe poi  stretto patti cooperativi e di collaborazione in ambito educativo, scientifico, culturale. Questa era la tesi 52, la 53 invece, iniziava con un “Proporre un’alleanza dei paesi dell’Europa meridionale per superare l’austerità e lanciare politiche concertate per il recupero ecologico e sociale delle attività” che è appunto ciò che hanno fatto a Lisbona. Con ciò terminava la quarta sezione e si passava alla quinta. La quinta sezione si apriva col titolo “Per l’indipendenza della Francia” e quindi dava outline di ciò che la Francia avrebbe potuto e dovuto fare sia nel mentre rimaneva nelle istituzioni europee, sia a maggior ragione e con più convinzione dopo l’eventuale applicazione dell’opzione nucleare che portava al Piano B, l’uscita unilaterale. La tesi 63, metteva in campo idee concrete di cose ed iniziative  da promuovere  nel bacino Mediterraneo, un Mediterraneo braudeliano quindi considerato sia per la sponda europea (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia), che per quella nord-africana (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia). Il senso dell’intera questione manteneva una certa ambiguità tra questi tre livelli: Francia sovrana, Francia cooperante con i paesi latino-mediterranei nella lotta contro ma dentro l’UE, Francia perno di un nuovo sistema mediterraneo come già Sarkozy ma anche molti altri francesi avevano pensato in passato, ancora dentro l’UE ma a maggior ragione se fuori.  L’ editoriale del numero in edicola di Limes, rimarca pari ambiguità in Macron quando questo sembra superare di slancio il principio di non contraddizione nel sostenere al contempo la Francia sovrana ed uno stadio superiore di Europa federale.

Podemos, pur avendo firmato la Dichiarazione di Lisbona, pare stia ancor tentennando suDiem25 ma più che altro è interessante sottolineare come Iglesias abbia del tutto escluso la condivisione del Piano B di France Insoumise. Al di là delle opinioni specifiche di Podemos sull’euro, Iglesias ha specificato che in Spagna c’è un forte per quanto vago ultramaggioritario sentimento europeista, lo stesso che posso testimoniare personalmente vivendo lì una parte dell’anno, hanno i greci.  Sentimento europeista non vuole affatto dire adesione a questa UE o a questo euro, si tratta di una intuizione più culturale che politica.

Molta parte dell’opinione pubblica europea, è come se avvertisse che i tempi impongono il fare una qualche forma di fronte comune. Il sentimento è forte nel suo radicamento ed al contempo debole nella sua razionalizzazione, unisce i convinti supporter dell’attuale stato di cose, quanto i suoi più convinti critici oltre che ovviamente gli indecisi ed i confusi che sono la maggioranza. Vedi Trump, vedi Putin, vedi Xi Jinping, i britannici che si mettono in proprio, senti di bombe atomiche coreane, terroristi arabi, migranti africani o asiatici, la incombente matassa intricata della “globalizzazione”, l’incubo delle nuove tecnologie, il temuto collasso ambientale e ti viene facile pensare che davanti a tanta minacciosa complessità, l’unione fa la forza e da soli non si va da nessuna parte. Il passaggio da “unione” come spirito vago ad “Unione” come istituzione precisa è garantito dal meccanismo di analogia che abbiamo nel cervello, “sembra” proprio che l’uno risponda all’altro. Vale per le élite, per i medio informati ma anche per coloro che usano più neuroni della pancia che quelli della scatola cranica. Chi si muove politicamente in forma critica sulla questione europea dovrebbe tener conto di questo diffuso sentimento se non altro perché chi fa politica deve aver per interlocutore pezzi di popolazione prima che l’avversario ideologico. Si fanno discussioni con gli amici ed i nemici ideologici davanti a pezzi di popolazione perché il fine politico è conquistare cuori e menti di questi secondi. Dai temi che tratta al linguaggio che usa, questa avvertenza di parlare sempre alla generica popolazione, è del tutto ignorata dalla sinistra che oggi si interroga su dove mai sia finito il suo “popolo”.

Sembra quindi che France Insoumise abbia costruito una posizione a cerchi concentrici di definizione. Il cuore a fuoco è la battaglia contro questa UE ed euro, la corona interna meno a fuoco è la ricerca di alleanze organiche con forze politiche latino-mediterranee da cui la Dichiarazione di Lisbona, la corona esterna ancora meno a fuoco un po’ sciovinista e molto “francese”, è l’idea in fondo guida di una Francia sovrana al centro di cerchi concentrici di cooperazione asimmetrica che arriva fino a pezzi della Françafrique. Questa ultima posizione occhieggia a più vasti settori dell’opinione pubblica francese, inclusi pezzi di classe dirigente ed è forse merito di questa ampia vaghezza se France Insomise ha preso quasi il 20% al primo turno delle presidenziali. Se Mélenchon declina questo target a fasce concentriche che sembrano volersi distaccare dall’UE, Macron declina la stessa geometria egemonica  rivolta verso più UE[1].  Come mai, pur da sponde opposte, i due francesi si agitano tanto occupando più posizioni al contempo e lasciando intendere tutto ed il suo contrario?

Svegliatici, occorre dircelo, tutti un po’ tardi rispetto a ciò che si era stabilito a suo tempo nel trattato di Maastricht (che ricordiamolo è del 1992), l’analisi critica si è soffermata su gli aspetti economici e monetari, tra neo-ordo-liberismo e posizione dominante tedesca. Ma se andiamo a ritroso del registro storico, si vedrà come tutto ciò che precede Maastricht e l’euro  (ed inclusi questi) a partire dall’immediato dopoguerra, ha il suo baricentro non in Germania ma in Francia. E’ la Francia a promuovere la CECA, è la Francia a non approvare la riforma decisiva che avrebbe potuto dare un futuro politico all’Europa ovvero la CED (approvata già dai Benelux e dalla stessa Germania), è la Francia e non far entrare la Gran Bretagna in UE per poi ripensarci ed è lei stessa a sospendersi dalla NATO per diventare potenza atomica per poi ritornarci, è De Gaulle ad invitare Adenauer a Parigi per sancire il trattato dell’Eliseo (1963) quindi fissare formalmente la diarchia regnante l’europeismo, e così via fino allo stesso Maastricht e l’euro che nascono come  contropartita richiesta alla Germania per il via libera dato alla sua preoccupante riunificazione. I tedeschi, si sono limitati ad imporre la struttura economico-monetaria ai trattati, struttura che per altro avevano già nella loro Costituzione dal 1949 e dalla quale non avevano la minima intenzione di derogare perché fonda la loro nazionale narrativa post-bellica, soprattutto come spiegazione dell’irrazionalità da cui sorse il nazismo. Secondo questa narrativa, il nazismo venne dall’eccesso di inflazione.

Questo ci ha portato altrove a definire il progetto europeista, primariamente un trattato di pace tra Francia e Germania, stante che nei due secoli precedenti, questi campioni della potenza europea, si erano già combattuti e reciprocamente invasi più volte. Il  problema del confine tra Francia e Germania con tutto il portato di carbone, acciaio, metallurgia e siderurgia (quindi armi), è una costante geopolitica ovvero basata sulla politica (gli Stati, la volontà di potenza) e la geografia (confine in comune, passato indistinto, assenza di chiari segni geografici di separazione). Se Mélenchon si agita verso più autonomia e Macron verso più integrazione, l’uno pensa che la relazione con la Germania sarà sempre subalterna, l’altro pensa di poterla dominare o quantomeno contrattare secondo la tradizione del dopoguerra, il punto in comune è la Francia, la sua posizione nei prossimi decenni. Si noti come in tutta la questione europeista si incrocino sempre due assi, quello degli interessi delle classi sociali e quello degli interessi delle nazioni. Ogni governante sa che maggiore è il vantaggio portato alla propria nazione, più relativamente agevole sarà gestire i rapporti tra le classi sociali.

Tutta la faccenda europeista, se da una parte discende dal problema dei confini e dalla turbolenta convivenza dei due potenti vicini, non meno certo che da considerazioni ed interessi dell’ economia di mercato e della élite che ne beneficiano, discende anche da alcune non sbagliate considerazioni che si trovano nel Manifesto di Ventotene non meno che in Carl Schmitt, in Alexander Kojève non meno che nel primo scritto europeista del poi diventato leggenda nera principe Coudenhove Kalergi, la PanEuropa. Questi e molti altri, che data l’estrema eterogeneità non possono dirsi discendenti di una unica ideologia (ci sono accenni di Stati Uniti d’Europa addirittura in Lenin), evincono sin dai primi del Novecento che oggettivamente Europa non è più un campo di gioco unico in cui si riflettono le sorti del mondo. Gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Russia, il mondo arabo su fino all’India, segnano il prepotente allargamento del rettangolo di ogni gioco, politico, geopolitico, culturale, militare ed ovviamente economico. Lo spettro largo di queste riflessioni dura un secolo ed è la versione più colta del sentimento “unionista” di senso comune di cui abbiamo parlato prima.  Improbabile che Europa, dove a fronte di un 7% delle terre emerse si concentrano ben il 25% degli Stati mondiali, possa continuare a pensarsi come una macedonia conflittuale di stati e staterelli di più o meno antico pedigrèe. La doppia tenaglia anglosassone e sovietica per più di quattro decenni, ha reso presente a tutti come la divisione fa imperare altri soggetti, la sovranità prima ancora che monetaria, fiscale e giuridica, la si è perduta militarmente, quella politica ne è solo la conseguenza. Questo ci dice che se prima abbiamo individuato due assi ora ne dobbiamo mettere un terzo, oltre alla lotta tra le classi di una nazione e quella tra le nazioni europee tra loro, c’è anche da considerare che il quadrante di gioco non è più solo quello sub continentale ma quello mondiale.

Torniamo così al nostro discorso principale. Chi si propone di democratizzare l’UE temo stia perdendo altro tempo. Mi domando se “più democrazia” sia una invocazione infantile che serve ad acchiappare voti agitando il nobile drappo dell’autogoverno dei popoli o un preciso piano. In questo secondo -improbabile- caso, mi domando come pensano questi neo-democratici di risolvere il problema dell’oggettiva differenza che corre tra popoli latini e mediterranei e popoli germani e scandinavi, tra gli euro-occidentali e gli euro-orientali. Se domattina Mago Merlino con la bacchetta magica ci donasse il parlamento dell’euro a cui sottomettere la politica della banca centrale, i mediterranei  avrebbero la maggioranza dei 2/3, se ben convinti (e ci sono oggettivi interessi materiali nazionali a largo spettro a supporto) potrebbero far passare la riforma dell’euro facile-facile. Un millisecondo dopo la Germania, l’Olanda, la Finlandia, Lussemburgo ed i tre baltici uscirebbero.  Lo stesso varrebbe per la maggioranza italo-francese nell’eventuale parlamento della piccola federazione dei sei paesi fondatori la CEE-UE.  Così per lo statuto dell’euro ma anche per le altre necessarie riforme economiche e sempre evitando la politica estera che con la sua radice geografica, pone i mediterranei e quelli del Mare del Nord su sponde opposte, interessi diversi, prospezioni ed alleanze altrettanto diverse. Per avere democrazia ci vuole -al minimo- una Costituzione un parlamento, un governo, l’unione dei tre poteri di Montesquieu ed in definitiva niente di meno di uno Stato. Questo Stato che è l’unico sistema conosciuto in cui applicare la democrazia, a 6 se a base storica (?), 19 se su base euro o a 27 se su base UE, non è materialmente possibile per motivi auto-evidenti che i “democratici” non capisco perché si ostinino a non voler vedere. Se per fare un mercato si può essere 19 o 27 e pure eterogenei, per fare uno Stato sono richieste omogeneità giuridiche, culturali, religiose, linguistiche, storiche, politiche. Ogni volta che il sistema di mercato (UE) tenta di fare lo Stato si spacca, ma non lungo le linee ideologiche, lungo le linee geo-storiche. Ancora di recente, Macron si è speso per l’intensione (più governante quasi-federale) e Juncker ha invece ribadito l’estensione (ci sono molti paesi nel sistema, sarebbe più utile allargare il sistema ad altri paesi ad esempio i balcanici), perché le logiche per fare Stati o quelle per fare mercati sono intrinsecamente diverse.

Nessuno vuole in Europa uno Stato federale (anche perché materialmente irrealizzabile), quindi nessuno è in grado di sottomettersi a volontà generali che diventerebbero potere di popoli su altri popoli. Tra il disprezzo nei confronti dei mediterranei ed il ricambiato odio per i tedeschi o l’ironia svagata su quanto si sentono furbi i francesi senza esserlo davvero, mai come oggi stanno tornando in auge sentimenti nazionalistici che categorizzano molto sommariamente l’Altro. Far finta che non esistono i popoli o gli Stati o la storia o la geografia non aiuta, non appena si spinge troppo sull’inflazione retorica unionista, ecco spuntare subito il rimbalzo sovranista. Ma il peggio è che unionisti e sovranisti si disputano il gran premio della chiacchiera perché tanto né sembra si possa andare a più unione, né tornare alla nazione e ciò che impera, alla fine della fiera, è sempre e solo la Commissione, la BCE, i “Nien!” tedeschi. Tra il grande ed il piccolo Stato, alla fine vince sempre il Mercato.

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Siamo nel doppio vincolo, da una parte vorremmo esser più forti ed unirci ma la nostra estrema eterogeneità lo rende impossibile, dall’altra vorremmo ripristinare una accettabile democrazia e tornare a decidere noi sul “che fare?” il che però ci riporta in teoria ai nostri singoli stati che già oggi ma viepiù fra trenta anni, varranno quanto il due di coppe a briscola quando regna bastoni. Strappare più sovranità oggi, significa perderla senza speranza nell’immediato domani del commercio internazionale, della circolazione dei capitali, della dittatura dei mercati, delle nostre fragilità economiche, dei diktat anglosassoni sulla NATO, delle crescente minorità politica di nazioni piccole, sempre più anziane, sempre meno competitive e significative nello scenario mondo.

In questo dilemma che a volte si presenta come trilemma (dentro la nazione, tra le nazioni europee, nazioni europee vs resto del mondo) la sinistra ha forse una opportunità per quanto la confusione mentale ed ideologica oggi occulti proprio ciò che ha davanti a gli occhi.

Se gli otto paesi firmatari del distinguo rispetto ai sogni devolutivi macroniani sono tutti del nord Europa (inclusa la Germania dietro le quinte), se il gruppo di Visegrad unisce stati orientali confinanti ed eterogenei uniti però nel distinguersi rispetto ai dettami occidentali franco-tedeschi, se la Dichiarazione di Lisbona è firmata dai meridionali portoghesi, spagnoli, francesi ed una particella di italiani è perché l’Europa è fatta di popoli ed i popoli di culture, di storie sovrapposte su un piano geografico costante che unisce alcuni e separa altri. Sono le culture l’ordinatore che consente e non consente le eventuali fusioni tra Stati-nazione in Europa. Nessun paese latino mediterraneo avrebbe grossi problemi ad avere una banca centrale che fa quello che ogni banca centrale al mondo fa (espansione economica, controllo del cambio, aiuto nella gestione del debito pubblico oltre al fatidico controllo dell’inflazione), non così i tedeschi e la loro area egemonica nord europea. E lo stesso gruppo dei latini certo che ha interessi geopolitici comuni verso il Mediterraneo, il Nord Africa ed anche il resto del continente che s’affaccia sul nostro stesso mare (per non parlare delle opportunità di sistema con il Centro-Sud America), quindi interesse ad unire le forze in qualche modo. Interessi diversi da quelli germano-scandinavi o dei confinanti con la Russia.

Tra paesi latino mediterranei si possono fare alleanze senza speranze che si battano per una diversa UE, si possono promuovere  maggior livelli di integrazione e cooperazione fattiva mentre si rimane nell’UE, ci si può dar man forte per coordinare una simultanea uscita dall’euro tornando a chi ci crede alle rispettive valute o per uscire tutti dall’euro tedesco e confluire  in un altro euro mediterraneo espansivo, svalutabile, di aiuto alle gestione dei debiti pubblici (soprattutto quelli collocati all’estero, estero che a quel punto avendo nel nuovo sistema sei diversi paesi, diminuirebbe come impegno nel caso lo si volesse ricomprare per immunizzarsi dagli spread, come è in Giappone), sottomesso non ad un trattato ma ad un parlamento democraticamente rappresentativo.

Nel rompicapo europeo non ci sono soluzioni facili e questa invocazione di un insieme latino-mediterraneo non è esente da problemi. Si tratta però di scegliere la via meno problematica e sopratutto quella che apre a maggiori condizioni di possibilità. La comune cultura latino-mediterranea è l’unica solida base per cominciare a sviluppare progetti politici inter-nazionali per tempi che stanno velocemente scalando indici di complessità sempre meno rassicuranti. Ci conviene oltremodo svegliare tutti dal sonno dogmatico che vuole unioni a 27 o a 19 senza che sussistano gli indispensabili pre-requisiti per farlo, così come ci conviene essere realisti e responsabili e cominciare a pensare  che nel mondo nuovo paesi solitari da 60, 40, 10 milioni di abitanti avranno sovranità men che formali. Coordinarsi tra simili per criticare, provare a cambiare o abbandonare l’euro non meno che la NATO, è condizione necessaria, il fine preciso lo valuteremo assieme, intanto fissiamo il mezzo.

Non esiste una sinistra senza una Idea ed in tempi così complicati, far base su un substrato comune di origine geo-storico, quindi culturale, quindi popolare e reale, a noi sembra il modo migliore per far si che la sinistra torni a pensare e ad agire politicamente. Se le opinioni specifiche su UE, euro e vari tipi di progetti avanzati da più parti fanno perno su quel sentimento istintivo che pensa necessario unire le forze tra alcuni di noi, dare a quel sentimento la prospettiva più limitata e perciò più concreta dell’alleanza progressiva tra noi mediterranei europei (per i paesi-popoli musulmani mediterranei il discorso verrà fatto dopo, non si possono fare progetti di unione federale con paesi del nord Africa, ora), può aiutare a darci identità, egemonia nel dibattito pubblico, spinta creativa a disegnare il mondo che verrà, voglia di tornare a fare politica. Se la sinistra nasce nel conflitto sociale interno, oggi deve anche misurarsi con il formato Stato-nazionale, coi rapporti interni all’Europa che sono tra nazioni prima che tra classi e col problema di ciò che è fuori dal nostro antico mondo. L’Idea deve orizzontarsi su tutte e tre le variabili altrimenti rimane idealismo, inutile sequenza di petizioni di principio e non progetto.

La sinistra uscirà dalla sua crisi quando dimostrerà di avere un progetto positivo sulla realtà, alla funzione critica si può aderire scrivendo e comprando libri (una delle principali attività della sinistra), ma non si costruisce realtà con la “potenza del negativo”. La sinistra nata dal conflitto di classe deve sapersi riattualizzare davanti ai tre scenari sistemici mai davvero trattati in profondo dalla sua pur voluminosa produzione teorica: nazione, Europa, mondo. Niente progetto, niente sinistra.

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[1] Il Piano Macron è stato presentato a settembre 2017 alla Sorbona. Le “corone” del piano Macron erano sicurezza, difesa e politica estera, tre argomenti che si fondono come interesse francese ad agire negli “esteri” identificando l’interesse francese con quello europeo. La partecipazione francese, almeno “ideale”, al bombardamento in Siria e l’orgogliosa rivendicazione valoriale che ne ha fatto Macron il 17 aprile a Bruxelles, confermano di questa vocazione del francese ad intestarsi la funzione esteri. (Sullo sviluppo del business della difesa, si veda questo contributo di B. Montesano su Sbilanciamoci: http://sbilanciamoci.info/difesa-europea-business-della-sicurezza/ a rimarcare la costante ambiguità per la quale non si parla di esercito comune ma di business comune). Oltre ai tre argomenti “estero”, il piano Macron ha ambiente e ricerca tecnologica dove quest’ultima segna una delle croniche debolezze europee. Nessuno stato europeo è effettivamente in grado di mobilitare investimenti significativi in grado di competere con quelli americani e cinesi, mancanza che poi si riflette nelle minori condizioni di possibilità economiche e mancanza di indipendenza in un settore strategico. Infine, l’euro che Macron vorrebbe riformare con un comune bilancio e conseguente allineamento fiscale e con unico ministro delle Finanze.  Difficile che anche volendo (e sull’esistenza di questa volontà è lecito nutrire parecchi dubbi), la Germania in cui le due forze politiche in ascesa e che controllano già oggi un quarto dell’elettorato sono i Liberali euroscettici ed AfD apertamente xenofoba, aderisca al progetto se non rendendolo ancora più ambiguo tra la sua forma narrativa e la sostanza ben meno palpitante. Chissà quindi se ci sono proprio i tedeschi dietro la presa di posizione del 6 marzo, in cui otto paesi euro (Finlandia, Irlanda, Olanda, i tre baltici, Svezia e Danimarca ultimi due non in Eurozona e si tenga conto che fuori Eurozona c’è poi su posizioni simili anche il Gruppo di Visegrad) hanno pensato necessario dichiarare assieme l’assoluta contrarietà ad ulteriori devoluzioni dei poteri nazionali, bocciando in sostanza il piano Macron. A sentire le dichiarazioni di Merkel in preparazione del vertice con Macron sembrerebbe proprio di sì, i settentrionali  non vogliono alcun sistema politico comune coi meridionali, non si capisce perché i meridionali non ne prendano atto e ne traggano conclusioni.

Il 25 aprile nulla da festeggiare, di Max Bonelli

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare.

 

Alla stanchezza fisiologica che si accompagna alla primavera (con l’ondata di pollini e le  allergie connesse) si sente nel bel paese un’altra stanchezza che scaturisce da una data rossa sul calendario dove in teoria dovremmo festeggiare la liberazione dall’occupazione tedesca avvenuta dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

I festeggiati i circa 20.000 partigiani e i “liberatori” americani, sono venuti piano, piano a mancare negli anni ma non solo per un motivo fisiologico di morte degli stessi ma per la trasformazione di questi e dei loro discendenti morali in occupanti e collaboratori degli occupanti. Questa è la situazione ad oggi  in data 25 aprile 2018. Certo non come liberatori si possono indicare  gli  USA che hanno scalzato l’occupante tedesco per sostituirlo con un nodo da “cravattaro” che si fa di ogni anno più stretto. Nuove basi aprono sul nostro territorio, impunità dei loro soldati per i crimini commessi sul nostro suolo (Cermis docet) ed imposizioni in politica estera sempre più lesioniste dei nostri interessi (Libia).

Riguardo i collaboratori degli occupanti PD=PD-L: la prima parte dell’equazione rappresentano gli eredi immorali dei partigiani comunisti.  Il PCI almeno fino alla famigerata svolta  fatta con il viaggio di Napolitano negli USA era l’unico partito che si professava sovranista in Italia (volevano un Italia neutrale fuori dalla Nato). Già riecheggiano le urla dei “destrorsi” che dicono “non è vero ci volevano nel patto di Varsavia”. Illazioni mai provate dalla Storia e dette spesso per giustificare  il servilismo dell’MSI nei confronti della Nato e dei suoi apparati senza contare la scarsa propensione storico dinamica dell’URSS all’espansione geopolitica.

Ora il pronipote è rappresentato dal PD renziano, collaborazionisti degli USA ,fedeli servi che fanno della lotta alle timide istanze sovraniste della Lega e di Fratelli d’Italia la loro ragione di esistere.

I loro antenati morali si stanno rivoltando nella tomba,chi siede a botteghe oscure è un servo del capitalismo e traditore della Patria.

La seconda parte dell’equazione è composta dagli odiosi opportunisti spesso alto borghesi benestanti che diedero avvallo allo squadrismo degli anni venti per fermare l’avanzare del socialismo e tradirono il fascismo quando fu chiaro che era ormai cavallo perdente. Anche  essi fedeli servi del più forte ed in questo caso della bandiera a stelle strisce.

 

L’occupazione militare è solo un espressione di un’altra occupazione che subisce il paese: quella economica dell’Europa a conduzione tedesca.

Presenza ancor più pesante di quella militare descritta in precedenza, perchè sta uccidendo l’Italia, il suo substrato manifatturiero, quello che

l’ ha reso  una piccola potenza economica.

La moneta unica sta uccidendo la nostra economia che non avendo in mano lo strumento della svalutazione è costretta a riversare sul lavoro le leve per attuare concorrenza dei prodotti, precarizzando le condizioni degli occupati a tutti i livelli e non ultima la classe della piccola borghesia impiegatizia.

Questa occupazione a 360|gradi Germano-Americana la stiamo vivendo in tutta la sua implacabile stretta nel mandato del presidente  Mattarella al secondo schieramento per numero di eletti il M5S con il preciso intento di unirsi al PD uscito perdente dalle elezioni. Tutto dettato dal pericolo populista sovranista che Lega e Fratelli d’Italia si fanno espressione seppur in maniera timida. Se analizziamo le parole espresse dal PD “si al dialogo con il M5S se cessano di dialogare con la Lega” si capisce a quale padrone rispondono, lo schiavo perdente che vuole prendersi in carico l’addestramento del nuovo il M5S.

Il peccato della Lega? Il timido accenno di ribellione all’occupazione. Proprio ora che Salvini parla non più di Padani, ma di Italiani e da partito secessionista timidamente fa passi verso il Sovranismo patriottico rappresentato dall’On. Bagnai e nelle loro file eletto?

 

Questa rinnovata lotta tra occupanti e loro collaborazionisti da una parte e dall’altra  patrioti che con diversi colori,contraddizioni emergono nel paese si rinnova e ci dovrebbe far riflettere che non c’è niente da festeggiare in questa data. Ci sono ragioni per una ribellione, per una lotta contro l’occupazione. Bisognerebbe rileggersi le figure di veri eroi come :

Bottai

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Bottai

 

Mattei https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei

 

ed altri patrioti sovranisti  sconosciuti che in silenzio rifiutarorno di versare sangue italiano

http://www.conflittiestrategie.it/il-25-aprile-nel-ricordo-di-mio-nonno-gigi-ed-altre-storie-sconosciute-ai-piu-di-max-bonelli

 

e rivolsero le loro energie contro gli occupanti.

Eroi  che rifiutarono  la logica dei Guelfi e Ghibellini che porta ad ammazzarci con facilità tra di noi italiani e  che indicarono una strada:

rivolgere le nostre energie ad una vera lotta di liberazione perchè questa è rimasta incompiuta.

Bisognerebbe far partire un tavolo di conciliazione nazionale che parta da una base comune data di tanti patrioti che dopo l’8 settembre decisero di combattere da una parte e dall’altra i due occupanti il tedesco e l’americano senza  versare sangue italiano. Per fare questo occorre potare sia a destra che sinistra la faziosità partitica e far rimanere centrale il fusto su cui si poggia l’Italia la Patria fatta di lavoratori e piccola media borghesia con l’attività produttiva incentrata nei confini nazionali.

 

Max Bonelli

 

 

 

La trattativa con la realtà, di Roberto Buffagni

La trattativa con la realtà

 

Ho appena letto della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia, con le pesanti condanne inflitte agli ufficiali dei Carabinieri. Evito di diffondermi sul messaggio (trasversale?) che i giudici mandano alle FFOO: “Prima di tutto coprirsi le spalle e altre parti del corpo”, all’antica quieta non movere, alla moderna don’t  rock the boat. Evito di diffondermi anche sul fatterello che le FFOO non “trattano con la Mafia” in proprio ma per conto terzi, cioè per conto dei governi (nel caso in oggetto, governi di sinistra e non berlusconiani, ma sono dettagli). Evito di diffondermi sul fatto, incontestabile, che le trattative si fanno con gli avversari e/o i nemici, con gli amici ci si mette d’accordo con le gambe sotto il tavolo e il bicchiere in mano. Evito di diffondermi sul tempismo cronometrico della sentenza, che influisce sulla delicata dialettica politica in corso, favorendo un governo 5*-PD e/o un governo 5*-Lega che spaccherebbe il centrodestra e farebbe lo scherzo dell’Anaconda a Salvini. Evito di diffondermi persino sul fatto storico, anch’esso incontestabile, che le trattative con la Mafia le faceva anche Giovanni Giolitti, un politico italiano di grande statura e specchiata onestà personale che si beccò la definizione di “Ministro della malavita” da Gaetano Salvemini.

Mi diffondo invece (poco, niente paura) su un tema che mi interessa di più.

E’ il tema della grande fiaba desinistra dei “servizi deviati” e dell’inattingibile ”terzo livello della Mafia”, in pillola: la DC un tempo, in seguito Berlusconi, insomma i destrogiri, sono complici della Mafia e in genere delle Forze Oscure della Reazione, solo grazie a questa complicità assurgono a un immeritato e altrimenti inspiegabile potere, conculcano e sbeffeggiano le Forze Sane del Progresso e fanno dell’Italia, che sarebbe tanto brava, un paese anormale ove spadroneggiano impuniti e sfacciati gli evasori fiscali, i furbetti del cartellino, gli analfabeti d’andata e ritorno, i fans di Padre Pio, Berlusconi e Lucio Battisti, gli assessori che scialacquano i risparmi degli italiani in coca troie aragoste e mutande a rete come il celeberrimo Batman, i guidatori di SUV parcheggianti in posto riservato invalidi, etc.; e questo infausto destino durerà nei secoli dei secoli sinché non andrà al governo con larga maggioranza prima il PCI, poi il PD o altri avatar del Bene levogiro tipo 5*, e allora sì che cambierà tutto: in meglio, s’intende, il dopo è sempre meglio del prima, sennò che fine fa il progresso, dove andiamo a finire, torniamo indietro?

Archetipo della suddetta fiaba, il mitico sceneggiato anni Settanta in milletrecentosei puntate La piovra, che diede fama imperitura a Michele Placido, da allora trasfigurato nell’icona immortale del “Commissario Cattani”; il quale  – nota a margine per i più piccini – aveva anche lui la moglie straniera e incontentabile come il suo più tardo avatar Commissario Montalbano, pure lui eroe desinistra sebbene pelato. Bene: colgo l’occasione per formulare anche io una sentenza, la seguente: la fiaba desinistra sulla Mafia è una fiaba.  Questa fiaba desinistra può essere raccontata bene, anche molto bene (le prime serie de La piovra sono belle o belline); e sarà sempre interessante non perché sia interessante la sinistra italiana che francamente non lo è, sotto il profilo spettacolare e drammaturgico il mito dell’onestà, del rigore, del pagamento al centesimo delle tasse, della superiorità morale, dell’eguaglianza tous azimuts, delle vacanze intelligenti, insomma il mito delle professoresse piddine entusiasma come un accertamento fiscale o una seduta dal dentista. Sarà sempre interessante perché è interessante la Mafia, che furbescamente la sinistra italiana parassita per incrementare il suo indice di gradimento spettacolare. La Mafia è interessante per due motivi: uno, che il Male è sempre più immediatamente interessante del Bene, provate a creare un personaggio integralmente buono che non sia un pesce lesso e ve ne accorgerete subito, l’ultimo che ha avuto successo è Gesù Cristo che d’altronde negava recisamente di essere buono (v. tutti i sinottici, es. Mt. 19,17);  lo spericolato Dostoevskij ci ha provato ma ha truccato le carte facendone L’idiota, troppo facile l’espediente del buono perché matto.  E’ un fatto che può dare occasione a spunti di riflessione teologica ed estetica di grande profondità che qui ometto, sarà per un’altra volta. Due, che la Mafia è interessante perché la criminalità organizzata è l’immagine analogicamente più prossima a quella di uno Stato che agisca in condizioni di reale sovranità politica, dunque non l’Italia del dopoguerra: il che rende più ghiotto ed emozionante il surrogato Mafia, quando non c’è il caviale le uova di lompo fanno venire l’acquolina in bocca. La Mafia infatti vive e opera in un mondo nel quale non esiste un terzo imparziale in grado di promulgare e applicare la legge, e dunque in un mondo che somiglia come una fotocopia al mondo delle relazioni internazionali, in cui operano gli Stati: un mondo nel quale non si può andare dal giudice o dal poliziotto se qualcuno ti fa un torto, in cui non ci si può ritirare a vita privata estraniandosi dai conflitti di vario genere che turbano sonni e digestione, in cui di punto in bianco può spuntare nel tuo orizzonte qualcuno che per motivi tutti suoi ti vuole ammazzare, te e i tuoi cari, e non solo ne ha l’intenzione ma pure i mezzi e il know-how. E’ insomma il mondo in cui chi ha il potere è costretto a prendere decisioni di vita e di morte che non solo decidono della vita e della morte fisica, ma della salvezza o della dannazione dell’anima – ognuno traduca la formula religiosa nel suo linguaggio – anzitutto la propria ma anche le altrui. Un esempio davvero magistrale di svolgimento di questo tema sono i primi due film della serie Il padrino, di F. F. Coppola, che senza alterare di molto la trama del mediocre romanzo di Mario Puzo, vi indovinò con grande intelligenza la struttura drammaturgica di una tragedia storica shakespeariana, sfuggita al superficiale romanziere.

Per concludere: la Mafia è interessante perché la Mafia è tragica, e con tragedia intendo la situazione in cui legge, costume, istituzioni, telefono amico non ti forniscono una soluzione precostituita al tuo serio dilemma di vita e di morte. Ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia. Questa è la tragedia, e questo è anche, nel linguaggio politico, lo stato di eccezione, che definisce chi è il sovrano.

Ecco perché la fiaba desinistra sulle Forze Oscure della Mafia & della Reazione è interessante, ed ecco anche perché è una fiaba.

E’ una fiaba nella parte desinistra, col Commissario Cattani/Montalbano che si batte per il PCI/PD +  il popolo buono che paga le tasse e raccoglie la cacca del cane con la paletta, e in quanto fiaba non intrattiene alcun significativo rapporto con la realtà effettuale, al massimo con la realtà psicologica che vuole a) sentirsi dalla parte giusta b) mettere dalla parte sbagliata chi ci sta antipatico c) vincere + avere ragione d) in attesa di c, perdere + avere ragione e) come minimo, giustificare la propria sconfitta dandone la colpa agli altri che vincono perché sono cattivi e viceversa, v. sub b.

E’ interessante invece, e sul serio, nella parte tragedia, perché la tragedia, sebbene dedestra, quella sì che intrattiene un significativo rapporto con la realtà effettuale, anzi mi sento di spararla grossa e affermare pubblicamente che qualora non si introduca nel quadro un’audace prospettiva soprannaturale & provvidenziale, la tragedia è la realtà effettuale, proprio la realtà effettuale che il pensiero (si fa per dire) desinistra non coglie, per difetto genetico dell’apparato visivo, mai. E non c’è neanche bisogno di tirare in ballo il Politico e lo stato di eccezione come ho fatto prima: perché nella realtà effettuale, anche nella realtà effettuale piccola e modesta delle nostre vite, di fronte alle cose veramente decisive come la gioia e il dolore e la scelta e la morte “ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia.”

Da quanto precede deriva anche un più equilibrato giudizio sulla famosa trattativa Stato-Mafia, questo. Che la Mafia è una realtà, una realtà non solo criminale ma sociale e politica, con vasto consenso in alcune, non piccole, zone del paese, forza militare non trascurabile, abbondanti finanze, embrione e qualcosina in più che embrione di struttura politica, efficiente amministrazione giudiziaria, fiscalità senza evasori, legami internazionali importanti. Sradicarla si può, come no, almeno per ora lo Stato italiano disporrebbe della forza militare sufficiente. Basterebbe rifare la “guerra al brigantaggio”, però stavolta contro i briganti veri invece che contro i legittimisti borbonici. Però i Commissari Cattani o Montalbano non bastano. Bisognerebbe anche varare un avatar della “Legge Pica” d’antan, cioè sospendere le elezioni democratiche e le garanzie giuridiche agli individui almeno nelle zone di maggior radicamento mafioso, istituire tribunali speciali e comminare condanne amministrative, meglio se anche a morte, impiegare le FFAA non per posare come belle statuine nelle piazze e nelle stazioni ma per fare i rastrellamenti, attivare una vasta campagna di eliminazioni di dirigenti mafiosi (senza processo), e scontare l’inevitabile quota di sbavature cioè innocenti che ci vanno di mezzo + atrocità assortite, dura repressione di eventuali moti popolari a sostegno della Mafia in nome dell’identità locale, ritorsioni anche terroristiche del nemico, e così via. Per me si può cominciare anche domani, ma non mi sembra che il programma qui delineato sia proprio un programma democratico e desinistra, tipo fiaccolata contro la Mafia e celebrazioni di Falcone e Borsellino nei licei con l’oratore di turno che dice “E’ tutta una questione culturale, la scuola ha il compito primario eccetera”.

Insomma: la Mafia è una realtà effettuale, e con la realtà effettuale, volenti o nolenti, tutti dobbiamo aprire una trattativa, anche lo Stato. Poi certo, le trattative possono andare meglio o peggio. Questa per lo Stato è andata bene, per la Mafia no e per gli ufficiali dei Carabinieri neanche; ma del resto, anche la fiaba desinistra ha assunto, nei cuori e nelle menti degli italiani che detto per inciso votano anche in base alla loro psicologia, una sua forma, se si vuole distorta, di realtà effettuale. E dunque, per salvare il Commissario Cattani e il Commissario Montalbano, per non sporcare la loro immagine tanto cara a tanti italiani e poter aggiungere un altro centinaio di puntate al serial Italiamoraledesinistra vs. MafiaForzeOscuredellaReazione, i giudici si sono visti costretti ad appioppare qualche decina d’anni di galera ai Carabinieri, che essendo persone concrete e non archetipi non possono aspettarsi indulgenze plenarie e resurrezioni, e del resto sono usi a obbedir tacendo, tacendo morir (per ora, poi vedremo).

That’s all, folks.

 

IL BUCO NERO_ IL RE (UE) E IL MATTO (M5S), di Roberto Buffagni

Sulla situazione politica italiana e sulle novità funamboliche del Movimento Cinque Stelle il blog ha già dedicato numerose pagine.

Riproponiamo un articolo ancora attuale di Roberto Buffagni, già apparso nel 2016 su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

Un testo attuale, propedeutico a quanto scriveremo una volta che si delineerà più chiaramente la dinamica che ci porterà al varo di un nuovo governo e della conseguente maggioranza_Giuseppe Germinario

La crisi  europea e  italiana… secondo  William Shakespeare 

Il Re e il suo Matto

di Roberto Buffagni

Why, ‘some are born great, some achieve greatness,
and some have greatness thrown upon them
.
(il Matto Feste, Twelfth Night, Atto V, Scena 1)

Winning will put any man into courage.
(il Matto Cloten, Cymbeline, Atto II, Scena 3)

In questo inverno del nostro scontento (59,11% di NO nel referendum appena votato), nella situazione politica italiana non si capisce niente, tranne una cosa: che dopo questo terremoto, tra le rovine dei partiti di maggioranza e opposizione, resta in piedi ed anzi si consolida un solo partito, o meglio un solo Coso: il Movimento 5 Stelle. Il problema è che non si sa che cosa sia il M5S, questo Buco Nero. Populista, si dice. Sì, è populista: ma il populismo è uno stile, non un’identità politica, e neanche un contenuto programmatico. Insomma: che cos’è questo Coso?

Come faccio sempre quando non ci capisco niente, ho consultato il Bardo, che di politica e d’altro se ne intende assai; e come sempre il Bardo mi ha cortesemente risposto la verità, raccomandandomi però di dirla in fretta, perché “La verità è simile ad un cane/che deve restar chiuso in un canile;/va ricacciato lì dentro a frustate.” (il Matto, Re Lear, Atto I Scena 4).

Obbedisco, e ve la dico subito: il M5S è il Matto che rivela la verità sul Re.

Il Bardo, però, ama la sintesi estrema, perché è un grande poeta amico dei simboli e degli enigmi, e un grande uomo di teatro nemico delle lungaggini e della noia. A me, tocca spiegare. Spiego, scusandomi sin d’ora se dovrò esser lungo.

Chi è il Re? Il Re è l’Unione Europea. E qual è la verità che rivela il Matto sul Re? Che il Re è un usurpatore, un falso Re.

Facciamo un passo indietro, come nei romanzi d’appendice, e vediamo un po’ che cos’è quest’altro Coso o Buco Nero: l’Unione Europea, il Mostro Buono, come lo chiamava H.M. Enzensberger.

Nella grammatica politica, esistono soltanto gli Stati nazionali, che possono in varia forma e misura confederarsi, cioè unirsi in modo revocabile: v. il progetto gaulliano di “Europa delle nazioni”; e gli Imperi, in cui l’unità è federale, cioè irrevocabile: v. per antifrasi la guerra di secessione USA tra Nord federale e Sud confederale. L’Europa non può essere o diventare uno Stato nazionale, perché se esiste una civiltà europea, non esiste una nazione europea. L’UE non è una confederazione: se lo fosse, il quadro giuridico dei rispettivi poteri e competenze di Stati nazionali e istituzioni confederali sarebbe chiaro e politicamente legittimato, e l’unione revocabile.

Dunque, l’UE è un progetto federale imperiale (in corso d’opera). Per federare un insieme di Stati in un organismo istituzionale maggiore, Stato-nazione o Impero che sia, ci vuole un federatore (v. il ruolo di Piemonte e Prussia nelle unificazioni italiana, nazionale, e tedesca, imperiale, del XIX sec.). I requisiti essenziali del federatore sono l’indipendenza politica e la forza egemonica (senz’altro militare, nel caso migliore anche economica e culturale). Nel progetto di federazione imperiale UE, invece, non c’è un federatore: lo Stato più forte, la Germania, difetta di entrambi i requisiti (ospita sul proprio territorio basi militari non europee, è economicamente ma non culturalmente egemone).

In realtà, il progetto federale imperiale UE ha due federatori a metà: un federatore politico (gli USA, che hanno l’indipendenza politica, della forza militare, e in certa misura dell’egemonia culturale in Europa) e un federatore economico (la Germania). Nessuno dei due “federatori a metà”, né il politico né l’economico, può/vuole portare a compimento la sua opera. Gli Stati europei non possono federarsi politicamente con gli USA, diventando il cinquantunesimo, cinquantaduesimo, settantottesimo, etc., Stato della federazione nordamericana. Né gli Stati europei possono federarsi intorno all’egemonia economica tedesca, perché il vantaggio economico del “federatore a metà” tedesco implica lo svantaggio economico senza contropartita politica della maggior parte dei federandi, che com’è logico alla fine si ribellano: ma né gli USA per evidente assenza di legittimazione, né la Germania per evidente difetto di mezzi atti allo scopo, possono far uso della forza per ricondurli all’unità.

Ora, nessun federatore agisce gratis et amore Dei nell’unica preoccupazione dell’interesse dei federati; ma perché l’operazione sia politicamente vitale, tra federatore e federati deve sempre avvenire uno scambio, più o meno equo e immediato, di reciproci vantaggi: anche quando la federazione avvenga per conquista sul campo di battaglia. Ad esempio, nell’unificazione italiana, allo svantaggio economico patito dal Meridione – sconfitto con le armi in due campagne militari, la seconda delle quali, la “guerra al brigantaggio”, particolarmente crudele – corrispondono i vantaggi politici dell’accrescimento di potenza dello Stato, così liberato dalle ingerenze straniere, dell’integrazione tra territori culturalmente e linguisticamente affini, e, seppur tardivamente e imperfettamente, un riequilibrio/compensazione delle disparità economiche e sociali tra Nord e Sud, aggravate o almeno non appianate dall’unificazione.

Nel caso dell’UE, invece, la federazione non può essere portata a compimento né dal “federatore a metà” politico, gli USA, né dal “federatore a metà” economico, la Germania. Ne risulta non solo un impaludamento del processo di federazione, ma:

  1. a) un grave danno politico per tutte le nazioni europee: l’UE risulta in un dispositivo di neutralizzazione politica dell’Europa nel suo complesso, del quale si avvantaggia il “federatore a metà” statunitense
  2. b) un grave danno economico per tutte le nazioni europee tranne la Germania e i suoi satelliti, che invece si avvantaggiano del danno altrui.

La contropartita di questi due danni, politico ed economico, è zero. Ripeto e sottolineo due volte: zero.

Per l’Italia – Stato, nazione, popolo italiani – la contropartita di questi due danni, politico ed economico, è meglio esprimibile con un valore algebrico negativo. Esempio politico. Regnante la UE, per due volte l’Italia ha fatto uso della forza contro uno Stato straniero, su indicazione del “federatore a metà” USA e contro il proprio manifesto interesse nazionale: contro la Jugoslavia e contro la Libia (nel caso jugoslavo, l’Italia già che c’era ha fatto anche l’interesse economico della Germania). Esempio economico. Dall’ingresso nell’euro, che è una macchina per svalutare il marco e favorire il mercantilismo tedesco ai danni anzitutto dell’Italia, che della Germania è tuttora il principale concorrente economico europeo, l’Italia ha perso il 25% della sua base industriale, con la disoccupazione di massa che ne consegue.

Quanto all’Unione Europea in generale, poi, lo squilibrio tra intenzioni (almeno esplicitamente dichiarate) e risultati effettuali dell’UE è talmente grande che minaccia di provocare, più prima che poi, una implosione/disgregazione totale del progetto federale, in modi e con effetti imprevedibili e potenzialmente catastrofici.

Come sentenziato dal Bardo, insomma, l’Unione Europea è un usurpatore, un falso Re.

Ma come è giunto a conquistare il trono questo usurpatore, questo falso Re? Quali grandi Casate nobiliari l’hanno sostenuto nella sua impresa, e perché?

Le grandi Casate nobiliari che hanno posto la corona sul capo del falso Re (“uneasy lies the head that wears a crown”, dice Bolingbroke nell’Enrico IV) sono le classi dirigenti europee e statunitensi: liberals, cattolici, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo.

Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi Case si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme il Consiglio della Corona del (falso) Re e la Camera dei Lord dell’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito alle grandi Case, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo, e così porre la corona sul capo del falso Re?

Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono il falso Re (l’Unione Europea) è l’universalismo politico.

L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.

Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).

Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.

L’universalismo politico delle grandi Casate nobiliari nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, le grandi Case non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà”, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.

Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire definitivamente i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno pretende di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.

Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la Corona, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.

A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.

Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.

In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

E’ questa cosa, l’usurpatore, il falso Re: il Re del Mondo di Domani che non ha né la forza, né l’autorità, né la legittimità per governare il suo regno di oggi.

E il Matto? Il Matto Movimento 5 Stelle? In che modo ci rivela la verità sul suo e nostro falso Re?

Il M5S è un caso esemplare di universalismo politico spinto fino alle estreme conseguenze dell’assurdità, del ridicolo, insomma del grottesco. La sua scelta di non allearsi con alcuna forza politica se non su singoli provvedimenti definiti “tecnici” o “concreti” consegue, infatti, direttamente dal rifiuto pregiudiziale e preliminare del conflitto politico: dire che tutti sono avversari o nemici è identico a dire che nessuno lo è; dall’individuazione del nemico/avversario, infatti, consegue quali siano gli amici politici, che non si scelgono in base alla comunanza dei valori o all’affinità intellettuale e sentimentale, ma ci vengono imposti dalla comune inimicizia.

E chi è il nemico o l’avversario del Movimento 5 Stelle? La destra? La sinistra? Il centro? Il PD? La Lega? L’Unione europea? I nemici dell’Unione Europea? L’ISIS? L’America?  Il sistema solare? Il riscaldamento climatico? I corrotti? I bugiardi? I ricchi? I poveri? Il Resto del Mondo finché non si converte e non s’iscrive alla piattaforma Rousseau?

Il M5S rinvia tutto al momento magico in cui, da solo, prenderà il 51% dei voti, metterà in opera un progetto di democrazia diretta elettronica totale, e gradualmente persuaderà tutti della bontà e verità della propria azione, che non si caratterizza per la rispondenza a interessi ben definiti di ceti, classi, istituzioni, etc., ma per qualità d’ordine prepolitico come l’onestà, la trasparenza, la freschezza, etc.: qualità in merito alle quali tutti saranno costretti ad accordarsi, se non vogliono autodefinirsi corrotti, bugiardi, marci, etc.: “… honesty coupled to beauty is to have honey a sauce to sugar.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto III, Scena III)

Una posizione simile condurrebbe, per sua logica interna, al Terrore giacobino; se non fosse che a) il M5S è sprovvisto dei mezzi per metterlo in opera b) il M5S agisce in un quadro di sovranità nazionale limitata (dalla UE) c) il M5S è un Matto, e il Matto può impugnare lo scettro e la spada, ma lo scettro è di cartone e la spada di gomma: più piccoli, ma per il resto identici al (finto) scettro e alla (finta) spada del suo (falso) Re.

Il M5S è, insomma, è un microcosmo che rispecchia il macrocosmo UE: un Matto buffo, piccolo, gobbo, sguaiato, vestito come il Re, e che parla, gesticola, si atteggia, promette e minaccia (a vuoto) come il Re. Come l’Unione Europea, è un organismo politico affatto disfunzionale, ispirato a un universalismo politico che non ha la forza di imporre, e il contenuto delle sue proposte politiche si autodefinisce come “la miglior soluzione tecnica, oggettiva, per il bene di tutti, di problemi concreti”. Poi, certo: il Re ha  un vasto stuolo di tecnici professionisti ben pagati che sfornano impeccabili soluzioni tecniche a tonnellate, 24/7, mentre il Matto ha una squadretta parrocchiale di geometri, ragionieri, laureati per corrispondenza che lavorano nei ritagli di tempo e fanno quel che possono. Ma la somiglianza – anzi, diciamolo col Bardo: la parodia c’è tutta.

Come l’UE in grande, cioè in Europa, così il M5S in piccolo, cioè in Italia, sortisce principalmente due effetti: neutralizza politicamente l’Italia, che a causa dell’ “elefante nel salotto” M5S si impaluda nella paralisi politica; e non pronunciandosi mai chiaramente in merito alla UE – perché per esistere, il Matto ha bisogno del Re, anche se può punzecchiarlo – gioca e fa giocare agli italiani un incessante ping-pong mentale tra la UE realmente esistente (falsa e cattiva) e la UE possibile (vera e buona); tra il Re com’è oggi, e il Re come sarà in futuro, in quel mondo migliore che i Matti chiamano Paese di Cuccagna, Schlaraffenland, Terra di Jaunja, Land of Plenty, Pays de Cocagne, etc.

Concludo. Rispondendo alla mia domanda sul Movimento 5 Stelle, il Bardo mi ha bonariamente rimproverato, invitandomi a disturbarlo solo quando devo fargli domande veramente difficili. “Aiutati che io t’aiuto”, m’ha detto scherzosamente. Ci ho riflettuto un attimo, e arrossendo gli ho presentato le mie scuse. In effetti, ci potevo arrivare anche da solo. Non c’è forse un Matto di professione, alla guida del Movimento Cinque Stelle? Non reca forse cinque stelle, la bandiera del Matto, come ne reca dodici la bandiera del Re (proposta dall’Araldo capo d’Irlanda)? Il dodici, che nella Cabala simboleggia “Il bene sopra tutto. La virtù non è solo pensiero ma anche azione. L’agire senza lucro e senza calcolo.” E il cinque, che simboleggia: “Fugate le nere ombre della notte, l’alba porta con sé i colori vivi della primavera e prepara l’arrivo del sole.”

Che sciocco sono stato, a non accorgermene subito. E’ proprio vero che  “The fool doth think he is wise, but the wise man knows himself to be a fool.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto I, Scena 5).

 

Roberto Buffagni

LA DECADENZA DI UN PAESE E DELLE SUE ISTITUZIONI, di Antonio de Martini

Le asciutte considerazioni di Antonio de Martini lasciano l’amaro in bocca. I diversi collaboratori di Italia e il Mondo si sono soffermati spesso sulla qualità delle nostre classi dirigenti e sulle modalità nefaste con le quali si sta svolgendo il confronto politico. Più volte si sono soffermati sul ruolo dei vari centri di potere e sulla particolare funzione svolta da settori sempre più ampi della magistratura e degli ordini giudiziari nel regolare e condizionare le scelte politiche. Negli ultimi trenta anni tale funzione è stata addirittura determinante, con tutte le distorsioni e le forzature conseguenti che hanno contribuito pesantemente ad inibire la formazione di élites appena più autonome ed autorevoli. La sentenza riguardante la trattativa Stato-Mafia, non ostante le suggestioni e le rievocazioni, rientra purtroppo pienamente in questo canone; è lontana anni luce dagli squarci aperti da Falcone e Borsellino e per i quali hanno pagato drammaticamente. Ancora una volta la peggiore restaurazione ha bisogno di coprirsi dell’aura della moralità. Per arrivare a mettere ordine in questi ambiti particolarmente delicati e cruciali occorrerebbe una forza politica determinata, coesa e radicata, ben lungi da essere in via di costruzione. Una situazione paludosa che sta esponendo il paese alle peggiori intemperie geopolitiche senza pensare e disporre di un equipaggio adeguato. Ne vedremo purtroppo ancora delle belle_Giuseppe Germinario

Quando una istituzione avvia la propria discesa agli inferi, inizia con lotte interne e col perseguitare i propri servitori.

Accadde a Cicerone che dopo aver salvato la Repubblica dalla congiura di Catilina e sconfitto i ribelli, fu accusato di non aver rispettato le procedure nel mettere fuori combattimento i senatori Lentulo e Cetego che miravano a sovvertire lo Stato.

Anche la Repubblica di Venezia cadde nella fatiscenza quando si affidò ai magistrati, alle delazioni anonime e ai processi ipocriti in difesa della morale in cui nessuno credeva, tanto che per anni, “veneziana” fu sinonimo di donna di liberi costumi.

Non dissimile il caso degli allora colonnelli Mori e Subranni e del capitano De Donno, cui un tribunale ha comminato due condanne da dodici anni e una da otto per aver trattato “a nome dello Stato” coi vertici della mafia identificati nel sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

La ” trattativa” sarebbe consistita nel comunicare col sindaco di Palermo ( verissimo).
Il risultato dei colloqui fu la consegna alla giustizia del capo mafioso Totò Riina, fatto puntualmente avvenuto il 5 gennaio 1993.

Il Ciancimino, quindi, era stato trasformato in un “confidente di polizia” e non in un diplomatico di carriera.

Il ministro dell’interno, Nicola Mancino, “mandante logico” di una eventuale trattativa tra lo Stato e l’organizzazione malavitosa, è stato invece accusato e assolto per un reato minore ( falsa testimonianza). In TV , il Mancino si è autoattribuito il merito della cattura di Riina che spetta evidentemente al ROS del colonnello Mori.

Se vero, era al corrente del lavoro dei carabinieri. Se falso, l’assoluzione dall’accusa di falsa testimonianza, è stata , a dir poco, precipitosa.

Consapevoli della mancanza di una controparte credibile, i giudici l’hanno identificata in Berlusconi che divenne Presidente del Consiglio nel 1994 ( dopo la stagione delle stragi) .

Hanno taciuto – ignorandoli?- sugli atti parlamentari che hanno registrato la dichiarazione dell’allora neo presidente della commissione antimafia, Luciano Violante, che annunziava alla commissione iniziative il tal senso e della “coincidenza” che per ben due volte costui si sia trovato sullo stesso aereo Roma-Palermo in cui viaggiava il signor Brusca, anch’esso assolto perché ” pentito”.

Hanno trascurato , i giudici, anche le interviste di Giovanni Maria Flick ( all’epoca ministro di Grazia e Giustizia) che ha ripetutamente ammesso di essere all’origine dei provvedimenti di alleggerimento delle regole del 41bis, più volte sanzionate dalle istanze internazionali come evidenti violazioni dei diritti umani.
Ha anche detto – e scritto- di essersi consultato in proposito col Presidente della Repubblica.

In poche parole, se mai sia esistita una trattativa Stato- Mafia questa l’ha fatta il governo di cui guardasigilli era Flick e il governo Berlusconi non c’è entrato.

La ” gratitudine” ( immotivata?) all’Arma dei Carabinieri l’hanno espressa i governi di sinistra che hanno promosso una forza di Polizia a Forza Armata autonoma. Unico precedente al mondo è il KGB di buona memoria comunista.

Gli interlocutori primi di una eventuale trattativa non potevano che essere uomini di governo e parlamentari dotati di autorità e certamente non un colonnello e due suoi collaboratori.

La verità è che nei periodi di vuoto di potere spuntano magistrati che cercano di arrivare al potere politico sciabolando a dritta e manca trascurando i danni inferti alla credibilità dei magistrati e all’idea stessa di giustizia.

Vogliamo un altro Di Pietro? Vogliamo che i carabinieri si trasformino in pecore?
Attenzione che se proprio si vogliono pecore, potrebbero diventare pecore nere.

Che ne dice il nuovo Parlamento di una commissione parlamentare di inchiesta che svisceri questa materia ?

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA

 

di Luigi Longo

 

 

  1. La fase multicentrica sta avendo delle impennate per il dinamismo degli USA. Un dinamismo criminale, spregiudicato, delinquenziale e fuorilegge basato sulla forza militare che assume un peso specifico nelle relazioni interne ed esterne alla potenza mondiale USA nelle fasi multicentrica e policentrica.

Le suddette fasi mondiali tolgono il velo della ipocrisia e della falsa coscienza necessaria sulla democrazia e sulla libertà praticate in Occidente e portate a modello a livello mondiale [si pensi, per esempio, a quella democrazia esportata e difesa in tutto il mondo attraverso il bombardamento etico (è il titolo di un bel libro di Costanzo Preve), statunitense, con mandato divino (sic)] che ora si rivelano essere principi decisamente astratti, che poco hanno a che fare con la realtà nella quale gli agenti strategici dominanti, vettori del conflitto strategico tra le potenze mondiali, hanno bisogno di decisioni, con una filiera del comando accorciata all’essenziale duro e sbrigativo, attraverso le articolazioni istituzionali presenti sul peculiare e storico territorio nazionale che chiamiamo Stato. Il diritto, inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali e territoriali subisce così processi di ri-modulazione, ri-pensamento e re-invenzione. Lo stato di eccezione schmittiano diventa una eccezione regolare storicamente data che si ripresenta necessariamente nelle fasi multicentrica e policentrica del conflitto mondiale. E’ una costante storica che deve portarci a ri-considerare le relazioni e i rapporti sociali reali nelle diverse fasi della storia mondiale che definiamo monocentrica (la presenza di una potenza mondiale che funge da centro di coordinamento), multicentrica (la presenza di più potenze che fungono da coordinamento di diversi centri egemonici che si contengono l’egemonia mondiale), policentrica (il conflitto mondiale tra centri consolidati per il dominio mondiale).

 

 

  1. Gli USA sono una potenza egemone in declino che non riesce a trovare una sintesi intorno ad un gruppo strategico dominante (per i conflitti interni tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali) capace di frenare il proprio declino e rilanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale (alla Russia e alla Cina con le loro aree di influenza sempre più larghe e penetranti il territorio mondiale) che si basi su una nuova idea di società, di sviluppo, di rapporto sociale; va ricordato che non è nella storia statunitense la cultura multicentrica del mondo e la capacità di confronto tra nazioni e tra Occidente e Oriente.

La guerra in Siria, al contrario delle altre guerre nel Medio Oriente (Iraq), nei Balcani (ex Jugoslavia) e nel Nord Africa (Libia), può rappresentare il punto di svolta verso il consolidamento del polo di aggregazione intorno alla Russia e alla Cina [che già collaborano nella sfera economica (risorse energetiche, via della seta, trattati di area, accordi commerciali, eccetera)] capace di approntare una strategia tutta orientale che lancia un confronto tra nazioni eguali con una visione multicentrica del mondo e un nuovo rapporto tra Oriente e Occidente [senza dimenticare né l’influenza della sedimentazione storica del rapporto tra Russia ed Europa a partire dalla metà del XV secolo con lo zar Ivan III (1440-1505), né l’attrito storico tra Russia e Cina]. Non si tratta di un confronto basato sulla forza militare ma sul dialogo e sul confronto tra storie, culture, popoli diversi. Tale confronto non esclude affatto le questioni fondamentali quali i rapporti sociali basati sul potere e sul dominio che riguardano sia le logiche interne che esterne delle nazioni e delle relazioni con le nazioni divenute potenze mondiali [si pensi, per esempio, a quanta influenza ha l’egemonia USA nel decidere lo sviluppo e la politica delle nazioni europee e dell’Unione Europea (che è bene ricordarlo non è l’Europa della nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti)].

Gli USA devono bloccare con la forza militare la possibilità di formazione del polo Russia-Cina perché sanno che l’avverarsi di tale polo, unito alla loro incapacità di fermare il proprio declino egemonico e alla convinzione che l’unica strada percorribile sia quella della guerra (è attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale), non sarebbe altro che l’inizio della transizione egemonica con una diversa riorganizzazione sistemica. Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, due importanti protagonisti delle strategie di dominio statunitensi, hanno sempre combattuto e temuto la formazione di un polo sia euroasiatico (Europa-Russia) sia asiatico (Russia-Cina) perché vedevano in esso una seria minaccia alla egemonia mondiale statunitense.

La guerra USA, al contrario di quello che pensava Niccolò Macchiavelli (ne Il Principe) che la intendeva come portatrice di benessere, è solo distruzione di popoli, di territori e di nazioni per contenere la Russia e distruggere sul nascere il polo di formazione asiatico intorno a Russia e Cina.

Il declino egemonico mondiale degli USA sta nella perdita della capacità di un modello sociale di benessere interno ed esterno; gli Stati Uniti basano la loro resistenza egemonica solo sulla forza militare aggressiva e distruttrice senza creazione, senza consenso e senza confronto.

 

 

  1. L’Europa resta il teatro passivo del conflitto tra le potenze mondiali che si andrà sviluppando nelle surriportate fasi della storia mondiale. I sub agenti strategici, che dominano i luoghi istituzionali dell’Unione Europea, da tempo stanno accompagnando le diverse strategie USA di contenimento della Russia e di contrasto alla formazione del polo asiatico. Si pensi al ruolo dell’UE e delle singole nazioni europee all’interno della NATO, alla trasformazione della NATO da strumento di difesa contro la minaccia sovietica a strumento di attacco fuori area (la Nato Responce Force), alla militarizzazione tramite Nato del territorio europeo, alle infrastrutture civili da supporto a quelle militari della Nato, alla nascita della PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, agli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio europeo, all’americanizzazione del territorio europeo, eccetera; temi dei quali ho già trattato in precedenti scritti.

Il processo di americanizzazione europeo ha condizionato fortemente lo sviluppo e l’autonomia delle singole nazioni; ha ridotto l’Europa ad una espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi nelle diverse aree mondiali. Tutte le succitate guerre degli USA [di invasione e di violenza alla sovranità nazionale tramite ONU o tramite NATO o tramite coalizione internazionale o tramite attacco diretto con alleati), a partire dalla implosione dell’URSS (1991)] hanno visto la partecipazione di diverse nazioni europee che si sono ritagliate spazi nella sfera economica (gestione di risorse energetiche, allargamento di aree di influenza e di mercato per le imprese, eccetera), ma sotto stretta sorveglianza delle diverse strategie politiche della potenza imperiale statunitense sempre per contrastare le nascenti potenze mondiali (Russia e Cina) capaci di sfidare l’egemonia statunitense [ esempi recenti la guerra di Libia (iniziata nel 2011) e la guerra in Siria (iniziata nel 2011)].

La stessa storia si ripete oggi, in maniera diversa, con il recente attacco USA alla Siria, dopo sette anni di tentativi di smembramento di una nazione sovrana, con morti e sofferenze inenarrabili della popolazione, insieme agli alleati ufficiali europei (Francia e Regno Unito) interessati alla sfera economica, per contrastare l’egemonia dell’area della Russia e il consolidamento di una potenza regionale come l’Iran che minerebbe il ruolo di Israele come potenza regionale vassallo USA nella politica in Medio Oriente (senza dimenticare la questione storica, politica e territoriale della Turchia), area nevralgica del conflitto strategico mondiale. Il pretesto dell’uso di armi chimiche non regge: perché Bashar al-Assad avrebbe dovuto usare le armi chimiche sulla popolazione di Douma, nell’ambito di un’offensiva globale nei confronti della regione Ghouta orientale, quando ormai i ribelli erano pronti alla resa?

E’ emblematico che nessuna nazione europea abbia protestato duramente contro il criminale attacco degli USA e dei suoi alleati; anzi, è stato sostenuto dal Segretario della Nato Jens Stoltenberg e appoggiato dalla UE, dalla Germania (Angela Merkel: risposta “necessaria e appropriata” agli attacchi chimici), Giappone, Canada e Israele. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha bocciato una bozza di risoluzione proposta dalla Russia che “condannava l’aggressione contro la Siria da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, in violazione delle leggi internazionali e della Carta delle Nazioni Unite”.

 

 

  1. L’Italia è una drammatica espressione geografica a servizio degli USA che considerano il territorio italiano fondamentale per le loro strategie nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, oltre ad ospitare basi Nato-USA di grande rilievo e importanza.

L’Italia, a partire dalla sua Unità sotto il coordinamento inglese fino alla direzione statunitense, dalla seconda guerra mondiale in poi, può essere un laboratorio storico e politico per capire come l’egemonia inglese prima e quella degli Stati Uniti dopo, hanno piegato lo sviluppo del nostro Paese alle loro strategie di dominio, sia con la forza ( uccisioni di agenti strategici che pensavano alla sovranità e allo sviluppo del Paese), sia con il consenso (selezione di sub agenti strategici pronti a sacrificarsi per il bene del Paese alla servitù inglese e statunitense).

Qual è la reazione dell’Italia alla criminale aggressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati alla nazione sovrana della Siria fatta in questi giorni? E’ emblematica della stupidità della nostra classe dirigente ben selezionata per il bene del nostro Paese.

L’account Twitter ItaMilRadar, che monitora il traffico aereo militare sui cieli italiani e sul Mediterraneo, ha riferito che due aerei militari della US Navy sono decollati dalla base Sigonella. Il primo, per pattugliare l’area al largo del porto siriano di Latakia nei cui pressi si trova la base militare russa, il secondo per svolgere attività di pattugliamento verso Est. Un Boeing E-3 della Nato ha invece svolto attività di pattugliamento nei pressi del confine tra Turchia e Siria. Ovviamente è un pattugliamento di carattere ordinario! ( www.lasicilia.it, 11/4/2018).

Il 10 aprile scorso l’Agenzia Al Sura ha segnalato che una cisterna volante italiana KC-767 è entrata in Giordania dallo spazio aereo dell’Arabia Saudita.

Le basi Nato-Usa in Italia sono in piena allerta e pronte per gli interventi in Siria. Inoltre, l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Pasquale Preziosa, ci ha ricordato che la base Nato di Sigonella in Sicilia, dove sono ubicati i droni strategici RQ-4 Global Hawk, è importante sia geograficamente sia strategicamente per l’attacco USA in Siria (intervista di Paolo S. Orrù pubblicata su www.tiscali.it, 14/4/2018).

Bene. Cosa fanno i nostri leader politici? Silenzio: il silenzio della paura. L’unica dichiarazione ambigua e strumentale è stata quella di Matteo Salvini che ha criticato l’attacco USA e ha precisato comunque l’importanza di stare dentro l’alleanza atlantica e che il problema è Donald Trump, come se la qualità di un Presidente facesse venir meno la criminalità imperiale statunitense.

E i nostri parlamentari? I più intelligenti hanno chiesto al Governo di conferire in Aula per conoscere i fatti ed informare il Parlamento delle iniziative prese nelle sedi competenti per una inchiesta internazionale indipendente per far luce su quanto accaduto.

 

 

  1. 5. Questo ruolo di servitù volontaria ha impedito all’Europa di essere un soggetto politico espressione di una Sintesi delle Nazioni con una propria autonomia e con un proprio ruolo da giocare nello scambio sociale, economico, culturale e politico tra Occidente e Oriente: Perché? Quali le ragioni storiche e politiche? Quali le strategie per cambiare sguardo e guardare a Oriente per un mondo multicentrico che allontani sempre più la fase policentrica?

Occorrono nuovi agenti strategici in un mondo in forte movimento per il trapasso di epoca così come sosteneva Niccolò Macchiavelli, nella Mandragola la più bella commedia italiana scritta tra il 1513 e i primi mesi del 1514, :<< […] L’espressività di Nicia, il suo sputare motti popolari a raffica diventano emblematici di un attaccamento ottuso a una fiorentinità senza prospettive, in un’epoca in cui […] la crisi politica e morale che stringe Firenze e l’Italia richiederebbe uomini nuovi, lungimiranti, tutt’altro che intenti a tenere lo sguardo fisso all’ombra del proprio campanile >>.

 

La crisi siriana e l’Italia, di Roberto Buffagni

La crisi siriana e l’Italia

 

Mentre scrivo è in corso la riunione del Consiglio di Sicurezza ONU sulla crisi siriana. Registro le due dichiarazioni molto dure e direttamente antirusse di Stati Uniti e Francia, la dichiarazione interlocutoria della Cina che invita a una soluzione politica e non militare della crisi, e la dichiarazione più cauta del Regno Unito che non dà per scontata la responsabilità siriana nell’uso dei gas: il governo May è debole, i laburisti protestano, i conservatori non sono saldamente uniti, e il Ministro della Difesa russo proprio oggi ha ufficialmente accusato il governo britannico di aver appoggiato chi ha inscenato “il falso attacco provocatorio con i gas”.

In Italia non si registrano prese di posizione serie sulla crisi siriana. Si è costretti a prendere atto, con dispiacere e vergogna, di un allineamento totale del PD alle posizioni USA più oltranziste, quando persino all’interno dell’Amministrazione americana e tra gli alti gradi delle FFAA USA ci sono serie perplessità e posizioni nettamente contrarie a un attacco non dimostrativo contro Siria e Russia. Unico a invitare alla calma e a non invischiarsi in una situazione pericolosa, Matteo Salvini: nel paese dei ciechi l’orbo è re, ma non basta.

Che cosa rischiano l’Italia e il mondo intero? In sintesi, quanto segue. In caso di un attacco USA non dimostrativo contro la Siria e il suo alleato russo, l’enorme superiorità di mezzi di cui dispongono gli USA nel teatro mediterraneo può soverchiare le difese siriane e russe. Una prima fitta ondata di missili viene abbattuta dal sistema difensivo russo-siriano che però esaurisce lo stock missilistico, che non è possibile rifornire in tempo utile per le difficoltà logistiche imposte dalla distanza tra Russia e Siria. Una seconda ondata passa e causa gravi danni, colpendo personale siriano e russo. I russi sono costretti a rispondere dal Mar Caspio e dal Mar Nero, forse anche dal suolo russo. Gli USA rispondono, lo scontro si internazionalizza. Se un missile USA colpisce il suolo russo, la Russia colpirà il suolo americano. Sebbene lo scenario sinora tratteggiato non preveda l’uso di armi nucleari, nessuno può escludere che l’escalation vi conduca. E naturalmente, a ogni passo dell’escalation diventa sempre più difficile la de-escalation, sempre maggiori le probabilità di una perdita di controllo da parte di uno o entrambi i contendenti.

Per la sua posizione geografica, in caso di attacco USA non dimostrativo l’Italia sarà in prima linea, perché gli USA vorranno usare le loro basi situate su territorio italiano. Chi dice “siamo nella NATO e dunque dobbiamo appoggiare l’intervento americano contro la Siria” mente spudoratamente. La NATO non, ripeto NON c’entra niente con l’intervento USA contro la Siria. Un’azione aggressiva NATO esige l’accordo unanime, ripeto unanime, dei membri dell’alleanza. Né alcun membro NATO è stato aggredito dalla Siria o dalla Russia. Se dalle basi USA (USA, non NATO) presenti sul territorio italiano partissero truppe o voli diretti ad aggredire la Siria, questo avverrebbe con la piena corresponsabilità del governo italiano e della nazione. Nelle basi USA su territorio italiano, infatti, ci sono due comandanti, uno americano uno italiano. Il comandante americano è tenuto a comunicare in anticipo al comandante italiano tutte le operazioni, e il comandante italiano può autorizzarle oppure no, ripeto OPPURE NO. In caso di attacco USA contro la Siria che parta da basi USA su territorio italiano, il comandante italiano della base USA è tenuto a comunicare ai superiori gerarchici il piano operativo a lui sottoposto dal comandante americano, e i superiori gerarchici a informarne il governo e il Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché un atto di guerra contro la Siria e la Russia intrapreso da base USA su territorio italiano configura un identico atto di guerra dell’Italia contro Siria e Russia. Per intenderci: se la Russia rispondesse a un attacco USA partito dall’Italia attaccando obiettivi militari su territorio italiano, sarebbe giustificata dal diritto di guerra. Invitiamo caldamente tutte le forze politiche che abbiano a cuore la sicurezza e l’onore nazionale a fare pressione sul governo e sul Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché con apposita comunicazione scritta ribadiscano a tutti comandanti italiani di basi militari USA che è loro diritto e dovere esigere dal comandante americano il controllo preventivo del piano di operazioni, e comunicare prontamente per via gerarchica al governo eventuali piani di operazioni USA contro Siria e Russia che partano dal suolo italiano. Se questa possibilità si verifica, viste le gravi ripercussioni possibili e anzi probabili, il governo è politicamente e moralmente tenuto a darne notizia al Parlamento, e a sottoporre a un voto delle Camere l’autorizzazione italiana di qualsivoglia operazione americana contro Siria e Russia in partenza dal territorio nazionale. Vogliamo sperare che i rappresentanti del popolo italiano si mostrerebbero all’altezza del loro ufficio, negando l’autorizzazione e così tutelando sicurezza e onore dell’Italia. Chi non lo facesse si assumerebbe una gravissima responsabilità storica e morale.

 

SULLA VIA DI DAMASCO O IL REVIVAL DEI DE FILIPPO?, di Antonio de Martini

Pubblichiamo una breve ed efficace puntualizzazione di Antonio de Martini sulla situazione in Siria. Nel frattempo:

  • in Italia l’aspetto che colpisce del nostro ceto politico è il silenzio. Probabilmente si aspetta qualche iniziativa un po’ più energica dei nostri alleati, in particolare Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, nei confronti dell’Italia prima di accodarsi nell’ennesima impresa contraria all’interesse del paese. Sino ad ora solo Salvini, tra i leader, ha osato mettere in dubbio la veridicità delle versioni ufficiali riguardanti il caso Skripal e l’attacco chimico a Goutha e contestato l’eventuale azione di rappresaglia. Alcuni esponenti di Forza Italia, a loro volta, hanno dato man forte. Per il resto, il M5S si è limitato ad una interrogazione parlamentare equidistante tra i contendenti in Siria. Un atteggiamento di neutralità che in realtà conferma il progressivo scivolamento verso l’atlantismo più remissivo. Tutt’attorno un assordante silenzio corroborato da complicità e connivenza
  • alla Casa Bianca, nello staff del Presidente, il confronto è aperto e duro. Al NSC (National Security Council), il Consiglio di Sicurezza che assiste il Presidente nelle sue decisioni, ci sono due posizioni contrapposte. Gli oltranzisti Bolton e Dunford cercano di organizzare la cordata dei sostenitori di un intervento massiccio. Mattis e Pompeo, due nomi pesanti, sono contrari adducendo ragioni geopolitiche e di incertezza riguardo l’esito militare. Kelly è in posizione di attesa. L’altra metà del gruppo attende lumi prima di prendere posizione. La decisione spetta comunque a Trump. La sua famiglia, in particolare il primogenito, questa volta sembra propendere per il non intervento. Lo zoccolo duro dell’elettorato di Trump è apertamente contrario all’intervento. Con il senno di poi si comprendono meglio le ragioni dell’estromissione di Flynn, lo scorso anno. La vittoria della fazione sarà sancita dal dosaggio di un intervento ormai inevitabile. La dinamica è stata spinta troppo in avanti.
  • in Europa Macron ha assunto il ruolo della mosca cocchiera. Probabile che sull’onda dell’entusiasmo inneschi l’attacco e rimanga alla fine solo a sostenere l’onere e la responsabilità politica dell’atto proditorio. La Germania si tira fuori dall’intervento, ma manda una nave militare, probabilmente attrezzata alle intercettazioni, nel teatro di guerra. Esattamente come nell’intervento in Libia. La Gran Bretagna agisce tra le quinte, organizza e sostiene gli “elmetti bianchi” responsabili della campagna di disinformazione e di provocazione in Siria, ma non si espone platealmente. Theresa May, già in bilico, su un’avventura del genere rischia grosso, anche personalmente.
  • Curioso che il presunto attacco chimico a Damasco sia stato immediatamente preceduto da un pellegrinaggio del Delfino saudita nelle capitali europee. La prospettiva di un accordo tra Russia, Turcia e Iran sui destini della Siria balenata nella recente conferenza stampa e il successivo annuncio di Trump della partenza delle truppe americane dal teatro siriano, prontamente contraddetto dagli eventi successivi, deve aver sconvolto le menti e le aspettative di Netanyau in Israele e soprattutto dei principi sauditi. Lo scontro tra diverse impostazioni di politica estera continua ad attraversare gli schieramenti specie del mondo occidentale. La Cina intanto cosa farà? Dal suo posizionamento dipenderanno tante cose _Giuseppe Germinario

SULLA VIA DI DAMASCO O IL REVIVAL DEI DE FILIPPO?

Se telefonate a Damasco a un amico, questo vi dirà che in città è un via vai di Russi e mezzi contraerei.

Al largo della base navale siro-russa di Tartous incrociano – e si incrociano – navi e aerei di numerose nazionalità, inclusi i tedeschi.

Il mondo dei media è attraversato da fremiti di guerra e fiumi di soldi per dimostrare che il pericolo di guerra è concreto.

Gli iraniani sono i principali destinatari di queste sceneggiate napoletane ( ” tenetemi che l’ammazzo”) alla De Filippo.

Trump – questo nuovo Peppino col toupet – sceneggia su Twitter ignaro che queste tecniche intimidatorie siano state inventate dall’impero persiano tremila anni fa a beneficio dei greci.

Il vero pericolo di guerra è costituito dalla inesperienza e inadeguatezza intellettuale e morale della squadra dirigente USA che volteggia attorno a un bullo che crede di giocare allo sceriffo.

Qualche solerte satellite potrebbe sparare un colpo per compiacerlo. Vanno bloccati gli “automatismi da alleanza” .

Questo crescendo di sceneggiate, nato per rafforzare Israele, punto irrinunciabile della strategia occidentale, in realtà lo fragilizzerà, al punto da metterne in forse l’esistenza stessa.

Sei ex capi del Mossad fecero, qualche anno fa, una pubblica dichiarazione che serviva una soluzione politica al problema palestinese e che non esisteva una soluzione militare.

Si spinsero fino a farsi intervistare nel film israeliano ” The Gatekeepers” avvertendo che una guerra contro l’intero Medio Oriente non poteva comunque essere vinta.

Netanyahu asseconda la spinta bellicista perché vuole distrarre dalle accuse di ruberie sulle forniture militari.

Erdogan e Putin per rafforzare i rispettivi consensi popolari e impedire alle opposizioni di casa di distinguersi fino a che esiste una crisi internazionale che richiede coesione.

Trump perché teme l’isolamento politico e militare degli USA che si verificherà non appena la tensione internazionale diminuirà.

È la Batracomiomachia di Omero buonanima.

IL BUON LAVORO, IL BUON SINDACATO_ di Giuseppe Germinario

Il 30 e 31 gennaio scorso la CGIL ha organizzato una conferenza di programma, il “BUON LAVORO”, sul tema delle implicazioni dei processi di digitalizzazione ed informatizzazione sull’organizzazione del lavoro delle imprese, sul mercato del lavoro, sulla contrattazione e sull’organizzazione sociale delle comunità.

Una iniziativa quanto mai necessaria nel mondo sindacale ma dal carattere ancora drammaticamente estemporaneo. Arriva, infatti, a circa trenta anni dall’avvio dei primi significativi processi di riorganizzazione delle attività produttive e di impresa, nonché della vita e dei sistemi di controllo delle varie formazioni sociali.

Un ritardo che si è manifestato in tutta la sua gravità nella qualità della relazione del Segretario Generale, Susanna Camusso e nella gran parte degli interventi, in una iniziativa per altro ancora unica nel mondo sindacale.

http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2018/01/20180129relazione-conferenza-programma.pdf

http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=Buon+lavoro&contenuto=audio

La natura del potere sindacale, decisamente più contrattuale e di condizionamento che decisionale, giustifica solo in parte tale riflesso; contano soprattutto l’impostazione culturale e le chiavi interpretative di una classe dirigente sindacale impegnata a conciliare in qualche maniera gli stereotipi dell’attuale sinistra con il retaggio sempre più vago e oscuro di una visione di classe.

Nella fattispecie la relazione e le conclusioni di Susanna Camusso, nelle approssimazioni, incongruenze e alcune volte addirittura salti logici ivi contenuti, rappresentano il portato evidente di questo limite e dell’incapacità di offrire ai ceti popolari la possibilità di una difesa efficace delle proprie condizioni e un ruolo attivo in un eventuale progetto di sviluppo e di recupero di autorevolezza del paese.

È il momento, quindi, di addentrarsi nei contenuti di essa.

Il contrasto alle diseguaglianze è il filo conduttore dell’iniziativa e di tutto l’impegno sindacale.

Una ambizione caratterizzante il progressismo democratico e di sinistra cui appartiene a pieno titolo il sindacato confederale.

Quando però dalla enunciazione e dagli slogan taumaturgici si passa all’analisi e agli obbiettivi politici iniziano a sorgere i problemi e le incongruenze.

SULLE DISUGUAGLIANZE RISPETTO A CHI

Intanto diseguaglianze rispetto a chi e tra chi?

Camusso riprende pigramente le analisi modaiole di Piketty; l’1%, detentori, per di più bianchi, della ricchezza equivalente posseduta da 3,7 miliardi di persone restanti, quindi, rispetto al resto della popolazione. Un 1% costituito soprattutto da esponenti della finanza e delle banche.

Questa prima affermazione si presta a numerose obiezioni di varia rilevanza.

Sul colore della pelle, visto l’emergere di nuove potenze economiche, soprattutto in Asia e di relativi nuovi patron.

Il dato del 1% è un giochino statistico, dal vago sapore demagogico, realistico nel solo caso in cui tale immane ricchezza dovesse rimanere immobilizzata e tesaurizzata; una condizione legata a specifici cicli economici e fasi geopolitiche. Di regola rappresenta un sistema di drenaggio e riallocazione di risorse in settori e spazi geografici seguendo dinamiche economiche legate a strategie geopolitiche; un sistema, quindi, comunque di redistribuzione e di reinvestimento. Rappresentato come una cupola dominante gli affari e le peripezie del globo terreste, in grado di svuotare e sterilizzare l’azione politica, verrebbe da chiedersi come possa una organizzazione, delimitata territorialmente e circoscritta alla difesa degli interessi del lavoro dipendente, contrastare efficacemente e realisticamente questa divaricazione.

L’implicazione delle più gravi ed evidenti di tale escamotage nell’analisi politica e socioeconomica è infatti l’appiattimento del restante 99% di popolazione in un confuso calderone dagli ingredienti indistinti che impedisce di vedere le articolazioni sociali e le diversità di interessi e rappresentazione dei vari gruppi sociali.

Un’altra grave implicazione riguarda l’incapacità di analizzare e spiegare la conflittualità politica, presente in tutti gli ambiti compreso quello economico, sempre più accesa tra centri di potere in aperta competizione e del tutto incompatibile con una visione totalitaria e verticale dell’azione politica. In questa dinamica i centri economico-finanziari sono solo parte dei vari centri decisionali in competizione e conflitto ai quali partecipano a pieno titolo élites operanti in altri ambiti, dal militare all’accademico, alla sicurezza interna, all’amministrativo; compresi quindi quelli presenti nelle varie istituzioni pubbliche e statali.

La conseguenza di tale impostazione è la formulazione di orientamenti ed obbiettivi politici quantomeno velleitari o mal posti.

DISUGUAGLIANZE TRA CHI

La prospettiva di diseguaglianza interna al blocco del 99% si rivela se possibile ancora più inadeguata. La constatazione ricorrente è quella di una condizione sempre più generalizzata di precariato e di peggioramento dei livelli di sfruttamento e di condizione economica.  Più che di diseguaglianza si tratterebbe quindi di appiattimento generalizzato al ribasso delle condizioni di vita e di lavoro.

Le vie di fuga consentite da queste chiavi di interpretazione sono alla fine scontate.

Si parte dalla aspirazione di un Governo Mondiale che dovrebbe controbilanciare lo strapotere di questa grande cupola, per consolarsi via via con la costituzione degli Stati Uniti d’Europa e ridursi infine ad una generica azione di controllo dei Governi attraverso soprattutto la tassazione; il tutto corroborato e sostenuto dall’azione di un presunto movimento sindacale e di opposizione internazionale.

Sarebbe sin troppo facile sfrucugliare sulle possibilità reali di direzione unitaria di tale movimento, laddove dovesse prender piede e sul fallimento di tali aspirazioni nei momenti più drammatici di conflitto di questi ultimi due secoli. Non è però l’aspetto centrale della questione.

Le ultime vicende legate alla manipolazione di dati dei colossi della comunicazione e alla crisi economica finanziaria degli ultimi dieci anni hanno rivelato la rivalità accesa di questi centri, l’aperta innervazione di essi con gli apparati e i centri di alcuni stati in via di rafforzamento e di altri in via di indebolimento, la loro stessa dipendenza dalle scelte e dal controllo di questi apparati.

Non si tratta quindi di un generico recupero del controllo pubblico, quanto di quello delle prerogative di quegli stati che volenti o nolenti vi hanno rinunciato attraverso la realizzazione di strategie particolarmente complesse ed articolate.

Susanna Camusso invece non trova di meglio che lamentarsi del cosmopolitismo e della libertà di circolazione a senso unico auspicati e perseguiti da questa cupola; applicati quindi ai capitali ma non alla manodopera e alle popolazioni, soggette queste ultime sempre più alle limitazioni dei muri e di vari tipi di barriere. Da qui la conferma di una veemente condanna delle politiche protezioniste, per altro comunque esistenti in varie forme selettive, foriere di guerre e disastri. Una accorata difesa di libertà, costituita nella prosaica realtà da pratiche selettive che hanno garantito il predominio pluridecennale della formazione americana, ma anche l’emergere di nuove potenze sempre più in grado di sostenere la competizione politico-economica. Un vero e proprio accecamento ideologico che impedisce di vedere la natura del conflitto tra centri globalisti e centri strategici più disposti ad accettare una condizione multipolare; di individuare di conseguenza l’interesse che hanno anche gran parte degli strati più popolari e subalterni a veder frenati e strettamente controllati i processi di migrazione e i flussi economici.

Quel che appare una visione universalistica in grado di interpretare adeguatamente la realtà globale e gli interessi della varia umanità, si rivela in realtà una proiezione di una condizione e di un processo riguardante un mondo occidentale in declino o comunque costretto a circoscrivere la propria azione.

La crisi, il diradamento e il depauperamento dei ceti medi, ad esempio, contrariamente alla rappresentazione catastrofica offerta dal Segretario Generale, è un processo che riguarda soprattutto le formazioni occidentali in declino, in netto contrasto con il loro sviluppo nelle formazioni emerse ed emergenti quali la Cina, l’India, la Russia, l’Indonesia ed altre. La competizione e il declino, a volte relativo a volte assoluto delle formazioni occidentali, rende poco sostenibile il sistema di funzioni, di redistribuzione di rendite e redditi che ha contribuito a rimpolpare e garantire lo status di ampi settori di ceti intermedi.

Un processo reso ingovernabile e ulteriormente destabilizzante da due altri fattori a loro volta globali, i quali hanno un influsso diverso su formazioni in via di sviluppo e formazioni sulla via del declino; su formazioni con una folta presenza di ceti medi numerosi ed articolati e formazioni con ceti da creare partendo da una base iniziale più ristretta e meno articolata e diffusa:

  • da processi di mondializzazione delle filiere produttive e dei servizi con la conseguente migrazione di interi comparti produttivi, più o meno evoluti;
  • da processi potenti di robotizzazione e digitalizzazione i quali stanno trasformando radicalmente, più che azzerando, il livello e le gerarchie di competenze professionali nonché la definizione di funzioni e ruoli necessari alla formazione e alla stratificazione dei ceti intermedi sotto mutate spoglie

Per una associazione la quale costitutivamente fonda la propria ragione d’essere sul rapporto più o meno conflittuale tra capitale e lavoro dipendente è molto facile scivolare e proiettare le proprie dinamiche politiche e rivendicative in una visione universalistica di fatto subordinata, grazie all’impostazione dualistica dei rapporti di potere tra capitalisti (ormai finanziari) e salariati (masse diseredate), alle strategie globaliste tipiche invece di centri strategici che ambiscono all’egemonia unipolare. A meno che l’organizzazione non disponga di una classe e di un gruppo dirigente talmente saldo politicamente da essere in grado di ricondurre le dinamiche ed i conflitti di classe, le rivendicazioni settoriali all’interno delle dinamiche geopolitiche che si stanno consolidando.

LE IMPLICAZIONI POLITICHE

Questo gruppo dirigente non appare assolutamente in grado di elaborare una analisi e condurre un’operazione politica di tale portata; di conseguenza non appare in grado di opporre una difesa efficace ed unitaria degli interessi popolari.

Sembra, al contrario, rimuovere dal proprio bagaglio personale quel patrimonio culturale duramente acquisito sino ai primissimi anni ’70 ed utilizzato con buona efficacia per una brevissima stagione, sino a quando, cioè, non prevalsero definitivamente e tardivamente le pulsioni egualitariste più esasperate tipiche dell’operaio-massa e, in forma ancora più avulsa, di ampi settori del pubblico impiego.

L’enfasi con la quale la CGIL, più in generale l’insieme del mondo sindacale, pone l’accento sulle diseguaglianze è il segno della gravità della frammentazione e polverizzazione del mondo del lavoro dipendente e collaterale, ma anche dei gravi limiti dell’attuale azione sindacale.

La precarizzazione della condizione economica e dei diritti dei salariati, degli autonomi e di buona parte dei ceti professionali è la conseguenza pressoché diretta del drastico ridimensionamento dell’apparato produttivo e di servizi del paese, frutto a sua volta di una intrinseca debolezza politica della classe dirigente del paese. Il confronto tra le forze sociali, tra esse il confronto sindacale, si fonda quindi su basi e su margini più ristretti; la forza contrattuale degli strati più fragili e deboli risulta pregiudicata. L’esigenza inderogabile di ammodernamento e riorganizzazione produttiva delle attività superstiti e la perdita di controllo nazionale di gran parte delle imprese più rilevanti hanno per altro sconvolto le basi del sistema di contrattazione e dei rituali sindacali consolidati sino a fine secolo.

Non a caso l’azione più importante su cui è impegnato questo sindacato riguarda la rielaborazione del sistema dei contratti collettivi e individuali di lavoro e il varo di una carta dei diritti. Una azione alla quale, però, manca ormai una sponda politica ed istituzionale, una volta garantita dai partiti operai e popolari, in grado di sostenerla; tanto più necessaria, quanto più e polverizzato il quadro sociale operativo del sindacato.

Si tratta, però, di una operazione di stampo prettamente legalitario, di fatto elitaria che prescinde dal contesto economico e dai rapporti ormai consolidati. Lo sviluppo esponenziale dell’economia informale, una tara storica del paese Italia, è tutta lì a rivelarne la debolezza e la parzialità. Una fragilità rispetto alla quale le modalità di contrasto delle diseguaglianze prospettate da questo gruppo dirigente appaiono distorsive e fuorvianti.

L’aspetto centrale del problema è invece l’appiattimento retributivo ed anche normativo riservato a tante categorie più professionalizzate e specializzate.

Senza porre al centro questo aspetto, difficilmente il sindacato potrà contare sull’apporto delle forze più competenti, più forti e più tenaci del mondo del lavoro; rischia, piuttosto, di essere soggetto al meglio alle vampate e alle fibrillazioni senza respiro dei settori più degradati e meno capaci di sostenere confronti prolungati.

Le cause di questa condizione sono molteplici:

  • la mancata coltivazione ed incentivazione di un ceto imprenditoriale e manageriale nazionale interessato e capace di investimenti strategici, di sviluppo di grandi imprese;
  • la distruzione e l’annichilimento progressivo di quella parte di classe dirigente della nazione in grado di sostenere una collocazione internazionale del paese sufficiente ad offrire spazi e condizioni a questo sviluppo;
  • la destrutturazione piuttosto che la riorganizzazione di gran parte degli apparati e delle strutture necessari a garantire queste politiche;
  • una condizione delle strutture produttive che richiede qualificazioni complesse ma fuori mercato;
  • un serbatoio di manodopera inoccupata del tutto sproporzionato

Da qui lo spreco di competenze e di qualificazioni che sta portando ad un degrado progressivo degli stessi centri di formazione dal costo ormai sempre più insostenibile e meno giustificabile dagli sbocchi.

I primissimi anni ’70 furono i momenti di maggiore forza e lucidità del movimento sindacale. Fu la breve fase nella quale il sindacato godeva dell’apporto militante dei settori più professionalizzati del mondo del lavoro dipendente. In quegli anni maturò la politica del cosiddetto “nuovo modello di sviluppo”, velleitaria e spesso fumosa, ma indicativa delle ambizioni unitarie e generali del movimento. Contestualmente si elaborò la classificazione del personale in un inquadramento unico che tentava da una parte di far corrispondere il salario al livello professionale e di competenza dei dipendenti, siano essi operai, che impiegati, che tecnici, che quadri; dall’altra di riordinare i sistemi di incentivazione individuali. Una epopea che si concluse rapidamente nell’inerzia delle posizioni egualitariste più radicali portate avanti dai settori meno qualificati e/o più istituzionalmente garantiti da un sistema di regolamentazione pubblica proprio degli apparati burocratici ed amministrativi sino all’apoteosi velleitaria del salario considerato “variabile indipendente”. Posizioni via via prevalenti negli ambienti sindacali.

A cosa si sia ridotta progressivamente la cittadella sindacale e la composizione di gran parte dei cortei è sotto gli occhi di chi vuol vedere.

LE OMISSIONI ED I RITARDI

La relazione di Susanna Camusso e la stessa azione sindacale sono lontani da un cambiamento di impostazioni altrimenti indifferibile.

  • Nella relazione non c’è traccia della necessità di tutelare e sviluppare un complesso di grandi imprese, a controllo e di espressione nazionale in grado di garantire adeguate piattaforme industriali nei settori sperimentali e strategici, in grado di competere ma anche di partecipare con pari dignità al sistema di compartecipazioni e di fusioni internazionali.
  • Non c’è traccia del ruolo preminente cui sono chiamati gli stati nazionali nello scacchiere geopolitico e nei sistemi di alleanza che si vanno prefigurando non ostante la vulgata sovranazionale ancora predominante in questi ambienti. Sistemi propedeutici al varo di politiche industriali e alla formazione di grandi complessi di imprese paragonabili a quelle americane, cinesi e in alcuni ambiti russe;
  • lo stesso ruolo pubblico si limita, nella rivendicazione, ad una politica di massicci investimenti e di riordino normativo e organizzativo tesi a favorire le condizioni e le opportunità di mercato. Una politica velleitaria nelle dimensioni, perché inquadrata nei vincoli comunitari; essa non farebbe che assecondare per altro i processi “naturali” di mercato i cui indirizzi sono decisi altrove; di fatto in altri centri politici decisionali estranei al paese ma ben presenti in altre formazioni e apparati statali.

SINDACATO E INDUSTRIA 4.0

Risulta gravemente inficiato, di conseguenza lo stesso approccio alla problematica dell’industria 4.0 tentato nel convegno.

Non sorprende nemmeno il sostegno acritico ed entusiasta al provvedimento “Industria 4.0” varato dal Ministro Calenda nel 2016 concesso dalle tre confederazioni nel 2017.  http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/03/Doc-Unitario-CGIL-CISL-UIL-del-13-marzo-2017-INDUSTRIA-4_0-1.pdf

In proposito si veda quanto espresso a suo tempo da questo blog. http://italiaeilmondo.com/?s=i+buoi+oltre

Nella relazione vi sono solo un paio di accenni critici in proposito, quasi del tutto irrilevanti.

Si sottolinea il carattere fuorviante del titolo che induce a focalizzare l’attenzione ai soli processi industriali di digitalizzazione e robotizzazione. In una successiva intervista Susanna Camusso, bontà sua, tende a sottolineare ulteriormente che i processi riguardano ampiamente anche il settore dei servizi e le amministrazioni pubbliche.  Questo a distanza di quasi trent’anni dai primi processi avviati, già con ritardo, nel settore bancario. http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/06/Idea_Diffusa01-2018-1.pdf

Si indulge sulla constatazione dell’insufficienza degli investimenti, in particolare pubblici, nel settore della ricerca e sulla necessità, sulla carenza, espressa in modo generico, di una concertazione tra le parti nella messa in opera e valorizzazione degli stessi.

Glissa del tutto sull’articolazione e sugli aspetti dei quattro ambiti, pur enunciati abbastanza chiaramente nel provvedimento governativo e posizionati gerarchicamente, entro i quali agiscono i processi di intelligenza artificiale (IA), di digitalizzazione e robotizzazione.

Critica blandamente il punto di vista legato esclusivamente ai processi di automazione degli impianti, ma solo per addentrarsi a grandi linee con un grande balzo spericolato sulla problematica dell’introduzione di queste tecnologie nei beni di consumo e di servizio. Nella fattispecie sulle implicazioni positive legate alle possibili estensioni della gamma e della qualità di servizi e beni alla persona, in particolare quelli connessi allo stato sociale; su quelle negative legate al controllo e alla sicurezza dei dati personali.

Su questo aspetto, nessuna attenzione all’enorme e cruciale problema di sicurezza e di dipendenza legato ai processi di raccolta, filtraggio e trasmissione dei dati rilevati dai prodotti e dai processi industriali connessi in rete. Processi in mano quasi integralmente a compagnie americane.

Un problema che sembra preoccupare seriamente cinesi e russi, tant’è che vi stanno investendo copiosamente; non sembra gran che tormentare i sonni degli europei, tanto meno degli italiani. Nel suo piccolo la Camusso offre il suo contributo al torpore. Si guarda bene dallo spingere il Governo e gli imprenditori italiani a cercare e promuovere sinergie e collaborazioni analoghe, specie in ambito franco-tedesco, per varare analoghe strutture di servizio. Tutto l’afflato si riduce ad una accorata esortazione ad un controllo democratico, per iniziativa di governi ed istituti sovranazionali, della corretta gestione dei dati.

Ci si sarebbe aspettato una particolare attenzione, connaturata alla missione del sindacato, sulle implicazioni dei processi di digitalizzazione, robotizzazione e IA sulla organizzazione del lavoro e sui vari livelli di qualificazione e professionalità richiesti. Un aspetto cruciale fondativo della contrattazione nazionale ed aziendale. Anche in questo caso, la premura con la quale la relazione sottolinea il fatto che ci si trova di fronte a processi di lungo periodo e reiterati pare più un alibi per giustificare i ritardi di comprensione e di azione che un appello ad attrezzarsi ad una sorta di contrattazione permanente e con cognizione di causa in un quadro di politica industriale.

Non una parola, anche in questo caso, sulle pecurialità dell’industria italiana, nella quasi totalità fatta ormai di aziende di medie e piccole dimensioni le quali impediscono di acquisire all’interno gran parte delle nuove competenze richieste, obbligandole ad affidarsi a figure esterne. Da qui il fenomeno abnorme di professionisti esterni, spesso mal pagati e vessati, perché non organizzati in ordini professionali riconosciuti, dallo Stato. Nemmeno una parola sui processi di progressiva assimilazione delle competenze professionali in programmi modulari propedeutici ad un ulteriore processo di dequalificazione e precarizzazione del personale richiesto. Anche su questo i margini di azione sarebbero ancora ampi per compensare il calo di livello di specializzazione richiesti con un allargamento della qualificazione riguardante la conoscenza più ampia possibile di cicli operativi. Anche questa una ricerca e un impegno tanto in voga in quegli anni, grazie all’impegno politico e sindacale di tecnici e professionisti, ma caduta pressoché in disuso ai giorni nostri sino a confondere i concetti stessi di specializzazione e qualificazione, invertendone addirittura l’importanza.

Non è un caso che la relazione, non ostante le intenzioni dichiarate, finisce regolarmente per soffermarsi sugli episodi di precarietà, come quelli dei call center, importanti per la loro diffusione ed estensione, ma marginali rispetto a quello che sta accadendo nei gangli vitali dell’industria e dei servizi.

Con questi limiti la classe dirigente sindacale non ha alcuna possibilità di inserirsi validamente in un progetto di rinascita nazionale, condannando ampi strati popolari alla marginalità politica, sociale ed economica.

Lo stesso muro che legittimamente cerca di erigere contro la diffusione di regimi assistenziali slegati dalla condizione lavorativa, siano essi il reddito di cittadinanza o le pensioni sempre più sganciate dai versamenti contributivi o quant’altro, grazie a queste mancanze rischia di sgretolarsi di fronte agli attacchi concentrici e all’attrattiva facile e temporanea offerte da partiti movimentisti come il M5S, da gran commis dello stato, come Tito Boeri e dalle rozze politiche aziendali di gestione del personale.

Di converso la maggiore preoccupazione sembra concentrarsi su una reciproca legittimazione delle parti sociali, quindi in primo luogo con la Confindustria, tesa alla mera sopravvivenza conservativa e autoreferenziale.

Cosa sia attualmente la Confindustria, già dal passato poco glorioso, meriterebbe un capitolo a parte. Pare evidente la sua intenzione di perseguire una politica di adeguamento alle possibilità di sfruttare gli interstizi di mercati determinati da altri. Per ambire a qualcosa di più e di più dinamico occorrerebbe una classe dirigente e un ceto politico di ben altre ambizioni e capacità. La storia dell’IRI, dell’Olivetti, della Montedison sono lì a dimostrare il carattere prevalentemente retrivo e conservatore di questa organizzazione.

 

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