LA PERDITA DI INDIPENDENZA DELL’ITALIA: L’ELOGIO DELLA STUPIDITA’ a cura di Luigi Longo

LA PERDITA DI INDIPENDENZA DELL’ITALIA: L’ELOGIO DELLA STUPIDITA’

a cura di Luigi Longo

 

Introduco lo scritto di Marco Della Luna Dalla Russia coi servizi (deviati), apparso sul sito www.marcodellaluna.info il 14/7/2019, con uno stralcio sulle leggi fondamentali della stupidità umana tratto da Carlo M. Cipolla, Allegro ma non troppo, il Mulino, Bologna, 1988.

 

L’INTRODUZIONE

 

[…] Il secondo fattore che determina il potenziale di una persona stupida deriva dalla posizione di potere e di autorità che occupa nella società. Tra burocrati, generali, politici, capi di stato e uomini di Chiesa, si ritrova l’aurea percentuale o di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo fu (o è) pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occuparono (od occupano).

La domanda che spesso si pongono le persone ragionevoli è in che modo e come mai persone stupide riescano a raggiungere posizioni di potere e di autorità […] All’interno di un sistema democratico, le elezioni generali sono uno strumento di grande efficacia per assicurare il mantenimento stabile della frazione o fra i potenti. Va ricordato che, in base alla Seconda Legge, la frazione o di persone che votano sono stupide e le elezioni offrono loro una magnifica occasione per danneggiare tutti gli altri, senza ottenere alcun guadagno dallo loro azione. Esse realizzano questo obiettivo, contribuendo al mantenimento del livello o di stupidi tra le persone al potere. [pp. 65-66]

 

[…] Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.

Nei secoli dei secoli, nella vita pubblica e privata, innumerevoli persone non hanno tenuto conto della Quarta Legge Fondamentale (quella sul potenziale nocivo delle persone stupide innanzi sottolineata, mia precisazione) e ciò ha causato incalcolabili perdite all’umanità. [pag.72]

 

[…] La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista.

 

Il corollario della legge è che:

 

Lo stupido è più pericoloso del bandito. [pag.73]

 

 

LO SCRITTO

 

DALLA RUSSIA COI SERVIZI (DEVIATI)

 

di Marco Della Luna

 

 

Un recente sondaggio dice che il 58% degli italiani ritiene grave la storia dei soldi promessi dai russi alla Lega per la campagna elettorale europea di quest’anno. Ciò dimostra ulteriormente che l’inconsapevolezza è la regina della democrazia come oggi praticata.

Infatti, posto che il problema di questo ipotetico e non avvenuto finanziamento è quello dell’interferenza straniera nella politica italiana, cioè della tutela dell’indipendenza politica italiana, allora ogni non-idiota sa che questa indipendenza non esiste dalla fine della II GM:

a) l’Italia dal 1945 è militarmente occupata dagli USA con oltre 100 basi sottratte al controllo italiano;

b) gli USA hanno allestito, armato e finanziato in Italia la Gladio, un’organizzazione paramilitare illecita con fini di condizionamento politico;

c) la DC e il PCI hanno sempre preso miliardi rispettivamente dagli USA e dall’URSS, dati per condizionare la politica italiana; in particolare l’URSS assicurava al PCI percentuali su determinati commerci;

d) il PCI riceveva questi soldi mentre l’URSS teneva puntati contro l’Italia i missili nucleari;

e) il PCI, in cui allora militava il futuro bipresidente della Repubblica G.N., accettava la guida del PCUS di Stalin;

f) diversi leaders politici italiani hanno sistematicamente svenduto a capitali stranieri i migliori assets nazionali;

g) moltissimi leaders politici e statisti italiani hanno sistematicamente e proditoriamente ceduto agli interessi franco-tedeschi e della grande finanza in fatto di euro, fisco, bilancio, immigrazione; in cambio hanno ricevuto sostegno alle loro carriere;

h) l’Italia ormai riceve da organismi esterni, diretti da interessi stranieri, l’80% della sua legislazione e della sua politica finanziaria;

i) essa è indebitata in una moneta che non controlla e che è controllata ultimamente da banchieri privati; la Banca d’Italia è controllata pure da banchieri prevalentemente stranieri.

j) ciliegina sulla torta: notoriamente, nel 2011, su disposizione di BCE e Berlino, il Palazzo italiano ha eseguito un golpe per sostituire il governo Berlusconi con uno funzionale agli interessi della finanza franco-germanica.

E su tutto questo nessun PM ha mai aperto un fascicolo per corruzione internazionale: andava tutto bene!

Nel confronto con questi fatti, il problema dei soldi russi alla Lega, peraltro mai dati, è insignificante, solo un idiota può considerarlo diversamente; mentre chi ha un minimo di buon senso nota che il problema grave è un altro, ossia che i servizi segreti -sottoposti al premier Conte- abbiano eseguito un anno fa, e tirato fuori proprio ora, le intercettazioni in questione, e che le tirino fuori ora per mettere in difficoltà la Lega in un momento critico per il M5S (corsivo mio). Si ventila pure che possa essere stata, invece, la CIA, per colpire il legame Salvini-Russia. In ambo i casi, questa è la vera interferenza, questo è lo scandalo.

 

 

VIP E CICISBEI, di Giuseppe Germinario

La settimana ormai all’epilogo è stata caratterizzata dal via vai. È iniziata con il viaggio di Matteo Salvini negli Stati Uniti; si è conclusa con l’arrivo di Obama a casa Clooney, sulle rive del Lario. Nel mezzo il soggiorno del Presidente del Consiglio Conte a Bruxelles, al Consiglio Europeo.

Una coincidenza di eventi, probabilmente casuale, comunque sorprendente dal punto di vista simbolico. Sembra offrire, sotto traccia, qualche barlume di verità su alcune dinamiche nello scacchiere geopolitico europeo e mediterraneo.

La gran parte degli addetti all’informazione però sembra sempre più attratta, se non accecata, dagli aspetti mondani di questi appuntamenti. Da produttori e portatori di informazione si stanno trasformando irreversibilmente in moderni cicisbei, maestri di colore, di costumi e di pettegolezzi.

Tra i tre, paradossalmente, chi ci ha rimesso in efficacia di immagine è stato Giuseppe Conte, notoriamente maestro in bon ton e passi felpati. In un Consiglio Europeo impegnato a concordare le nomine della Commissione Europea, della Presidenza del Consiglio Europeo e della BCE, si è trovato nella condizione di dover rintuzzare la procedura di infrazione annunciata proditoriamente dalla Commissione Europea uscente. Tra le due opzioni opposte di una reazione d’orgoglio a un atto strumentale e provocatorio e un atteggiamento pragmatico teso a contenere i danni accettando logica e spirito della lettera, ha prevalso la seconda e con esso qualche atteggiamento di troppo da questuante verso i pari grado più potenti, pur se ormai sempre meno autorevoli. Non lo ha certo aiutato una consuetudine pluridecennale di totale accondiscendenza e complicità di un ceto politico ed una classe dirigente nazionale; accondiscendenza che ha disabituato a trattative serie le varie élites europee. Peggio ancora, come insegna il mercimonio truffaldino operato dal “rottamatore” Renzi tra la resa sottobanco sull’approdo in Italia di immigrati (Operazione Triton) e la concessione di pochi decimi di deficit, le ha incoraggiate ad operazioni di vera e propria corruttela utile ad alimentare un sottobosco di attività assistenziali e parassitarie necessarie a garantire la sopravvivenza politica del sistema. Non lo ha sostenuto in autorevolezza, per altro, il suo comportamento deludente e rinunciatario seguito al promettente avvio e alla conclusione della Conferenza sulla Libia, tenutasi a Palermo l’autunno scorso. Un appuntamento organizzato con il beneplacito del Presidente Americano, accettato a denti stretti da Francia e Germania e conclusosi addirittura trionfalmente, con l’investitura di Conte a mediatore ad opera del Ministro degli Esteri russo, Lavrov. In quel momento Conte avrebbe dovuto comprendere l’insostenibilità della figura di al Serraji come Presidente capace di unire le varie tribù della Libia, in quanto privo di forza propria e mantenuto a galla da una delle tre principali fazioni in lotta. Avrebbe dovuto puntellare la sua sopravvivenza per impedire il pieno successo del Generale Haftar, espressione delle tribù di Cirenaica e nel contempo favorire l’emersione di una figura terza, capace di mediare e riunire il paese. Questa figura può emergere con migliori possibilità, dalla tribù più numerosa e centrale di quel paese e non è escluso che, ad osservare i fatti, possa essere uno dei superstiti dei figli del colonnello Gheddafi. Una operazione certamente ardua e complessa, che richiederebbe grandi capacità diplomatiche e sufficienti coperture militari. Ipotizzabile sotto la Presidenza di Trump, ma decisamente più traumatica se il rospo dovesse essere offerto ad eventuali epigoni di Obama, Sarkozy e Macron. Con l’offensiva in corso di Haftar, fortunatamente esauritasi, l’atto più significativo di Conte è stato la sua richiesta di aiuto americano, evitando così il disastro ma perdendo così ogni parvenza di autonomia verso i vari contendenti libici ed esterni e gran parte della credibilità verso il suo stesso principale estimatore, Trump. Alla luce di ciò, il memorandum con la Cina e la posizione sul Venezuela, di per sé poco rilevanti nell’agone geopolitico, hanno assunto un significato dirimente per l’amministrazione statunitense. Il cerchio si è chiuso quasi del tutto con il suo progressivo avvicinamento a Mattarella e la gestione partigiana, piuttosto che calmieratrice, del conflitto giallo-verde durante l’ultima campagna elettorale.

Di queste difficoltà sembra approfittare a piene mani Matteo Salvini. Il suo viaggio a Washington ha assunto l’aspetto di una vera e propria investitura a leader. L’incontro con Mike Pompeo, Segretario di Stato e Pence, Vicepresidente sono un riconoscimento che va certamente oltre lo status proprio di un Ministro dell’Interno. È un lustro che, se prematuro ed improprio, espone il personaggio ad un rischio da non sottovalutare. Quello di apparire come uno dei tanti pellegrini che hanno dovuto recarsi a Washington per ottenere una investitura che dovrebbe essere in realtà prerogativa esclusiva delle istituzioni e del popolo italiano; viandante dotato magari di una aura più fulgida e lucente, ma sempre di luce riflessa più che propria. L’intero sistema mediatico ha indugiato sulle dichiarazioni di Salvini, tanto su quelle di politica economica, quanto soprattutto quelle in politica estera, riguardanti il Venezuela e il memorandum con la Cina. Queste ultime sono di fatto una sconfessione delle posizioni ufficiali del Governo Conte ed un allineamento pedissequo e a buon mercato alle posizioni dell’Amministrazione Trump. Pedissequo, perché acriticamente allineate, a buon mercato perché esulano dalle competenze del suo ministero. Risulta quindi evidente l’apparente e impropria investitura di leader politico da parte di esponenti di un governo straniero. Il mancato incontro con il Presidente Trump non è solo la residua cautela sulle esigenze di etichetta e di correttezza istituzionale. Rivela soprattutto una persistente diffidenza di Trump verso una forza politica che non ha superato del tutto i retaggi delle proprie origini secessioniste; poco importa se sia una diffidenza di tipo culturale e/o di mero interesse politico, legato a possibili ritorni di fiamma filobavaresi, nemmeno filotedeschi nel prossimo futuro. Visto lo spessore e le funzioni di uno degli ospiti e del pellegrino è probabile che la parte più succosa e pertinente, prosaica dei colloqui riguardi l’implicazione, pur in filoni secondari, di tanta parte del ceto politico e dei funzionari di settori nevralgici dello Stato Italiano nella costruzione del Russiagate. Nei blog e in numerose testate americane circolano da tempo apertamente numerosi nomi di politici ed alti funzionari italiani. Segno di insofferenza e volontà di rivalsa verso gli artefici di una caccia alle streghe congelata malamente al prezzo però di paralisi politica e di numerose vittime. A questo riguardo le prossime elezioni presidenziali americane potrebbero essere il prodromo ad una definitiva resa dei conti nella quale Trump non avrebbe più l’esclusiva della figura di vittima designata.

Il soggiorno di Obama, famiglia e seguito similpresidenziale, presso la sontuosa residenza sul lago di Como, ospite del suo amico e attore George Clooney, sembra assecondare la bramosia dei cicisbei più accaniti; non ha in realtà, probabilmente, un esclusivo carattere mondano e godereccio. Accecati dal gossip e dalla vacuità, i nostri pennuti cicisbei si sono dilettati sulle frivolezze le più varie del soggiorno, compresi i fuochi d’artificio di borbonica memoria. In realtà Obama, abbandonata a malincuore la Casa Bianca e il suo orto, già altre volte ha pedinato e tampinato, sovrapponendosi con appuntamenti ed itinerari paralleli, il proprio odiato successore. Poiché uno dei bersagli grossi di un possibile ribaltamento della direzione delle inchieste sul Russiagate potrebbe essere, ancor più della Clinton, proprio lui, quanto meno come responsabile politico, il suo interesse per l’Italia si arricchirebbe di ulteriori aspetti, questa volta più politici. Alcuni giornali italiani sussurrano di un incontro con Matteo Renzi, ma solo per affinità elettiva. Alcuni giornali inglesi, invece, più smaliziati, ipotizzano una investitura di Clooney a prossimo candidato democratico Presidente. Non si conosce il grado di superstizione di Obama. Tenuto conto che l’ultima consumazione alla Casa Bianca tra i due, Renzi e Obama, da sanzione di investitura reciproca si è risolta repentinamente in una sorta di “ultima cena” con scarse possibilità di resurrezione, si presume che gli incontri politici, quantunque riservati, riguarderanno personaggi più titolati e meno predisposti a naufragi fragorosi.

Ipotizzando temerariamente cotante intenzioni, a Matteo Salvini si presenterebbe una occasione d’oro, per quanto rischiosa, per garantirsi un futuro da leader riconosciuto.

La concomitanza di interessi con l’attuale inquilino d’oltreatlantico potrebbe rendere più praticabile una azione di riforma istituzionale, a cominciare dal ruolo e dalle competenze della magistratura e una operazione di rinnovamento del personale, specie dirigenziale, degli apparati di sicurezza. Se e come riuscirà a portarla avanti, potrà fare di lui un personaggio politico di statura, capace di sostenere alla pari un confronto con alleati ed avversari o piuttosto, in caso di sopravvivenza, l’ennesimo emissario di una delle fazioni in lotta nei centri decisionali che contano; uno dei tanti che con valigia o borsello, vuoti o pieni che fossero al ritorno, hanno costellato le vicende italiche dal dopoguerra.

Il contesto è proibitivo, le qualità soggettive, se esistono, appaiono dissimulate sin troppo bene, lo scetticismo prevale, ma………………….chissà!?

IL NEMICO PRINCIPALE, di Piero Visani

Punti di vista_Giuseppe Germinario

IL NEMICO PRINCIPALE, di Piero Visani

Immagino che questa considerazione potrà non piacere a tutti, ma la prima esigenza di una politica è quella di chiarire chi sia il nemico principale, quello che crea maggiori problemi e preoccupazioni.
A giudizio di chi scrive, è l’Unione Europea, per cui certe derive statunitensi forse sono – per chi le effettua – scelte di vita e di campo. Per me, sono al momento l’unico modo disponibile per affrancarsi dal peso soffocante del nemico principale.
Quando un Paese è piccolo, guidato da una classe dirigente di piccoli (e grandi) cialtroni, fare riferimento al servilismo – sempiterna risorsa dei cialtroni – è una delle pochissime carte che si hanno in mano, specie se si è fortemente miopi.
Giocarsi quelle carte è una minuscola risorsa tattica, non una soluzione strategica, ma personalmente – visto che individuo nell’UE l’attuale nemico principale (il che non equivale a dire che lo sia la costruzione di una “massa critica” europea, da cui l’UE è lontana come il sottoscritto dal diventare Napoleone Buonaparte) – non vedo molte altre soluzioni.
A differenza dei tedeschi, inoltre, agli americani interessa pochissimo della virtù dei conti altrui, e questo per me è già positivo.
Per il resto, quando si è piccoli e poco illuminati da prospettive strategiche, non si ha che fare leva sulla guerra di movimento e quella asimmetrica.
Triste, ma realistico, specialmente per un popolo di soddisfatti fancazzisti, statalisti e vacanzieri in SPE: andare alla “House of Cards” e vedere se se ne la qualcuna da giocare…

Salvini, Di Maio e il Terzo_di Giuseppe Germinario

La conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con oggetto il caso Armando Siri è stata un piccolo capolavoro di sottili argomentazioni tese a giustificare la decisione di dimissionamento del sottosegretario. http://www.governo.it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-conte/11474La prevedibile accalorata reazione dei due esponenti politici maggiormente interessati alle implicazioni dell’affare, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, non ha colto e centrato il punto focale di quella prolusione. Nella costruzione logica del discorso l’effetto scatenante sono state ovviamente le indagini giudiziarie, ma il motivo della defenestrazione riguarda il comportamento politico di un esponente di governo impegnato a difendere retroattivamente, consapevolmente o meno che fosse, interessi particolari piuttosto che l’interesse generale, non tanto il suo coinvolgimento giudiziario.

Il merito degli argomenti è però tanto efficace nella rappresentazione mediatica, quanto debole nella consistenza.

La gestione degli incentivi e delle agevolazioni ai consumi, atori e soprattutto alle imprese impegnate nel settore delle energie alternative, in particolare eolica e solare, è il frutto avvelenato del fondamentalismo ambientalista delle politiche energetiche perpetuate negli ultimi due decenni soprattutto dai governi di centrosinistra, parallelamente alla liberalizzazione del settore e bruscamente interrotte da un paio di anni.

Una mole spropositata di incentivi, introdotti repentinamente che hanno indotto enormi investimenti su tecnologie ancora poco efficienti, suscettibili solo nel tempo di migliorie significative; un ambito nel quale era del tutto assente sia l’industria di produzione degli utensili che l’artigianato competente nell’installazione e manutenzione. Il risultato ottenuto fu un notevole incremento della quota di energia verde prodotta al prezzo però di massicce importazioni di pannelli e tecnologie dalla Cina e installatori dalla Spagna. In poco tempo si assistette alla fioritura di numerose aziende di produzione e distribuzione nonché di intermediari nell’acquisizione di terreni per i parchi di produzione; attività rese profittevoli esclusivamente dall’entità degli incentivi, ma entrate immediatamente in crisi con l’altrettanto repentino scemare degli stessi. Attività di tipo speculativo nelle quali sono implicate, oltre alle scontate cosche mafiose, figure imprenditoriali ben più importanti dei tal Arata, ben ammanicate con il vecchio establishment.

Deve essere stato evidentemente uno dei servizi resi al paese e all’umanità, tra i tanti, del verde Pecoraro Scanio; servizi che gli hanno garantito un posto in prima fila alle europee in quota M5S; ma anche una scelta che ha creato l’humus adatto alla proliferazione di corruzione, parassitismo ed assistenzialismo da una parte e a interventi riparatori dall’altro.

Con questa puntualizzazione l’intervento di Conte assume ben altra caratteristica e ben altra durezza, se non proditorietà, stando almeno allo stato attuale delle indagini e della posizione giudiziaria di Siri.

Giuseppe Conte è diventato Presidente del Consiglio in quota 5Stelle, ma in virtù del contratto di governo e del protagonismo dei due vice ha potuto assumere, almeno in apparenza, la figura di terzo.

Come Schmitt, Freund e pochi altri hanno insegnato, quella del terzo è una posizione fondamentale ed indispensabile nel gioco politico. Può assumere di volta in volta la veste di mediatore, di arbitro e giudice pur essendo il più delle volte parte in causa.

Nella fattispecie Giuseppe Conte ha assunto, nell’ordinaria amministrazione, la funzione di mediatore. Nella ripartizione dei beni disponibili, quindi, l’onore della prima fila spetta ai beneficiari Salvini e Di Maio. In almeno un paio di occasioni, in questi dieci mesi, la figura di Conte si è però elevata al rango di arbitro: la gestione delle trattative con la Commissione Europea sulla Finanziaria e la gestione della conferenza internazionale sulla Libia. Si tratta però ancora di una funzione il cui esercizio è possibile grazie al riconoscimento delle parti in causa. Quando esso manca, lo vediamo nelle partite di calcio, all’arbitro non resta che la fuga e il riparo in luogo sicuro.

Con il caso Siri si è verificato il salto di qualità. Non ostante le esortazioni salomoniche alla calma rivolta ai due contendenti l’avvocato Giuseppe Conte ha assunto la veste di giudice. Di fatto un intervento a gamba tesa col fine di ripristinare e mantenere un equilibrio, un rapporto di forze in via di alterazione.

Il Presidente rischia di cadere nella tentazione ricorrente al quale cede il terzo. Quella di diventare esplicitamente parte in causa del conflitto e di trarne il massimo vantaggio specie nel momento di debolezza di entrambe i contendenti. Per il momento il bersaglio designato è Salvini. Il varco che si è cercato invano di aprire con il caso Diciotti, potrà determinarsi sfruttando la crepa del caso Siri entro la quale ancora una volta potrà agire la magistratura, parti di essa, per delimitare l’agone politico. Il moltiplicarsi delle azioni giudiziarie lasciano intravedere che sarà ancora una volta questa la modalità per tentare di ridisegnare e ripristinare lo scenario politico. Per il resto, ad alimentare i dissidi e il senso di impotenza, ci penserà la risicatezza del bottino disponibile grazie ai vincoli-capestro sottoscritti da tutti in sede comunitaria.

A Giuseppe Conte, però, manca una referenza fondamentale per esercitare compiutamente questa ultima funzione di terzo: la disponibilità delle leve di potere e di una forza propria, giacché la forza è un atout imprescindibile in politica. Lo ha dimostrato nel prosieguo delle due occasioni nelle quali ha potuto emergere: in Libia con il chiaro ridimensionamento della funzione mediatrice del Governo Italiano, in Europa con l’intangibilità dei parametri che regolano le politiche economiche degli stati europei.

L’ambiguità e la opacità di questo suo ruolo deriva dalla discrepanza netta tra la rappresentazione del conflitto e delle divisioni sullo scenario pubblico e le divisioni e i contrasti effettivi che agiscono nell’ombra e dietro le quinte. Lo scenario ci offre la contrapposizione tra Salvini e Dimaio, la Lega e i Cinque stelle.

Il Governo in realtà è composto da tre attori, una delle quali, la componente “tecnica”, rappresenta il vero giudice. Una componente composta in parte da figure autonome, in parte da figure cooptate nel seno dei due partiti, specie dai 5Stelle, per mancanza di una propria classe dirigente. È pervaso, altresì, da due anime, queste sì in fondamentale conflitto tra di esse. Una apertamente europeista, pedissequamente atlantista, ben disposta verso l’umanitarismo e il politicamente corretto; ben salda nel controllo delle leve di potere, ma incapace di offrire una prospettiva accettabile per quanto ingannevole. L’altra con aspirazioni di indipendenza politica, incapace però di tradurle in strategie e tattiche politiche adeguate con il risultato di ricadere continuamente nel trasformismo più becero. Due anime che attraversano entrambe i partiti al governo anche se sotto mentite spoglie di diversa foggia. Quella restauratrice in uno si manifesta con il progressismo dei diritti, nell’altro con quello della persistenza di una classe dirigente più preparata e navigata, addestrata da venti anni di esperienza amministrativa, ma legata ad una visione localistica e regionalista sostanzialmente compatibile con le attuali opzioni europeiste e con la attuale insignificanza nell’agone geopolitico. Una mistura particolarmente deleteria e mistificante per il paese. Il resto, comprese le migrazioni incontrollate di adepti nei partiti, di fatto nel partito, è un corollario per quanto rischioso

In questo contesto e con queste dinamiche la funzione di Giuseppe Conte rischia di apparire inesorabilmente più che di Terzo per “conto terzi”. Una funzione che potrà portare al drastico ridimensionamento, se non al dissolvimento di uno, dell’ultimo arrivato quindi tra i partiti e al pieno rientro nei ranghi dell’altro. Gli osanna mediatici a Mario Draghi e la posizione di attesa del PD lasciano intendere questi propositi. Tra il dire e il fare, fortunatamente, c’è di mezzo un vecchio ceto politico troppo screditato ed incapace e un contesto geopolitico, compreso il presunto asse franco-tedesco, sempre più mutevole e meno stabile nella stessa Europa. Per ora può essere ancora una opportunità; tra non molto potrà rivelarsi, se procrastinata, una vera e propria iattura e catastrofe per l’intera Europa e soprattutto per l’Italia; senza nemmeno il palliativo del declino languido conosciuto dall’Italia postrinascimentale.

 

Gasdotto EastMed: un’occasione mancata per l’Italia? – di Piergiorgio Rosso

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/gasdotto-eastmed-unoccasione-mancata-per-litalia-2-a-parte-di-piergiorgio-rosso

Lo scorso 24 marzo Gli Occhi della Guerra hanno pubblicato un interessante analisi di Andrea Muratore a proposito di gasdotti ed interessi nazionali italiani, con particolare riferimento alla proposta del Consorzio IGI Poseidon per l’EastMed.

Riassumiamo qui di seguito i principali aspetti tecnici della proposta – e del contesto generale in cui si inserisce –  per poi avanzare qualche nostra considerazione, in aggiunta a quelle espresse nell’articolo citato.

Il nuovo gasdotto EastMed partirebbe da Cipro ed arriverebbe in Grecia dalle parti di Igoumenitsa, innestandosi sul gasdotto IGI Poseidon (Interconnettore Italia-Grecia) che è previsto connettersi a Otranto con la rete italiana (SNAM ReteGas).  Con una capacità di 10 miliardi di m3/anno (MMm3/a) – espandibile a 20 MMm3/auna lunghezza di 1900 km ed appoggiato su fondali che arrivano a 3000 m. di profondità, EastMed batterebbe tutti i recordmondiali nella costruzione di gasdotti offshore. La società proponente è la franco-greca IGI Poseidon, partecipata pariteticamente da Edison SpA (di proprietà della francese EDF) e Depa SA, entrambe aziende focalizzate sulla distribuzione di energia. Edison è posizionata immediatamente dietro a ENI nel mercato italiano.

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(Immagine da http://www.igi-poseidon.com/en)

Da dove arriverebbe il gas? Il gasdotto IGI Poseidon – che arriva a Kipoi, al confine greco-turco – era stato concepito per trasportare 15 MMm3/a di gas dal Mar Caspio in parte destinati all’Italia, ma è stato battuto dal concorrente TAP ed ora pertanto non ha un’alimentazione certa …. che non sia il gas di Gazprom (!) che non aspetta altro per avviare la costruzione della seconda linea del Turkish Stream attraverso il Mar Nero. Ma costruire un gasdotto per far arrivare in Europa il gas russo – bypassando l’Ucraina, poi! – non va di moda nella UE, ecco quindi che il consorzio IGI Poseidon promuove la nuova direttrice EastMed destinata a raccogliere il gas dei giacimenti israeliani (Leviathan e Tamar) e ciprioti (Afrodite, Calipso e Glauco) scoperti tra il 2009 ed il 2018(vedi fig.1). Ed in questo modo si assicurano la dichiarazione di Progetto di Interesse Comune e la possibilità di accedere a finanziamenti UE.

Come si nota in figura, da quelle parti esistono anche giacimenti egiziani (Zohr e Noor) che però il consorzio non menziona nel suo sito. Ed infatti l’incontro a Gerusalemme di cui parla A. Muratore è stato fra Israele, Grecia e Cipro con la straordinariapartecipazione del Segretario di Stato USA, Mike Pompeo. Egitto ed Italia assenti. Se gli italiani possono essere stati distratti dalle beghe interne fra 5S e Lega sulla necessità o meno delle “infrastrutture”, oppure dalla irrefrenabile ed infantile voglia di fare un dispetto ai francesi – come sembra sostenere  A.Muratore – è possibile, ma l’assenza dell’Egitto va spiegata.

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Fig.1 (slide presentata dalla Fondazione ENI E.Mattei a OMC2019/27.3.2019)

La spiegazione è indicata nel titolo della fig.2: dopo il soddisfacimento dei fabbisogni interni di Cipro, Israele ed Egitto, quanto gas resta per l’esportazione?

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Fig.2(slide presentata da ENI a OMC2019/27.3.2019)

Mentre Cipro e Israele, con popolazioni stabili. non sono grandi consumatori di gas naturale – fra tutti e due consumano circa 12 MMm3/a – l’Egitto ha invece letteralmente fame di gas naturale – un consumo pari a ca. 50 MMm3/a – per servire la sua crescente popolazione e garantire ad essa un adeguato sviluppo industriale e civile.

Oltre alla produzione interna – compreso il giacimento Zohr che non opera ancora alla potenzialità massima prevista – oggi ne importa da Israele attraverso un gasdotto che va da Askhelon a ElArish (Sinai) aggirando via mare la Striscia di Gaza. Ne farebbe volentieri a meno per ovvie ragioni di sicurezza e sfere d’influenza: mentre Gaza non potrà mai accettare gas israeliano, potrebbe volentieri accettare gas egiziano.

A questa spiegazione fondamentale se ne aggiunge una accessoria – citata anche da A.Muratore – costituita dall’esistenza di due impianti di liquefazione del gas naturale a Idku e Damietta al momento fermi, per mancanza di gas da esportare (!).

Ci sembra ovvio pertanto che l’Egitto non sia molto interessato a spedire il suo gas in Europa via gasdotto, mentre – una volta soddisfatto il fabbisogno interno – potrebbe eventualmente utilizzare, saturare o anche potenziare i suoi due liquefattori ed esportare GNL.

E ci sembra altresì comprensibile e giustificato che ENI – che partecipa alla proprietà e gestione del liquefattore di Damietta – non promuova il gasdotto EastMed bensì promuova la rimessa in funzione dei liquefattori egiziani.

Se questo è il quadro complessivo degli interessi materiali in gioco, è ancora da notare che il consorzio franco-greco IGI Poseidon, già scottato dalla perdita del gas azero (dal Mar Caspio)a favore del TAP, fa di tutto per convincere fornitori e clienti a sostenere l’alternativa EastMed. Dal punto di vista finanziario, il consorzio si pone come un investitore privato che – detenendo la proprietà del gasdotto – si remunererà tramite le tariffe di trasporto, non avendo la proprietà del gas che verrà venduto sui mercati greco e italiano. A nostro modesto parere né Edison né DEPA hanno la forza finanziaria per sostenere un progetto così sfidante sia a livello tecnologico che geopolitico. Arriverà il momento in cui il consorzio dovrà imbarcare qualcuno che abbia un interesse sostanziale: la presenza di Mike Pompeo a Gerusalemme è un indizio sufficiente?

In questo contesto qual è dunque l’interesse nazionale italiano nei confronti del futuribile gasdotto EastMed? Proveremo a discuterne più diffusamente nella 2.a parte.

2aparte

Nella prima parte di questa analisi abbiamo illustrato le basi tecnico-industriali su cui si fonda l’iniziativa per il gasdotto EastMed. Oltre alla società franco-greca IGI Poseidon che si occuperebbe della costruzione e gestione della nuova infrastruttura, ci sono gli interessi diretti dei proprietari del gas, scoperto in abbondanza negli ultimi dieci anni, e quelli più generalmente geopolitici di altri attori. In particolare gli interessati da questo punto di vista sono Cipro, Israele e Grecia con sullo sfondo USA, Italia, Unione Europea e Turchia.

 

Per la Grecia si tratta di acquisire un ruolo ancora più importante nei confronti della UE, come nazione di transito e re-distribuzione di una fonte energetica ancora fortemente necessaria nei Paesi dell’Europa sia Occidentale che Orientale, dopo il successo dell’iniziativa TAP. La Grecia è in una posizione ideale essendo al centro del  Mediterraneo. Incassando inoltre la rendita del transito. Inoltre ha ambizioni di sfruttamento del gas che potrebbe trovare nelle sue acque profonde a ovest di Creta. Dal punto di vista geopolitico si è ultimamente molto avvicinata a Israele in chiave anti-turca, avvicinamento segnato dalla visita ufficiale del primo ministro israeliano, Netanyahu, e da esercitazioni militari congiunte fra le due aviazioni. Da qualche tempo Israele usa lo spazio aereo greco per le sue esercitazioni aeronautiche. Da questo quadro si intuisce come l’interesse greco economico e geopolitico sia decisamente spostato a favore di un gasdotto piuttosto che verso terminali GNL, men che meno quelli egiziani che la taglierebbero fuori.

 

Per Cipro si tratta di guadagnare una rilevanza internazionale e sfruttare economicamente al meglio una risorsa di valore, abbondante nella sua Zona Economica Esclusiva. Sfruttamento che però necessita di cooperazione con altri partner sia per la fase di esplorazione e produzione – ad oggi affidate a TOTAL, EXXON, ENI e NOBLE (vedi Fig.3) – che per la fase vendita.

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Fig.3 – (slide da OMC 2019/27.3.2019)

 

Dal punto di vista geopolitico Cipro deve fare i conti con la forte opposizione della Turchia a che si sfruttino le ricchezze cipriote senza il suo assenso e la sua compartecipazione. La Turchia occupa Cipro-Nord e rivendica diritti sulle risorse marine dell’isola.

In questo quadro possiamo intravedere come Cipro possa essere neutrale rispetto alla tecnologia – gasdotto o liquefattori – utilizzata per sfruttare il suo gas, ma abbia nel contempo assoluta necessità che l’infrastruttura pianificata sia finanziata in modo sostenibile e protetta, anche militarmente, dalle minacce turche.

 

Israele ha un rilevante interesse economico e geopolitico alla costruzione del gasdotto EastMed. L’enorme capacità dei suoi giacimenti di gas Tamar e Leviathan – che eccede le necessità di consumo interno per i prossimi 50 anni – determina un forte interesse a esportare gas in Europa, il più grande mercato di gas naturale del mondo, in cerca di diversificazione delle sue fonti. La via turca – cioè collegarsi al gasdotto TANAP/TAP – che sarebbe la più economica, è stata a questo punto scartata dagli israeliani a seguito dello stato dei rapporti con Ankara, deterioratisi progressivamente fin dai tempi dell’incidente della nave Marmara di fronte a Gaza, per giungere all’attuale allineamento tra Ankara, Mosca e Teheran.

Questa nuova partnership nel Mediterraneo Orientale fra Israele, Grecia e Cipro darebbe una spinta vigorosa a due obiettivi strategici che Israele condivide con gli USA: tagliare le unghie alla prevalenza russa nel mercato energetico europeo e controbilanciare l’accesso al Mediterraneo dell’Iran, via Siria. Proprio perché il gasdotto EastMed sarà più costoso di altre soluzioni, l’interesse USA si paleserà anche in termini di supporto finanziario. Al momento la UE ha garantito un finanziamento limitato, per completare gli studi di fattibilità.

 

E veniamo all’Italia. La competitività di prezzo è tutta da dimostrare, finora il gas russo ha dimostrato di saper battere – sul mercato europeo – qualsiasi concorrente. Per quanto riguarda la necessità di diversificazione e la ridondanza delle provenienze, citiamo: … nel 2018 abbiamo importato quasi 68 miliardi di mc. Arrotondando, Russia (Tarvisio) 29,6; Algeria (Mazara) 17; Nord Europa (Gries) 7,7; Libia (Gela) 4,4; GNL (Cavarzere, Panigaglia, Livorno) 16,8. A fronte del volume importato, le nostre infrastrutture hanno una capacità continua di importazione di 127 miliardi di mc/anno; che con il TAP a pieno regime (2026) diventeranno 137.  Il Piano decennale di Snam Rete Gas ci predice una sostanziale stabilità del volume delle nostre importazioni da qui al 2035 (con un’oscillazione che al massimo supera da un anno all’altro il 7,5%). A primissima vista sembreremmo più che ridondanti e l’andare oltre, equivalente ad assicurarci contro la nevicata di giugno a Palermo; insomma verrebbe da dire che per infrastrutture di importazione abbiamo più che raggiunto un ragionevole quantum di sicurezza.”

Quanto agli “elevati profili di rischio geopolitico” di cui soffriremmo attualmente, adombrati nel Piano Energia e Clima del governo (PNIEC), non ci sembra che EastMed stante le premesse fatte sopra possa definirsi una provenienza stabile ed affidabile. Sarebbe senza alcun dubbio il gasdotto più militarizzato del pianeta.

Mettere in sicurezza i contratti italiani con Libia e Algeria sembrerebbe la vera priorità. ENI sta facendo la sua parte industriale non solo in Egitto, ma anche in Libia dove ha finalizzato un accordo con BP e NOC per ottenere una quota del 42,5% dei diritti di esplorazione e produzione di tre nuove aree – limitando tra l’altro le ambizioni di TOTAL – ed in Algeria dove ha siglato un accordo con SONATRACH per nuove esplorazioni offshore – in questo caso insieme a TOTAL.

E se proprio vogliamo dirla tutta, sviluppare e sfruttare il gas naturale che abbiamo in casa (onshore e offshore) dovrebbe essere la prima opzione di qualsiasi strategia energetica e industriale del Paese.

Il Ministro Salvini, in una recente visita in Israele, si è espresso a favore dell’EastMed, mentre i 5S, reduci dalla battaglia persa sul TAP, difficilmente potranno digerire un altro gasdotto che arrivi a Otranto. L’EastMed sembra pertanto assumere qui in Italia la forma di uno dei tanti possibili casus belli che si succederanno dopo le elezioni europee per far saltare questo governo.

La conclusione dell’articolo de Gli Occhi della Guerra è amara: “ E così ora l’Italia si trova costretta a dover nicchiare su EastMed per ragioni che esulano quelle che sarebbero le legittime cautele espresse dall’Eni, per mera conflittualità politica; a non poter recuperare il gap che la separa dalla Germania nella costruzione dell’hub per il gas russo; a non poter sfruttare la rendita geopolitica che la posizione nel Mediterraneo e le esplorazioni di Eni consentirebbero di conseguire. Con il rischio di dover scrivere la storia di questi nostri tempi come una lunga sequela di occasioni mancate.

Condividiamo la sostanza di queste parole, ma non se e quando fossero espressione di una scelta a favore della partecipazione italiana all’EastMed, che, per le cose rappresentate in questa analisi, assume chiaramente i connotati di un progetto che utilizza l’Italia come mercato di consumo, senza contropartite in termini di sicurezza e scambi commerciali. E ci legherebbe ad un progetto geopolitico di prevalente interesse USA, ostile rispetto a Russia e Turchia con i quali abbiamo al contrario forti legami commerciali e comuni interessi strategici.

Nei confronti della nascente area energetica e geopolitica del Mediterraneo Orientale, la scelta più coerente con l’interesse nazionale italiano, sta nello sviluppare accordi con l’Egitto per commercializzare gas naturale liquefatto di provenienza varia: egiziana, israeliana, cipriota. L’Egitto tra l’altro offre all’industria italiana un mercato di 100 milioni di cittadini in via di modernizzazione, rispetto ai 10 milioni di israeliani super-tecnologizzati. E può contribuire in modo decisivo alla creazione di nuova stabilità in Libia e Algeria, aree di prevalente interesse italiano nel Mediterraneo.

Un’ultima considerazione: il gasdotto EastMed senza la partecipazione italiana non si fa. Parola di IGI Poseidon.

Miserie del neoliberismo, di Teodoro Klitsche de la Grange_ Una recensione

articolo apparso in contemporanea su https://civiumlibertas.blogspot.com/

Alberto Mingardi, La verità, vi prego, sul neoliberismo, Marsilio editori, Venezia 2019, pp. 398, € 20,00.

Di questo libro si sentiva la necessità. Da quando morde la crisi è diventato un ritornello – ripetuto da tanti – affermare che il tutto è dovuto al “neoliberismo” che, tra le tante streghe create dalla fantasia è la più attuale.

Nella realtà azioni, comportamenti, decisioni sono fatti umani e non frutto di astrazioni: il rasoio di Ockham va applicato qui come altrove. Anzi in materia di attività umane è più necessario.

Soprattutto in Italia. È scelta arguta dell’autore aver premesso al testo un passo di Pareto che riportiamo e che da un senso preciso al libro: “Quando qualche storico imprenderà, nel futuro, di narrare la miseria degli anni presenti, è pregato di non darne colpa alla libera concorrenza, perché, quella libera concorrenza, gli italiani non sanno nemmeno dove stia di casa. Sarà, se si vuole, cosa pessima e malvagia, ma infine non si può a essa dar colpa di quei mali che eseguono dove essa non esiste”.

Ora che gli italiani non sappiano “dove stia di casa” la concorrenza (e così  anche il neoliberismo) non è del tutto vero (ma in gran parte lo è): sicuramente vero è che lo sanno meno di altri popoli europei (e non) che non hanno (fortunatamente per loro) avuto governi così stataldirigisti come i nostri, e soprattutto meno voraci e più efficienti.

Mingardi, giustamente, richiama la necessità di una chiarificazione lessicale “Ci sono parole che vengono usate quasi esclusivamente a sproposito: se un tempo avevano un significato chiaro, lo hanno perduto. «Neoliberismo» è una di queste. Che cosa sia di preciso, non lo sappiamo: ma dev’essere una cosa molto brutta”. Per cui a tale termine sono attribuiti i disastri più grandi (tipo il ponte Morandi o il virus Ebola).

La trimurti del neoliberismo, esercitante l’oscura egemonia sul pianeta è composta da FMI, UE, OCSE (nessuno dei quali è – a ben vedere – un paladino della libertà economica). Dietro i quali, le varie consorterie e gli altri poteri forti. La crisi del 2018 ha “alimentato una profonda insoddisfazione nei confronti dello status quo. Questo status quo viene avvicinato a politiche di liberazione dei mercati e di deregulation: le quali in alcuni paesi hanno più o meno avuto luogo, in altri proprio no, e in un caso e nell’altro è improbabile che abbiano smantellato lo Stato sociale. L’insoddisfazione per lo status quo viene comunque indirizzata contro la «mano invisibile»”. In Italia non è proprio così: la mano pubblica ha una larga prevalenza “la spesa pubblica sfiora la metà del PIL, sono in vigore oltre duecentocinquantamila leggi, esistono almeno ottomila società a partecipazione pubblica” onde “alla domanda «chi ha imposto un liberismo sfrenato all’Italia?», spesa pubblica e pressione fiscale (rispettivamente 48,9% e 43% del PIL) suggerirebbero una sola risposta: nessuno, in tutta evidenza”. I problemi che ne derivano (sul piano globale) sono due: quanto neoliberismo vi sia nella globalizzazione e se la situazione possa essere affrontata con “più Stato”.

Quanto alla prima questione l’autore risponde che ce n’è ma non tanto. La spesa pubblica è sempre elevata – e quindi la presenza dello Stato nell’economia. Alla seconda domanda, ovviamente, Mingardi risponde negativamente.

Un libro demistificante, ricco di notizie e di giudizi “fuori dal coro”, che non possiamo riportare per i limiti della recensione.

A questo punto due note del recensore. La prima: i guasti dell’eccessiva presenza dello Stato nell’economia, in Italia in ispecie, non sono provocati solo dalla percentuale di spesa e prelievo pubblico, né dalla notevole presenza di imprese pubbliche, ma, in gran parte, dalle “zone grigie” in cui il privato si confonde col pubblico. Cioè nell’ “amministrativizzazione” delle attività private con permessi, licenze, concessioni, autorizzazioni. Usati dal potere pubblico per il controllo della società (agli amici si da tutto, ai nemici poco o nulla); ma a costo di diminuire efficienza e libertà. Sotto tale profilo, nel periodo della seconda Repubblica, si è fatto poco o niente, e spesso si sono fatti passi indietro nella tutela dei diritti nei confronti dei poteri pubblici.

La seconda: in una classe dirigente in decadenza, tendono a prevalere quelli che Einaudi chiamava andazzieri, che fiutano il vento e fanno mostra di seguirlo. La moda “neoliberista” in Italia ha generato delle privatizzazioni presentate come modernizzazione e conversione della sinistra al mercato. Ma in realtà le suddette erano per lo più realizzate in modo da favorire gli acquirenti (per ovvi motivi) con condizioni generose. In occasione del crollo del ponte Morandi la questione è venuta all’attenzione. Tuttavia, già da prima era sufficiente leggere i bilanci delle imprese che avevano acquisito attività pubbliche per notarne la floridezza; in contrasto con il fatto che quelle dismesse erano – o erano considerate – poco redditizie per lo Stato. Merito dell’imprenditoria privata o delle generose condizioni praticate? Forse un po’ dell’una e dell’altra. Per cui più che a un modello neoliberista ci troviamo di fronte ad uno colbertista (e nel peggiore dei casi ad una svendita di asset pubblici). Di un colbertismo introverso, mirante non alla potenza e ricchezza della nazione, ma agli interessi spicci dei governanti (e di qualche “governato”).

Teodoro Klitsche de la Grange

Libia! Sul palcoscenico e dietro le quinte_di Giuseppe Germinario

L’intervento militare in Libia del 2011 è stato un’onta, una macchia tra le più ignobili nella politica estera solitamente non brillante condotta dalla nostra classe dirigente. Un atto paragonabile ad altre rese che hanno caratterizzato la nostra storia del ‘900 ma con una aggravante: l’essere un atto proditorio, di puro servilismo e platealmente contrario agli interessi del paese. Gli artefici di quella scelta cercarono di minimizzare ipocritamente il ruolo svolto nell’intervento bellico di fatto paragonabile a quello di Francia e Gran Bretagna. Il prezzo che l’Italia ha rischiato di pagare avrebbe potuto essere enorme dal punto di vista della compromissione della credibilità acquisita in decenni nel mondo arabo e nell’Africa Mediterranea. L’eventuale successo di quella impresa, coronata con la tragica e infamante uccisione del colonnello Gheddafi, avrebbe dovuto sancire il cambio di consegne dall’Italia alla Francia  della tessitura delle relazioni in quell’area e della gestione degli interessi geoeconomici per conto del dominus atlantista.

Al prezzo tragico di una destabilizzazione e di una frammentazione del paese quel disegno è clamorosamente e fortunatamente in fase di stallo se non fallito. Ha provocato, con la migrazione di truppe una volta fedeli al colonnello, la destabilizzazione di paesi vicini, in particolare il Mali e il Ciad. Nuovi e vecchi attori, una volta attivi dietro le quinte, si sono nel frattempo ostentatamente inseriti nelle rivalità, una volta controllate dal colonnello secondo le modalità di una confederazione tra tribù e clan e diventate poi ingovernabili con la sua morte. Dalla Turchia, inizialmente ostile all’intervento, ai regimi della penisola araba equamente impegnati nelle varie fazioni, all’Egitto dei militari, alla Russia. L’unico risultato politico evidente è stato la formazione di un Governo di transizione a Tripoli, sostenuto dalla coalizione militare occidentale e inizialmente tollerato dalle varie fazioni, impegnate alternativamente ad acquisire il ruolo di garanti e patrocinatori, ma con l’eccezione determinante del colonnello Haftar, in Cirenaica, sostenuto da Egiziani, Emirati Arabi e Russi e avallato dalla Francia degli ultimi tre presidenti. Poco alla volta il colonnello Haftar è riuscito a ripulire quasi completamente la Cirenaica dai movimenti islamisti, ad impadronirsi dei pozzi petroliferi prossimi alla costa ed ora ad acquisire il controllo del Fezzan, nell’area desertica a sud ricca di giacimenti. Il clan di Misurata, sostenuto dalla Turchia, è ormai indebolito e prossimo ad un compromesso con Haftar. Il Governo di Al Serraji ha perso il sostegno delle tribù filo-Gheddafi, le più numerose di quel paese; è ostaggio ormai delle milizie islamiche insediatesi a Tripoli. Ormai praticamente circondato dal colonnello Haftar. Tanto è bastato per far urlare alla fine della influenza italiana in Libia e al trionfo della Francia di Macron. Il sostegno militare del Presidente Francese, grazie all’intervento dell’aviazione, è stato in effetti importante anche per la conquista del Fezzan.

Ma non è la prima volta, però, che ad un intervento militare impegnativo e massiccio della Francia e ad una azione diplomatica ostentata sia seguito un bottino decisamente magro in termini di vantaggi geopolitici ed economici. Lo si è visto in Siria, in Arabia Saudita e nella stessa Libia. Con esso, tra l’altro, la Francia ha compromesso pesantemente la possibilità di un ruolo di mediazione tra le fazioni. I veri artefici del successo di Haftar sono i Russi e gli egiziani con gli Stati Uniti, nella componente trumpiana, i quali vigilano sornioni.

È il contesto che può consentire all’Italia di riassumere un ruolo di mediazione efficace, in buona parte legittimato dalla recente conferenza di Palermo e di salvaguardare sotto mutate spoglie il nocciolo dei propri interessi strategici in quell’area. I detrattori dalla pesante coda di paglia, come sempre interessati a piegare gli interessi strategici a quelli di bottega, come sempre non mancano all’interno del Belpaese. Li si è visti all’opera anche nel pieno della conferenza di Palermo. Non mancano nemmeno i pessimisti a prescindere i quali vedono un destino irrimediabilmente segnato. Le ostentate scenografie e la frenesia interventista transalpine riescono ad ingannare facilmente questi adepti. In realtà i circa quattromila militari francesi presenti in Africa subsahariana riescono a tamponare i sommovimenti, ma non riescono a costruire alternative politiche in quell’area. Logisticamente sono fragili e poco dinamici; risultano sempre più invisi alle popolazioni. Devono confrontarsi con circa diecimila militari statunitensi, con una capacità logistica e strategica incomparabilmente superiore e con una presenza cinese, civilmente ed economicamente, massiccia, tesa a costruire reti infrastrutturali imponenti; un dato ormai riconosciuto. Ma anche ormai con una presenza militare, di base a Dgjbuti, suscettibile di raggiungere rapidamente le diecimila unità. L’erosione definitiva dell’area francofona appare ormai una possibilità sempre meno remota; il recente patto franco-tedesco, impegnativo anche per quell’area, appare tardivo ed inadeguato a sostenere il confronto geopolitico. Tanto più che le recenti sparate dell’enfant Macron in terra d’Africa, indirizzate ai giovani di quell’area, rappresentano la classica destrezza di un elefante in una cristalleria; hanno solo messo in allarme le stesse élites rimaste a lui fedeli. Si tratta di dinamiche che stanno coinvolgendo ormai altri paesi sino ad ora al riparo, come l’Algeria e la Tunisia, scarsamente controllabili da un paese in declino come la Francia. La prosopopea Jupiteriana che accompagna il velleitarismo di quella classe dirigente non farà che esporla al pubblico ludibrio a differenza dei compagni di avventura più discreti e meno rumorosi di Oltremanica. Le congiunzioni astrali favorevoli, legate all’avvento di Trump e all’insorgenza cinese e russa, non saranno certo eterne. Non per questo sarà possibile un mero ritorno allo statu quo ante agognato dall’enfant prodige e dai suoi mentori statunitensi di sponda avversa a Trump. Il nostro presuntuoso ed arrogante, eletto dai progressisti nostrani addirittura a leader europeista nel continente, in realtà sta offrendo più o meno consapevolmente le risorse e i residui punti di forza del proprio paese come merce di scambio utilizzata dai maggiordomi teutonici ben più gretti e astuti. Abbiamo conosciuto il servilismo ossequioso e dimesso delle vecchie classi dirigenti italiche; ci toccherà adesso assaporare il fiele di quello transalpino, ammantato di vanagloria. A meno che, qualcosa di serio stia maturando dietro le quinte dell’esagono. L’ostinazione e la persistenza del movimento dei gilet gialli lascia presagire sommovimenti dietro le quinte più strutturati che in Italia.

UN APPELLO MINIMALISTA, di Andrea Zhok

L’intera redazione di Italia e il Mondo ha deciso di sostenere e divulgare l’appello del professor Andrea Zhok. Ci pare, appunto, la condizione minima che consenta l’apertura di un confronto di merito e di una battaglia politica trasparente che espliciti i punti di vista e le intenzioni delle varie forze politiche a riguardo. L’urgenza e la fretta dettate da una situazione politica così precaria possono spingere a soluzioni abborracciate e pasticciate. Il disastro politico determinato dalla promozione e gestione dei referendum istituzionali da parte del Governo Renzi e dalle modalità di avvio delle trattative sulle competenze delle regioni adottate dal Governo Gentiloni e dai Presidenti di Regione di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna ha contribuito altresì ad innescare tale situazione. Troppo spesso i cambiamenti di indirizzo e di strategie interne ai partiti e alle formazioni politiche si sono compiuti negli ultimi decenni con atti di rimozione e di elusione piuttosto che di critica e di ripensamento. Le conseguenze, in particolare i trasformismi e la crisi di identità, sono ormai sotto gli occhi di tutti; la sovraesposizione inconsapevole del paese e della sua classe dirigente a dinamiche geopolitiche sempre più complesse ed ostili ne sono il portato. Un atto così importante per il futuro della nazione e delle istituzioni, per la loro stessa unità e funzionalità, rischia purtroppo, se non governato in una prospettiva di unità nazionale,  di seguire questo solco e di accentuare la fragilità, la decomposizione e la subordinazione pedissequa del paese a strategie altrui, sia interne all’Unione Europea che esterne ad essa. Occorrono prese di posizione chiare e motivate non solo in Parlamento, ma anche da parte del Governo e delle istituzioni regionali, gli altri referenti ed attori determinanti di tali decisioni. L’auspicio è che la dichiarazione di Andrea Zhok, professore di filosofia all’Università degli Studi di Milano, assuma la forza di un vero e proprio appello sostenuto da un significativo gruppo di promotori_Giuseppe Germinario

UN APPELLO MINIMALISTA, di Andrea Zhok

La proposta di riforma per l’autonomia regionale, ora in via di approvazione, presenta, come sempre accade per i documenti ufficiali con valore legale, non poche complessità interpretative.

Ciò ha la conseguenza di rendere ogni confronto ed eventuali critiche necessariamente approssimativi e smentibili, comprimendo così le possibilità di discussione.

Una cosa sembra chiara: procedere senz’altro con un voto parlamentare su una questione di importanza cruciale per l’ordinamento futuro della nazione, senza che vi sia stato un approfondito dibattito pubblico NON E’ UNA PROCEDURA ACCETTABILE.

Credo perciò sia necessario chiedere con forza un CONGELAMENTO del processo parlamentare in cui è incardinata questa normativa, e simultaneamente l’avvio di un approfondimento, con dibattiti e discussioni pubbliche che ne chiariscano le implicazioni.

Se i proponenti della riforma sono certi delle loro buone ragioni, non avranno motivo di respingere questa richiesta di approfondimento.

Questa è una richiesta, di carattere insieme formale e sostanziale, rispetto a cui nessuno che abbia a cuore le sorti del paese dovrebbe sottrarsi.

pacche, patacche e ripicche_ Un italiano a Parigi, di Giuseppe Germinario

A proposito della scorribanda priva di invito ufficiale di Di Maio in Francia, alcuni punti fermi:

  • Di Maio, Vicepresidente del Consiglio, assieme a Di Battista, è andato in Francia per incontrare alcuni esponenti del movimento dei jilet gialli, tra di essi l’esponente più radicale e probabilmente più legato a forze istituzionali ostili a Macron. Il motivo contingente riguarda l’appuntamento elettorale delle elezioni europee verso il quale il M5S viaggia ancora apparentemente in perfetta solitudine. Anche Macron, Presidente della Repubblica, è in piena campagna elettorale; si è imposto ed è stato addirittura scelto di fatto come leader europeo da buona parte delle forze progressiste europee, in particolare dal Partito Democratico Italiano. A testimonianza dei legami “affettivi” particolarmente solidi, il numero abnorme di suoi leader conferiti del titolo della Legion d’Onore. Un riconoscimento ormai rilasciato a piene mani e per questo inevitabilmente ormai svalutato. In certi ambienti sono sufficienti le “patacche” a gratificare
  • Il contenzioso verbale tra il duo Salvini/Di Maio e Macron con alti e bassi è ormai di lunga data; risale agli albori del Governo Conte; ha rasentato spesso e volentieri il volgo da osteria più dalla parte del duo per la verità. Anche “Jupiter” non ha disdegnato un linguaggio colorito; ha dato il là allo sproloquio, alternato però a comportamenti ostentatamente regali. Si è espresso, soprattutto, più saggiamente attraverso propri ventriloqui. È evidente però che il personaggio sta fremendo
  • Il contenzioso fattuale è ben più sostanzioso dello sproloquio verbale; è soprattutto ormai atavico. Riguarda lo spodestamento di Gheddafi in Libia nel 2011, con Francia e Gran Bretagna in prima fila e gli Stati Uniti di Obama a supporto indispensabile; prosegue con il contenzioso territoriale delle acque del mar Tirreno culminato con un trattato capestro firmato dai governi di centrosinistra e contestato dal Parlamento a maggioranza gialloverde. Nelle more sono proseguite sino a pochi istanti fa le acquisizioni da parte francese di importanti marchi del lusso ed alimentari, di quote importanti della rete commerciale, di banche strategiche (UNICREDIT) e società finanziarie, della principale società di telecomunicazioni (TELECOM). Alcune di queste scelte almeno imprenditorialmente fruttuose, altre dal carattere meramente predatorio. Il tutto nel generale giubilo e tripudio di una classe dirigente evidentemente soddisfatta di patacche, incarichi onorifici, pacche sulle spalle e rendite in grado di garantire lo status di famiglie blasonate per alcune generazioni. Una classe dirigente ben assortita, composta da ceto politico, imprenditoriale, istituzionale e burocratico
  • La forma nelle relazioni, soprattutto in diplomazia, è anche sostanza. Un po’ meno nel presente rispetto ad appena un secolo fa. Gli sgarbi comunque vengono restituiti possibilmente seguendo il criterio della memoria lunga, piuttosto che della reazione istintiva; sempre che la situazione non sfugga di mano. A Macron, al prezzo di evidenti manipolazioni e sofferenze psicologiche, devono averlo insegnato sin dall’adolescenza; Salvini e Di Maio non è detto che facciano in tempo ad apprenderlo. La ricorrente confusione e commistione tra ruolo istituzionale e funzione tribunizia offre continui pretesti ed argomenti agli avversari; alimenta un imbarbarimento del confronto politico per altro ricercato da tutte le fazioni politiche, comprese le più perbeniste e politicamente corrette, fuori e dentro il nostro paese con l’eccezione serafica, anzi luciferina, di Angela Merkel tra i pochi.

Il ceto politico al momento spodestato, per indole e volontà, in tutto questo contenzioso ha scelto di non utilizzare le leve delle quali disponeva, comprese le diplomatiche, per risolvere con dignità le dispute; ha smantellato in sovrappiù i propri apparati tecnico-politici e manageriali; si è ben guardato da coltivare un ceto manageriale ed imprenditoriale capace di sostenere il confronto ai livelli più alti e strategici. Quello che è subentrato non dispone di appoggi significativi negli apparati. Non gli manca la furbizia; ad oggi sembra deficitaria della consapevolezza e dell’esperienza necessarie a rigenerarli e nelle more a cercare di fidelizzare almeno una parte di essi. L’uscita di Paolo Savona dalla compagine governativa può essere l’indizio di una resa, come pure la sua nomina alla Consob può rappresentare il segnale che lo scontro si sta spostando all’interno degli apparati e della gestione del potere. Si vedrà se si tratta di una mesta ritirata, cosa più probabile o di un riposizionamento

  • La Francia di Macron rappresenta l’anello debole e più esposto della triade che comprende il vecchio establishment statunitense e la classe dirigente tedesca, impegnata nell’annichilimento politico-economico del nostro paese. Esposto in quanto Macron è l’unico Capo di Governo e di Stato ancora stabilmente in carica espressione di queste élite ancora dominanti in Occidente. Fragile in quanto si è inserito nei settori più facilmente riappropriabili da parte di eventuali centri di potere nazionali nostrani in via di formazione o di ripensamento. La messa in minoranza di Vivendi nella Telecom è probabilmente il segnale più importante. Rimane da osservare i movimenti nel settore commerciale, fondamentale per garantire sbocchi al settore agroalimentare e in quello finanziario, al momento in stallo. La Germania, al contrario, ha praticato soprattutto la strada del condizionamento e dell’integrazione indiretta di interi settori produttivi e finanziari e del condizionamento politico attraverso i meccanismi comunitari. Gli Stati Uniti meritano un discorso a parte e ben più articolato
  • In politica estera il Governo Conte ha subito uno smacco pesante, anche se ben mascherato, sulle politiche di bilancio nell’UE (Unione Europea), si appresta a compromessi inquietanti su garanzie del debito e unione bancaria confidando in una svolta politica in Europa tutta però da verificare. Ha realizzato alcuni importanti successi (presenza militare in Niger a dispetto dei franco-tedeschi, conferenza sulla Libia) sotto l’ombrello protettivo statunitense ed anglosassone

Il nervosismo di Macron è del tutto comprensibile; la sua protervia è il segnale della sua fragilità, piuttosto che della sua solidità. Dispone di una forza significativa, ma fragile; comunque sempre meno autorevole. Rischia di perdere il contrappeso della Gran Bretagna all’ingombrante fratello tedesco.

Il movimento dei gilet gialli, lo abbiamo segnalato sin dai suoi albori, a dispetto del suo carattere composito e politicamente, forse volutamente, poco caratterizzato, rivela una solidità, una costanza ed una capacità organizzativa che lascia intuire la possibilità di forti legami, reali e potenziali, con centri di potere importanti di quel paese e di sostegni politici insospettabili nel fronte formalmente amico.

Il trattato di Aquisgrana del gennaio scorso ha sancito il sodalizio fraterno tra Francia e Germania. Stranamente non ha ricevuto gli onori e il clamore dovuti e attesi, nemmeno gli stessi artefici hanno concesso alla firma l’aura di solennità paragonabile a quella del ‘63. La stessa opposizione ad esso d’altro canto è apparsa più che altro un atto dovuto, un rituale spento. Più che rassegnazione e inerzia, un atteggiamento corrispondente all’immagine di una coltre di cenere che nasconde il fuoco pronto a divampare.

Quell’accordo è stato prevalentemente rappresentato come un tentativo da parte dei due paesi di tentare la strada di piena autonomia politica e di affrancamento dal dominio americano. Data la condizione politica, strategica e ormai anche economica dei due paesi, compresa quella del più sopravvalutato dei due, la Germania, rappresenta piuttosto lo strumento con il quale il più furbo e perfido dei due, quello teutonico, cerca di asservire ed offrire le risorse amiche come obolo per la propria sussistenza e funzione di potenza regionale subordinata. Un obbiettivo riuscito con l’Italia e riproposto con la Francia già nelle recenti vicende dell’AIRBUS. Una possibilità di successo che richiede quantomeno due condizioni: la totale sconfitta di Trump negli Stati Uniti e la sopravvivenza di Macron in Francia da qui a due anni, ma che rischia in realtà di far implodere definitivamente l’intero continente europeo.

Il Vicepresidente del Consiglio Di Maio, con il suo raid improvvido e in incognito a Parigi, rischia di dare una mano alla sopravvivenza e all’investitura da leader di Macron, consentendogli in qualche modo di proseguire nella sua commistione fasulla e artefatta di grandeur francese ed europeismo servile da una parte e nella sua opera di delegittimazione nazionale del movimento a lui avverso.

È solo un segnale, ma importante di un ceto politico in via di formazione che per inerzia o per scelta più che emancipare una nazione rischia di garantirle nuove forme di asservimento più o meno consapevolmente.

 

 

i primi sette mesi di governo visti dal professor Antonio Maria Rinaldi

Sono passati ormai sette mesi dal varo del nuovo inatteso Governo. Una esperienza rappresentata perennemente in bilico, in realtà fondato su un equilibrio frutto di continui aggiustamenti ma non per questo sull’orlo perenne di una crisi. Una crisi (di nervi) che per altro sembra investire inesorabilmente il fronte variegato dell’opposizione vittima di un atteggiamento di ripicca e ritorsione tipico di gruppi dirigenti privi di una qualsiasi bussola. Smarrito il proprio vate sull’altra sponda dell’Atlantico, smarriti i principali ventriloqui sul continente, nella fattispecie Macron e Merkel, in piena discrasia tra il loro afflato universalistico e i loro indirizzi politici sempre più gretti e particolaristici, privi di autorevolezza e credibilità, non ostante i generosi sforzi di adulazione di stampa e tv, sembrano vivere una fase di regressione infantile fatta di ripicche e ritorsioni subalterne tipiche dei movimenti contestatari di qualche decennio or sono. Una parodia senza creatività. Il professor Rinaldi ci offre il suo vivace punto di vista su alcuni punti cruciali dell’azione politica. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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