DISAPPLICARE NON È UNA PAROLACCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

DISAPPLICARE NON È UNA PAROLACCIA

A leggere la stampa, compresa quella non di sinistra, sulle recenti decisioni giudiziarie sui migranti, si ha l’impressione che venga criticata (anche) la possibilità per il Giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi (nonché, in certi casi, norme di legge).

Dato che la disapplicazione ha una storia che quasi coincide con quella dell’unità d’Italia e della costruzione dello Stato nazionale e liberale, urge ricordare cos’è, chi l’ha voluta, e perché.

Con la L. 2248/1865 all. E era abolito il vecchio contenzioso amministrativo degli Stati pre-unitari. L’art. 5 dispone: “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.

Come scriveva Vittorio Emanuele Orlando, la portata liberale di tale riforma fu limitata da una giurisprudenza timida e favorevole alla parte pubblica. Scriveva: “L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo”. A completarla comunque intervenne nel 1889 l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione sugli interessi legittimi. Sosteneva Silvio Spaventa che, dato l’accrescimento del potere pubblico era necessario un controllo giudiziario più esteso e penetrante: “È evidente che, quanto il potere dello Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno e contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il loro potere… Tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze dello Stato, a me sembrano pressoché vani: non è per questa via che si troverà il rimedio che cerchiamo… la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative”.

Ho riportato, tra i tanti, le opinioni di due tra i più noti e influenti giuristi per ricordare come l’intero “comparto” della giustizia amministrativa – disapplicazione inclusa – fu opera e merito della classe dirigente liberale; la quale, pur detenendo il potere, all’epoca ebbe il coraggio di approvare riforme il cui effetto era di limitarlo e controllarlo.

Dopo che da un trentennio si sta facendo tanto per conculcare i diritti dei cittadini, come più volte e più estesamente ho sostenuto, occorre evitare l’errore di pensare che disapplicare sia abuso di potere giudiziario, che è contrario al principio di distinzione dei poteri (Montesquieu si rivolta nella tomba), che occorre un governo che possa governare, ecc. ecc.

Tutte cose in tutto o in larga parte condivisibili ma le quali con la disapplicazione (come “tecnica sanzionatoria” degli atti illegittimi della P.A.) hanno poco a che fare. E limitarla o anche solo deprecarla sarebbe fare un passo (enorme) indietro, che tutti i sedicenti liberali aspettano fregandosi le mani.

Ciò stante, è comunque da valutare se e come siano “disapplicabili” atti o anche disposizioni con valore di legge perché contrarie al diritto internazionale, ed ancor più se qualche decisione giudiziaria, apparentemente sollecita del diritto delle genti non sia piuttosto frutto della personali convinzioni politiche ed etiche del giudicante. Ma questo è un problema (enorme) che concerne l’esercizio di (ogni) funzione pubblica ed in particolare di quella giudiziaria. E non solo della disapplicazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Le mirabilie di Giorgia_Con Augusto Sinagra

Giorgia Meloni si è offerta al pubblico votante come l’alternativa rifondatrice, il nuovo che avanza. Ha seguito sin dal suo insediamento, oserei affermare, già nelle sue intenzioni, il solco tracciato dai suoi predecessori con qualche marginale aggiustamento di buon senso ed una retorica baldanzosa che non riuscirà a nascondere per molto tempo la sostanza dei suoi indirizzi di governo. Non è stata attraversata nemmeno dalle bizze che hanno colto Salvini a suo tempo, alla scoperta della differenza che può intercorrere tra i proclami e una condotta coerente nell’azione di governo. Una coerenza con gli indirizzi del suo predecessore in un contesto, per meglio dire in un barile ormai abbondantemente raschiato. La novità più importante è, paradossalmente, il sorgere dalle sue fila di una area di opinione legata alla definizione e al perseguimento dell’interesse nazionale e disposta ad aprire un confronto con forze dalle medesime ambizioni, ma con retaggi ideologici a suo tempo preclusivi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Intelligenza artificiale: quali impatti sull’automazione industriale? La parola a Marco Delaini, Fanuc

Intelligenza artificiale: quali impatti sull’automazione industriale? La parola a Marco Delaini, Fanuc

di Barbara Weisz ♦︎ Nelle macchine utensili, le nuove generazioni di motori e servoamplificatori sono smart: riducono i consumi e ottimizzano le lavorazioni. Ma l’IA non deve essere sopravvalutata: per portare vantaggio competitivo deve essere calata nel contesto. Fanuc Italia: ha venduto nel 2022 oltre 3.000 unità robotiche. Servitizzazione e pay per use: il mercato si sta preparando. E su industria 5.0… Intervista al ceo di Fanuc Italia, dopo il Technovation Forum, quando è stato inaugurato il nuovo Innovation Center 5.0 di Lainate

Fanuc Lainat – Technovation 2023

Il mercato chiede «prodotti sempre più intelligenti, performanti, che consumano meno». Parola di Marco Delaini, managing director di Fanuc Italia, che in questa intervista a Industria Italiana delinea gli sviluppi in ambito automazione industriale di una tecnologia disruptive come l’intelligenza artificiale. Con nuovi motori intelligenti che riducono i consumi ottimizzando le lavorazioni all’interno della macchina, programmazione dei robot sempre più semplice, importanti risvolti in termini di riduzione di co2 e risparmio energetico. Ma l’Intelligenza Artificiale presenta anche il rischio di non coniugarla correttamente, magari sull’onda della novità.

Per esempio, «parlando di manutenzione predittiva, è importante avere una grande raccolta dati, magari per anni, su macchine e lavorazioni diverse». La produzione di macchinari nel 2023 chiude con un nuovo record, pur a fronte di una contrazione rilevante del mercato interno bilanciata però dal fatto che i costruttori di macchinari si sono concentrati sull’export. I robot dopo l’installato record 2022 continuano a crescere a un ritmo del 7% per i prossimi anni. Fanuc Italia chiuderà il 2023 confermando i livelli di ricavi 2022, e anche per il colosso giapponese la differenza la fanno i robot. Con un record di installazione nella seconda parte del 2023, a quota 15mila, e il traguardo in settembre del milionesimo robot.

Ne abbiamo parlato in occasione del Technovation Forum organizzato dal 24 al 26 ottobre nell’headquarter italiano di Lainate, dove è stato inaugurato il nuovo Innovation Center 5.0: in 5G, abilitato per Industria 5.0, gestibile tramite una app che funziona su mobile e consente da remoto accensione e spegnimento di tutti i robot e l’attivazione di sistemi di diagnostica e monitoraggio. Il tema dell’Innovation Center e di che cosa sta succedendo in Fanuc verrà presto approfondito con un articolo ad hoc. Adesso, la parola a Delaini

D: Quale il massaggio chiave del Technovation Forum?

Marco Delaini inaugura il nuovo Innovation Center 5.0 al Technovation 2023

R. Abbiamo dedicato un forum all’intelligenza artificiale nelle applicazioni industriali. Si parla tanto di IA, c’è anche molta paura degli sviluppi futuri di questa tecnologia, noi abbiamo voluto concentrarci solo sul mondo industriale e abbiamo fatto vedere con esempi specifici le applicazioni di IA che facilitano le operazioni. Per esempio, legate alla robotica, per cui la programmazione dei robot, oppure al miglioramento dell’efficienza della macchina, anche riducendo il consumo di energia elettrica oppure l’impatto di Co2».

D: E’ possibile sintetizzare l’impatto dell’intelligenza artificiale nella fabbrica, e nei vostri sistemi di automazione in particolare?

R. Nel factory automation, quindi la parte relativa alle macchine utensili, le nuove generazioni di motori e servoamplificatori sono intelligenti nel senso che riescono a ridurre i consumi andando a ottimizzare le lavorazioni all’interno della macchina. L’IA viene soprattutto utilizzata per ridurre i consumi energetici, ottimizzare lavorazioni all’interno della macchina, e per verificarne lo stato, riuscendo a ridurre lavorazioni o accelerazioni improvvise che possono andare a consumare di più oppure a usurare maggiormente la macchina».

D: Voi costruite robot, macchine utensili, controllo numerico e dintorni. Il vostro business come si relazione con questo scenario?

Fanuc costruisce robot, macchine utensili e a controllo numerico

R. Tutto quello che è IA nel mondo della robotica e della macchina utensile ci viene prima di tutto richiesto dai clienti. E’ un’esigenza specifica di questo mercato. Ci chiedono prodotti sempre più intelligenti, o performanti, che consumano meno, attenti alla parte di Co2. Dobbiamo fornire tecnologie per realizzare macchine che consumano meno. Questo è il nostro core business. Non dobbiamo ridurre l’impatto di Co2 solo nella nostra produzione, ma in quella dei clienti. E lo possiamo fare dando ai costruttori di macchine utensili la tecnologia per costruire prodotti più efficienti».

D: Come va il mercato in Italia anche in relazione alla congiuntura macroeconomica dal suo punto di vista?

R. Abbiamo visto durante il forum alcuni dati, è chiaro che il mercato interno italiano soffre la fine degli incentivi 4.0. E le agevolazioni 5.0 ancora non ci sono. Quindi oggi tutti i costruttori di macchine hanno contrazioni importanti, in base ai dati Ucimu c’è una flessione del 38 per cento del mercato interno. Il mercato estero è partito basso all’inizio del 2023, poi si è ripreso nella seconda parte dell’anno e chiuderemo il 2023 in crescita. I mercati di sbocco principali sono quello americano ed europeo. La Cina è in crisi, in Asia vediamo che l’unico paese in crescita è l’India».

D: Secondo lei gli industriali italiani sono pronti a recepire le innovazioni disruptive che il mercato delle tecnologie offre loro?

I robot dopo l’installato record 2022 continuano a crescere a un ritmo del 7% per i prossimi anni. Fanuc Italia chiuderà il 2023 confermando i livelli di ricavi 2022, e anche per il colosso giapponese la differenza la fanno i robot. Con un record di installazione nella seconda parte del 2023, a quota 15mila, e il traguardo in settembre del milionesimo robot

R. Sono abituati ad accettare le sfide e a lanciare nuovi prodotti competitivi sul mercato. Noi abbiamo le aziende più innovative da questo punto di vista, siamo più veloci a produrre qualcosa da portare sul mercato rispetto ai cugini tedeschi. Oggi stiamo reagendo molto velocemente. E’ chiaro che a volte nel mondo dell’IA ci sono molti investimenti da fare, anche importanti, che devono essere supportati. E a fronte di una competizione fra governi a chi da più soldi per sviluppare soluzioni di IA ai, o ci rendiamo competitivi anche noi, e quindi anche la nostra parte di politica deve fare la sua parte, oppure rischiamo di partire un po’ zoppi».

D. Nel corso del forum sono stati evidenziati tre punti critici per le aziende che devono investire in innovazione: organizzazione interna, scelta delle tecnologie, e impiego di risorse finanziarie. C’è una gerarchia fra questi elementi?

R. Diciamo che ogni azienda ha il suo vestito, ritagliato sulla propria organizzazione. Sicuramente ci sono aziende più veloci nell’innovare e rinnovare il parco macchine, che quindi riescono a portare innovazione ogni anno. Altre sono più lente a fare questo cambiamento, per cui hanno problemi a volte di organizzazione, a volte finanziari, e le velocità possono essere differenti perché questo fa parte del mercato. Ci sono aziende magari storiche con un prodotto consolidato che non richiede subito un’evoluzione, e rimandano l’investimento a quando viene richiesto di più. Se parliamo per esempio di una macchina utensile a cinque assi, c’è molta competizione e quindi bisogna essere molto veloci a innovare. Sul tornio invece questa velocità non è richiesta dal mercato, quindi c’è più tempo per pianificare le innovazioni.

D. Si è anche parlato de rischio di sopravvalutare l’intelligenza artificiale, cosa ne pensa?

Durante il Technovation Forum, organizzato dal 24 al 26 ottobre nell’headquarter italiano di Lainate, è stato inaugurato il nuovo Innovation Center 5.0: in 5G, abilitato per Industria 5.0, gestibile tramite una app che funziona su mobile e consente da remoto accensione e spegnimento di tutti i robot e l’attivazione di sistemi di diagnostica e monitoraggio.

R. E’ chiaro che c’è una grossa aspettativa, quindi bisogna tradurre quello che vuole fare l’azienda e indirizzarla nei corretti investimenti. Oggi parliamo di intelligenza artificiale come un vantaggio competitivo. E allora tutti, come ha sottolineato fra gli altri Cim 4.0, corrono e dicono anche noi vogliamo l’IA. Ma bisogna sempre calare le cose nel contesto, ogni azienda deve identificare cosa vuole fare. Se stiamo parlando di manutenzione predittiva, è importante avere una grande raccolta dati, magari per anni, su macchine e lavorazioni diverse. Poi, farli elaborare all’IA e selezionare quelli importanti per la manutenzione predittiva. Il messaggio di oggi era: attenzione, l’IA non è una panacea che risolve tutti i problemi. E’ necessaria una preparazione, c’è una raccolta dati che deve essere fatta in anticipo. L’IA aiuta a selezionare questi dati, isolare quelli importanti e portarli a un livello successivo.

D: Diceva prima che manca ancora il Piano 5.0. Che priorità dovrebbe avere secondo lei?

R. Va legato alla sostenibilità, all’economia circolare, alla riduzione dei consumi energetici e dell’impatto di Co2. E’ un concetto diverso da quello di Industria 4.0. Poi, possiamo chiamarla 4.1, 4.2, anche se ormai il Governo ha parlato di 5.0. Se ne parla anche a livello europeo, sono stati determinati i paradigmi. Il concetto è che dobbiamo fare macchine non solo performanti, ma che consumino di meno. E’ cambiato l’obiettivo».

D. Sul tema della servitizzazione, come siete messi?

Fanuc headquarter Lainate

R. Ci sono diverse opzioni. Uno dei servizi che bisogna fornire riguarda la manutenzione predittiva, o la lettura di dati. Poi c’è un concetto di servitizzazione che viene spesso accomunato al pay per use, e che secondo me è limitante. La verità è che tutto il tema delle tecnologie abilitanti si sta spostando dalla vendita di macchine alla fornitura di servizi attraverso quelle macchine.

D: Servitizzazione e pay per use dovrebbero andare di pari passo, tenendo conto del fattore temporale. Pensare che dall’oggi al domani tutte le macchine vengano vendute in pay per use è irrealistico…

R. Potrebbe succedere, ma non dall’oggi al domani. Noi ci stiamo concentrando sulle richieste del cliente, andando a offrire servizi, inclusa l’estensione della garanzia, su tutti i prodotti Fanuc. Per esempio, stiamo lanciando servizi con garanzia fino a dieci anni sulla parte motori ed elettronica. Lo stesso faremo anche sui robot: garantire manutenzione e utilizzo fino a 10, o anche 15 anni. Quindi, non più una garanzia a 2 o 3 anni, come da obbligo di legge, ma un servizio più a lungo termine per andare incontro all’azienda. E completiamo il percorso con un servizio dedicato per cui il cliente si può scordare fermo macchine o fermo produzione.

D: Perché ve ne occupate voi?

R. Perché ce ne occupiamo noi.

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A proposito di Gaza_di Giuseppe Gagliano

HAMAS vs ISRAELE/ I sei errori dell’intelligence che spiegano la débâcle di Tel Aviv

Giuseppe Gagliano

Valutazioni sbagliate, segnalazioni dei servizi egiziani snobbate, mini-droni commerciali usati da Hamas: così Israele non si è accorto dell’attacco

israele gaza guerra 6 lapresse1280 640x300 Soldati israeliani fuori dal muro che circonda la Striscia di Gaza (LaPresse)

È da circa una settimana che i principali analisti internazionali si chiedono cosa non abbia funzionato nell’ambito dell’intelligence israeliana. Ebbene, possiamo arrivare ad alcune conclusioni ampiamente dimostrabili almeno fino a questo momento.

In primo luogo l’intelligence israeliana era certamente in possesso di indicatori di avvertimento relativi all’attacco e questi indicatori sono stati valutati in modo errato. Nello specifico la divisione di intelligence delle Forze di difesa israeliane (IDF), nota come intelligence militare israeliana (IMI), e l’Agenzia per la sicurezza israeliana (ISA), monitorano Hamas da anni. Sappiamo che queste due agenzie hanno condotto una valutazione della situazione circa due settimane prima dell’attacco del 7 ottobre. La valutazione formulava una conclusione molto chiara e cioè che Hamas non aveva alcun interesse ad attaccare Israele a breve termine. Questa previsione è stata comunicata al primo ministro israeliano e al ministro della Difesa.

Al contrario Abbas Kamel, direttore della Direzione generale dell’intelligence egiziana, ha inviato un avvertimento a Israele pochi giorni prima dell’attacco di Hamas, indicando che sarebbe avvenuta una terribile operazione che stava per aver luogo dalla direzione di Gaza. L’avvertimento è stato inoltrato all’ufficio del primo ministro Netanyahu. Il giornale israeliano che ha pubblicato questo rapporto, Yedioth Ahronoth, è noto per la sua seria reputazione e le fonti di qualità all’interno dell’establishment egiziano.

Ora, il primo ministro israeliano ha volutamente ignorato questo avvertimento. Persino un autorevole membro del Congresso americano e cioè Michael McCaul, presidente della commissione Esteri della Camera, ha dichiarato l’11 ottobre: “Sappiamo che l’Egitto […] ha avvertito gli israeliani tre giorni prima che un evento come questo potrebbe accadere”. Una fonte del governo egiziano ha anche affermato che i funzionari dell’intelligence egiziana hanno avvertito le loro controparti israeliane che Hamas stava pianificando “qualcosa di grande” in vista dell’assalto a sorpresa del 7 ottobre. Ma questi avvertimenti sono stati ignorati.

In secondo luogo, l’11 ottobre, un portavoce dell’IDF ha ammesso che, la sera prima dell’attacco, sono stati rilevati movimenti sospetti da parte degli agenti di Hamas vicino alla recinzione perimetrale che separa Gaza da Israele. Tuttavia, secondo il portavoce, “non c’è stato alcun avviso di pericolo per questo incidente“.

In terzo luogo dobbiamo ricordare che la raccolta di intelligence israeliana sulle minacce che provengono dalla Striscia di Gaza si basa su una divisione di responsabilità: l’IMI è tradizionalmente responsabile della raccolta di informazioni attraverso segnali e intelligenza visiva, mentre l’ISA è responsabile della raccolta di informazioni attraverso l’intelligence umana. Va notato che i leader dell’ala militare di Hamas erano consapevoli delle capacità di intelligence di Israele. Ecco perché hanno evitato di utilizzare canali di comunicazione digitale per organizzare il loro attacco, il che ha reso molto difficile intercettare informazioni preziose.

In quarto luogo l’ISA non è riuscita a penetrare nella cerchia ristretta di Hamas e quindi non è riuscita a emettere un allarme precoce per l’attacco del 7 ottobre.

In quinto luogo, Hamas ha utilizzato un sistema di compartimentazione molto rigoroso, permettendo solo a pochi di avere un quadro delle sue intenzioni e del suo piano di attacco.

Ma indubbiamente ci sono altre considerazioni da formulare. Come sappiamo la Striscia di Gaza è monitorata in modo capillare: infatti le torrette non vengono mai lasciate vuote e vi è una rigorosa disciplina nel modo in cui vengono organizzati i turni. Il minimo allarme dei sensori determina l’immediato dispiegamento di una pattuglia di terra e in contemporanea vengono inviati droni da ricognizione tattica per monitorare visivamente la situazione. Cosa è accaduto allora alle torrette di sorveglianza poste sulla Striscia di Gaza? Le torrette di sicurezza sono state distrutte in luoghi chiave da cariche esplosive piazzate da Hamas su mini-droni commerciali prima dell’attacco a terra, senza essere rilevate. I militanti palestinesi non possono utilizzare i loro droni commerciali a una distanza di oltre tre chilometri; quindi erano teoricamente all’interno del perimetro di sorveglianza del sistema del Muro di Ferro quando sono stati lanciati gli attacchi alle torri.

Ora, in generale i sistemi di intercettazione anti-drone sono in grado di solito di respingere attacchi di natura aerea, ma i mini-droni commerciali sono molto più piccoli di quelli militari e quindi non sono stati rilevati dai radar dei sistemi di difesa aerea di Iron Dome, che sono responsabili dell’intercettazione dei razzi e che si trovano a circa 15 chilometri dalla recinzione di sicurezza del Muro di Ferro.

Tra l’altro, questo fallimento tecnologico ha indotto il 10 ottobre il capo di stato maggiore congiunto della Sud Corea, Kang Shin-chul, ad affermare la possibilità che la Nord Corea effettuasse un attacco simile contro la Sud Corea. Ha osservato, infatti, con preoccupazione che i sistemi di sorveglianza delle frontiere erano stati neutralizzati e resi inefficaci prima dell’attacco di Hamas. Infatti il sistema di sorveglianza installato lungo la zona smilitarizzata con Pyongyang è stato originariamente progettato da Elbit Systems e modellato sulla tecnologia utilizzata a Gaza. Ma anche gli Stati Uniti usano lo stesso sistema lungo tutto il confine con il Messico.

In sesto luogo, all’interno del gabinetto di sicurezza (che è certamente l’elemento chiave dell’apparato di intelligence israeliana ed è composto dal primo ministro e dai capi dell’intelligence) ci sono state delle profonde divisioni. Non solo: il gabinetto è stato convocato di rado dal primo ministro che ha invece preferito fare affidamento sulle analisi dello Shin Bet. Il primo ministro ha monitorato le ultime operazioni militari contro la Jihad islamica nel mese di maggio proprio facendo riferimento alle analisi date dal quartier generale dello Shin Bet. Ora, questo servizio di sicurezza israeliano ha concentrato tutte le sue analisi sulla Cisgiordania a causa della grave situazione nella quale questa zona si trova. E proprio la Cisgiordania è stata fra i punti principali all’ordine del giorno dell’incontro del direttore dello Shin Bet con la Cia a Washington il 1° giugno.

SCENARI/ La lezione (e l’errore) di al Qaeda dietro i calcoli di Hamas

Giuseppe Gagliano

Lo scopo di Hamas è di provocare una tale reazione di Israele da portarlo, insieme agli Usa, all’isolamento. Sarà la Cina a trarne vantaggio

hamas palestinesi londra 1 lapresse1280 640x300 manifestazione pro palestinesi a Londra (LaPresse)

È opportuno fare alcune precisazioni in merito al ruolo dell’azione terroristica posta in essere da Hamas. In linea di massima l’azione terroristica non è volta a rovesciare l’istituzione politica ma ha come suo scopo principale quello di intensificare il conflitto radicalizzando il contesto, finendo per indurre lo Stato in azioni che lo logorano. A tale proposito non dobbiamo dimenticare che l’azione terroristica di al Qaeda ha avuto una rilevante successo di natura strategica nel provocare gli Stati Uniti in una campagna militare che ha determinato un contesto internazionale profondamente anti-americano (basti pensare a quanto affermato da Al-Jazeera in merito all’azione militare americana).

Nel caso specifico di Hamas l’ampia pianificazione, le risorse poste in essere e la segretezza implicite negli attacchi aerei, terrestri e marittimi che sono stati coordinati su ampia scala suggeriscono che la sua finalità strategica fosse principalmente quella di  provocare una risposta israeliana così radicale da polarizzare la regione, eliminando qualsiasi via di mezzo e trascinando le istituzioni militari israeliane in una campagna prolungata che difficilmente potrà essere vinta. Anche se il prezzo che Hamas, Hezbollah e la popolazione palestinese dovranno pagare sarà altissimo, difficilmente si può negare che l’azione terroristica attuata contro Israele sia stata un successo militare e potrebbe trasformarsi in un successo politico. A cosa stiamo alludendo esattamente?

In primo luogo, è evidente che determinati organi informazione – quali Al-Jazeera, Russia Today e Telesur – evidenzieranno la drammaticità delle azioni israeliane contro la popolazione palestinese, porranno in evidenza la crisi umanitarie e finiranno per determinare una profonda ostilità nel Medio oriente nei confronti di Israele.

In secondo luogo l’azione militare israeliana non farà altro che rafforzare da un punto di vista politico l’Iran, che non a caso ha elogiato l’azione militare di Hamas; ma rafforzerà anche il governo turco e aiuterà la causa di coalizioni governative come quella dei talebani.

In terzo luogo una reazione di sostegno alla causa palestinese potrebbe provenire dall’Arabia Saudita e dall’Egitto, che non solo potrebbero prendere posizione contro Israele, ma addirittura potrebbero collaborare in funzione anti-israeliana.

In quarto luogo il contributo militare americano potrebbe isolare ulteriormente Israele all’interno del contesto mediorientale, finendo per rafforzare la posizione di Russia, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, Nicaragua. Quanto all’Unione Europea questa rimarrà certamente paralizzata dal punto di vista politico, dimostrando ancora una volta di essere un nano politico.

Ma se c’è una nazione che potrebbe certamente trarre vantaggio da un prolungato conflitto e dal coinvolgimento degli Stati Uniti, questa è certamente la Cina. Infatti gli Stati Uniti dovrebbero investire enormi risorse per sostenere sia l’Ucraina che Israele, finendo per allontanare gli Stati Uniti dai partner tradizionali in Medio oriente.

Un altro aspetto sottovalutato dagli analisti tradizionali è che nel contesto dell’America latina una eventuale escalation del conflitto in Medio oriente potrebbe certamente avvantaggiare l’attività di Hezbollah e di altri gruppi radicali, dal momento che dal punto di vista storico questi gruppi hanno condotto proprio in America Latina una parte della loro attività di raccolta fondi.

In ultima analisi quanto più spietata sarà la reazione israeliana e quanto più ampio e sistematico sarà il contributo militare americano, tanto più vi sarà una polarizzazione sia in Medio oriente che in America latina in funzione anti-americana e anti-israeliana.

Palestina L’Iran e l’attacco di Hamas

di Giuseppe Gagliano –

Uno degli aspetti più interessanti di del conflitto in corso nel Vicino oriente è la mano di Teheran dietro l’offensiva. Il comando di Hamas lo ha ufficialmente riconosciuto. L’evidente professionalità degli aggressori non si improvvisa dall’oggi al domani, e presumibilmente sono stati addestrati da membri delle forze speciali. Le informazioni necessarie per l’attivazione dell’operazione possono essere ottenute solo da un servizio speciale competente. Tutto rimanda al ramo al-Qods dei Pasdaran, che è responsabile delle operazioni esterne dell’Iran, nonostante l’orientamento sciita fosse da sempre in contrapposizione a quello sunnita di Hamas e della Jihad islamica palestinese.
Ma la lotta dei palestinesi è di matrice nazionalista, come quella dell’FLN durante la guerra di Algeria. È per questo motivo che i salafiti-jihadisti di al-Qaida e dell’Isis di sono sempre stati tenuti (relativamente) lontani. Questo naturalmente non significa che la situazione non possa subire mutamenti in futuro.
Per quanto riguarda la ragione politica che ha indotto Teheran ad agire in questo modo è abbastanza evidente: impedire che vi sia un riavvicinamento tra lo Stato di Israele e i paesi arabi in generale e con l’Arabia Saudita in particolare. I paesi che hanno già siglato l’Accordo di Abramo a regia Usa, cioè Bahrein, Marocco, Sudan e EAU, e quelli che si stanno preparando a fare altrettanto si trovano di fronte alla scelta problematica di togliere il sostegno ai palestinesi e quindi di appoggiare lo Stato ebraico, molto impopolare preso il mondo arabo.
Secondo il portale di notizie iraniano semi-ufficiale ISNA, Rahim Safavi, consigliere del leader supremo Ali Hosseini Khamenei, ha dichiarato che l’Iran sostiene l’attacco palestinese in questi termini: “Ci congratuliamo con i combattenti palestinesi (…). Saremo al fianco dei combattenti palestinesi fino alla liberazione della Palestina e di Gerusalemme”. Da parte sua il ministero degli Esteri iraniano ha notato che “in questa operazione sono stati utilizzati l’elemento di sorpresa e altri metodi combinati, che mostrano la fiducia del popolo palestinese nei confronti combattenti (…). Gli attacchi “hanno dimostrato che il regime sionista è più vulnerabile che mai, e che l’iniziativa è nelle mani della gioventù palestinese”.
I prossimi sviluppi sono imprevedibili, perché si sa come inizia una guerra ma non si sa come finisce. Ciò che è chiaro è che le mappe saranno ridistribuite in Medio Oriente.

DIETRO HAMAS/ Come funziona la struttura parallela iraniana che ha spiazzato Israele

Giuseppe Gagliano

L’Iran e una struttura parallela ad Hamas hanno probabilmente preparato l’attacco a Israele. Ecco gli errori del governo Netanyahu

quirico Gaza, miliziani di Hamas (LaPresse)

L’operazione di Hamas al-Aqsa Flood, iniziata il 7 ottobre, ha segnato il primo conflitto su larga scala all’interno dei confini di Israele dalla guerra arabo-israeliana del 1948. Tuttavia, a differenza della coalizione di eserciti arabi che affrontò 75 anni fa, Israele ora ha di fronte un’alleanza di gruppi sub-statali. Guidata dall’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, questa alleanza comprende la Jihad islamica palestinese, sostenuta dalla Siria e dall’Iran, e una serie di gruppi laici, come le Brigate dei Martiri al-Aqsa allineate al Fatah, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (DFLP).

Tali gruppi sono meno conosciuti di Hamas; tuttavia, spesso portano con sé competenze in aree di nicchia, come la gestione di reti di informatori all’interno di Israele, la costruzione di esplosivi sofisticati, l’impiego di droni da combattimento senza equipaggio o l’approvvigionamento di armi specializzate. È quindi probabile che abbiano contribuito notevolmente all’esito dell’operazione al-Aqsa Flood. La loro partecipazione ha anche permesso ad Hamas di lanciare quello che essenzialmente equivaleva a un assalto con armi combinate a Israele, che includeva elementi coordinati di terra, mare e aria e che erano volutamente low-tech. Ciò potrebbe spiegare perché gli assalitori sono stati in grado di mandare in cortocircuito e sopraffare il presunto perimetro di sicurezza inespugnabile che Israele mantiene intorno alla Striscia di Gaza.

Mettendo da parte i singoli elementi low-tech dell’operazione, il suo livello generale di organizzazione tattica indica quasi certamente un notevole sostegno da parte di attori al di fuori della Striscia di Gaza. Tali attori probabilmente includono reti di informatori all’interno di Israele, così come forse l’Iran e la sua ramificazione libanese, Hezbollah. Entrambi sono ben versati nella guerra ibrida e hanno studiato i sistemi di difesa israeliani più ampiamente di qualsiasi altro attore regionale. Inoltre, il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell’Iran (IRGC) e le Brigate di Resistenza Libanesi di Hezbollah sono esperti in operazioni di inganno.

Probabilmente hanno allenato Hamas, non solo su come effettuare l’operazione al-Aqsa Flood, ma soprattutto su come impedire a Israele e ai suoi alleati di raccogliere informazioni al riguardo.

Non c’è dubbio che un’operazione di tale portata deve aver richiesto mesi – forse anche anni – per essere organizzata. Un processo così complesso avrebbe avuto luogo sotto gli occhi e le orecchie attenti delle agenzie di intelligence israeliane ed egiziane, che storicamente hanno affrontato poca resistenza nel penetrare gruppi militanti palestinesi, tra cui Hamas. Eppure nessuno sembra aver raccolto abbastanza informazioni per anticipare l’attacco. È altrettanto sorprendente che la meticolosa pianificazione dell’operazione al-Aqsa Flood sembri essere sfuggita all’attenzione delle agenzie di intelligence americane, la cui presenza in Medio Oriente è significativa. Com’è stato possibile?

È probabile che la risposta a questo puzzle si riferisca all’Iran. I suoi agenti sul terreno sembrano essere stati in grado di assemblare, finanziare e addestrare meticolosamente una struttura militante all’interno della Striscia di Gaza, che opera da un bel po’ di tempo in parallelo alla struttura ufficiale di Hamas. Questa struttura parallela probabilmente consiste in individui altamente impegnati e affidabili di vari gruppi palestinesi. Per diversi anni, questa struttura d’élite è riuscita a operare in segreto. Se questa linea di ragionamento è valida, è probabile che il lancio dell’operazione al-Aqsa Flood abbia sbalordito anche gli anziani militanti palestinesi nella Striscia di Gaza nelle prime ore del 7 ottobre. Eppure alti funzionari iraniani lo sapevano, e molto probabilmente ne era a conoscenza anche la leadership di Hezbollah. Dovrebbe essere dato per scontato che i pianificatori dell’attacco abbiano adottato un approccio veramente ermetico.

Eppure è improbabile che le agenzie israeliane, egiziane, giordane, saudite, americane e altre agenzie di spionaggio non siano riuscite a raccogliere almeno alcuni avvertimenti di intelligence sull’attacco, specialmente nelle ultime settimane e giorni, poiché i pianificatori hanno intensificato i loro preparativi a Gaza. Il livello di sorveglianza nella Striscia è semplicemente troppo esteso perché un’operazione su così larga scala sia passata completamente inosservata. È probabile, quindi, che almeno alcuni segnali di avvertimento abbiano raggiunto l’amministrazione del presidente israeliano Benjamin Netanyahu.

È anche probabile, tuttavia, che il governo altamente politicizzato e assediato di Netanyahu abbia mantenuto la sua attenzione focalizzata altrove, principalmente sulla propria sopravvivenza politica, che ha affrontato ripetute minacce negli ultimi tempi, poiché Israele si è avvicinato a quella che alcuni osservatori hanno avvertito poter essere una guerra civile. Inoltre, ci sono state accuse secondo cui il governo di Netanyahu si è concentrato in gran parte sulla “protezione dei coloni in Cisgiordania [con le truppe] piuttosto che sulla protezione dei kibbutznik al confine con Gaza”. Questo potrebbe essere un elemento centrale per spiegare la catastrofica sorpresa tattica che Israele ha subito lo scorso fine settimana.

È importante notare che l’operazione al-Aqsa Flood probabilmente rappresenterà non solo una sorpresa tattica, ma anche una sorpresa strategica per lo Stato ebraico. Come ha sostenuto Martin Indyk in una conferenza stampa di emergenza del Council on Foreign Relations domenica scorsa, è probabile che la leadership israeliana abbia frainteso le intenzioni strategiche di Hamas. Mentre Israele si è impegnato febbrilmente nella normalizzazione delle sue relazioni con una serie di Paesi arabi negli ultimi anni, il rifiuto di Hamas deve essere sembrato a volte quasi una reliquia del passato. Alcuni avrebbero persino potuto presumere che Hamas avrebbe adottato un “approccio live-and-let-live” nei confronti di Israele, purché gli fosse stato permesso di governare il suo dominio nella Striscia di Gaza. Eppure tali opinioni si sono rivelate illusorie, con risultati disastrosi.

Il governo di Israele indagherà senza dubbio sulle cause di questa catastrofe storica, a tempo debito. Nel frattempo si trova di fronte a una decisione importante: lanciare o no una incursione di terra nella Striscia di Gaza? Nel frattempo, i tank sono stati mandati al confine. Se Israele non lo fa, rischia di lasciare l’infrastruttura militante di Hamas in gran parte intatta. Se lo fa, affronta la forte probabilità che Hezbollah attacchi Israele da Nord, non solo con sbarramenti di missili, ma con un’incursione le cui dimensioni potrebbero sminuire l’operazione al-Aqsa Flood. Se lancia un attacco di terra, il gruppo libanese avrà l’aiuto dell’Iran, delle milizie sciite irachene, dei volontari siriani e persino delle unità di combattimento talebane, che si sono recentemente impegnate ad aiutare a “conquistare Gerusalemme”. Nel frattempo, profonde divisioni all’interno di Israele continueranno a condizionare le manovre del governo nelle prossime settimane.

 

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Giorgia nel paese delle meraviglie_Con Augusto Sinagra

La postura assunta dal nostro Presidente del Consiglio cerca di rivestirsi di una solennità e di una autorevolezza che, però, fatica a corrispondere con la realtà e le immagini che ci vengono trasmesse. La collocazione politica del Governo nell’agone mondiale è nettissima. Mostra un asse sempre più stretto con la Gran Bretagna e la attuale leadership statunitense nei contenuti del quale non appaiono chiare contropartite ed evidenti vantaggi per il nostro paese. L’Italia si sta trovando disarmata ed inconsapevole nel guado di relazioni europee dal sapore sempre più conflittuale e trascinata per inerzia ed affinità culturale del proprio capo di governo nelle logiche delle componenti più avventuriste ed oltranziste sulle quali poggiano le forzature statunitensi. All’interno del paese i proclami sbandierati di recupero della sovranità economica e del produttivismo industriale si stanno traformando inopinatamente in una manciata di assistenzialismo compassionevole che non lascia presagire nessun cambiamento serio delle dinamiche socio-economiche se non in peggio. La critica al dilettantismo dei Governi Conte sono il pretesto per una tabula rasa senza alternative. L’abbaglio delle luci della vita di corte sta facendo il resto. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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LAMPEDUSA : « L’ÉLITE » EUROPEA PUNISCE MELONI (Pierre Duriot)

È una grande storia a Lampedusa, ed è assolutamente impossibile che questo afflusso di 11.000 migranti in meno di una settimana sia frutto del caso. Si dice che queste traversate, di solito molto costose e orchestrate – non è un segreto – da scafisti sotto la copertura di organizzazioni non governative con finanziamenti opachi e strutture organizzative tentacolari, siano attualmente gratuite per gli aspiranti esuli. L’obiettivo è senza dubbio quello di punire la Meloni per le sue cattive compagnie, visto che la settimana scorsa è andata a trovare il cattivissimo Viktor Orban, che sta bloccando l’accordo europeo sulla distribuzione dei migranti. Poiché la questione non è se accogliere o meno i migranti, ma come distribuirli. La questione dell’accoglienza dei migranti non è una questione umanitaria, ma un dogma sovranazionale che viene imposto ai cittadini. “Giorgia Meloni è vittima del suo nazionalismo e della sua propaganda”, afferma l’eurodeputato italiano Sandro Gozi, che non nasconde nemmeno di essere stato “punito”.

Tutto ciò è confermato dal profilo dei migranti, tutti maschi, di età compresa tra i 16 e i 35 anni, vigorosi e in forma, per i quali non valgono le restrizioni sanitarie imposte a noi. Nessun controllo, nessun obbligo di identità, fanno quello che vogliono e dicono quello che vogliono. I tedeschi non si lasciano ingannare e non vogliono questi migranti punitivi. I francesi hanno il culo tra due sedie e Macron fa il gran signore con i nostri soldi, parlando di umanità e rigore. Quale umanità? Queste persone non correvano alcun pericolo nel loro Paese, altrimenti sarebbero fuggite con mogli, figli e antenati. In realtà, la maggior parte di loro sono musulmani francofoni che non nascondono nemmeno di essere venuti in Francia per ottenere benefici sociali. Contraddicendo il Presidente, Darmanin ha annunciato che alle frontiere saranno dislocati più doganieri, senza dubbio per placare l’estrema destra, che sbraita e sbraita ma non fa nulla di concreto, come al solito, si potrebbe dire. E questa punizione per l’Italia sarà anche una punizione per la Francia.

La popolazione è esasperata, perché al di là del dogma dell’accoglienza obbligatoria, l’altro dogma è quello dell’immigrazione come fonte di ricchezza per la Francia, che lascia comodamente che l’immigrazione arabo-afro-musulmana sia soffocata da altre immigrazioni, che sono appunto una fonte di ricchezza. Se l’immigrazione arabo-afro-musulmana fosse stata una fonte di ricchezza per tutto il tempo in cui l’abbiamo accolta in massa, il PIL pro capite della Francia non sarebbe crollato, il debito non sarebbe abissale e i posti di lavoro sarebbero occupati. Per non parlare dei quotidiani e sempre più squallidi atti di delinquenza. Ciò che stupisce è che, nonostante tutte le prove del contrario, i politici cerchino di mantenere questo dogma della ricca immigrazione, anche se ci sta rovinando.

Tutto questo, l’improvvisa corsa a Lampedusa, il profilo dei migranti, lascia pochi dubbi sul fatto che un organismo sovranazionale stia agendo per punire i Paesi che pensano male. Allo stesso tempo, si tratta di una manovra sempre più rozza da parte di un’élite globalizzata che percepisce il crescente malcontento globale dei popoli europei e non si preoccupa nemmeno più di garantire la discrezione delle sue azioni deleterie. E Paesi come l’Italia e la Francia, che avrebbero tutti i mezzi per respingere questa invasione con la forza, non lo fanno. Nel frattempo, i Paesi del Golfo difendono le loro frontiere con munizioni vere, e nessuno ha nulla da ridire, visto che l’obbligo di accogliere gli immigrati è curiosamente imposto solo agli europei. Quindi nulla è fatto a caso, qualcuno sta pianificando la caduta di Roma e, per inciso, la nostra.

Pierre Duriot

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POTERI INVADENTI, POTERI INVASIVI, POTERI DECADENTI_Con Augusto Sinagra

Le vicende politiche italiane degli ultimi quaranta anni hanno conosciuto una costante: la crescente influenza e determinazione delle scelte politiche da parte del Presidente della Repubblica. Un’opera che, svolta discretamente e spesso contrastata sino agli anni ’80, ha finito per imporsi progressivamente e platealmente. Da figura prevalentemente di garanzia degli equilibri tra istituzioni si è trasformata in soggetto (iper)attivo. Un processo che non a caso accompagna il peso crescente di particolari ordinamenti, nella fattispecie il giudiziario, e una dinamica di feudalizzazione dei gruppi di poteri e decisionali interni allo stato. Un garante, quindi, dell’indiscutibilità del sistema di alleanze internazionali cui è assogettato il paese e della conservazione degli attuali centri decisori a qualunque costo, tanto più a dispetto della evidente necessità e volontà di cambiamento confusamente espressa in questi anni. Il paradosso è che a sostenere questa trasformazione surrettizia e degradante degli assetti istituzionale sono quelle forze politiche che ipocrritamente da anni strillano allarmate contro una svolta presidenzialista in qualche modo regolamentata normativamente. L’apoteosi di una politica dei colpi di mano e di un ceto politico e dirigente decadente, autocratico ed autoreferenziale, esiziale per le sorti della nazione. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Ecoansia e altre amenità _ Di Claudio Martinotti Doria

Ecoansia e altre amenità

Di Claudio Martinotti Doria

Quante volte ho avuto la tentazione di scrivere un articolo durante i mesi trascorsi, ma poi mi sono sempre detto che in fondo l’argomento l’avevo già affrontato, in genere prevedendolo nei suoi sviluppi con discreta approssimazione, e mi sarei dovuto limitare a brevi aggiornamenti, pertanto rinunciavo, complice anche la vista sempre più indebolita dai 40 anni trascorsi davanti a uno monitor del pc.

Solo ora mi sono deciso a scrivere qualche nota, anche per mettere alla prova la mia vista sempre più sfocata e la conseguente concentrazione, necessaria per scrivere con un minimo di grano salis.

A motivarmi a scrivere è stato in primo luogo l’incredibile e paradossale riscontro che a rifiutarsi di fare la fine di solito riservata a fine ciclo, dei vassalli servili e utili idioti delle élite anglosassoni e affini, sono stati gli africani. Oltre alle sacrosante motivazioni ostili al neocolonialismo, parassitismo, saccheggio, e altre amenità comportamentali tipiche degli imperi neocoloniali (USA in primis), credo gli stati e alcuni popoli africani, si siano accorti di quali pessime e tragiche fini erano destinate le nazioni e popolazioni che si erano fidate degli americani e loro vassalli europei. E tale riscontro stride fortemente con il fatto che le nazioni e le supponenti popolazioni europee, pare non essersene ancora accorte, nonostante siano le principali vittime delle politiche estere, economiche e militari, anglosassoni. L’hanno capita gli africani e gli europei invece no, almeno apparentemente, poi in realtà per molti governi si tratta solo di sottomissione dovuta a corruzione o illusione di carriera, inettitudine e costrizione (ricatti, minacce,  azioni di stampo mafioso, sono ordinaria amministrazione per gli anglosassoni, così come gli omicidi camuffati da suicidi, incidenti domestici, stradali o durante le vacanze).

In breve stanno danneggiando gravemente la loro principale colonia, l’intero continente europeo (con qualche eccezione) per potersi mantenere ancora in vita qualche anno, mantenendo il loro tenore di vita molto elevato, mi riferisco ovviamente alle élite della società anglosassone, non certo al cento medio e medio basso, ormai distrutto anch’esso come in Europa. Perché più che una lotta tra imperi, stati e nazioni, è un conflitto ibrido a tutto campo tra classi sociali, siamo tornati alla lotta di classe, solo che non se ne è accorto quasi nessuno.

Per prolungare l’egemonia ormai al tramonto, gli imperi anglosassoni stanno realizzando una sorta di neofeudalesimo, come scrissi per la prima volta già parecchi anni fa, nel quale i signori feudali in conflitto tra di loro e con alleanze mutevoli, fanno combattere truppe mercenarie e fanno confliggere i servi della gleba dei vari feudi, perché il potere si esercita meglio se la popolazione è ridotta alla lotta per la sopravvivenza e vive nella confusione e paura permanente.

In Europa la più colpita pare essere la Germania, con circa un 25% in più di aziende fallite e una delocalizzazione in atto delle principali industrie tecnologiche e innovative tedesche, che si trasferiscono negli STATI UNITI, dove l’energia costa molto meno, approfittando delle generose agevolazioni create ad hoc dall’amministrazione Biden, proprio mirando a questo scopo: sottrarre le aziende migliori all’UE (il sabotaggio del North Stream aveva questo scopo oltre che quello di separare la Germania alla Russia) e anche di Taiwan.

In realtà la più colpita è l’Italia, solo che i media distolgono l’attenzione dell’opinione pubblica con il trucchetto del diversivo, puntando l’attenzione su quel Paese che sembra messo peggio, a scopo consolatorio e distrattivo.

L’Italia sono almeno una quarantina di anni che intendono spogliarla di tutte le sue ricchezze, ma per riuscirci hanno dovuto procedere per gradi, prima separando il Ministero del Tesoro dalla Banca d’Italia che non fu più obbligata a comprare i titoli di stato emessi ma furono immessi nel fatidico e fantomatico “mercato”, così il debito pubblico inizio a impennarsi. Poi ci fu il famoso incontro del ‘92 sul panfilo Britannia con tutto quelle che ne è conseguito, sul quale non sto ad attardarmi perché hanno scritto decine di libri e centinaia di articoli sull’argomento, è ovvio che per portare avanti un’operazione così complessa e ambiziosa, hanno corrotto e infiltrato migliaia di personaggi nei posti chiave delle istituzioni.

Stiamo parlando di sottrarre agli italiani circa 5000 miliardi di euro di risparmi accumulati (ricchezza privata) e il maggior patrimonio artistico, architettonico, storico, archeologico, immobiliare, naturalistico, ecc.. esistente al mondo, concentrato in una striscia di territorio di appena 300mila kmq in una sorta di “portaerei in mezzo al Mediterraneo” come viene considerata dagli anglosassoni.

Una localizzazione geopolitica strategica che ne ha decretato la sorte.

Noi italiani siamo tendenzialmente esterofili e critici verso noi stessi ma non possiamo negare l’evidenza e sforzandoci di essere realistici dovremmo riconoscere che siamo (nonostante la peggiore classe politica che ci assilla da sempre) il paese più ricco, bello e geniale del mondo, in termini di concentrazione in uno spazio ristretto di tutto quello che possediamo e disponiamo, comprese le migliori menti creative (almeno quelle non ancora emigrate all’Estero m che potrebbero anche tornare se le condizioni lo consentissero). E’ comprensibile che vogliano sottrarcelo. E per farlo le hanno inventate e provate tutte, soprattutto negli ultimi anni, colpendoci a livello sanitario e soprattutto neurologico, perché se la popolazione diventa depressa e confusa sarà più facile ingannarla e farle credere una cosa per un’altra, dire che si sta facendo qualcosa per il loro bene mentre sono messi a 90 gradi per fare ginnastica.

I metodi di inganno e dominio sono gli stessi da millenni, ma modificandone le forme e applicazioni: il ricorso alla paura fino al terrore e al panico è un classico, ma con la psicopandemenza hanno sfiorato la genialità, poi il solito divide et impera che funziona sempre e trova infinite forme di applicazione anche autoalimentate.

Si sono persino inventati l’ecoansia, ingaggiando un’attricetta in cerca di visibilità e carriera, per inscenare la parte e sdoganare il concetto, che adesso, anche se accolto dalla maggioranza ridicolizzandolo, circola come una pubblicità di successo. Un motivetto o tormentone estivo: soffro di ecoansia. Ho cercato di contrastare questo espediente propagandistico di successo con una contromossa ironica da me elaborata subitaneamente, ma ho potuto diffonderla solo a livello minimalistico, nella cerchia di amici e conoscenti, non certo nel sistema mediatico (che disprezzo ed evito) e non arrivando pertanto al grande pubblico, sperando semmai nel passaparola.

La mia contromossa è stata questa: io soffro incontrovertibilmente di ANOANSIA, nel senso che ho la continua ossessiva sensazione che vogliano mettermelo nel culo, in ogni circostanza e contesto sociale, istituzionale, politico, economico, finanziario, previdenziale, ecc., e per placare tale tensione, infiammazione e bruciore perineale, hai voglia ad applicare gel di aloe vera o presunta …. Non dubito che i sondaggi fatti circolare nelle settimane precedenti, sulla diffusione dell’ecoansia siano fasulli, come tutto ciò che viene pubblicato e trasmesso dai media mainstream, ma al contrario sono quasi certo che se facessero un sondaggio serio tra gli italiani sull’ANOANSIA, spiegandola bene, si avrebbe conferma che questa esiste veramente, solo che gli italiani non ne sono ancora consapevoli e non sanno etichettarla. Per farla conoscere agli italiani rendendoli consapevoli di soffrirne ci vorrebbe un comico cabarettista di capacità e notorietà che la declami valorizzandone il concetto, esattamente o ancora meglio dell’attricetta che ha recitato con falsa commozione il concetto di ecoansia.

Dovremmo imparare e reagire sempre, mai subire passivamente una situazione che sappiamo essere per noi nociva. Invece ci limitiamo quasi sempre a parlarne tra di noi, sempre gli stessi.

Concludo con un accenno all’argomento cardine di quasi tutti i miei articoli precedenti, evitando che qualcuno mi rimproveri per averlo trascurato: il conflitto in Ucraina. Se facessi un’estrapolazione dei passi salienti dei miei articoli precedenti potrei comporne uno apparentemente nuovo che sembrerebbe pure aggiornato e attualizzato, salvo alcuni particolari, in quanto sta avvenendo quanto era prevedibile. Gli ucraini stanno facendo la fine degli utili idioti dell’impero anglosassone, carne da cannone che non solo non hanno scalfito neppure la prima delle tre linee difensive russe, ma sono finiti nel tritacarne e tritatutto che avevano predisposto per loro. In tal modo i russi continuano a dimostrarsi estremamente corretti e galantuomini nel condurre il conflitto limitandosi a colpire obiettivi militari e ad uso militare, al contrario del regime nazista di Kiev che colpisce i civili e compie qualsiasi nefandezza e aberrazione criminale per trarre profitto dalla guerra e per sfogare la loro frustrazione da fallimento e per cercare di avere l’approvazione e i finanziamenti occidentali, essendo ormai un regime parassitario che vive esclusivamente di economia di guerra, finanziata da terzi.

La NATO è ormai agli sgoccioli e rischia la stessa sopravvivenza, per cui dovrà alzare l’asticella dell’escalation fino a provocare l’intervento dei pazzi russofobi della cosiddetta Nuova Europa, cioè i paesi dell’Est, le nuove colonie anglosassoni, Polonia e Paesi Baltici, che però se anche si unissero a quello che rimane dell’Ucraina Occidentale, non potrebbero mai trionfare sulla Russia che nel frattempo si è consolidata, accumulando una straordinaria esperienza di guerra sul campo, perfezionando e soprattutto sperimentando nuove armi sempre più efficaci e sofisticate, producendole a ritmi che in Occidente possono solo sognare. Come ho affermato varie volta, questo significa che il tempo lavora a favore della Russia, che continuerà a rispettare e valorizzare la vita umana risparmiando inutili perdite e sofferenze al loro esercito attendendo il momento propizio per sferrare i loro contrattacchi, man mano che l’esercito ucraino collasserà sui vari fronti. Non esiste alcuna arma in dotazione alla NATO che possa impedire che questo avvenga, nessuna arma che possa cambiare le sorti dell’Ucraina, nessuna provocazione o atto terroristico che possa far cambiare strategia alla Russia, perché la leadership russa ha una visione lungimirante mentre le nostre sono penosamente limitate e asservite a loschi interessi di nicchia.

Gli psicopatici russofobi neocons anglosassoni sarebbero anche disposti a ricorrere alle armi nucleari, ma glielo impediscono le altre élite che compartecipano al potere, perché sanno benissimo che basterebbero pochi missili ipersonici SARMAT e droni subacquei POSEIDON per spazzare via completamente l’intera Gran Bretagna e le coste americane dell’Atlantico e del Pacifico, e con i moderni missili antinave in dotazione alla Russia tutte le flotte USA-NATO farebbero la stessa fine ovunque si trovino, e tutto questo avverrebbe pochi minuti dopo aver fatto esplodere un solo ordigno nucleare contro la Russia.

Quindi se vogliamo ragionare seriamente, dobbiamo renderci conto che non ci sarà nessun negoziato, perché la Russia non ritiene credibili e degni di fiducia gli attuali interlocutori, ne gli ucraini, ne la NATO ne l’UE, quindi non rimane loro che portare a termine l’operazione bellica, che come hanno sempre rivelato fin dall’inizio, prevede la completa demilitarizzazione e denazificazione dell’Ucraina. Nessuno potrà impedirlo perché i russi sono persone serie e dotate di una cultura e coesione che noi purtroppo abbiamo perso da diverse generazioni. Noi in Occidente dobbiamo solo nutrire due speranze; che i russi continuino a dimostrarsi moderati e compassionevoli, e che gli attuali leader occidentali scompaiano magari per uno strano fenomeno di abduction collettivo. He sarebbe come dire “non ci resta che sperare negli alieni più evoluti”.

Articolo riproducibile citando la fonte.

 

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

Independent researcher, historiographer, critical analyst, blogger on the web since 1996

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Italia in regressione _ con Pasquale Katana Cicalese

L’Italia vive ormai da diversi decenni una condizione di progressiva regressione anche in rapporto alla già precaria situazione dei paesi europei.
Esiste senza dubbio un generale abbassamento dei livelli reali dei salari, degli stipendi e dei redditi di ampi strati di lavoro autonomo. Complici le politiche sindacali e la disarticolazione dei movimenti organizzati che hanno caratterizzato la vita e il conflitto sociopolitico caratteristico degli anni ’60/’70; è però gran parte della struttura produttiva del paese ad aver perso dinamicità ed autonomia di indirizzo. Sempre più evidente la pesante influenza sulle condizioni generali di un ceto politico e di una classe dirigente dagli orizzonti limitati, completamente subordinata ed assorbita da strategie esterne e in balia delle dinamiche geopolitiche sempre più convulse. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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UN CALICE AFRICANO PER MACRON (Gilles La-Carbona)?_da Minurne ….il piatto vuoto di Meloni_di Elena Basile

Il colpo di stato in Niger è stato accolto in Europa, in Francia in particolare, con un senso di frustrazione e smarrimento dalle élites dominanti e con un anelito liberatorio di emancipazione dal giogo occidentale da parte degli ambienti di opposizione “sovranista” e “terzomondista”. Ancora una volta il riflesso condizionato di cui sono schiave le élites dominanti, ormai però sempre più arroccate, ha tentato di racchiudere l’evento nello schema fuorviante e strumentale della contrapposizione democrazie/dittature totalitarie. Segno che si vuole rimuovere ancora una volta il fatto che l’introduzione dei regimi democratico-liberali, laddove innestati, in un contesto sociale di natura tribale e clanica, non fa che riprodurre con la forza dei numeri il predominio discriminatorio di clan particolari sugli altri su base tribale. E’ il miraggio che ha ingannato in gran parte a suo tempo le nuove classi dirigenti africane a fine secolo sino a farle ricadere paradossalmente nelle logiche tribali. Segno che si continua, nel mondo occidentale, a glissare per interesse ed ottusità sul fatto che la costruzione di una forma statuale moderna in Africa, rappresentativa della composizione sociale, non può prescindere al contrario da un accordo tra queste componenti e dalla iniziativa di gruppi dirigenti e amministrativi, in primo luogo l’esercito, sul quale costruire un minimo di coesione nazionale. E’ quanto è riuscito a comporre a suo tempo con relativo successo Gheddafi, non ha caso brutalmente e tragicamente estromesso dalla coalizione occidentale nel 2011. Quello, però, è stato solo l’episodio più tragico e dirompente di una politica tuttora perseguita in quel continente dai paesi occidentali, compresa la Francia nell’area francofona. I colpi di stato in Mali, Burkina Faso e, ultimamente, in Niger rappresentano soprattutto una reazione a queste politiche, resa possibile dalla presenza nel continente di numerosi nuovi attori geopolitici in aperta competizione con i tradizionali colonizzatori francesi, inglesi e, in forme diverse, statunitensi; tra di essi senza dubbio la Cina e la Russia, ma anche l’India, la Turchia, Israele e i paesi del Golfo Persico. La presenza russa e cinese, in particolare, poggia su fondamenti politici diversi da quelli occidentali, basati pragmaticamente sull’accettazione dello stato di fatto degli equilibri politici nei paesi africani. Un principio che ha comunque prodotto pesanti attriti in quelle aree, specie con la Cina, nella fattispecie sulla gestione del debito, sullo sfruttamento dei terreni agricoli e sulle modalità di costruzione delle infrastrutture civili; attriti, però, al momento gestibili rispetto al livore suscitato dal retaggio coloniale e neocoloniale dei paesi occidentali. Attriti che le due potenze emergenti sono riuscite sinora a gestire e spesso a risolvere. Sono tutti i paesi occidentali a subire al contrario le pesanti conseguenze di questo anelito emancipatorio; soprattutto, però, la Francia. Se i suoi avversari e nemici dichiarati si sono esposti ormai alla luce del sole in queste dinamiche, non va sottovalutato l’atteggiamento sornione e subdolo degli Stati Uniti, desiderosi di stringere la morsa ed annichilire ogni futura velleità di autonomia dei propri alleati, specie in una prospettiva di confronto multipolare o bipolare. Il Niger ospita la principale base statunitense in Africa e, al momento, gli strali più duri della nuova giunta sono indirizzati alla Francia.

La brama di emancipazione e sviluppo tra i paesi africani è comunque indubbia, come pure l’esigenza di stabilizzazione dei regimi e delle società. Trova alimento ed occasioni nella presenza competitiva di numerose potenze emergenti impegnate ed interessate al continente. Può contare sul diverso approccio offerto da queste rispetto al tradizionale impegno occidentale. Sia la Cina che la Russia puntano piuttosto alla accettazione della situazione interna a quei paesi che ad una azione destabilizzatrice. Influisce certamente la tradizione diplomatica e il retroterra culturale di quei paesi, diversi da quelli occidentali a matrice anglosassone e transalpina. Il protrarsi di questa linea di condotta nel futuro prossimo, più che dal bagaglio culturale e dalla tradizione diplomatica, dipenderà dalle dinamiche geopolitiche interne a quel continente, dall’atteggiamento del mondo occidentale e, principalmente, dalla capacità di conduzione di linee politiche autonome ed indipendenti delle élites locali africane.

Queste hanno visto nell’andamento del conflitto ucraino, nella capacità russa di fronteggiare sul campo la NATO e gli Stati Uniti, nell’alternativa economica, ma sempre più politica, della Cina l’esempio di azione e la possibilità di aprire varchi anche con toni insolenti e spavaldi.

I paesi africani hanno già conosciuto questo potente anelito; ma al successo militare contro le potenze coloniali, non ha fatto seguito nella maggior parte dei casi il conseguimento di una effettiva indipendenza politica ed economica e la costruzione di regimi statuali solidi.

Una eccessiva baldanza ed una eccessiva fiducia verso gli agenti esterni, piuttosto che sulle proprie capacità di ricomposizione e di sviluppo rischia di farli ricadere nello stesso errore e ridiventare terreno di contesa di forze esterne.

Al momento sono i paesi occidentali a guida americana ed alcuni paesi arabi a riproporre in Africa politiche di istigazione alla frammentazione e conflittualità clanica e tribale, gli uni sotto la maschera del diritto individuale, gli altri dell’adesione confessionale. E’ giusto, quindi, che siano il bersaglio principale degli strali. Han voglia, anche alcuni ambienti critici francesi, come sottolineato nel secondo articolo, a lamentare l’ingratitudine degli africani ai servigi offerti dalla Francia. Il poco che le élites francesi hanno saputo offrire alle colonie non è stato un atto di generosità e, soprattutto, è venuto meno con la concentrazione degli investimenti e degli interessi economici occidentali verso la Cina, la quale ha saputo par altro farne ottimo uso. Esattamente la stessa dinamica realizzata dagli Stati Uniti con il Messico e l’intero Sud-America.

Il futuro dei paesi africani, delle Afriche, la loro emancipazione dipende dalla capacità di individuare e praticare i propri interessi e le proprie possibilità di sviluppo in un quadro di coesione sociale praticabile, di una politica demografica assennata e di impostare su di essi le indispensabili relazioni internazionali.

L’Italia avrebbe, in realtà, ancora delle carte residue da giocare sull’onda del credito accumulato negli anni ’60/’70 nel Mediterraneo esteso e nel Nord-Africa. Le sue attuali élites, si fa per dire, e l’attuale Governo Meloni, in buona sintonia con i precedenti, avrebbero alternative concrete da seguire. Lo aveva messo sul piatto Trump a suo tempo, lo ha dimostrato sul campo la Turchia di Erdogan.

Giorgia Meloni ha scelto di spendere questo credito residuo come cortina fumogena di disegni altri e in qualità di mosca cocchiera delle strategie avventuriste e guerrafondaie dei neocon-progressisti statunitensi e dei lirici europeisti al seguito.

Il “piano Mattei” di suo conio è un insulto alla memoria di quella figura. Rappresenta l’icona dietro la quale un intero paese sarà trascinato volente o nolente in questo scacchiere. Lo abbiamo ribadito più volte e in tempi non sospetti. Con quale modalità, per fare cosa, con quali conseguenze saranno gli altri a deciderlo; a meno di improbabili sussulti o eventi catastrofici, a questo punto auspicabili, nella “terra madre”.

Nel frattempo il Senato della Nigeria ha respinto l’opzione militare contro il Niger. La posizione non è ancora ben definita, ma è evidente che se vorranno intervenire, dovranno farlo probabilmente senza maschere.  Gli Stati Uniti hanno inviato in Benin già tre giganteschi C17 carichi di materiale e truppe; hanno chiesto già conto al Presidente nigeriano, favorevole all’intervento, dei ritardi organizzativi dell’operazione. Buona lettura, Giuseppe Germinario

UN CALICE AFRICANO PER MACRON (Gilles La-Carbona)?
Macron non si è accorto di nulla con il Niger o, come al solito, ha chiuso un occhio?

Editoriale di Gilles La-Carbona: Segretario nazionale del RPF

La repentinità dell’evento potrebbe indurre a pensare che si tratti della prima ipotesi, ma ancora una volta l’evidenza è ingannevole. In realtà, ciò che sta accadendo in Niger è semplicemente la logica prosecuzione di un processo sostenuto da anni da una politica estera deplorevole, ma accelerato dallo stesso Macron e dalla sua arroganza, costante fonte di disastri diplomatici.

Éléments magazine – Bernard Lugan: “La Françafrique è una leggenda!

Il Niger non si è trasformato in un colpo solo, conquistando tutti i presenti al Quai d’Orsay. Il 21 marzo 2023, Bernard Lugan, specialista dell’Africa, aveva previsto a casa di Bercoff quello che è appena successo, e allora perché non gli avete dato retta? Semplicemente perché va controcorrente rispetto alla doxa di Macron. Come spiega molto chiaramente, “se i nostri attuali funzionari, che sono specialisti, facessero più etnografia invece che ideologia, e se leggessero autori antichi, la Francia eviterebbe di commettere errori”. Ma Macron non apprezza le competenze e non si circonda né di intelligenza né di conoscenza.

Il suo tour in Africa è stato un fiasco, come tutto quello che fa, e anche in questo caso i media bugiardi e sovvenzionati lo hanno coperto, preferendo tenere la verità per sé ed evitare analisi approfondite, per non dover dare l’allarme. Sempre per compiacere, per conservare il denaro pubblico che li sostiene, a spese della realtà. Le menzogne sono ovunque e la verità non si trova da nessuna parte, a meno che non venga bollata come tale da queste agenzie statali. L’Africa vuole emanciparsi, ma rimane impantanata nei suoi problemi economici, etnici e religiosi, nella corruzione e nella dipendenza permanente dalla tecnologia e dagli aiuti occidentali. I cinesi e i russi stanno cercando di sostituire i francesi e gli americani sul campo. Tutto questo fa parte di una schizofrenia che vorrebbe che i francesi abbandonassero l’Africa, mentre molti giovani africani sognano di venire in Europa e in particolare in Francia.

Il recente colpo di Stato in Niger potrebbe essere il primo domino a infrangere le illusioni di potere che persistono, soprattutto per la Francia. La decisione di vietare l’esportazione di uranio e oro in Francia dovrebbe essere un test, perché Macron avrà solo due opzioni: ritirarsi in silenzio e rimpatriare i 1.500 soldati, oppure intervenire. Lui, che sogna la guerra, opterà per la seconda, ma a quale scopo? Burkina Faso, Mali e Mauritania hanno già avvertito che entreranno in guerra a fianco del Niger per difendere i suoi interessi in caso di tentativo di intervento armato straniero. Data la nostra forza militare, non abbiamo più riserve di munizioni, poco equipaggiamento perché destinato all’Ucraina, e le nostre capacità di trasporto e di rifornimento delle truppe sono ridotte al minimo, dato che affittiamo aerei cargo dalla Russia per le nostre proiezioni. I nostri 1.500 soldati faranno fatica a sostenere un conflitto che coinvolge quattro Paesi, magari appoggiati da aziende private. E non dimentichiamo che un altro dei nostri fornitori di uranio è la Russia.

Il resto del mondo si sta svegliando di fronte all’arretramento senza precedenti dell’Occidente, che non è più in grado di imporre altro che vincoli e prepotenze infinite alla propria popolazione. Un fallimento militare in Niger sarebbe una doccia fredda per Macron, oltre che un vestito adatto a lui.

Relazioni Africa-Francia: perché la Francia deve affrontare tanta rabbia in Africa occidentale – BBC News Afrique

La Francia viene espulsa ovunque in Africa e dietro questo rifiuto c’è tutta l’Europa. La domanda è: come si è arrivati a questo? Ripetendo che possiamo essere forti solo in alleanza con altri, abbiamo perso la nostra sovranità e il nostro potere. La formula era valida solo finché la coalizione europea rappresentava qualcosa di serio, una paura reale. Ma la guerra in Ucraina ha rivelato le debolezze della NATO. Circa 50 Paesi non sono riusciti a far indietreggiare la Russia, immaginate se fossimo stati da soli. La Francia non poteva più essere soddisfatta di se stessa, non era nulla secondo le nostre politiche, e doveva fondersi in tutta una serie di organizzazioni favolose senza le quali non potevamo esistere. Questo discorso disfattista conteneva i semi della decadenza. I media lo hanno propagato con forza. Il risultato è lì, non ancora accettato dai nostri cacicchi, ma la realtà dovrebbe aprire loro gli occhi. Coloro che in Francia si ostinano a pensare che dobbiamo dipendere dagli altri per far sentire la nostra voce o per sopravvivere, si sbagliano e ripetono inconsciamente la stanca formula di dire che se le cose andavano male in Francia era perché avevamo bisogno di più Europa. Ora dipendiamo totalmente dalla Commissione europea e nulla va per il verso giusto.

La realtà, tuttavia, è che non possiamo perseguire grandi disegni portando avanti le politiche che conosciamo bene, distogliendo le nostre entrate dalle missioni essenziali. Le nostre risorse sono tutte concentrate sul mantenimento di uno Stato obeso ma in crisi, che sperpera denaro in controsocietà di periferia, in coperture sociali malversate, in molteplici sussidi a organizzazioni con missioni e risultati oscuri e in pessimi piani industriali, che non sono altro che trasferimenti mascherati di denaro pubblico a interessi privati.

L’RPF è favorevole a un vero e proprio audit delle finanze pubbliche. È stato stimato che quasi 40 miliardi di euro sono stati spesi per agenzie fasulle che ingrassano gli amici dei politici e non aggiungono alcun valore. Se a questo si aggiungono i milioni regalati alla stampa, i miliardi persi per sostenere la pletora di dipendenti pubblici europei, l’evasione fiscale per oltre 150 miliardi, le frodi sociali per diverse decine di miliardi, i regali di Macron all’Ucraina e ai vari Paesi che ha visitato, i miliardi generosamente elargiti alle società di consulenza, si ottiene una somma sufficientemente grande per riorientare il bilancio dello Stato e smettere di pensare che la Francia sia solo un piccolo Paese che non riesce a farcela da solo. La Svizzera lo fa bene. Questi temi potrebbero essere ripresi dalle opposizioni, che però sembrano più interessate a vietare tutto ciò che potrebbe mettere in discussione la retorica sul cambiamento climatico o la tassazione degli alloggi ammobiliati per le vacanze, che ad affrontare i problemi reali.

Gilles La-Carbona

2/8/2023

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L’AFRICA IN EBOLLIZIONE (Patrick Becquerelle)
Da diversi anni siamo spettatori di conflitti sia nel nostro Paese che all’estero. La Francia sembra essere nel mirino di diversi Paesi africani. Ecco una riflessione di Patrick Becquerelle basata sulla rivolta nigerina.

Françafrique
Questo continente ricco di materie prime è costantemente dilaniato.
Gli africani rimproverano agli occidentali, soprattutto ai francesi, il loro colonialismo.
Il Mali, il Maghreb e ora il Niger, insieme a molti altri, ci odiano.
Eppure tutti questi popoli si dirigono a flusso continuo verso una Francia “egemonica”.
Ma come è possibile che questo continente dalle innumerevoli risorse sia ancora così
in tale disordine?
C’è da chiederselo quando si vede il numero di africani che vengono a studiare soprattutto in Francia e non tornano mai in patria per trasmettere le conoscenze acquisite ai loro paesi.
Medici, avvocati, scienziati, ingegneri, funzionari pubblici, soldati, ecc.
Oggi si alternano per estrometterci con odio dai loro Paesi.
Eppure la Francia ha permesso loro un certo grado di autonomia, fornendo loro ottime infrastrutture e formando dirigenti che purtroppo non hanno alcuna voglia di costruire una bella Africa.
Non perderebbero il loro patriottismo venendo in Francia?
Perché non lottano per sviluppare il loro Paese?
Noi diamo loro i mezzi per farlo.
In segno di gratitudine, preferiscono trasporre il loro spirito guerriero, l’odio per i francesi e il bellicoso comunitarismo, grazie alla vigliaccheria dei nostri politici.
Ancora una volta, l’Africa sarà il bersaglio della barzelletta, ma la colpa sarà solo sua.
Avrà solo se stessa da incolpare
2 attori/predatori stanno arrivando nel loro continente
-la Russia, con i suoi mercenari wagneriani
-la Cina, con le sue notevoli risorse, soprattutto in termini di potenziale umano.
La tanto criticata egemonia francese impallidisce di fronte a questi due giganti, il cui appetito sarà difficile da contenere il loro appetito bellicoso.
Ancora una volta si dirigono verso la colonizzazione, ma questa volta è più invasiva e priva di qualsiasi democrazia.
La Francia deve, con i mezzi diplomatici e mediatici a sua disposizione, far capire loro che questi due Stati non hanno posto nel mondo. Hanno un solo obiettivo, quello di appropriarsi delle loro ricchezze perché non hanno un contrappeso democratico.
Non rispetteranno né i loro costumi né le loro religioni e non tollereranno alcuna immigrazione nei loro territori.
Dobbiamo ricordare loro questo:
-che le loro scelte avranno gravi conseguenze diplomatiche, finanziarie e migratorie.
-Che molti soldati francesi hanno dato la vita per proteggerli e che non è stato solo per loro stessi e che non è stato solo per il proprio bene.
-Che è un’adulta e che dovrà fare le sue scelte!

Patrick Becquerelle

6/8/2023

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PIANO MATTEI, SOVRANISTI FINTI E ALTRE PRESE IN GIRO, di Elena Basile

La parola inglese accountability rende bene il significato di quel che è stato perso nella vita politica italiana. Potrebbe essere tradotta con una perifrasi: “assumersi la responsabilità e dare conto del proprio operato”.
Al cittadino appare chiaro che i politici, le istituzioni, persino i giornalisti e gli operatori culturali sono liberi da un tale fardello essenziale alla civiltà liberale e democratica.
Gli esempi potrebbero essere tanti. I giornalisti che avevano previsto il crollo economico della Russia e un cambio di potere a Mosca pontificano sulla probabile sconfitta militare della Russia, per nulla imbarazzati dalle loro precedenti errate previsioni. Romanzi premiati e pompati dal mercato non rispondono a volte ad alcun requisito letterario, ma le macchine della pubblicità, i critici, le case editrici e gli amichetti continuano indisturbati a distruggere la cultura. Il governo della destra “sovranista” di Meloni attua un programma in politica estera e in Europa che avrebbe potuto essere del Pd e del centrosinistra. Gli elettori restano fedeli nella sconcertante convinzione che la presidente non ha alternative se vuole restare al potere.
Le decisioni sono prese altrove. La finanza, le grandi multinazionali tirano i fili delle marionette politiche. Le indagini sociologiche serie hanno illustrato come il presidente degli Stati Uniti sia eletto grazie all’accordo di tali poteri forti.
Non c’è nulla di automatico e deterministico. L’azione umana è piena di imprevisti. Ma, come l’assenza di partecipazione alla politica se non per interessi settoriali e la stessa astensione dal voto dimostrano, si è rotto quel filo che fino agli anni 80 ha legato società civile e istituzioni.
Prendiamo la politica mediterranea. Diplomatici e nuovi pennivendoli si affannano a illustrare il cosiddetto Piano Mattei. Senza pudore si utilizza un nome mitico. Enrico Mattei si rivolta nella tomba. Il grande imprenditore, che ha pagato con la propria vita il coraggio di perseguire l’interesse nazionale contro quello delle “sette sorelle”, il fine politico che ha creduto nel bene comune di Stati mediterranei e africani, viene strappato alla memoria collettiva e strumentalizzato per le carnevalate odierne. La presidente del Consiglio (ma Draghi o altri di centrosinistra non avrebbero fatto diversamente) si genuflette alle richieste militari ed economiche statunitensi, rinuncia agli interessi commerciali italiani nei rapporti con Pechino, elemosina senza ottenere una politica del Fmi diversa nei confronti della Tunisia, e nomina senza alcun pudore Enrico Mattei per riferirsi al piano energetico tra Italia e l’Africa fornitrice di energia. Nessun giornalista o economista si dà la pena di spiegare come mai decenni di politica mediterranea europea (dal processo di Barcellona 1995 all’Upm 2008) siano falliti nonostante gli sforzi di partnership egualitaria, di codecisione, di approccio olistico e non settoriale. Qualche brillante collega addirittura sostiene che la Nato, data la menzione del Fianco Sud nel prolisso e illeggibile comunicato finale a Vilnius, aprirà le porte a una cooperazione differente con i Paesi nordafricani. Mattei, a partire dal 1958, aveva stipulato con l’Urss accordi energetici favorevoli allo sviluppo economico italiano contro l’oligopolio delle multinazionali. Il governo italiano strumentalizza il suo nome mentre si lega mani e piedi all’energia statunitense venduta a caro prezzo e a frammentate fonti di approvvigionamento con dittature di umore instabile.
Il cittadino ,nel leggere alcuni giornali, prova un terribile senso di presa in giro. Mieli realizza buoni programmi televisivi, recentemente una ricostruzione storica della rivoluzione cubana. Ci propina tuttavia articoli in cui racconta la fine dell’accordo sul grano come una decisione unilaterale del lupo cattivo. Dimentica di elencare le condizioni previste dall’accordo e non realizzate a partire dalla mancata revoca delle sanzioni sui pezzi di ricambio delle macchine agricole russe fino alla negata adesione della banca russa agricola al sistema di pagamenti Swift. Tace sulle percentuali di grano esportate (80% ai Paesi europei, 3% agli africani) che secondo l’Oxfam non risolverebbero i problemi dei Paesi emergenti, ma contribuirebbero a limitare l’inflazione di generi alimentari nei Paesi ricchi.
Quanti intellettuali e rappresentanti istituzionali si prestano a questi giochi in malafede con appelli moralistici a favore dei Paesi emergenti smarrendo la visione oggettiva di quanto accade sulla scena internazionale? La sensazione sconcertante è che le élite al potere in Europa e i loro ‘cani da guardia” abbiano venduto l’anima e che la politica come l’economia e la cultura siano soltanto tecnica. Viviamo ormai in un eterno Barbie, film di visualità sublime privo di contenuti e con uno script demenziale.

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