Dopo l’ operazione Carola: la fine dell’inizio, di Roberto Buffagni

Dopo l’ operazione Carola: la fine dell’inizio

 

 

Cari amici vicini & lontani, è finito l’inizio. Che cosa comincia, dopo?

Si è conclusa con un completo successo la prima parte dell’abile e professionale azione di guerra ibrida (5th generation war)[1] della quale è stata eroina eponima Carola Rackete.

La definizione più sintetica della guerra ibrida si deve al Tenente Colonnello Stanton S. Coerr, Corpo dei Marines[2]: “l’arma preferita della guerra di quinta generazione è lo stallo politico. Chi combatte una guerra di quinta generazione vince dimostrando l’impotenza della potenza militare tradizionale…questi combattenti vincono quando non perdono, mentre noi perdiamo quando non vinciamo”.

Basta riandare con la memoria ai recentissimi episodi che hanno scandito l’ operazione Carola per verificare che la vicenda si è svolta in conformità alla definizione del Ten. Col. Coerr. Carola ha vinto perché non ha perso; noi – lo Stato italiano, le sue FFOO e FFAA, il Ministro Salvini che si è autodesignato a obiettivo principale dell’operazione e i molti milioni di italiani che lo sostengono –  abbiamo perso perché non abbiamo vinto; la potenza militare dello Stato italiano, incomparabilmente superiore a quella a disposizione di Carola, ha dimostrato la sua impotenza; e il sistema d’arma impiegato per condurre l’operazione bellica  è stato uno stallo politico creato con il decisivo contributo di collaboratori interni al campo bersaglio dell’attacco, l ’Italia nel suo insieme: governo, istituzioni dello Stato, nazione e popolo. Nomi, cognomi e qualifiche professionali dei suddetti collaboratori interni sono facilmente reperibili da chiunque abbia seguito le notizie, né la collaborazione implica sempre la piena consapevolezza del ruolo effettivamente svolto: buona e mala fede sono entrambe utili, e anzi, entrambe necessarie al successo dell’operazione (è stata arruolata nell’ operazione Carola persino l’Antigone sofoclea, insospettabile di complicità).

Quale sia il centro direttivo dell’ operazione Carola è impossibile dire senza informazioni riservate delle quali non dispongo. Osservando lo svolgimento dell’operazione, si può star certi di due cose: a) l’operazione è stata messa in cantiere parecchi mesi fa, probabilmente in coincidenza con il varo del Decreto Sicurezza voluto da Salvini, che, sia detto per inciso, secondo alcuni competenti presenta criticità e punti deboli che hanno fornito opportunità favorevoli all’attacco b) chi l’ha concepito e organizzato è professionalmente ben preparato e in grado di accedere a una vasta rete di contatti e finanziamenti in Italia e all’estero, specie in Germania. Siccome la preparazione professionale in questo campo si acquisisce nelle FFAA e nei servizi d’informazione, è verisimile che almeno il case officer dell’ operazione Carola si sia formato così, anche se magari non appartiene (più) ai quadri di un servizio d’informazione o di una forza armata.

L’ operazione Carola è il primo episodio operativo di una guerra ibrida di logoramento appena iniziata, che si propone i seguenti obiettivi:

  1. dimostrare che nonostante il vasto e maggioritario consenso del popolo italiano di cui gode, il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, eroe eponimo della linea anti-immigrazione e del “sovranismo” italiano ed europeo, è affatto impotente a realizzare i suoi obiettivi
  2. accentuare le divisioni interne al governo gialloverde: divisioni tra i gialli e i verdi, divisioni interne ai gialli e a verdi tra linee politiche e gruppi dirigenti con interessi e basi sociali diverse
  3. abbattere il morale e provocare una crisi di fiducia sia nella maggioranza di italiani che sostengono la linea Salvini, sia (soprattutto) nelle FFOO e nelle FFAA italiane, che in questa circostanza hanno dovuto constatare due fatti gravi in sé, ma per loro gravissimi: uno, che per le istituzioni italiane sono sacrificabili e disonorabili (Carola ha potuto beffare e mettere a rischio la vita di cinque finanzieri che eseguivano ordini superiori senza subirne la minima conseguenza, neppure la minima riprovazione istituzionale); due, che Matteo Salvini, il politico che si è proposto come principale difensore dell’interesse nazionale, per quanto si possano accreditare le sue intenzioni di tutta la sincerità e buona volontà del mondo, non soltanto non riesce a difenderli quando compiono il loro dovere,  ma neppure a garantirgli il rispetto e l’onore a cui un militare non rinuncia senza abdicare alla sua vocazione
  4. menomare le capacità di sfruttare le opportunità politiche che la crisi UE presenta all’attuale governo, compromettendone coesione politica e lucidità anche psicologica.
  5. rinsaldare la coesione del campo avverso a Salvini e ai “sovranisti” (opposizione politica, ceti dirigenti ad essa collegati dall’europeismo e dalla solidarietà culturale e d’interessi+ loro base sociale ed elettorale)
  6. promuovere le condizioni di fattibilità di una nuova alleanza politica maggioritaria, che può vedere associati sia una parte del Movimento 5*+PD, sia una Lega nella quale la “linea Salvini” di difesa dell’interesse nazionale sia battuta o conservata a solo scopo cosmetico/elettorale + partiti centristi già esistenti (Forza Italia) o in via di formazione (progetti Calenda & Renzi + altri eventuali), sia qualunque altra combinazione atta allo scopo di battere il “sovranismo”
  7. Prevenire la formazione di un governo italiano abbastanza stabile, coeso ed esperto da perseguire non solo a parole ma nei fatti l’interesse nazionale, cioè anzitutto il dettato geopolitico connaturato alla nostra posizione nel Mediterraneo, che ci spinge a influenzare il Nordafrica e le nazioni che si affacciano sull’Adriatico. Quest’ultimo è l’obiettivo strategico decisivo che fa convergere gli interessi permanenti della potenza britannica con quelli, mutevoli, di Germania, Francia e, in caso di ritorno alla Casa Bianca dei Democrats clintoniani o loro avatar, USA.

Ripeto: L’ operazione Carola è il primo episodio operativo di una guerra ibrida di logoramento appena iniziata. Appena iniziata vuol dire che sono già in preparazione, probabilmente avanzata, altri attacchi di crescente violenza e del medesimo tipo.

Le sconfitte operative diventano sconfitte strategiche ( = le battaglie perse diventano guerre perdute) solo quando dalle sconfitte non si impara e non si mettono in campo nuove e appropriate contromisure, culturali e operative.

La primissima cosa da fare è non cercare la soluzione dove non c’è. Una vecchia barzelletta illustra bene questo frequente errore. Eccola.

 

 

Le chiavi e il lampione

Notte fonda, buio pesto. Antonio rincasa. In fondo alla via, nel cerchio di luce di un lampione, vede l’amico Giovanni chino a terra. “Che stai facendo, Giovanni?” “Cerco le chiavi, Antonio.” “Le hai perse qui?” “No, le ho perse chissà dove. Ma qui almeno ci si vede.”

Morale: bisogna cercare le chiavi dove possono essere, anche se c’è buio, anche se si devono cercare a tastoni, brancolando nel buio. Cercarle dove c’è luce anche sapendo che non ci possono essere, perché lì ci vediamo, perché quelle sono le cose che l’esperienza ci ha abituati a vedere, non va bene: le chiavi non le troveremo mai.

Nel caso della Lega e in particolare di Salvini, la barzelletta delle chiavi e del lampione dice questo. Per la sua formazione di partito radicatissimo nel territorio, che esprime con coerenza e con forza il proprio interesse immediato e locale, la Lega è abituata a vedere anzitutto due cose: la politica locale e la politica elettorale (radicamento identitario+ mediazione degli interessi+ amministrazione). Alla politica estera non ha mai rivolto seriamente l’attenzione (non è illuminata dal cerchio di luce del lampione) perché se ne occupava il suo avversario principale, “Roma ladrona”, il governo nazionale; col quale la Lega ha sempre condotto una trattativa volta a strappare quanto più possibile per “la Padania”, ma che non ha mai pensato di soppiantare e surrogare: le chiacchiere secessioniste, i duecentomila bergamaschi con la pallottola in canna del simpatico fantasista Umberto Bossi sempre furono, appunto, chiacchiere e guasconate da bar Sport dopo il quarto Campari.

Grazie all’inesauribile immaginazione della Storia , alla prodigiosa, immortale fantasia degli italiani, e alla disfunzionalità arrogante e catastrofica del baraccone UE che ha spalancato autostrade politiche a venti corsie ai propri oppositori, i principi attivi che hanno dato origine alla Lega – radicamento identitario + difesa dell’interesse immediato – sono diventati il razzo vettore della Nuova Lega nazionale di Salvini. A Roma ladrona si è sostituita Bruxelles ladrona, al popolo padano (con tanto di corna celtiche e Dio Po) si è sostituito il popolo italiano (con tanto di tricolore, rosario e invocazione all’Immacolata Concezione); e al 3% si è sostituito il 38% dei consensi.

Questa straordinaria vittoria/ribaltone, per la quale il popolo italiano deve sul serio ringraziare l’Immacolata Concezione o altri avatar del numinoso a piacere, pone però alla Lega e al suo Capitano Matteo Salvini una serie di problemi per risolvere i quali affidarsi a Dio non basta (“aiutati che Dio t’aiuta”). I problemi immediati da risolvere sono i seguenti:

  1. Non c’è più Roma ladrona che si occupa della politica internazionale
  2. Mentre Roma ladrona era un avversario, con il quale si tratta anche con durezza ma che non vuole e non può, senza suicidarsi, mettere a rischio esistenziale “la Padania”, Bruxelles ladrona forse è (secondo me senza forse, ma lasciamo il dubbio che possa non esserlo) un nemico, un nemico che può benissimo mettere a rischio esistenziale, senza suicidarsi, l’intera Italia e la Padania in essa (Digressione: la linea “lombardo-veneta” interna alla Lega pensa che sia possibile e opportuno salvare la Padania all’interno della UE lasciando affondare il Meridione: un’idea che più sballata non si potrebbe, perché senza Meridione l’Italia conta come una Croazia con più soldi, ma che raccoglie consenso in ragione dell’abitudine leghista di vedere e interpretare anzitutto l’interesse immediato)
  • Dall’istante in cui si è proposta, con successo, come interprete dell’interesse nazionale italiano, la Lega del Capitano è entrata nel campionato di serie A delle potenze, un campionato nel quale l’Italia non può non giocare perché il Padreterno l’ha piazzata irrevocabilmente in un luogo decisivo per gli equilibri geopolitici mondiali: il Mediterraneo.
  1. Quando l’Italia non è riuscita a giocare con una propria squadra nel suddetto campionato di serie A delle potenze, ne è diventata il campo di gioco. Il gioco delle potenze è il gioco più violento che si conosca, in confronto la boxe professionistica è il tamburello. Diventarne il campo di gioco è molto pericoloso. Questo è un dato permanente dello storia.
  2. Dunque il Capitano d’Italia Matteo Salvini, volens nolens, deve imparare a giocare – anzi, a guidare il gioco della squadra Italia – nel campionato di serie A delle potenze. Non ci ha mai giocato, non ha neanche mai studiato i manuali di gioco: però alla guida della squadra c’è lui, e non un altro. Quindi tocca a lui. Un tempo si diceva che il principe riceve “la grazia di stato”, cioè l’aiuto divino commisurato ai compiti che il suo ruolo gli impone. La grazia certo non si merita, ma bisogna disporsi a riceverla dall’alto impegnandosi a fondo in questa valle di lacrime.

I provvedimenti immediati da prendere sono:

  1. Sono già in corso di avanzata preparazione ulteriori attacchi di guerra ibrida contro l’Italia. Riunire una task force di competenti in materia, che ci sono (nei servizi d’informazione, nelle FFAA, nelle FFOO) e mettere allo studio a) contromisure difensive b) contrattacchi simmetrici
  2. Riparare lo strappo alla fiducia delle FFOO e FFAA. Visitarne e lodarne reparti va bene ma non basta. E’ di importanza decisiva, per prevenire la destabilizzazione dello Stato, stringere un’alleanza strutturale con le divise. Nella Prima Repubblica, spina dorsale dello Stato erano l’IRI, i partiti e il Vaticano. Oggi l’IRI non c’è più, i partiti nemmeno e il Vaticano è un nemico politico. Senza spina dorsale effettuale uno Stato si destabilizza facilmente con azioni endogene ed esogene, ancor più se abilmente combinate. Spina dorsale dello Stato italiano odierno possono (secondo me devono) diventare FFAA e FFOO. Un metodo semplice, efficace, del tutto legale e pacifico è il seguente.
  3. Tutti gli ufficiali in servizio permanente effettivo dal grado di maggiore in su sono anche funzionari pubblici. Le FFAA ed FFOO italiane hanno troppi ufficiali, molti dei quali sanno che non supereranno mai il grado di tenente colonnello. Tutti gli ufficiali hanno esperienza amministrativa e di comando di uomini; i carabinieri sono laureati in legge, i finanzieri in economia, gli aviatori e i marinai in ingegneria rispettivamente aereonautica e navale, i fanti in scienze strategiche. La selezione psicofisica del personale è la più severa di tutta l’amministrazione pubblica, la sua correttezza salvo rare eccezioni esemplare. Si impieghi dunque il maggior numero possibile di ufficiali dei gradi intermedi delle FFOO e FFAA come pubblici funzionari nell’amministrazione civile, statale e non. Il primo effetto positivo di questa misura si vedrà nell’immediato calo delle ruberie e degli sprechi (non mi ci vedo un fornitore della ASL proporre tangenti a un ufficiale dei carabinieri). Ma l’effetto positivo più importante e durevole sarà l’introduzione di una esperienza del conflitto geopolitico, e di una fedeltà all’interesse nazionale, che per gli ufficiali delle FFOO e FFAA fanno parte dell’addestramento di base e della vocazione professionale.
  4. Prendere immediatamente l’iniziativa sul tema dell’immigrazione con una proposta nuova che prenda in contropiede la propaganda immigrazionista dell’opposizione e dimostri la sua impotenza e inefficacia (che faccia cioè la stessa identica cosa che ha tentato con successo, a parti rovesciate, l’ operazione Carola). Insistere ciecamente, sbattendo la testa contro il muro, sulla sola linea “porti chiusi” è sbagliato e autolesionista, perché a) si offre al nemico il destro di mostrare facilmente che non si riesce ad applicarla sul serio b) è effettivamente vero che la politica dei porti chiusi, per quanto benemerita e necessaria, non basta a fermare l’immigrazione di massa. Una iniziativa efficace, e già disponibile perché a uno stadio di elaborazione avanzata, è il progetto di collaborazione tra governo italiano e governo tunisino per la creazione di un mare artificiale nel deserto del Sahara, presentata qui: https://www.medinsahara.org/ . Per avviare questa iniziativa, che creerebbe la condizioni di un rovesciamento dell’impostazione culturale e politica del problema migratorio e tapperebbe la bocca all’opposizione costringendola a rincorrere Salvini sul suo terreno, basta finanziare con trecentomila euro le tre Università italiane che sponsorizzano il progetto e ne eseguirebbero lo studio di fattibilità. Sì, avete letto bene: non trecento milioni, trecentomila euro.

A lungo termine, naturalmente, c’è da proporsi compiti più importanti e difficili: anzitutto, la formazione di una cultura non solo politica che sia anche una cultura della potenza: che non vuol dire una cultura delle prepotenza e dell’aggressione, ma una cultura del realismo che integri la dimensione tragica della storia, alla quale nessuno, nemmeno l’Italia dell’Arcadia e della Commedia dell’Arte, si può sottrarre.

Una cultura del realismo che sappia, ad esempio, che essere ricchi – anche ricchi di voti – ed essere potenti sono due cose molto, molto diverse.

Ma di questo, se ci arriveremo vivi e interi, si potrà discutere in seguito.

That’all, folks.

[1] Qui alcuni riferimenti di base: https://en.wikipedia.org/wiki/Generations_of_warfare ; http://mil-embedded.com/guest-blogs/defining-fifth-generation-warfare/ . Le elaborazioni teoriche e operative che hanno condotto alla messa a punto della guerra ibrida si ritrovano qui, nei manuali della Albert Einstein Institution fondata da Gene Sharp, ispiratore delle rivoluzioni colorate in tutto il mondo. Suggerisco di leggere con attenzione i manuali, scaricabili gratuitamente dal sito: https://www.aeinstein.org/ . Da seguire sul nostro sito questa recentissima intervista al polemologo Piero Visani: http://italiaeilmondo.com/2019/07/07/guerra-ibrida-navi-corsare-a-sud-e-pokeristi-a-bruxelles-con-piero-visani/

[2] Da leggere con molta attenzione tutto questo articolo del Tenente Colonnello Stanton S. Coerr del Corpo dei Marines, apparso per la prima volta sulla Marine Corps Gazette: https://www.scribd.com/doc/50049562/Fifth-Generation-War-Warfare-versus-the-nonstate-by-LtCol-Stanton-S-Coerr-USMCR

 

UNA TRAVERSATA NELLA TERATOLOGIA GIURIDICA: SU ALCUNI PROFILI DELL’ORDINANZA DEL G.I.P. DI AGRIGENTO IN MERITO ALLA VICENDA DELLA NAVE SEA WATCH 3, di Emilio Ricciardi

UNA TRAVERSATA NELLA TERATOLOGIA GIURIDICA: SU ALCUNI PROFILI DELL’ORDINANZA DEL G.I.P. DI AGRIGENTO IN MERITO ALLA VICENDA DELLA NAVE SEA WATCH 3.

Nonostante il decerebramento mediatico che il richiamo all’imperativo categorico della protezione del debole emigrante straniero è purtroppo in grado di provocare, così inibendo sovente un fresco moto intellettuale che pure parrebbe, a dispetto della melassa umanitaristica intorpidente passioni e razionalità, affiorare ed anzi talvolta ambire risolutamente all’esistenza piena, il consistente e non di rado puntuto flusso di considerazioni critiche che ha investito l’ordinanza pronunciata dal g.i.p. del Tribunale di Agrigento il 2 luglio u.s. in merito alla vicenda che coinvolge la comandante dell’imbarcazione Sea Watch 3 per i fatti di Lampedusa del 29 giugno u.s., lascia supporre che ancora alberghi, quantomeno in un certo numero di menti italiche, un vivido gusto per l’autonomia e la lucidità del pensiero.

In effetti, la gran parte delle molteplici analisi giuridiche dell’ordinanza in questione che si è dispiegata sine ira et studio nei giorni immediatamente susseguenti alla sua emissione, mi pare abbia ben colto, quando più quando meno efficacemente, il bersaglio.

Certo, va pur detto che non si trattava di compito impervio, né tanto meno prometteva di esibire i tratti sublimi di una contesa con un’avversa forza maestosa e terribile. Al contrario, il provvedimento del 2 luglio u.s., e qui anticipo in epitome la più articolata valutazione che emergerà da questo scritto, è a mio avviso costrutto argomentativo claudicante e mal congegnato, che pare far strame d’ogni decente grammatica giuridica.

Insomma, lungi dal trovarcisi al cospetto di un grande errore, ché notoriamente questo solo aiuta ad accostare le grandi verità, si è piuttosto in presenza, più modestamente, di un atto giuridico malfermo, che pare rampollare esclusivamente dalla fretta e dalla concitazione indotte dal desiderio fremente ed impaziente di scagionare Carola Rackete dalle accuse contestatele, pure a costo di figliare sgorbi giuridici.

Fatto si è che, e una riflessione individuale e la lettura delle analisi di alcuni autorevoli giuristi, e mi riferisco in particolare a quelle di Pietro Dubolino (su La Verità del 4 luglio 2019) e Bruno Tinti (su Italia Oggi del 4 luglio 2019), parevano aver soddisfatto e saturato ampiamente la mia esigenza di formarmi un’opinione definitiva sullo spessore giuridico dell’ordinanza, oltreché, direi, su quei riflessi culturali e quelle pieghe della mentalità del magistrato estensore che il contenuto di essa pare far trapelare e sottintendere. Ero, in altri termini, ormai interessato solo a conoscere quale sorte la Procura di Agrigento volesse tentare di contribuire ad imprimere all’ordinanza: in ultima istanza, se la impugnasse o meno.

Tuttavia, poiché nel frattempo alcuni lettori del mio commento del 3 luglio u.s. all’intervento di Augusto Sinagra apparso su questo sito il 2 luglio 2019 ed intitolato “Io sto con Carola”, mi interpellavano (esplicitamente e no) affinché esprimessi un mio parere sulle deduzioni svolte in merito all’ordinanza da quei giuristi da me già prima citati nonché da altri osservatori (ossia l’avvocato romano Massimiliano Gabrielli, “Gog Magog” e Stefano Alì, autori di rispettivi interventi apparsi su internet tutti in data 3 luglio 2019), ho colto l’occasione fornitami da queste sollecitazioni per tornare ex professo e per iscritto nuovamente sulla questione, avendo così modo di svolgere più approfondite considerazioni.

E dunque: in linea generale, le deduzioni in parola mi trovano consenziente, seppure in misura diversa e variabile a seconda di quale sia il singolo scritto di volta in volta preso in esame.

Provo dunque ad indicare di seguito le valutazioni che ritengo più rilevanti, tra quelle disseminate nelle varie analisi del contenuto dell’ordinanza, su cui sono d’accordo ed in dissenso (o comunque che non mi convincono appieno), approfittando al contempo della circostanza per soffermarmi su un profilo fattuale della vicenda che, sebbene appaia nient’affatto trascurabile, non ha trovato traccia negli addebiti contestati (e trascritti alle pagg. 1-2 dell’ordinanza) dalla Procura di Agrigento a Rackete in sede di iscrizione di costei nel registro delle notizie di reato e nella richiesta di convalida dell’arresto nonché di applicazione della misura cautelare.

Beninteso, si tratta, com’è evidente da quanto appena riferito, di un profilo fattuale che esula dal contenuto del prodotto giurisdizionale in discussione, e dunque risulterebbe rivestire rilevanza periferica rispetto al tema principale affrontato nella presente nota.

Senonché, l’opportunità di una sua segnalazione mi pare giustificata dalla poziore esigenza di ipotizzare l’esistenza di una sorta di idem sentire, di un’omogeneità culturale di fondo tra g.i.p. di Agrigento e corrispondente ufficio di procura, ove si consideri che, affianco a quello che – come si potrà apprezzare nel corso di questo scritto – appare un preconcetto ideologico a favore dell’indagata che sembra intravedersi in filigrana nelle opzioni argomentative del provvedimento emesso dal primo, si pone, in significativa sintonia, un atteggiamento quantomeno lasco se non decisamente benevolo assunto dalla Procura di Agrigento nei confronti degli agenti umanitari in precedenti analoghi accadimenti.

In particolare, non mi pare possano essere obliate le bizzarre recenti scelte investigative operate dalla Procura di Agrigento in occasione del tentativo di approdo al porto di Lampedusa della Sea Watch 3 compiuto nello scorso mese di maggio u.s., allorquando, cioè, la stessa decise, in sequenza, di: ordinare lo sbarco degli emigranti presenti nella nave; disporre il solo sequestro probatorio della Sea Watch 3; non richiedere, com’è invece d’uopo in questi casi, tanto più trattandosi di corpo di reato, il sequestro preventivo di essa; disporre infine il successivo veloce dissequestro del natante, che, dal canto suo, commosso, ha ringraziato, tornando, come s’è visto, alle proprie usuali peregrinazioni.

Ciò detto, è giunto il momento di entrare finalmente in medias res.

1)           Anzitutto, non posso naturalmente che aderire al rilievo, espresso da pressoché tutti i commentatori in esame (a parte Bruno Tinti, che non prende proprio in considerazione il tema), secondo cui il richiamo del g.i.p. alla sentenza Corte Cost. 3 febbraio 2000, n. 35 – che esso crede di invocare a sostegno della propria tesi circa la pretesa non riconducibilità dei navigli della Guardia di finanza alla categoria delle navi militari, al fine di escludere in concreto la sussistenza del reato di cui all’art. 1100 cod. nav., il quale, al comma 1°, recita: “Il comandante o l’ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, e’ punito con la reclusione da tre a dieci anni” – risulta macroscopicamente erroneo, traducendosi in realtà in un risultato esattamente opposto a quello che il g.i.p. si prefiggeva di ottenere.

 

Difatti, nella suddetta sentenza si può leggere “che le unità navali in dotazione della Guardia di finanza” vanno considerate “<navi da guerra>”, tant’è che “nei loro confronti sono applicabili gli artt. 1099 e 1100 del codice della navigazione (rifiuto di obbedienza o resistenza e violenza a nave da guerra), richiamati dagli artt. 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409 (Norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi)”.

Insomma, il g.i.p. di Agrigento, con il fallace richiamo in parola, si dà, con inusitata vigoria, la proverbiale zappa sui piedi.

2)           A questo punto, proprio in relazione alla contestazione del reato ex art. 1100 cod. nav., desidero soffermarmi su quell’aspetto fattuale, cui dianzi si è fatto cenno, pretermesso dalla Procura di Agrigento nella formulazione degli addebiti contestati a Rackete.

In particolare, ritengo che tale reato sia stato integratoancor prima che dagli atti di resistenza e violenza commessi da Carola Rackete il 29 giugno u.s. contro il naviglio della Guardia di finanza in prossimità della banchina del porto di Lampedusa – dalla precedente violazione, perpetrata il 26 giugno u.s., del divieto di ingresso nelle acque territoriali imposto con il provvedimento adottato dal Ministro dell’interno (di concerto con il Ministro della difesa ed il Ministro delle infrastrutture ed i trasporti) in data 15 giugno 2019.

In particolare, così facendo, Rackete ha contrastato il controllo che sulla Sea Watch 3 stavano esercitando unità navali (non solo della Guardia di finanza ma anche) della Guardia Costiera, le quali, difatti, come riportato nella descrizione in fatto contenuta nella stessa ordinanza del g.i.p. (nella misura in cui trascrive e fa propria la ricostruzione degli accadimenti operata dalla Guardia di finanza nella comunicazione di notizia di reato trasmessa al pubblico ministero), monitoravano costantemente la Sea Watch 3 nel tentativo di impedire ad essa l’ingresso nelle nostre acque territoriali.

Ed infatti, va considerato, per un verso, come, posto che “Il Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera”, è “Corpo specialistico della Marina Militare” che esercita “funzioni di ordine militare nelle forme tipiche previste dalla legge” (https://www.guardiacostiera.gov.it/chi-siamo), ne consegue che le proprie unità navali sono da qualificarsi come navi da guerra, ai sensi dell’art. 239, comma 2°, d. lgs. n. 66 del 2010 (di emanazione del codice dell’ordinamento militare), il quale dispone: “per <nave da guerra> si intende una nave che appartiene alle forze armate di uno stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alle regole della disciplina militare”.

 

È dato indiscutibile, quindi, che quelle della Guardia Costiera sono navi da guerra.

Laddove trattasi di un – per così dire – coefficiente di indiscutibilità ancor più elevato di quello che connota l’affermazione circa la qualifica di navi da guerra delle unità navali della Guardia di finanza, proprio perché, per essere dimostrato, non abbisogna, a differenza di ciò che invece ha richiesto quest’ultima affermazione, del tramite rappresentato dal formante giurisprudenziale (costituito dalla citata sentenza n. 35/2000 della Corte Costituzionale e dall’unanime orientamento della Cassazione, secondo cui i navigli della Guardia di finanza vanno qualificati siccome navi da guerra), e ciò proprio perché vi provvede direttamente la legge (v. il citato art. 239, comma 2°, d. lgs. n. 66 del 2010).

Per l’altro verso, al fine di determinare il significato della nozione di “atti di resistenza” quale una delle due condotte (l’altra essendo quella di atti “di violenza”) integranti il reato ex art. 1100 cod. nav., sembra utile richiamare l’elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi attorno al reato di resistenza a un pubblico ufficiale ex art. 337 cod. pen.

Ora, secondo la Cassazione Integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale qualsiasi condotta attiva od omissiva che si traduca in un atteggiamento – anche implicito, purché percepibile ex adverso – volto ad impedire, intralciare o compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (dovendosi pertanto interpretare in senso lato il concetto di violenza cui ha riguardo la norma) (così, Cass., Sez. VI, 16 gennaio 2014, n. 5147).

In conclusione, quindi, resta confermato che Rackete, allorquando in data 26 giugno u.s. ha fatto ingresso, al comando della nave Sea Watch 3, nelle acque territoriali italiane, così compromettendo l’azione di controllo ed impedimento svolta in quel momento nei propri confronti – onde far rispettare il relativo divieto imposto con il provvedimento interministeriale del 15 giugno u.s. – (anche) da unità navali della Guardia Costiera, definibili navi da guerra ai sensi dell’art. 239, comma 2°, d. lgs. n. 66 del 2010, sembra aver commesso il reato di atti di resistenza contro una nave da guerra nazionale ex art. 1100 cod. nav.

Reato poi reiterato il 29 giugno u.s., in occasione dello sbarco al porto di Lampedusa.

Ebbene, entrambe queste condotte, quella del 26 e del 29 giugno u.s., sembrano realizzare gli estremi del reato continuato ex art. 81, comma 2°, cod. pen., in quanto integranti rispettivamente due azioni compiute in tempi diversi ed esecutive di un medesimo disegno criminoso (consistente nell’intento di condurre la Sea Watch 3, con il suo “carico” di emigranti, al porto di Lampedusa), con la conseguenza che esse potrebbero essere punite con la pena che dovesse essere comminata per il reato ex art. 1100 cod. nav., ossia la reclusione da tre a dieci anni, aumentata sino al triplo.

Non è dato comprendere, allora, il motivo per cui l’organo pubblico indagante abbia omesso di includere nell’ambito dei fatti penalmente rilevanti l’azione compiuta da Rackete il 26 giugno u.s.

3)           A proposito, poi, del richiamato provvedimento interministeriale del 15 giugno u.s., la cui violazione integra la commissione dell’illecito amministrativo introdotto dall’art. 2, comma 1°, d. l. n. 53/19 (c.d. decreto sicurezza bis), è appena il caso di segnalare, a chi sostiene (Stefano Alì) che con il menzionato c.d. decreto sicurezza bis, “Salvini ha depenalizzato, ma solo per le navi che trasportano clandestini, il <Rifiuto di obbedienza a nave da guerra>”, che questa asserzione risulta in netto contrasto con il dato normativo.

Difatti, il richiamato art. 2, comma 1°, d. l. n. 53/19 contiene un’espressa clausola di riserva, laddove – nel disporre che “In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, notificato al comandante e, ove possibile, all’armatore e al proprietario della nave, si applica a ciascuno di essi […] la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000” – fa esplicitamente “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”.

Il che comporta che la stessa azione, ossia la violazione del divieto di ingresso, può realizzare la commissione sia dell’illecito amministrativo in discorso sia di un reato, tra cui, ad es., quello previsto, appunto, all’art. 1100 cod. nav.

4)           Trovo utile l’evocazione, operata da altro osservatore (“Gog Magog”), del tema relativo alla definizione di “luogo sicuro” siccome fornita dalle “Linee Guida sul trattamento delle persone soccorse in mare” [adottate dall’Organizzazione marittima Internazionale con la risoluzione msc.167(78) in data 20 maggio 2004, a corredo delle modifiche apportate sempre nel 2004 alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS) ed alla Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR)].

 

Se non altro perché tale tema mi offre l’abbrivio per far notare come il g.i.p. di Agrigento, nell’affermare che “la convenzione di Amburgo del 1979 prevede che gli sbarchi dei naufraghi soccorsi in mare debbano avvenire nel <porto sicuro> più vicino al luogo di soccorso” (v. pag. 9), traduce erroneamente la parola “place, a sua volta parte della locuzione “place of safety” adoperata nella predetta convenzione (v. punto 1.3., § 2, dell’annesso, come modificato nel 1998), con “porto”, invece che con il corretto lemma luogo”.

 

Difatti, nel sistema della Convenzione SAR del 1979, come confermato dalle citate Linee Guida, il luogo sicuro non deve essere costituito necessariamente da un porto, ma anche da una nave, sicché il più generale termine luogo risulta più rispondente allo scopo voluto, sul punto, dalla Convenzione stessa.

 

Sicché, vien fatto di pensare che l’autrice dell’ordinanza in discorso si sia limitata a recepire acriticamente la vulgata giornalistica, che appunto tende ad identificare il luogo con il porto (sicuro), senza con ciò, evidentemente, di premurarsi di andare a compulsare direttamente gli atti normativi: il che per un magistrato si converrà non rappresenti propriamente un attestato di impeccabile perizia professionale.

 

5)           Ciò detto, dissento, tuttavia, dall’applicazione che nel caso concreto il medesimo osservatore fa della nozione normativa di luogo sicuro. In particolare, egli ritiene che la Sea Watch 3, in quanto è un’unità di soccorso, “è per definizione un <luogo sicuro>, in base al par. 6.14 delle Linee Guida relative alle Convenzioni SAR e SOLAS”. Con la conseguenza che il (presunto) soccorso da essa operato si sarebbe concluso con il recupero e l’ingresso degli emigranti a bordo dell’imbarcazione, il che vuol dire molto prima dell’ingresso della Sea Watch 3 nelle acque territoriali italiane.

5.1.)       Senonché, in primo luogo, a me pare che le ridette Linee Guida, al punto 6.13, mostrino una marcata diffidenza in merito all’idoneità in generale della nave soccorritrice ad assolvere alla funzione di luogo sicuro: “Una nave che ha prestato assistenza non dovrebbe essere considerata un luogo di sicurezza per il solo fatto che i sopravvissuti non siano più in pericolo immediato una volta a bordo della nave. Una tale nave non può disporre di strutture e attrezzature adeguate per sostenere altre persone a bordo senza mettere in pericolo la propria sicurezza o curare adeguatamente i sopravvissuti. Anche se la nave è capace di ospitare i sopravvissuti in modo sicuro e può servire come luogo temporaneo di sicurezza, essa dovrebbe essere sollevata da questa responsabilità non appena sia possibile prendere accordi alternativi”.

Senza contare che far dipendere da una valutazione in merito a quale sia l’effettiva capacità tecnica della nave soccorritrice di curare adeguatamente coloro che sono stati recuperati in mare, il giudizio circa (la conclusione o meno delle operazioni di soccorso e quindi, in ultima analisi,) l’esaurimento o meno della condotta integrante adempimento del dovere di salvataggio da parte del comandante della nave soccorritrice (ovviamente per chi voglia aderire al teorema del g.i.p. di Agrigento), far dipendere, dicevo, il predetto giudizio da quella valutazione, comporterebbe a mio avviso il grave inconveniente di rendere il giudizio stesso frutto esclusivo di una discrezionalità davvero troppo ampia, qual è, appunto, quella insita nell’indicata valutazione.

5.2.)       In secondo luogo, e soprattutto, con il sostenere che nel caso concreto il luogo sicuro dove si è completato il salvataggio sarebbe costituito dalla stessa Sea Watch 3, si presuppone ed accetta implicitamente l’angolo visuale adottato dal g.i.p. di Agrigento: vale a dire quello per cui è rilevante stabilire, ai fini della valutazione circa la sussistenza dell’esimente dell’adempimento del dovere, quale sia, appunto, il luogo sicuro, poiché soltanto con la conduzione degli emigranti in questo luogo può ritenersi perfezionato e dunque esaurito tale adempimento.

Cosicché, l’unica differenza tra l’opinione del g.i.p. di Agrigento e quella dell’osservatore in parola consiste in ciò che, mentre il primo ritiene che luogo sicuro sia il porto di Lampedusa, l’altro reputa che sia la stessa Sea Watch 3. Ma entrambi, ripeto, assumono che il c.d. dovere di salvataggio posto in capo al comandante della nave esiga che quest’ultimo conduca autonomamente i salvati in un luogo (per il g.i.p. di Agrigento, in realtà, come visto, un porto) da egli ritenuto sicuro.

Senonché, e ben più radicalmente, è proprio una siffatta prospettiva a risultare a mio avviso totalmente ingiustificata, in quanto frutto di un marchiano fraintendimento del dato normativo contenuto nella Convenzione SAR, anche per come quest’ultima va interpretata, pure alla luce delle più volte citate Linee Guida.

Il punto qui in discussione è davvero dirimente.

Difatti, in base all’assetto normativo congegnato dalla Convenzione SAR, ritengo risulti chiaramente come il c.d. dovere di salvataggio posto in capo al comandante di una nave soccorritrice si esaurisca in realtà nel dovere di recuperare e poi assistere nella propria nave i naufraghi, senza, quindi, includere anche un fantomatico autonomo dovere di conduzione di quest’ultimi in un luogo da egli reputato sicuro, giacché sono soltanto gli Stati preposti alla zona SAR in cui è originata la situazione di pericolo e quindi sorto il dovere di salvataggio, che hanno il diritto-dovere, tramite una struttura denominata Centro di coordinamento di salvataggio (cui compete appunto l’esecuzione del servizio di ricerca e di salvataggio), di individuare il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi, impartendo così le relative istruzioni al comandante della nave soccorritrice, il quale, a sua volta, ha l’obbligo di ottemperarvi, senza fruire di alcuna discrezionalità al riguardo.

Depongono, a favore di questa impostazione, non solo l’impianto complessivo della Convenzione SAR, ma anche, ed ancor più inequivocabilmente, le ripetute relative Linee Guida, allorché si preoccupano reiteratamente di rimarcare come, una volta che il comandante della nave accorsa nell’area di soccorso abbia effettuato il recupero (o prestato l’assistenza, senza usare, comunque, il termine salvataggio, giacché nella terminologia della Convenzione SAR esso designa quel più ampio ventaglio di operazioni che va dal recupero sino al trasporto in un luogo sicuro) dei naufraghi, le autorità statuali, e solo queste, debbono adoperarsi per compiere tutto il possibile per liberare il comandante stesso da ogni ulteriore aggravio ed onere inerenti l’assistenza dei recuperati in mare.

5.2.1.)   A dimostrazione dell’esattezza di quanto appena asserito, sembra sufficiente riportare le seguenti enunciazioni tratte dalle Linee Guida:

–      “L’obbligo del comandante [della nave soccorritrice] di fornire assistenza dovrebbe essere complementare al corrispondente obbligo dei governi membri dell’OMI di coordinare e cooperare per liberare il comandante dalla responsabilità di fornire assistenza ai sopravvissuti e di consegnare le persone recuperate nel mare in un luogo sicuro. Queste linee guida hanno lo scopo di aiutare meglio governi e comandanti [delle navi soccorritrici] a comprendere i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale e di fornire utili orientamenti in merito all’esecuzione di questi obblighi” (punto 1.2);

–      “In particolare, il paragrafo 1-1 del regolamento SOLAS V / 33 ed il paragrafo 3.1.9 dell’allegato alla Convenzione SAR, come modificata, impongono ai Governi un obbligo di coordinamento e cooperazione per garantire che i comandanti delle navi che forniscono assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano liberati dai loro obblighi con un’ulteriore minima deviazione dall’itinerario di viaggio previsto dalla nave” (punto 2.4);

–      “La responsabilità di fornire un luogo di sicurezza o di garantire che un luogo di sicurezza sia fornito, ricade sul governo responsabile per la regione SAR in cui i sopravvissuti furono recuperati” (punto 2.5, ultimo periodo).

Noto, incidentalmente, che anche soltanto quest’ultima proposizione appare di per sé risolutiva di ogni ipotetico dubbio in ordine alla ripartizione degli obblighi, in caso di pericolo in mare per la vita umana, posti dal diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) in capo rispettivamente al comandante della nave soccorritrice ed agli Stati.

Tuttavia, mi sia consentito di riportare, ad abudantiam, la seguente duplice proposizione, contenuta nell’”Appendice” delle Linee Guida destinata a raccogliere “Alcuni commenti sulla legge internazionale rilevante” (e quindi contenuta in una parte delle Linee Guida da considerarsi non precettiva):

–      “In quanto principio generale del diritto internazionale, la sovranità di uno Stato consente a tale Stato di controllare i suoi confini, escludere gli stranieri dal suo territorio e prescrivere le leggi che disciplinano l’ingresso di stranieri nel suo territorio. La sovranità di uno stato si estende oltre il suo territorio terrestre e interno acque al mare territoriale, fatte salve le disposizioni dell’UNCLOS e altre norme internazionali legge. Inoltre, come previsto dall’articolo 21 dell’UNCLOS, uno Stato costiero può adottare leggi e regolamenti relativi al passaggio innocente nel mare territoriale per prevenire, tra le altre cose, la violazione delle leggi sull’immigrazione di tale Stato costiero” (punto 5);

–      “Ai sensi dell’articolo 18 dell’UNCLOS, una nave che esercita un passaggio innocente può fermarsi o ancorare nel mare territoriale dello Stato costiero <soltanto se questi costituiscono eventi ordinari di navigazione o sono resi necessari da forza maggiore o da condizioni di difficoltà, oppure sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà>. UNCLOS non si pone specificamente il quesito se esiste un diritto di entrare in un porto in caso di difficoltà, anche se in base al diritto consuetudinario internazionale, potrebbe esserci un diritto universale, anche se non assoluto, per una nave in difficoltà ad entrare in un porto quando esiste una chiara minaccia per la sicurezza delle persone a bordo della nave” (punto 6).

Come si vede, dunque, secondo l’appendice delle Linee Guida, l’art. 18 della Convenzione UNCLOS non si pone minimamente il problema del “se esiste un diritto di entrare in un porto in caso di difficoltà”. Ed a maggior ragione, quindi, aggiungo, nemmeno un dovere.

Eppure, è quello stesso art. 18 che, ad avviso del g.i.p. di Agrigento, sancirebbe (unitamente all’art. 10-ter d. lgs. 286/98, T.U. sull’immigrazione) il “dovere di soccorso, il quale – si badi bene – non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro” (v. pag. 12 dell’ordinanza).

5.2.2.)   Ed allora, gentilissima dottoressa Alessandra Vella, la prendo in parola e voglio davvero “badare bene” a ciò che afferma, sicché le domando rispettosamente: mi può cortesemente indicare in quale punto l’art. 18, comma 2°, della Convenzione UNCLOS – a mente del quale, lo riporto integralmente, “Il passaggio deve essere continuo e rapido. Il passaggio consente tuttavia la fermata e l’ancoraggio, ma soltanto se questi costituiscono eventi ordinari di navigazione o sono resi necessari da forza maggiore o da condizioni di difficoltà, oppure sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà” – prescriverebbe al comandante della nave che ha recuperato i naufraghi il dovere di operare la loro “conduzione fino al più volte citato porto sicuro”?

Perché, in primo luogo, la norma “consente” soltanto “la fermata e l’ancoraggio nelle acque territoriali”, non già la “conduzioneal porto. Ed in secondo luogo, la norma usa il verbo “consente”, che designa una facoltà, al limite un diritto, ed insomma un potere, ma non già, di nuovo, un dovere.

5.2.3.)   Analogamente, mi permetto di porre implicitamente simile quesito in relazione all’art. 10-ter, comma 1°, d. lgs. 286/98 (ossia, come visto, l’altra norma invocata nell’ordinanza per fondare la propria tesi), il quale, nel passaggio che qui viene in rilievo, così recita: “Lo straniero […] giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui […]”.

Ebbene, anche qui, non ravviso nel dettato normativo alcuna menzione di un fantomatico dovere del comandante della nave soccorritrice di condurre i naufraghi nel porto più sicuro.

Piuttosto, constato che la norma si occupa della prima collocazione dello straniero una volta e soltanto dopo essere “giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare: quindi, la norma presuppone, con accecante chiarezza, che lo straniero salvato in mare abbia già messo piede nel territorio nazionale.

Mentre nel caso di Rackete si trattava di stabilire proprio se fosse lecita la pretesa di costei di – per così dire – far mettere piede agli emigranti nel territorio nazionale, ossia farli sbarcare nel porto di Lampedusa.

Mi fermerei qui, ringraziando il paziente lettore che fosse giunto fino al termine di questo non breve scritto.

Che però non posso non concludere ribadendo come gran parte delle analisi giuridiche dell’ordinanza del 2 luglio u.s. svolte in questi giorni, abbiano fornito inoppugnabili argomenti, più o meno doviziosamente svolti, circa la sua assoluta erroneità.

Anzi, per essere meno asettico: ritengo che tale ordinanza rappresenti un esempio e modello di quello che un provvedimento giurisdizionale (ma direi, in generale, un qualsiasi scritto giuridico che si prefigga di perorare una tesi) non può e non deve mai essere. Insomma, il naufragio del rigore logico e della necessità metodologica dell’aderenza al dettato normativo, imperativo inderogabile, quest’ultima, per chi si accinga ad intraprendere qualsiasi opera di interpretazione delle disposizioni normative al fine della loro applicazione alla fattispecie concreta.

Ecco perché credo sia ragionevole attendersi dalla Procura di Agrigento il promovimento di tutte le iniziative previste dalla legge allo scopo di ottenere l’eliminazione dell’ordinanza in discorso dal mondo del diritto: vale a dire, l’appello cautelare avverso il rigetto della richiesta di applicazione di misure cautelari, il cui termine dovrebbe scadere venerdì 12 luglio p.v., ed il ricorso in Cassazione avverso il diniego di convalida dell’arresto, il cui termine dovrebbe scadere mercoledì 17 luglio p.v.

Senza trascurare, comunque, onde non nutrire ingiustificate aspettative, che, in caso di mancanza dell’uno e/o dell’altro di tali rimedi impugnatori avverso l’ordinanza, non sussisterebbero in alcun modo gli estremi per l’avocazione delle indagini preliminari a carico di Rackete da parte del Procuratore generale di Palermo nei confronti della Procura di Agrigento.

https://www.penalecontemporaneo.it/upload/9218-gip-agrigento-2-luglio-2019-sea-watch.pdf

GUERRA IBRIDA: NAVI CORSARE A SUD E POKERISTI A BRUXELLES, con Piero Visani

Detto fatto! Il colpo di cannone è partito dal Tribunale di Agrigento. Il segnale è stato raccolto immediatamente e con esso l’assalto ai porti. La meta però è Roma. Ad una forma di guerra ibrida riesumata dalle guerre corsare si son aggiunte le scaramucce a Bruxelles. I passi felpati non hanno però impedito di entrare ai soliti noti con i piedi nel piatto. Le nomine a Bruxelles lasciano presagire poco di buono. Eppure in quella sede le contraddizioni non mancano; come pure la complessità dello scacchiere geopolitico, con attori sempre più numerosi a tenere il banco, offrirebbe margini di iniziativa. Ci mancano una squadra sufficientemente coesa e qualche giocatore audace e di classe. Due partite apparentemente distanti tra loro. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

NAVI CORSARE A LAMPEDUSA, con Augusto Sinagra

Il dispositivo con il quale il Giudice Alessandra Vella ha sollevato da ogni responsabilità penale il Capitano Carola Rackete e l’equipaggio della Sea Watch 3 ha aperto una voragine nella diga, già di per se precaria, posta dal Governo a contenimento dei flussi migratori via mare. Un provvedimento costruito, a detta di numerosi giuristi, su argomentazioni mal costruite e peggio argomentate, ma dalle implicazioni pesantissime. Una deligittimazione del potere esecutivo; un ingresso a gamba tesa dell’arbitro nel campo di gioco politico; un invito alle varie ONG, appollaiate intorno al teatro degli sbarchi, a forzare la mano all’esecutivo. Una figura terza la quale fa fatica a nascondere la propria attrazione fatale verso una delle parti. 

Un confronto politico che si sta trasformando in conflitto istituzionale per il momento tra esecutivo e organi giudiziari, ma che inizia ad estendersi agli organi di polizia e di sicurezza. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

IO STO CON CAROLA, di Augusto Sinagra

Tutto sommato anche Salvini sta con Carola; ma non può confessarlo_Giuseppe Germinario

IO STO CON CAROLA

Sto con la trucibalda tedesca per molte ragioni delle quali indico solo alcune.
1. Ha fatto capire che il problema non è di questa fine calcolatrice, nipote di un Comandante nazista, figlia di uno che si occupa di armi e infine priva, a quanto pare, di licenza nautica.
2. Il problema è capire chi realmente comandava la nave.
3. La ragazzotta tedesca, bianca e ricca, al di là dei delitti commessi onde è giustamente detenuta, ha fatto capire che era teleguidata da traditori interni e nemici esterni che vanno individuati nelle varie ONG.
4. Ha fatto capire che è in corso, con la scusa dei poveri africani, una guerra non dichiarata contro l’Italia e promossa da chi vuole destabilizzarla.
5. Ha reso chiaro che dei clandestini africani che non fuggono da niente e che non sono mai stati naufraghi ma merce consegnata dagli scafisti alle varie Carole, con destinazione predefinita altrimenti la Carola di turno non riceve la sua mercede, non gliene frega niente a nessuno.
6. Ha fatto capire quale feccia sia la cosiddetta sinistra italiana che conferma e rinnova il suo tradimento in danno dei lavoratori e dei poveri strumentalizzando una vicenda che nulla ha di umano ma molto ha di criminale, solo per colpire il Governo e in particolare il Ministro Matteo Salvini.
7. Carola ha il merito di avere reso evidente quanti imbecilli e disonesti allignino nel Popolo italiano.
8. Ha mostrato come la Germania mai cambierà il suo spirito nazista, criminale e sopraffattorio.
9. A lei va il merito della lettera inviata dalla Segretario di Stato olandese per le migrazioni Ankie Groekers-Knol al Ministro Matteo Salvini con la quale riconosce che questi ha ragione, che la beneamata Carola ha commesso delitti gravissimi, che la Sea Watch agisce in complicità con gli scafisti, che considera le sue azioni illegali e ne prende le distanze.
10. Sempre per merito della pasionaria bianca, ricca e tedesca, il figlio di Bernardo Mattarella e il Fico tacciono; la velletrana Trenta si è rintanata in un buco e ha aperto bocca solo ad arresto avvenuto della Carola e il giovine Giuseppe Conte per fortuna tace anche lui.
11. Sempre per merito della Carola, in ossequio alla regola “scandalo va e scandalo viene”, è calato il silenzio sulle porcherie che hanno coinvolto il CSM, la ANM, i “Palamara boys”, ecc.
12. Per merito sempre di Carola molti hanno avuto occasione di dare motivo alla propria esistenza. Tra questi, purtroppo, alcuni componenti del Senato Accademico della mia Università di Palermo, promotori di una Nota di sostegno alla scafista bianca, ricca e tedesca. Qualcuno mi dica cosa cavolo c’entra nella questione una qualsiasi Università che della questione non sa niente.
13. Tra quelli che per fortuna tacciono vi è anche quel tale Luigi Patronaggio di Agrigento: forse avrà capito cos’è il reato di sequestro di persona e forse avrà capito che questo reato non fu commesso da Salvini ma lo ha commesso la Carola della quale, poi, non si ha alcun riscontro presso le Università che a lei avrebbero rilasciato titoli prestigiosi, e né si ha riscontro di sue precedenti avventure navigatorie.
Per questi e altri motivi dichiaro fermamente che “sto con Carola”.
AUGUSTO SINAGRA

“Se ci sei, spara un colpo!” (almeno uno…), di Piero Visani

“Se ci sei, spara un colpo!” (almeno uno…)

https://derteufel50.blogspot.com/2019/06/se-ci-sei-spara-un-colpo-almeno-uno.html?spref=fb&fbclid=IwAR1AYkWGkpsDKKuzvUmo3iqR3-On_UMRuPib89i9HwZQR4KdGwSPycWyDdw

     Quando un avvocato milanese “dolce come il miele” cominciò ad occuparsi di una determinata vicenda, venne adeguatamente avvertito che non si trattava tanto di occuparsi di una sacra “Sìndone”, quanto di una ancora più sacra “Sindòne” e che prestare soverchia attenzione a tale “sacro lino” avrebbe potuto procurare a lui un “sudario”.
L’avvocato “dolce come il miele” non si curò degli avvertimenti, proseguì imperterrito per la sua strada e – poiché, come aveva notato un noto politico vaticano dell’epoca, un po’ “se l’era cercata” – alla fine, anzi abbastanza rapidamente, “la trovò” e venne abbattuto a pistolettate sotto casa, nello scalpore generale, come sempre spentosi con la stessa rapidità con cui si era acceso, fino a che il detentore della sacra “Sindòne” non decise di leggere (forse inavvertitamente…) il libro di Piero Chiara “Venga a prendere un caffè da noi”…
     
Scrivo questo per notare come la capacità di comminare pene anche capitali da parte del primo potere italico (innominabile ma fin troppo noto) sia decisamente superiore a quella del potere statale, come possono testimoniare il generale Dalla Chiesa, i giudici Falcone e Borsellino, e una lunga catena di “condannati ed eseguiti” talmente lunga da includere anche regolamenti di conti interni (capite a me…).
Il potere statale, al di là di casi come quelli di Cucchi, Uva e non pochi altri, a parte ovviamente i suicidi per fisco (ma quelle sono pene capitali indotte…), non pare altrettanto determinato nelle sue sanzioni e si fa spaventare persino da una capitana Rakete (che in tedesco vuol dire “razzo, missile”). Spaventato al punto da non riuscire nemmeno a sparare una raffica di avvertimento – ovviamente puntata contro nulla e nessuno – così da poter autorizzare a far dire, dal mondo esterno: “Se ci sei, spara un colpo!”. Ma non c’è, ovviamente…

Ma dove vanno i marinai?

Era questo il titolo della canzone forse più gradita al pubblico dell’album “Banana Republic” di Lucio Dalla e Francesco De Gregori.
Per restare dentro (o fuori…?) di metafora, ci si potrebbe chiedere, in qualsiasi altro Paese al mondo che non sia Cialtronia, che cosa succederebbe ad una nave che tentasse di forzare l’ingresso in un porto straniero. Per non citarne che tre, direi Stati Uniti, Federazione Russa, Repubblica Popolare Cinese.
Da noi non è successo nulla di tutto questo, neppure una salva di avvertimento, e anzi una sottoscrizione popolare per fare un po’ di crowdfunding in favore di una ricca ONG straniera.
Cialtronia conferma di essere quello che è da sempre, una malriuscita espressione geografica, dove si parla molto e si combina poco o nulla, e dove l’attività più praticata è lo scaricabarile. Sono cose che ci piacciono molto, sono consustanziali al carattere nazionale. Nessuno di noi ama ammettere che la politica è “sangue e merda”: il primo ci fa paura, però della seconda siamo talmente ricchi da risultare forse tra i primi esportatori al mondo. Quanto alla cialtroneria, lì siamo leader incontrastati e inarrivabili.
                      Piero Visani

SE QUESTO É ANCORA UNO STATO?!, di Augusto Sinagra

SE QUESTO É ANCORA UNO STATO?!

La “comandante” della Sea Watch III, la ormai famosa pasionaria Carola Rackete, in commissione di una serie interminabile di reati e da ultimo l’ingresso illegale in acque territoriali italiane e, prima, di complicità con scafisti e trafficanti di esseri umani, fingendo di salvare naufraghi (i filmati ne sono prova), oltre che di sequestro di persona e tratta di esseri umani e violazione delle leggi sull’immigrazione (delitti che prevedono l’arresto suo e dell’equipaggio), pretende di scaricare in Italia e solo in Italia la sua mercanzia umana facendosi beffe del Governo italiano e delle sue leggi.

E ciò a scopo di suo lucro personale (diversamente non la pagano) e a illegittimo scopo della ONG di riferimento.

Premesso che uno dei principali “gestori” della ONG in questione è quel tale Gregor Gysi, già agente della polizia segreta della DDR (la famigerata STASI: sicuramente Rebecca Merkel se lo ricorda) e la medesima ONG fa capo a ignobili speculatori di ogni genere e si colloca nel più vasto contesto di una preordinata destabilizzazione dello Stato italiano oltre che specificamente del Governo in carica, se lo Stato italiano esiste ancora e non si è trasformato in un “cabaret”, esso attraverso i suoi organi deve:

1. trarre in arresto l’equipaggio della Sea Watch e per prima la sua “comandante”.

2. Sequestrare la nave come corpo di reato per poi procedere alla confisca e quindi alla demolizione (Patronaggio permettendo ma sicuramente l’aria è cambiata anche per lui).

3. Procedere all’immediato fermo di tutti i clandestini con immediato trasbordo su unità della Marina Militare italiana, con adeguata scorta armata, riportandoli al punto della loro partenza volontaria e cioè in Libia anche perché pure in Libia funzionano bene i costosissimi cellulari di ultima generazione di cui sono in possesso.

4. Richiamare immediatamente l’Ambasciatore italiano all’Aja e dichiarare l’Ambasciatore olandese a Roma “persona non grata” dandogli 48 ore di tempo per lasciare il territorio nazionale.

Il Ministro dell’Interno Matteo Salvini si sta giocando tutta la sua credibilità e il vasto consenso elettorale che ha avuto. Lui sa bene che i voti vanno e vengono. Ne tiri le conseguenze anche a costo di provocare una crisi parlamentare di governo.

Il figlio di Bernardo Mattarella non si permetta di aprire bocca. Non ha più autorità istituzionale né politica e né morale. Lui è finito.

Il pampero argentino si taccia e la finisca di frantumare le balle al Popolo italiano e lo si avverta che le intese concordatarie possono essere anche denunciate così i suoi “dipendenti” e cioè i vescovi delle Diocesi italiane che ammorbano l’aria, e fanno perdere la fede ai credenti. La finiscano di interferire negli affari interni dello Stato fino al punto di istigare alla disapplicazione delle leggi.

Alla denuncia del Concordato non fa ostacolo l’art. 7 della Costituzione, come ben sanno i miei Colleghi costituzionalisti. E se è necessario si modifichi l’art. 7 della Costituzione. Qualcuno avverta il pampero argentino che in Italia non c’è più la “religione di Stato”.

A parte il fatto che è proprio il pampero argentino che nega la religione cattolica, offendendo Cristo, i Santi, gli Apostoli e falsificando il Vangelo e le Scritture. Lui non è solo scismatico o eretico, lui è un apostata.

Qui sotto, invece, le dichiarazioni dell’Ammiraglio Nicola De Felice, fino al 2018 comandante di Mariscilia

“Caso Sea Watch: arrestare la Comandante e convocare gli ambasciatori di Paesi Bassi e Germania*

Le convenzioni internazionali sul diritto del Mare delle Nazioni Unite, Il Codice Italiano della Navigazione e le direttive nazionali sulla Sicurezza richiedono delle azioni politiche e giuridiche inoppugnabili: le infrazioni commesse dal Comandante della nave Sea Watch sono tali da richiederne l’immediato arresto se non addirittura l’estradizione in Libia qualora richiesto visto che le prime infrazioni sono state commesse in acque di competenza libica. Inoltre, il passaggio illegale dei migranti è stato commesso in territorio olandese e – in ottemperanza all’articolo 13 del Trattato di Dublino dell’UE – l’Olanda deve farsi carico dei migranti saliti a bordo sulla Nave battente bandiera olandese. La Germania è la nazione della ONG responsabile del misfatto. Ai sensi delle più elementari regole diplomatiche internazionali, gli ambasciatori di tali Stati devono essere immediatamente convocati per giustificare l’inerzia dei rispettivi Governi in tali misfatti. La nave va sequestrata, vanno applicate le sanzioni amministrative previste ivi comprese le spese sostenute dallo Stato per la gestione del caso, come previsto dall’art 84 del codice di navigazione. Tutto ciò va fatto in tempo reale onde evitare che il misfatto sua emulato da altri incoscienti. Ne va della dignità di uno Stato sovrano come il nostro”

 

Conflitto politico e conflitti di poteri. Ne parla il professor Augusto Sinagra

Si torna ancora una volta sulla vicenda della gestione dei flussi di immigrati clandestini. Con l’insediamento di Matteo Salvini al Ministero degli Interni si è cominciato, nel caso Diciotti, con una contestazione della Procura di Agrigento e un tentativo di mettere sotto inchiesta il Ministro. Si è proseguito, nel caso di sbarchi successivi, con uno stillicidio di provocazioni da parte soprattutto del Ministro della Difesa e di una componente del M5S favorevoli alla raccolta di profughi addirittura in acque libiche o di altra nazionalità. L’azione giudiziaria verso i “soccorritori compiacenti” superstiti si è dissolta intanto in una bolla di sapone. Il terzo atto ha conosciuto un vero e proprio atto di imperio di un magistrato in opposizione alla volontà politica di un Ministro. Ne discutiamo con il professor Augusto Sinagra_Giuseppe Germinario

DALLA TRAGEDIA ALLA FARSA, di Augusto Sinagra

DALLA TRAGEDIA ALLA FARSA
Il titolo di questo mio scritto riproduce alla rovescia il titolo di un mio libro di prossima pubblicazione che riproduce i miei post su FB: “Dalla farsa alla tragedia”.
La tentata strage di 51 bambini a San Donato Milanese sventato dal magnifico intervento dei nostri Carabinieri, è stato assunto dalla stampa e dalla televisione in larga parte moralmente fradicia e professionalmente ignobile, come pretesto propagandistico per riproporre uno ius soli (che peraltro già esiste in Italia) e per promuovere ancora “porti aperti” e immigrazione incontrollata di africani che, deliberatamente senza documenti, sono da qualificare come clandestini.
Non si parla più del pericolo corso da quei ragazzini, non si parla più del criminale senegalese che pur aveva avuto dall’Italia casa, famiglia, lavoro e cittadinanza, non si parla più dei Carabinieri e meno che mai dei due ragazzini italiani cui maggiormente va dato il merito della salvezza di tutti, offrendosi generosamente uno di essi come “ostaggio” nelle mani del criminale senegalese. Si chiama Niccolò ma di lui non si parla per il razzismo della stampa e della sinistra contro gli italiani e perché non funzionale a ius soli e immigrazione tanto illegale quanto illimitata.
Dunque, la tragedia si è trasformata in farsa. L’atto conclusivo sarebbe la concessione della cittadinanza italiana ai due ragazzini, uno egiziano e l’altro marocchino. È stato lodevole il loro comportamento che però avrebbe dovuto essere riconosciuto in qualsiasi altro modo, per esempio la gratuità di tutto il loro corso di studi, Università compresa. O in qualsiasi altro modo.
Ma la cittadinanza non è l’equivalente di una medaglia, come ha detto il “primo” Salvini; il “secondo” Salvini sembra aver cambiato idea.
La legge del 1992 consente l’attribuzione della cittadinanza italiana a chi abbia onorato la Repubblica con meriti speciali. Al di là della prontezza e del coraggio dei quattro ragazzini non mi pare che quel che i due non cittadini, ancorchè nati in Italia e con le famiglie in Italia da tempo, integrino con il loro comportamento la fattispecie in questione.
La decisione del Ministro Matteo Salvini, se così sarà, significa che ad ogni atto di coraggio, vero o ritenuto tale, dovrà corrispondere il conferimento della cittadinanza italiana. Non mi pare una posizione condivisibile.
Peraltro, mi domando perché il 13 maggio 2015 non fu data la cittadinanza italiana al bengalese Sobuy Khalifa che, mettendo a rischio la sua vita e facendosi scoprire come clandestino in Italia con rischio di espulsione, non esitò a buttarsi nel Tevere (non sapendo neppure nuotare bene) salvando la vita ad una signora israeliana.
I problemi sono altri e contrari: togliere la cittadinanza italiana agli ex stranieri autori di delitti di sangue o di atti di terrorismo.
E inoltre, precludere l’acquisizione della cittadinanza italiana a chi discendente da continuità di sangue da nonni o avi trasferitisi all’estero, mai hanno messo piede in Italia, non parlano l’italiano e nulla sanno dell’Italia, e sono interessati solo al passaporto.
Altro da fare sarebbe incrementare nella misura dovuta le espulsioni di chi è in Italia irregolarmente e non è mai sfuggito da guerre e né mai fu sottoposto a torture. Va bene tutto ma non la presa in giro: i giovanottoni palestrati e muniti di smartphone provenienti dalla Libia, non sembra proprio che siano stati torturati o vessati.
Naturalmente il Ministro Matteo Salvini ha più elementi per decidere e deciderà in piena autonomia e responsabilità, ma non commetta specularmente gli errori dei suoi avversari politici.
AUGUSTO SINAGRA

UNA “MODESTA PROPOSTA” A SALVINI, di GOG&MAGOG

UNA “MODESTA PROPOSTA” A SALVINI.

tratto da facebook https://www.facebook.com/cronachedeitempiultimi/?__xts__[0]=68.ARDuwBas08oT8fzQ2yOq42nG01DP-1YpVF7VYWIq_PNpv1V9W9xgOi0KVOdjeVyzKTkkzV131SSWP8T6LLkAAkLEVnXD3iFRVQBPgwmCdfGOEayxA1UQstdreVKNNqUqVseWrgLZpc8zBkkmK-yBQWCkM2f0pCqqPJ_wTYtRSQYk-SHk1iiJT-nrd4_K6RNNbxjxVpV4XtZmJJ-hcdOeRTl2a4wVc6Umm6aogfJGEYRWkr8mVwm6sHU_adYmDMZezhaiFOhke_EpzT3eDSC3-0XdIsPZpfhnrYrLd5LADee0ACVAPoUS2AjHgzFfzyASmd0K69i6hovxGBy44PuodZMQNiLOltsyBhtdqP4i10okoclOPwqXb_XM

Perché invece che limitarsi ad attaccare “in negativo” sull’immigrazione incontrollata, non attacca, subito, “in positivo”, con un PIANO NATALITA’? Avendo cura di sottolineare che ciò non sarebbe solo in favore “delle donne” (come esigevano ieri, starnazzando, la Boldrini e la Gruber, automi che vogliono solo una guerra fra sessi, scopiazzata dalle follie liberal d’oltre Oceano) ma in favore DI TUTTI: dei bambini, delle famiglie, del Paese; madri, padri e figli, giovani e anche anziani, italiani di ieri, di oggi di domani.
Sui migranti il pubblico già conosce – e in larga parte approva – la sua posizione, mentre sulla natalità che dicono, a quel punto, le Boldrine? Si pronunciano contro? E con che faccia sosterrebbero poi, ancora, che “non facciamo più figli e ci servono migranti”? Sarebbe svelata, finalmente, la loro malafede, ipocrisia, furia ideologica.
Salvini si è mosso bene sui temi economici, prendendo i migliori (Bagnai, Borghi, Zanni, etc): perché non fare lo stesso sui temi demografici, altrettanto essenziali? Ad esempio, l’ex presidente Ior, Gotti Tedeschi, che se n’è occupato parecchio (ha scritto un libro con Fontana), o altri tecnici (Roberto Volpi, il prof. Blangiardo…). Si crea una squadra con la massima priorità e si va a vedere come fanno in Ungheria, Polonia, Russia, anche Francia, e quel che si può riprendere qui da noi, si ricercano idee nuove. E accanto alle pur necessarie misure economiche, come abbiamo sempre sottolineato, sono ancora più importanti le misure “culturali”: far riscoprire il valore dei figli, che non sono solo un costo e un impiccio, ma il futuro di sé, della propria famiglia, della propria comunità. Sotto questo aspetto, infinite cose si potrebbero fare, già con costi quasi nulli: ad es. il premier che va a salutare le famiglie numerose, le invita e premia, poniamo, sulla Amerigo Vespucci – che tanto la paghiamo già -, curare gli sceneggiati Rai, chiudere seduta stante l’Unar (costoso ufficio di propaganda LGBT e genderate varie a spese pubbliche, aperto da Monti – quanti danni ha fatto quel governo! – e sbugiardato dalle Iene come finanziatore di orge da dark room spacciate per “centri antidiscriminazione”), e aprire invece con quanto risparmiato un ‘think tank’ governativo sulla natalità, fare più giornate dei bambini e famiglie, investire negli asili, nelle scuole, nel valore dell’insegnamento e dell’educazione, etc. etc.).

PS ovviamente una tale proposta è rivolta a tutte le forze politiche “di buona volontà”…

1 2 3 4 6