Arta Moeini, La crisi della modernità liberale e la risposta totalitaria_a cura di Roberto Buffagni

Questo intelligente e ambizioso saggio si propone di indagare la trasformazione del liberalismo in totalitarismo morbido, riconducendola alla logica interna del liberalismo come manifestazione della Modernità. L’Autore, Arta Moeini, è uno dei redattori fondatori di AGON. Il dott. Moeini è un teorico della politica internazionale e direttore di ricerca presso lo Institute for Peace & Diplomacy.

È interessante, oltre che curioso, notare che l’analisi di Moeini coincide in più punti con quella che io ho delineato in forma sintetica in questi due articoli: GUERRA IN UCRAINA. QUAL È LA POSTA IN GIOCO CULTURALE?, del 17 marzo 2022[1] e REALTA’ PARALLELA E REALTA’ DELLA GUERRA II PARTE, del 28 marzo 2022[2]. Interessante e curioso perché Moeini è un nietzschiano, io un cattolico conservatore. La parziale confluenza delle nostre analisi si realizza nel realismo politico da entrambi condiviso, a partire da diversissimi presupposti culturali.

In questa traduzioni non vengono riportate le note, consultabili nel testo originale: https://www.agonmag.com/p/the-crisis-of-liberal-modernity-and

 

 

La crisi della modernità liberale e la risposta totalitaria

Il paradosso della libertà e la fissazione messianica dell’uguaglianza galvanizzano le tendenze dispotiche della modernità.

 

di Arta Moeini

22 febbraio

 

 

Le democrazie industrializzate avanzate stanno vivendo tempi spaventosi e strani, caratterizzati da crisi apparentemente senza fine, isteria di massa e una successione di emergenze, il tutto amplificato dallo Stato e dalle istituzioni di propaganda sociale, nominalmente indipendenti, con cui ha sviluppato un rapporto simbiotico.

L’analisi offerta dalla maggior parte dei critici della nostra attuale situazione – quelli giustamente allarmati dagli eccessi del securitarismo, della centralizzazione, del globalismo e dello statalismo – è più o meno questa: che il liberalismo moderno o l’ordine neoliberale rappresentano una perversione del liberalismo classico o delle origini e che solo restaurandoli e tornando ai loro principi originari i buoni liberali dell’Occidente potrebbero raddrizzare la rotta e porre rimedio alla situazione. Tali affermazioni non sono del tutto errate, ma sono superficiali.

Il dilagare dello Stato manageriale liberale in un Leviatano totalitario e di portata mondiale è in parte il risultato degli stessi successi della visione liberale del mondo – quello che potremmo definire il “progetto moderno” – nonché il naturale culmine di tre antinomie fondamentali per il liberalismo.

 

Come siamo arrivati qui?

L’attuale tempesta distopica si sta rafforzando da tempo, almeno dall’inizio del XXI secolo. Non solo l’attacco terroristico dell’11 settembre ha spinto la macchina bellica statunitense a una serie di guerre senza fine in una guerra globale al terrorismo, ma l’amministrazione di George W. Bush ha sfruttato quella tragedia e la minaccia di Al-Qaeda per consolidare e razionalizzare ulteriormente un regime di sorveglianza che ha drammaticamente ampliato e abusato del Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA). Tre presidenti democratici e repubblicani più tardi, l’intelligence statunitense – con la complicità delle Big Tech – continua a sorvegliare in massa gli americani sul territorio degli Stati Uniti con scarsa trasparenza e supervisione.

Lo spettro del Covid-19 ha solo accelerato questa tendenza allarmante e ha allargato la portata della securitizzazione e della politica della paura alla salute pubblica. Da un giorno all’altro, molti governi occidentali si sono trasformati in Stati di biosicurezza, imponendo passaporti per il vaccino, limitando i viaggi e rinchiudendo i propri cittadini in nome della sicurezza pubblica. Si è sempre dubitato che tali misure draconiane fossero necessarie o addirittura utili a “rallentare la diffusione” di un virus altamente trasmissibile (come dimostrato dalle varianti Delta e Omicron). Tuttavia, la gestione bellica del virus da parte di Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito e molti Paesi europei ha creato un clima marziale in cui era essenzialmente accettabile trattare i “non vaccinati” come cittadini di seconda classe, persino come una pericolosa minaccia, con la minima considerazione per la sovranità corporea o lo scetticismo scientifico.

 

Nel 2022, la famosa nozione di “stato di eccezione” di Carl Schmitt era diventata una caratteristica ordinaria della vita in molte parti del mondo. Una situazione in cui il sovrano trascende la sua autorità politica e costituzionale apparentemente per proteggere il pubblico da una qualche emergenza in una società sempre più polarizzata sembra essere diventata la nuova normalità nel mondo occidentale.

Un anno fa, nel febbraio 2022, due eventi distinti, apparentemente non correlati, hanno catturato la condizione dispotica e distopica del nostro Zeitgeist. In primo luogo, le proteste pacifiche organizzate dai camionisti canadesi contro gli eccessi delle norme Covid, note come Freedom Convoy, sono state stroncate dalla piena mobilitazione dello Stato canadese, con l’esplicito appoggio del governo statunitense e delle multinazionali. Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha dichiarato lo stato di emergenza, permettendo al suo governo di ignorare e calpestare le libertà civili dei canadesi in nome della sicurezza.

 

All’epoca, il famoso giornalista americano Matt Taibbi lo paragonò alle azioni del dittatore rumeno Nicolae Ceauşescu. Un’inchiesta ufficiale sull’episodio, pubblicata questo mese, ha tuttavia rilevato che l’ordine di emergenza aveva raggiunto la “soglia molto alta” di un’emergenza nazionale. Nonostante la sua “riluttanza” a schierarsi con il governo Trudeau, il commissario Giudice Paul Rouleau ha scritto che “la libertà non può esistere senza ordine“. L’implicazione è che è il governo che può decidere cosa costituisce “libertà” e quali sono i suoi limiti.

 

Vivere in quello che Carl Schmitt chiamava “stato di eccezione” è diventata la nuova normalità nelle società occidentali.

In secondo luogo, “The Blob”, l’establishment che dirige la politica estera USA, e i suoi alleati nei media mainstream, hanno suonato le sirene di una guerra santa per difendere la nascente “democrazia” ucraina – e, a quanto pare, lo stile di vita occidentale – dal cattivo e autoritario Vladimir Putin. Galvanizzati da molti membri dell’amministrazione Biden, i falchi del Nord Atlantico hanno adottato un duplice approccio alla loro agenda interventista, facendo leva sul moralismo dei loro gruppi di pari e sulle corde del cuore delle masse per propagandare le loro dubbie – e altamente ideologiche – affermazioni sulla vitalità geopolitica dell’Ucraina e sulla sua importanza per l’alleanza occidentale.

 

Con una vittoria occidentale realisticamente impossibile, il wishful thinking, le esortazioni manichee e le proclamazioni veementi dei leader occidentali hanno avuto come unico risultato quello di prolungare la guerra, congelare il conflitto, impedire una soluzione diplomatica e approfondire la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti e dalla NATO. Questa politica ha imposto un enorme tributo ai civili ucraini e ha gravato sulle economie e sulle popolazioni occidentali con un’inflazione e una carenza di energia senza precedenti. Senza contare che aumenta drammaticamente il rischio di escalation militare e lo spettro di un’apocalisse nucleare. Ma punire la Russia, presumibilmente, vale tutto questo e molto di più.

Questi episodi evidenziano anche la propagazione sistemica e selettiva dell’informazione e il securitarismo del discorso intorno alla “crisi attuale” sempre rigenerata come crisi “di emergenza” del momento, senza la quale è difficile mantenere e giustificare la politica della paura e dell’eccezione. Infatti, stabilire un resoconto di base della crisi adatto all’inflazione di minacce, plasmare e influenzare la percezione del pubblico in modi moralistici e produrre consenso intorno alla linea d’azione desiderata sono fondamentali per ottenere i controlli psicologici e sociologici – e il paradigma temporaneo del consenso – necessari per invocare i poteri di emergenza.

 

Nel mondo post-Covid, l’Occidente si trova di fronte alla terribile prospettiva di poter diventare il portabandiera di un nuovo tipo di regime: un regime socialmente totalizzante, sorvegliante, monopolizzatore dell’informazione, biopolitico e marziale, mascherato dall’involucro gradevole della democrazia liberale. Ma quali sono il pathos filosofico e le basi sociologiche di un sistema che ha reagito ed esagerato in modo così inquietante ed estremo da cooptare e armare la crisi come strumento di legittimazione politica e di massimizzazione del potere?

 

Uno Stato socialmente totalizzante, sorvegliante, monopolizzatore dell’informazione, biopolitico e marziale, mascherato con l’involucro di benessere della democrazia liberale, sta diventando il regime standard dell’Occidente.

Per svelare questo fenomeno inquietante, è necessario fare un viaggio nella storia delle idee ed elaborare una genealogia critica della Modernità, la visione paradigmatica del mondo e il complesso storico nato sulla scia delle guerre di religione europee e dell’Illuminismo. Dobbiamo identificare i codici ideologici alla base della nostra attuale matrice sociale ed eseguire una diagnosi o un’autopsia del paradigma e dello zeitgeist che abitiamo.

 

I malcontenti intrinseci del liberalismo

Oggi, soprattutto in Occidente e sempre più a livello globale, siamo tutti allevati nella modernità liberale. Un modo per cercare di cogliere e sistematizzare le basi della condizione moderna è quello di intenderla come “forma di vita” liberale o Weltanschauung, in cui la vita diventa inseparabilmente legata alla politica. Sostengo che la décadence culturale, la perdita di significato, l’angoscia esistenziale e le dislocazioni politiche e sociali che debilitano l’Occidente sono innescate da una crisi di legittimità al centro della visione liberale del mondo e dallo sforzo del regime esistente di consolidare e preservare la propria autorità e la struttura di potere esistente (in un momento in cui l’autorità dell’autorità è sempre più messa in discussione).

 

Ma cosa contraddistingue la Modernità come pathos filosofico e come si rapporta al liberalismo?

 

La modernità è certamente un concetto ambiguo e sfuggente: in un certo senso, riflette la temporalità, intendendo semplicemente ciò che è attuale, presenziale o nuovo. Tuttavia, ha anche una definizione filosofica e sostanziale: una particolare mentalità e un paradigma che arriva a dominare la costellazione di valori dell’Occidente a partire dal XVI secolo con la Riforma protestante e poi con l’Illuminismo. Le sue caratteristiche sono riassunte nell’espressione familiare “progetto moderno“.

 

Come orientamento alla vita, la modernità rappresenta la sublimazione di ciò che il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche chiama la pulsione apollinea, caratterizzata dal desiderio o dall’istinto umano di dominare e soggiogare la materia e la natura, la volontà di creare ordine dal tragico disordine della vita. Alcuni dei costrutti teorici ed epistemologici più influenti dell’era moderna sono stati tentativi di incapsulare ed esprimere questa pulsione apollinea, dal razionalismo e dallo scientismo all’utilitarismo e persino al marxismo.

 

Se la modernità è la forma, il liberalismo è la sostanza originaria: l’insieme delle principali razionalizzazioni, lo schema teorico o filosofico, necessario per portare avanti il progetto moderno e che può essere utilizzato anche per dare un senso allo Zeitgeist moderno e ai suoi “baldacchini sacri” e immaginari sociali sui generis, in gran parte secolari.

 

Man mano che il paradigma liberale maturava in uno Zeitgeist che ha prima plasmato l’esperienza vissuta e l’orizzonte dell’immaginazione dell’uomo occidentale e poi ha consolidato il suo trionfo sulle visioni del mondo alternative con la globalizzazione della Modernità, il suo stesso successo ha reso più pronunciate ed esplicite le sue contraddizioni intrinseche. Questo sviluppo, a sua volta, ha generato una crisi di legittimità per il liberalismo, in cui si sono affermati l’incredulità, il dubbio e il nichilismo, e la fede nelle premesse originali è diventata sempre più incredibile.

 

Il paradigma liberale ha condizionato l’esperienza vissuta dell’uomo occidentale e ha trionfato sulle visioni del mondo alternative con la globalizzazione della Modernità.

Il liberalismo soffre di almeno tre antinomie originarie:

 

  1. Dominazione vs. Autonomia. Il liberalismo cattura la volontà moderna di dominio affermando il controllo dell’uomo sulla materia e sulla natura. L’agente umano viene considerato come la fonte ultima dell’autorità, che si sottrae a Dio, alla Storia, alla Tradizione o alla Natura. Di conseguenza, richiede una netta rottura con il passato e con le strutture sociali tradizionali che sono viste come limitanti e costrittive per l’uomo. La “libertà” dell’uomo, si ritiene, richiede un progetto di liberazione sistemica dalle gerarchie e dalle norme del passato, che sono ingombranti o oppressive, in modo da poter creare un nuovo ordine basato sull’autonomia e sull’agenzia dell’individuo.

 

Questa è la ragion d’essere del liberalismo nella sua fase iniziale. La Rivoluzione francese, il Regno del Terrore e le esecuzioni di massa che scatenò sotto il leader giacobino Maximilien Robespierre illustrano al meglio il legame tra desiderio di liberazione e desiderio di dominio. Il fascino persistente della rivoluzione violenta e dell’attivismo sociale nella psiche occidentale attraverso le generazioni incarna questa disposizione paradossale.

 

  1. Universalismo vs. soggettivismo. Il liberalismo professa la fede in alcuni principi immutabili e universali (verità autoevidenti) derivati da una concezione fissa della natura umana. Essi sono fondamentali per la teoria dei diritti (naturali). Al centro di questa antropologia filosofica – cioè la concezione liberale della natura umana – c’è il possesso da parte dell’uomo della ragione e della volontà razionale, di cui tutti, in quanto umani, sono partecipi in egual misura.

 

Tuttavia, se da un lato afferma l'”ethos dell’uguaglianza“, dall’altro il liberalismo segna la svolta verso l’individualizzazione della moralità, invitando al soggettivismo etico ed epistemologico. Ciò porta a una forma di solipsismo in cui i valori, la conoscenza e persino la realtà sono veri o oggettivi solo nella misura in cui il singolo agente umano li ritiene tali. Questa visione è sostenuta dalla convinzione che la volontà razionale dell’uomo abbia un’esistenza a priori, indipendente dalla società, dalla cultura, dalla storia e dalle gerarchie di valore e di potere. Sia l’identitarismo moderno che la fissazione moderna per l’uguaglianza senza riserve trovano qui le loro giustificazioni originali.

 

  1. Perennialismo vs. perfettibilità dell’uomo (il mito del progresso). Dato il suo impegno a favore di una natura umana fissa e universale, il liberalismo è presenzialista e sprezzante nei confronti della storia e del divenire, che considera una forza esterna alla natura essenziale dell’uomo come agente autonomo (homo liber) e che quindi ritiene perturbante per la sua libertà. Le formulazioni astratte e reificate del liberalismo sradicano l’uomo dalla sua esistenza storica concreta e trascendono le complessità della vita comunitaria. Nel suo idealismo filosofico, il liberalismo privilegia quindi la perennità dell’uomo come categoria nominale, ideativa e immutabile rispetto all’uomo nella vita reale, come homo cultus saldamente radicato in una rete estesa di relazioni familiari e sociali, inserito in comunità storiche e cresciuto all’interno di particolari nazioni o culture.

 

Allo stesso tempo, forse influenzato dalla sua discendenza e dal suo impulso protestante, il liberalismo ritiene che le potenzialità, i poteri e la dignità dell’uomo non siano stati pienamente realizzati – la sua apoteosi è stata interrotta – a causa dei vincoli strutturali posti sull’uomo che lo separano dal suo telos universale. Questo astio contro l’ordine ereditato radica nel pensiero liberale un desiderio di cambiamento che è in tensione con ciò che il liberalismo considera immutabile, cioè la sua visione essenzialista dell’uomo come homo liber. Poiché trova sgradevole la realtà data – il mondo così com’è – il liberalismo deve sviluppare un’apposita teoria della storia che possa accogliere il cambiamento sociale.

 

L’obiettivo della storia deve essere il progresso umano verso una società in cui tutti sono completamente uguali e l’uomo è pienamente razionale, interamente libero e perfettamente produttivo. L’uomo è un agente teleologico che attualizza la padronanza quasi sovrumana dell’umanità sulla natura e sulla materia. Privilegiando la linearità rispetto alla vecchia ciclicità del tempo (principalmente pagana), il liberalismo adotta una visione apocalittica, seppure astorica, della storia, finalizzata alla realizzazione dell’Utopia o della Città di Dio sulla Terra: una società “giusta” che realizza pienamente i principi egualitari universali, sradicando ogni differenza, distinzione e legame. Una “nuova” società in cui l’antropologia filosofica fissa del liberalismo e la sua nozione idealistica di libertà umana sono attuate e raggiunte attraverso il livellamento e la massificazione delle persone (e l’appiattimento della cultura superiore e dei suoi imperativi gerarchici).

 

Le contraddizioni interne del liberalismo sono difficili da risolvere senza ricorrere al potere sovrano dello Stato moderno.

Queste tensioni non sono mai state facili da conciliare. L’ascesa dell’utilitarismo, dell’hegelismo e del marxismo nel XIX secolo può essere intesa in parte come il primo tentativo dell’Occidente di affrontare e risolvere le suddette antinomie a favore del progresso, dell’universalismo e del controllo, che Bentham, Hegel e Marx vedevano come potenzialità incarnate nello Stato moderno o nella dialettica storica che potevano essere utilizzate per avanzare e raggiungere la libertà.

Nella sua forma più influente, il Romanticismo, con la sua glorificazione dell’uomo comune, il sentimentalismo, il soggettivismo e il democratismo, fu un’altra emanazione. Il suo esponente più importante, Jean Jacques Rousseau, reagì contro l’interpretazione illuministica della libertà, riconcependo l’uomo come originariamente e naturalmente perfetto e concentrando la sua interpretazione sull’autonomia e sull’emancipazione dell’uomo dalle “catene” della società. Secondo Rousseau, la libertà sarebbe sinonimo e impossibile da raggiungere senza l’uguaglianza, una mossa che ha provocato le tendenze politicamente rivoluzionarie insite nel liberalismo – presto incarnate dai giacobini – e che da allora è diventata un aspetto ineludibile della modernità liberale.

 

In contrasto con la spinta all’omogeneità, alla convergenza storica e all’uniformità globale del liberalismo standard, un liberalismo che privilegiava la libertà personale e intellettuale e conservava alcune delle sensibilità gerarchiche e aristocratiche del vecchio mondo occidentale, era rappresentato da personaggi come Alexis de Tocqueville, Jacob Burckhardt e John Stuart Mill. Sottolineando l’autonomia privata rispetto al dominio (cfr. la prima antinomia), questi pensatori ponevano maggiore enfasi sull’individualità, sulla libertà di pensiero e su un governo limitato.

 

Va notato che l’enfasi sulla libertà umana come valore culturale determinante non è appannaggio esclusivo della modernità liberale, così come viene usata in questa sede. L’ Homo liber è formativo nello sviluppo dell’umanesimo rinascimentale incarnato dal pensiero di Montaigne e Machiavelli, che hanno preceduto il liberalismo e sono stati suggestivi di una modernità alternativa. Forse influenzato dai pensatori dell’Illuminismo scozzese, Edmund Burke fu un proto-liberale, o un liberale esitante, che privilegiando la religione, la virtù e gli elementi ancestrali e tradizionalisti, tentò di creare una sintesi tra il liberalismo Whig e il conservatorismo europeo del tardo XVIII secolo, sperando di indicare la strada per una rivitalizzazione della vecchia eredità occidentale in via di calcificazione.

L’approccio sincretico di Burke non trovava un conflitto tra l’apprezzamento per l’individualità e la diversità e l’enfasi sulla comunità e sulla monarchia ereditaria. Difensore dell’aristocrazia e della diversificazione sociale, era fortemente antiegalitario e sosteneva una sorta di unità organica. Burke attribuiva grande importanza alla cultura, alla gerarchia e all’immaginazione come collante della società e rimase un critico acuto dell’idealismo astratto e dell’individualismo razionalistico. Aborriva l’incapacità di comprendere la natura storica dell’esistenza umana, compresa la grande dipendenza dell’umanità dalle forme ancestrali. L’atomismo sociale e gli astratti diritti individuali di un John Locke gli erano del tutto estranei. Burke offriva un’interpretazione più gradualista del progresso che si scontrava fondamentalmente con il ceppo dominante del liberalismo del suo tempo, che diede origine alla Modernità liberale.

 

Nonostante le spinte primarie della Modernità liberale, il pensiero liberale stesso non è mai stato del tutto univoco. Non ha offerto un’unica interpretazione della libertà, né c’è stato un accordo uniforme sullo strumento o sul meccanismo per raggiungerla. Ciò che unifica i diversi orientamenti che hanno dato forma alla modernità liberale, tuttavia, è un profondo idealismo filosofico. Al di sotto delle varie interpretazioni della libertà si nasconde una comune antropologia filosofica, fissata sull’universalità e l’indivisibilità dell’idea dell’uomo come agente libero, l’homo liber come categoria assoluta che sovrasta tutti gli altri valori umani contestati che conducono alla prosperità umana.

 

Un profondo idealismo filosofico unifica i diversi orientamenti della modernità liberale.

Secondo questa visione idealistica e riduzionista dell’uomo, tutti gli esseri umani sono innatamente liberali e lo sarebbero anche nella vita reale, a meno di impedimenti esterni o sociali che corrompono la loro costituzione liberale interna. Come osserva giustamente il filosofo John Gray, tale convinzione rende il desiderio missionario di sopraffare ed eliminare continuamente le forze oscure e disgregatrici considerate antiliberali – una nuova forma di “male” – una parte intrinseca dell’agenda liberale.

 

In modo sottile, i paradossi di cui sopra animano gli attuali conflitti nelle società occidentali, mostrandoli come sintomi della generale malattia filosofica – in ultima analisi, psicologica e persino fisiologica – al cuore della modernità liberale.

 

Il secondo avvento totalitario del liberalismo

Poiché tutti i sistemi tendono a resistere al loro disfacimento e alla discesa nel disordine, il liberalismo è stato spinto a risolvere le sue contraddizioni intrinseche in una nuova unità, cosa che ha fatto favorendo l’elemento più totalitario o ordinatore di ogni antinomia. Questo spiega l’evoluzione del liberalismo nel XX secolo. Una delle prime conseguenze della battaglia interna del liberalismo per raggiungere una nuova forma più sostenibile è stata l’alba dell’ordine “neoliberale” e l’ascesa del liberalismo (tardo-moderno) che è oggi il nostro Zeitgeist. Questa trasformazione è più il destino del liberalismo, più il prodotto di un suo desiderio di sopravvivenza, che una perversione o un tradimento dei suoi ideali – che è la convenzionale interpretazione conservatrice/classica “liberale” degli sviluppi contemporanei.

Data la crisi di legittimità che la tarda modernità liberale si trova ad affrontare, le tensioni interne allo schema liberale vengono risolte in modi sempre più autoritari e totalitari. Come accennato in precedenza nella discussione della terza antinomia, la Modernità è stata ispirata dall’impeto di una nuova forma di immaginazione che evocava una visione del mondo trasformato. Questo desiderio sognante e missionario di un mondo migliore, che giustificava e ampliava il campo di intervento attivo dell’uomo, rafforzava le potenzialità totalitarie del meliorismo razionalistico, conferendo alla Modernità una dimensione quasi spirituale.

 

La crisi di legittimità della modernità liberale invita a reazioni autoritarie e totalitarie.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il liberalismo moderno ha risolto efficacemente la prima tensione – dominio contro autonomia – ricorrendo all'”egemonia”, in cui il dominio culturale e intellettuale viene mascherato e presentato come liberatorio, con l’Altro che dà un consenso spontaneo o riflessivo. La seconda tensione – universalità contro soggettivismo – è stata risolta attraverso l'”ideologia”, per cui tutti sono condizionati e propagandati a credere le stesse cose. La riserva di universalità viene mantenuta stabilendo l’identità dell'”uomo”, come inteso dal liberalismo, con l'”universale”.

 

La terza e ultima tensione – perennialismo vs. meliorismo – trova soluzione nella “tecnocrazia” e nel nuovo “culto della competenza”. Una nuova classe di mandarini viene socializzata (soprattutto attraverso l’università moderna) e installata in posizioni di potere e influenza nella cultura in generale. A sua volta, questa classe indottrina il pubblico e funge da “avanguardia” del nuovo regime. Questa classe professionale-manageriale ha il compito di condurre le mandrie di uomini verso la terra promessa, cosa che tenta di fare attraverso l’uso selettivo della “scienza” (la fede secolare), dell'”ideologia” (le nuove scritture) e della tecnologia (un bastone da pastore) per il controllo, l’emissione del messaggio, il monitoraggio e la manipolazione.

 

Alla base di questa risoluzione c’è la crescente fiducia che il Controllo sia necessario e fonte del Bene. Impiegato in modo appropriato, alla fine creerà un’utopia di giustizia sociale. Il mito del progresso si consolida nell’idea che, in teoria, tutto può essere conosciuto e che la conoscenza umana può essere illimitata (cfr. certezza epistemologica); che l’applicazione della conoscenza disponibile (scientismo/positivismo) al mondo materiale e sociale, la definizione stessa di tecnologia, guida l’umanità verso la perfettibilità; e che questo processo raggiungerà il miglioramento della condizione materiale e morale di tutta l’umanità.

 

Mentre la ricerca del dominio inizialmente si maschera come liberazione dalle vecchie strutture e gerarchie mantenute dalla tradizione, dall’aristocrazia o dalle istituzioni patriarcali, la ricerca del dominio sulla natura e poi sulla società richiede, col tempo, l’acquisizione e la sovversione della società stessa, un progetto ingegneristico completo. Questa ricerca richiede l’indottrinamento finale di esperti che si considerano, a ragione, oracoli dell’età moderna in grado di prevedere il corso della Storia. Questa tendenza è perfettamente esemplificata da John Stuart Mill, per il quale il dibattito libero distrugge le credenze e le istituzioni tradizionali e pone le basi per il dominio di esperti illuminati, animati da quella che Mill chiama, con Auguste Comte, la “religione dell’umanità“.

Il liberalismo moderno ha creato un triplice apparato di controllo e di conformità attorno a “egemonia”, “ideologia” e “tecnocrazia”.

È interessante notare che, date le sue radici quasi cristiane, l’inclinazione altruistica e moralmente egualitaria del primo liberalismo viene innescata e problematizzata già durante il XIX secolo, quando le condizioni di vita ordinarie di molte persone nelle aree urbane peggiorano con l’aumento dell’industrializzazione e la massificazione che l’accompagna. Nel marxismo, figlio ideazionale e utilitaristico della modernità e del liberalismo, si trova il riconoscimento, e forse la prima reazione sistematica, alle complessità e ai problemi scatenati dalla continua presenza di disuguaglianze socio-economiche e alla profonda inquietudine che questa realtà contraddiceva il mito del progresso.

 

 

Molti – utilitaristi, rivoluzionari marxisti in senso estremo e (più tardi) leader del Movimento Progressista – giunsero alla conclusione che il “progresso” non avrebbe potuto realizzarsi senza l’intervento umano. La consapevolezza che il progresso richiederà di essere plasmato e incanalato attivamente ha richiamato l’attenzione sull’importanza della leadership e delle élite. Per guidare il popolo, un nuovo ordine di rango, presumibilmente basato su meriti e credenziali, doveva essere giustificato e dotato di autorità. Il liberalismo prebellico (conservatore) cercò di resistere a queste convinzioni, ma il liberalismo postbellico (ispirato dal New Deal di FDR) le combinò con gli ideali di progresso sociale e di uguaglianza globale nel neoliberismo. Lo Stato avrebbe ora acquisito un ruolo più centrale e collaborato con le grandi imprese per fornire beni pubblici e giustizia sociale ed economica. Il liberalismo moderno identificava quindi la liberazione con un progressivo egualitarismo il cui raggiungimento comportava un aumento dei controlli sociali e politici.

 

Il liberalismo e il marxismo si sono rivelati come espressioni diverse dello stesso Giano moderno, cioè come schemi diversi che cercano di formalizzare e razionalizzare l'”essere-nel-mondo” o “sé” moderno. Questo Giano Moderno difende l’uguaglianza e il progresso come segni distintivi della libertà umana e professa di abbattere le vecchie gerarchie per realizzarli; eppure, asservisce l’uomo a forme sempre nuove di gerarchia innaturale e di controllo sotterraneo, sacrificando la grandezza umana e la fioritura culturale sull’altare della mediocrità e dell’omogeneità.

 

La modernità è una creazione occidentale, ma i suoi effetti non si limitano all’Occidente. Come una termite, divora le gerarchie radicate delle civiltà, lasciando dietro di sé solo un guscio vuoto.

La modernità è una creazione occidentale, ma i suoi effetti non sono limitati al mondo occidentale. Ovunque venga introdotto e qualunque forma assuma alla fine, questo Proteo dalle molte forme e facce dissangua e corrode la civiltà che lo ospita, lasciando solo un guscio vuoto che vacilla sul baratro, forse più che in Occidente. In tutto il mondo, questo dio trasmigrato appiattisce maniacalmente la società e sfigura o distrugge le istituzioni ereditate, mentre, allo stesso tempo, innalza nuove strutture di repressione e subordinazione totale. Incarna la forza anti-vita e anti-cultura per eccellenza.

 

Allora, cosa spiega il notevole successo e la resistenza dell’ordine mondiale neoliberale e l’attrazione del suo programma di negazione della vita?

 

Le fonti del potere (e del declino?) del liberalismo

Il successo travolgente del liberalismo contemporaneo nelle società occidentali è dovuto all’uso efficace di quello che può essere definito il circuito di retroazione egemonia-prestigio. L'”egemonia” è il processo attraverso il quale una classe dominante stabilisce il controllo socio-culturale sui gruppi subordinati, sposando e segnalando la propria leadership morale e intellettuale su di essi in modo tale che le classi inferiori acconsentano effettivamente alla propria dominazione da parte delle classi dominanti. La conformità degli inferiori è assicurata attraverso la segnalazione delle élite, in cui le classi superiori usano il loro capitale sociale o “prestigio” per indicare al pubblico comportamenti corretti da emulare, nonché facendo leva sulla loro posizione all’interno dell’establishment socio-politico per sfruttare il potere della propaganda moderna.

 

In questo processo, la narrazione delle élite, che trasmette la loro benevolenza e la visione di una società migliore per tutti, viene interiorizzata dalle masse e trasformata in una narrazione “sacra”, che le condiziona ad agire come desiderato, in modo che non ci sia bisogno di forzarle o costringerle. Nel loro immaginario è radicata la convinzione che con i loro governanti partecipano, ritualmente e simbolicamente, a cause giuste e cosmopolite, persino sacre.

La tecnologia moderna e i social media hanno solo aumentato il raggio d’azione delle élite e il loro monopolio sulla “verità”, mentre i resoconti che se ne discostano vengono attivamente respinti come disinformazione. Garantire la conformità è un processo a più livelli che utilizza il securitarismo e l’armamento della “crisi” come veicoli attraverso i quali le élite raggiungono la solidarietà di classe, i dissidenti vengono ulteriormente emarginati e il pubblico in generale subisce una “formazione di massa”.

 

Questo processo di omogeneizzazione rafforza le identità di gruppo attraverso le linee di classe e ossifica le posizioni sociali, proteggendo, riaffermando e rafforzando lo status quo. L’ homo liber genera così il suo inevitabile altro, quello che il filosofo italiano Giorgio Agamben chiama acutamente homo sacer, l’uomo “maledetto” o “bandito” che vive in una sorta di purgatorio tra la cittadinanza e il controllo statale, essendo allo stesso tempo membro di una comunità politica e vivendo al di fuori di essa a causa del suo rifiuto di conformarsi alle nuove norme stabilite.

 

Questo processo si estende oltre l’Occidente. In diverse società, le caste superiori – che si identificano con gli ideali occidentali di progresso liberale – formano un blocco ideativo liberale decentralizzato e informale che serve a promuovere, come forma di vita ideale, l’ordine mondiale neoliberale e la sua apposita ideologia universalista. L’ imprinting globale dell’ideologia liberale tra le élite internazionali di diverse civiltà, che la usano come moneta di potere e di status, globalizza l’egemonia culturale del liberalismo e dà potere alle istituzioni e alle ONG occidentali che perpetuano l’ideologia. Questa dinamica rafforza il sistema mondiale neoliberale esistente e le organizzazioni internazionali che lo difendono con il potere della semiotica e della retorica e con le loro regole ostinate, noiose e arcane.

 

L’inevitabile conseguenza della Modernità liberale è la proliferazione del totalitarismo morbido o interiorizzato, dell’omogeneità e del conformismo globale, in nome della libertà e della democrazia.

Il risultato è la proliferazione del totalitarismo morbido o interiorizzato e lo scatenamento dell’omogeneità e del conformismo in nome della libertà e della democrazia, non solo in Occidente ma a livello globale. Questo totalitarismo morbido è ancora più pernicioso della tirannia coercitiva o del totalitarismo duro, che si ottengono con la violenza, perché uccide la criticità, il dissenso e il libero pensiero, diminuendo l’energia spirituale o intellettuale necessaria per la sopravvivenza di una società sana. Il totalitarismo morbido è, in parte grazie ai suoi appelli all’immaginazione sognante e alle ricerche utopiche, anche molto più sottile della tirannia coercitiva esteriore. Ed è più difficile da individuare, per non parlare della difficoltà di resistergli.

 

Il totalitarismo morbido è anche più socializzato, incoraggiando la cittadinanza a diffamare, ostracizzare e cancellare le voci dissidenti che si ritiene abbiano violato un implicito vincolo sacro, dando vita a una dinamica noi contro loro, in cui l’identità collettiva è forgiata in un’opposizione manichea all’Altro. Questa forma di guerra alla mente del totalitarismo premia i dogmi e i luoghi comuni più che l’imparzialità e il buon senso. Promuove il pensiero di gruppo come mezzo per monopolizzare il pensiero, anzi, la percezione stessa della realtà. L’obiettivo è chiaro: garantire lo status quo contro qualsiasi rottura e superamento radicale.

 

Un fattore importante che rivela e contribuisce all’ascesa del totalitarismo soft è che il confine originario tra Stato e società civile, tra pubblico e privato – divisione che era stata enfatizzata nel primo liberalismo – è oggi sempre più sfumato e inaridito. Una profonda crisi epistemologica su ciò che è conoscenza, esacerbata dall’accelerazione della politicizzazione di tutti gli aspetti della vita, aggrava la dinamica totalizzante. La crescente disintegrazione dei confini e delle distinzioni sociali nella tarda Modernità liberale, e la confusione e l’assenza di significato che ne derivano, fanno presagire una crisi d’ autorità di prim’ordine, in cui sia la classe politica (governo e burocrazia statale) sia gli esperti e persino la conoscenza che professano (“scienza”) vengono gradualmente ripudiati. Tutto ciò fa presagire un maggiore allontanamento, una polarizzazione, un conflitto futuro e persino una rivoluzione sociopolitica. Inoltre, alza ulteriormente la posta in gioco per la Modernità liberale: esercitare il potere diventa un problema esistenziale.

 

La preoccupante traiettoria della tarda modernità liberale verso la perdita di autorità fa presagire futuri conflitti sociali; inoltre, rende l’esercizio del potere un imperativo esistenziale per l’imperium liberale.

La risposta naturale dell’establishment a questa crisi definitiva di legittimità è quella di consolidare e combinare lentamente l’apparato di controllo sociale e di formazione della cultura (cioè i media, le grandi imprese e il mondo accademico), storicamente appannaggio della società civile, con i meccanismi di comando politico e di autorità legale già a sua disposizione. In effetti, si crea una struttura massiccia e complessa di controllo e conformità, un regime integrato che può essere chiamato imperium liberale.

 

L’imminente guerra contro l’imperium

L’ imperium liberale, ancora in fase di consolidamento, è una mostruosità hobbesiana. Influenzato dalla guerra civile inglese, Hobbes aveva in mente uno Stato con un controllo assoluto, ma con lo scopo limitato di mantenere l’ordine. Il nuovo Leviatano aspira a un controllo totale. Sembra decentralizzato, ma è integrato attraverso le classi e le ideologie, con un chiaro gruppo interno e un gruppo esterno e le masse apatiche (cfr. l'”ultimo uomo”) nel mezzo. Il profondo risentimento del gruppo esterno, unito alla generale mancanza di capacità d’azione politica della popolazione, rende quest’epoca storica particolarmente incline al pensiero cospirativo, che dobbiamo identificare come un altro sintomo della patologia generale del paradigma tardo-moderno.

Il filosofo italiano Antonio Gramsci ha osservato in modo preveggente quasi cento anni fa: “Quando lo Stato ha tremato, si è subito rivelata la robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo un fossato esterno, dietro il quale si trovava un potente sistema di fortezze e di sbarramenti“. La robusta struttura di cui parla Gramsci – forse il ventre del moderno Leviatano – è stata continuamente rivelata e usata come arma dall’establishment nell’inquadrare le nostre numerose guerre infinite, il COVID, l’ESG e, più recentemente, la guerra in Ucraina.

 

In tutti questi casi, i meccanismi di controllo sociale e di addomesticamento sono regolarmente impiegati per ottenere il consenso quasi spontaneo del pubblico attraverso la “formazione delle masse” e per trasformarle, attraverso la mobilitazione psicologica, in collaboratori inconsapevoli, se non addirittura consenzienti, del regime e dei suoi fini desiderati. Questi fini sono mascherati come prerequisiti per la libertà e persino mascherati come morali e giusti, ma equivalgono a una spaventosa sovversione della libertà e del senso comune.

 

L’ascesa del regime integrale può sembrare promettere alla classe dirigente una sorta di stabilità, ma è più che probabile che si tratti di una fase transitoria. È improbabile che l’attuale stato di cose sia sostenibile per decenni e potrebbe degenerare in un vero e proprio totalitarismo, con tutte le sue dimensioni politiche oppressive e pericolose.

 

Il Leviatano di Hobbes aveva lo scopo limitato di mantenere l’ordine civile. Il Leviatano moderno aspira a un dominio totale, che non è sostenibile.

Resta da vedere se il risveglio ancora incoerente, anche se vigoroso, dell’apparato di controllo liberale genererà un desiderio radicale e tragico di “superamento” (la décadence) tra il crescente numero di gruppi (di prestigio) emarginati in Occidente, le persone che si sono liberate dalla caverna liberale e vedono attraverso la sua falsa costruzione, o quelle provenienti da altre civiltà la cui Weltanschauung è in conflitto con il paradigma liberale moderno. Sembra che sia iniziato un contraccolpo, anche se ancora per lo più embrionale, e se si rafforzerà, ci si può aspettare che l’imperium liberale colga ogni opportunità per securizzare ulteriormente e armare le crisi al fine di eliminare questi neonati dissenzienti prima che diventino adulti.

 

L’uomo era il soggetto del progetto moderno, ma sempre più spesso questo soggetto è stato trasformato nell’oggetto preferito della modernità: è stato trattato come una tela bianca su cui imprimere il nuovo ordine. Quindi, proprio mentre il regime cerca di in-formarci, noi dobbiamo dis-formarci in una lotta radicale contro il nostro stesso io conformato. È in questo spirito che dobbiamo cercare di comprendere la famosa nozione di Nietzsche di “volontà di potenza”. Il tedesco ci esorta ad andare oltre la politica, le sue banalità e la sua partigianeria, per smantellare e sublimare i complessi sistemi di potere culturale e di prestigio sociale che l’egemonia ideologica della modernità liberale ha imposto.

 

Questo radicalismo spirituale e intellettuale è il primo passo per coltivare una contro-élite “dionisiaca” che rifiuti attivamente l’idealismo moderno e le illusioni ideologiche liberali, come il “progresso” o la “felicità”, a favore di un realismo concreto e storicamente radicato che consacri la vita, la natura, la società organica e la salute culturale.

 

In quest’ora fatidica, abbiamo bisogno di un realismo tragico e radicale, che gridi un duro No alla decadenza negatrice della vita e un duro Sì ai vincoli e ai limiti rigenerativi posti all’uomo dagli imperativi dell’unità organica e dell’evoluzione umana.

[1] http://italiaeilmondo.com/2022/03/17/guerra-in-ucraina-qual-e-la-posta-in-gioco-culturale_di-roberto-buffagni/

[2] http://italiaeilmondo.com/2022/03/28/realta-parallela-e-realta-della-guerra-ii-parte-di-roberto-buffagni/

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Perché l’India non può sostituire la Cina, di Arvind Subramanian e Josh Felman

Nelle settimane scorse abbiamo presentato numerosi articoli che sottolineavano l’emergere dell’India come forza emergente, potenzialmente in grado di alimentare la dinamica multipolare, specie se assecondata dallo sviluppo di una collaborazione con la Russia, altro paese dal ruolo significativo, ma difficilmente in grado, con le sue sole forze, di costituire uno dei poli. Questo articolo, di chiara fonte ispiratrice, riequilibra un po’ il giudizio, anche se pecca visibilmente di una impostazione economicistica e, all’interno di essa, associa l’acquisizione di potenza e di crescita alle virtù del mercato aperto. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Le barriere al prossimo boom di Nuova Delhi

Con lo status della Cina di “officina del mondo” rovinato da crescenti rischi politici, rallentamento della crescita e politiche “zero COVID” sempre più insostenibili, nessun paese sembra più pronto a trarne vantaggio dell’India. A maggio, The Economist ha pubblicato una storia di copertina sull’India, chiedendo se questo fosse il momento per il paese, e ha concluso che sì, probabilmente lo era. Più di recente, l’economista di Stanford e premio Nobel Michael Spence ha dichiarato che “l’India è la performance eccezionale ora”, osservando che il paese “rimane la destinazione di investimento preferita”. E a novembre, Chetan Ahya, capo economista asiatico di Morgan Stanley, ha previsto che l’economia indiana rappresenterà un quinto della crescita globale nel prossimo decennio.

Senza dubbio, l’India potrebbe essere all’apice di un boom storico, se riuscirà ad aumentare gli investimenti privati, anche attirando un gran numero di aziende globali dalla Cina . Ma New Delhi saprà cogliere questa opportunità? La risposta non è ovvia. Nel 2021, abbiamo fornito una valutazione che fa riflettere sulle prospettive dell’India negli affari esteri . Abbiamo sottolineato che le supposizioni popolari su un’economia in forte espansione erano imprecise. In effetti, la crescita economica del paese ha vacillato dopo la crisi finanziaria globale del 2008 e si è arrestata completamente dopo il 2018. E abbiamo sostenuto che la ragione di questo rallentamento risiedeva profondamente nel quadro economico dell’India: la sua enfasi sull’autosufficienza e i difetti nel suo processo decisionale – “bug del software”, come li chiamavamo.

Un anno dopo, nonostante l’esuberante stampa, il contesto economico indiano rimane sostanzialmente invariato. Di conseguenza, continuiamo a credere che siano necessari cambiamenti politici radicali prima che l’India possa rilanciare gli investimenti interni, tanto meno convincere un gran numero di aziende globali a trasferire lì la loro produzione. Una lezione importante per i politici è che non c’è inevitabilità, nessuna linea retta di causalità, dal declino della Cina all’ascesa dell’India.

TERRA PROMESSA?

Per certi versi, l’India sembra una terra promessa per le aziende globali. Ha vantaggi strutturali, i suoi potenziali rivali hanno seri inconvenienti e il governo offre grandi incentivi agli investimenti.

Inizia con i vantaggi strutturali. Dominando un territorio che è nove volte più grande della Germania e una popolazione che presto supererà quella della Cina come la più grande del mondo, l’India è uno dei pochi paesi abbastanza grandi da ospitare molte industrie su larga scala, producendo inizialmente per i mercati globali e infine per il fiorente mercato interno. Inoltre, è una democrazia consolidata con una lunga tradizione legale e una forza lavoro particolarmente giovane, talentuosa e di lingua inglese. E l’India ha anche alcuni notevoli risultati al suo attivo: la sua infrastruttura fisica è migliorata notevolmente negli ultimi anni, mentre la sua infrastruttura digitale, in particolare il suo sistema di pagamenti finanziari, ha in qualche modo superato quella degli Stati Uniti .

La svolta della Cina verso l’autoritarismo fa sembrare l’India più invitante.

Al di là di questi vantaggi, c’è la questione delle alternative. Se le aziende internazionali non vanno in India, dove altro potrebbero andare? Alcuni anni fa, altri paesi dell’Asia meridionale avrebbero potuto essere considerati candidati allettanti. Ma questo è cambiato. Nell’ultimo anno lo Sri Lanka ha vissuto una crisi sociale, politica ed economica epocale. Il Pakistan è stato devastato da uno shock ambientale che ne ha aggravato la perenne vulnerabilità macroeconomica e l’instabilità politica. Anche il Bangladesh, a lungo un tesoro di sviluppo, è stato costretto a prendere in prestito dal Fondo monetario internazionale dopo l’invasione russa dell’Ucrainaha fatto salire i prezzi delle materie prime, esaurendo le riserve di valuta estera del paese. In mezzo a questa “policrisi” dell’Asia meridionale, come l’ha definita lo storico dell’economia Adam Tooze, l’India si distingue come un’oasi di stabilità.

Ancora più significativo è il confronto con la Cina, il più evidente concorrente economico dell’India. Nell’ultimo anno, il regime del presidente cinese Xi Jinping è stato colpito da molteplici sfide, tra cui la lenta crescita economica e un incombente declino demografico. I blocchi draconiani del COVID -19 da parte del Partito Comunista Cinese e l’assalto al settore privato hanno solo peggiorato le cose. Nelle ultime settimane, Pechino ha affrontato una popolazione sempre più irrequieta, comprese le proteste antigovernative più diffuse a cui il Paese ha assistito da decenni. La svolta del paese verso l’autoritarismo in patria e l’aggressione all’estero – e il governo incapace che ha tolto lo splendore al leggendario “modello cinese” – hanno reso l’India democratica ancora più invitante.

Infine, l’India ha adottato misure che, sulla carta, dovrebbero addolcire l’affare per le aziende internazionali. All’inizio del 2021, il governo ha introdotto il suo programma di incentivi legati alla produzione per fornire incentivi economici alle aziende manifatturiere sia straniere che nazionali che “Make in India”. Da allora, l’iniziativa PLI, che offre significativi sussidi ai produttori in settori avanzati come telecomunicazioni, elettronica e dispositivi medici, ha avuto alcuni notevoli successi. Nel settembre 2022, ad esempio, Apple ha annunciato che prevede di produrre tra il cinque e il dieci percento dei suoi nuovi modelli di iPhone 14 in India; ea novembre, Foxconn ha dichiarato di voler costruire un impianto di semiconduttori da 20 miliardi di dollari nel paese in collaborazione con un partner locale.

RETORICA CONTRO REALTÀ

Se l’India è davvero la terra promessa, però, a questi esempi se ne dovrebbero aggiungere molti altri. Le aziende internazionali dovrebbero mettersi in fila per spostare la loro produzione nel subcontinente, mentre le aziende nazionali dovrebbero incrementare i loro investimenti per incassare il boom. Eppure ci sono pochi segni che una di queste cose stia accadendo. Sotto molti aspetti, l’economia sta ancora lottando per riconquistare la sua base pre-pandemia.

Prendi il PIL dell’India. È vero – come non smettono di sottolineare entusiasti commentatori – che la crescita negli ultimi due anni è stata eccezionalmente rapida, superiore a quella di qualsiasi altro grande Paese. Ma questa è in gran parte un’illusione statistica. Tralasciato è che durante il primo anno della pandemia, l’India ha subito la peggiore contrazione della produzione di qualsiasi grande paese in via di sviluppo. Misurato rispetto al 2019, il PIL oggi è solo del 7,6% più grande, rispetto al 13,1% in Cina e al 4,6% negli Stati Uniti a crescita lenta. In effetti, il tasso di crescita annuo dell’India negli ultimi tre anni è stato di appena il due percento e mezzo, ben al di sotto del tasso annuo del sette percento che il paese considera il suo potenziale di crescita. La performance del settore industriale è stata ancora più debole.

E gli indicatori lungimiranti non sono certo più incoraggianti. Gli annunci di nuovi progetti (come misurato dal Center for the Monitoring of the Indian Economy) sono nuovamente diminuiti dopo un breve rimbalzo post-pandemia, rimanendo molto al di sotto dei livelli raggiunti durante il boom nei primi anni di questo secolo. Ancora più sorprendente, non ci sono molte prove del fatto che le aziende straniere stiano trasferendo la produzione in India. Nonostante tutti i discorsi sull’India come destinazione d’elezione per gli investimenti, gli investimenti diretti esteri complessivi hanno ristagnato nell’ultimo decennio, rimanendo intorno al due percento del PIL. Per ogni azienda che ha abbracciato l’opportunità dell’India, molte altre hanno avuto esperienze infruttuose in India, tra cui Google, Walmart, Vodafone e General Motors. Anche Amazon ha lottato,

Perché le aziende globali sono riluttanti a spostare le loro operazioni in Cina in India? Per lo stesso motivo per cui le imprese nazionali sono riluttanti a investire: perché i rischi rimangono troppo elevati.

BUG NEL SOFTWARE

Dei molti rischi per investire in India, due sono particolarmente importanti. In primo luogo, le imprese non hanno ancora la certezza che le politiche in vigore quando investono non verranno modificate in seguito, in modi che renderanno i loro investimenti non redditizi. E anche se il quadro politico rimane attraente sulla carta, le aziende non possono essere sicure che le regole saranno applicate in modo imparziale piuttosto che a favore dei “campioni nazionali”, i giganteschi conglomerati indiani che il governo ha favorito.

Questi problemi hanno già avuto gravi conseguenze. Le aziende di telecomunicazioni hanno visto i loro profitti devastati dal cambiamento delle politiche. I fornitori di energia hanno avuto difficoltà a trasferire gli aumenti dei costi ai consumatori ea riscuotere le entrate promesse dagli enti statali per l’elettricità. Le aziende di e-commerce hanno scoperto che le decisioni del governo sulle pratiche consentite possono essere revocate dopo aver effettuato ingenti investimenti secondo le regole originali.

Allo stesso tempo, i campioni nazionali hanno prosperato enormemente. Ad agosto 2022, quasi l’80 percento dell’aumento da inizio anno di 160 miliardi di dollari della capitalizzazione del mercato azionario indiano era dovuto a un solo conglomerato, l’Adani Group, il cui fondatore è improvvisamente diventato la terza persona più ricca del mondo. In altre parole, il campo di gioco è inclinato.

Né le aziende straniere possono ridurre i propri rischi collaborando con grandi aziende nazionali. Entrare in affari con i campioni nazionali è rischioso, poiché questi gruppi stanno cercando di dominare gli stessi campi redditizi, come l’e-commerce. E altre aziende nazionali non desiderano calpestare settori dominati da gruppi che hanno ricevuto ampi favori normativi dal governo.

IL PREZZO DI INGRESSO

Oltre ai rischi elevati, ci sono molte altre ragioni per cui è probabile che le aziende internazionali restino timide nei confronti dell’India. Uno degli elementi chiave dello schema PLI, ad esempio, è l’aumento delle tariffe sui componenti di fabbricazione estera. L’idea è di incoraggiare le aziende che si trasferiscono in India ad acquistare input nel mercato interno, ma l’approccio ostacola in modo significativo la maggior parte delle imprese globali, poiché i prodotti avanzati in molti settori sono tipicamente costituiti da centinaia o addirittura migliaia di parti provenienti dai produttori più competitivi in ​​tutto il mondo. Applicando tariffe elevate a queste parti, Nuova Delhi ha fornito un potente disincentivo per le imprese che contemplano investimenti nel paese.

Per aziende come Apple che intendono vendere i loro prodotti in India, le tariffe elevate all’importazione potrebbero essere un problema minore. Ma queste aziende sono poche e lontane tra loro, dal momento che il mercato indiano dei consumatori della classe media rimane sorprendentemente piccolo: non più di $ 500 miliardi rispetto a un mercato globale di circa $ 30 trilioni, secondo uno studio di Shoumitro Chatterjee e uno di noi (Subramanian) . Solo il 15 per cento della popolazione può essere considerato classe media secondo le definizioni internazionali, mentre i ricchi che rappresentano una quota importante del PIL tendono a risparmiare una quota consistente dei loro guadagni. Entrambi i fattori riducono i consumi della classe media. Per la maggior parte delle aziende, i rischi di fare affari in India superano i potenziali benefici.

Riconoscendo la crescente tensione tra le sue politiche protezionistiche e il suo obiettivo di migliorare la competitività globale dell’India, Nuova Delhi ha recentemente negoziato accordi di libero scambio con l’Australia e gli Emirati Arabi Uniti. Ma queste iniziative, con economie più piccole e meno dinamiche, impallidiscono rispetto a quelle dei concorrenti dell’India in Asia. Il Vietnam, ad esempio, ha firmato dieci accordi di libero scambio dal 2010, anche con la Cina, l’Unione europea e il Regno Unito, nonché con i suoi partner regionali nell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN).

DEFICIT PERICOLOSI

In qualsiasi paese, un ben noto prerequisito per il decollo economico è avere indicatori macroeconomici chiave in ragionevole equilibrio: i disavanzi fiscali e del commercio estero devono essere bassi, così come l’inflazione. Ma oggi in India questi indicatori sono fuori posto. Da ben prima dell’inizio della pandemia, l’inflazione è stata al di sopra del limite legale del sei percento stabilito dalla banca centrale. Nel frattempo, il disavanzo delle partite correnti dell’India è raddoppiato a circa il quattro percento del PIL nel terzo trimestre del 2022, poiché fatica ad aumentare le esportazioni mentre le sue importazioni continuano a crescere.

Naturalmente, molti paesi hanno problemi macroeconomici, ma la media di questi tre indicatori dell’India è peggiore che in qualsiasi altra grande economia, ad eccezione degli Stati Uniti e della Turchia. La cosa più preoccupante è che il disavanzo pubblico dell’India, intorno al 10% del PIL, è uno dei più alti al mondo, con il solo pagamento degli interessi che rappresenta oltre il 20% del bilancio. (In confronto, i pagamenti del debito rappresentano solo l’8% del bilancio degli Stati Uniti.) Ad aggravare la situazione è la difficile situazione delle società di distribuzione elettrica statali indiane, le cui perdite sono ora circa l’1,5% del PIL, oltre ai deficit fiscali.

Il mercato della classe media indiana rimane sorprendentemente piccolo.

Un ultimo ostacolo alla crescita è un profondo cambiamento strutturale che ha minato il dinamismo e la competitività dell’impresa privata. Il vasto settore informale indiano è stato particolarmente colpito: in primo luogo dalla demonetizzazione nel 2016 delle banconote di grosso taglio, che ha inferto un colpo devastante alle imprese più piccole che mantenevano il capitale circolante in contanti; poi da una nuova tassa sui beni e servizi l’anno successivo; e infine dalla pandemia di COVID-19 . Di conseguenza, l’occupazione di lavoratori poco qualificati è diminuita in modo significativo e i salari rurali reali sono effettivamente diminuiti, costringendo la popolazione indiana povera ea basso reddito a ridurre i propri consumi.

Queste vulnerabilità del mercato del lavoro ci ricordano che il decantato settore digitale del paese, le cui promesse sembrano quasi illimitate, impiega lavoratori altamente qualificati che costituiscono una piccola parte della forza lavoro. Pertanto, l’ascesa dell’India come potenza digitale, indipendentemente dal successo, sembra improbabile che generi benefici a livello economico sufficienti per effettuare la più ampia trasformazione strutturale di cui il paese ha bisogno.

LA SCELTA DELL’INDIA

In altre parole, l’India deve affrontare tre ostacoli principali nella sua ricerca per diventare “la prossima Cina”: i rischi di investimento sono troppo grandi, l’interiorità politica è troppo forte e gli squilibri macroeconomici sono troppo grandi. Questi ostacoli devono essere rimossi prima che le aziende globali investano, poiché hanno altre alternative. Possono riportare le loro operazioni nell’ASEAN, che fungeva da fabbrica mondiale prima che quel ruolo si trasferisse alla Cina. Possono riportarli a casa nei paesi avanzati, che hanno svolto quel ruolo prima dei paesi dell’ASEAN. Oppure possono mantenerli in Cina, accettando i rischi sulla base del fatto che l’alternativa indiana non è migliore.

Se le autorità indiane sono disposte a cambiare rotta e rimuovere gli ostacoli agli investimenti e alla crescita, le dichiarazioni rosee degli esperti potrebbero davvero avverarsi. In caso contrario, tuttavia, l’India continuerà a cavarsela, con parti dell’economia che vanno bene ma il paese nel suo insieme non riesce a raggiungere il suo potenziale.

I politici indiani potrebbero essere tentati di credere che il declino della Cina decreti la vertiginosa rinascita dell’India. Ma, alla fine, se l’India si trasformerà o meno nella prossima Cina non è solo una questione di forze economiche globali o di geopolitica. È qualcosa che richiederà un drastico cambiamento di politica da parte della stessa Nuova Delhi.

  • ARVIND SUBRAMANIAN è Senior Fellow presso la Brown University ed è stato Chief Economic Adviser del governo indiano dal 2014 al 2018.
  • JOSH FELMAN è  Principal presso JH Consulting ed è stato Senior Resident Representative del Fondo Monetario Internazionale in India dal 2006 al 2008.

https://www.foreignaffairs.com/india/why-india-cant-replace-china

La finanziarizzazione e il problema della distruzione reciproca del capitale, di Marc Rohatyn

Il secondo di due saggi sul ruolo degli strumenti finanziari nel determinare le caratteristiche e le tendenze delle formazioni economiche cinese e statunitense. Strutture profondamente diverse e con tendenze e problemi di natura diversa, ma con un una questione di base comune: quello di stabilizzare e rendere autopropulsiva la propria base industriale diffusa. Se per i cinesi si tratta di consolidare definitivamente la propria condizione in una fase ascendente, per gli americani si pone il problema di una vera e propria ricostruzione industriale su basi più equilibrate. E’ uno dei termini fondamentali del feroce dibattito che ha interessato gli Stati Uniti dal 2016, con l’arrivo di Trump. Una discussione altrettanto seria presente in Cina, della quale conosciamo ancora poco i termini e le dinamiche di confronto politico e le implicazioni geopolitiche. Buona lettura, Giuseppe Germinario

La scienza, così come la tecnologia, nel prossimo e nel lontano futuro si trasformeranno sempre più da problemi di intensità, sostanza ed energia, a problemi di struttura, organizzazione, informazione e controllo.

—John von Neumann, 1949

Il matematico John von Neumann prevedeva come la modellizzazione economica sempre più sofisticata e l’intelligenza artificiale automatizzata avrebbero portato al primato dei giochi di informazioni. In effetti, von Neumann inventò uno dei primi computer elettronici, lavorò al Progetto Manhattan e sviluppò il campo della teoria economica dei giochi, che avrebbe utilizzato per sviluppare la teoria della “Mutually Assured Destruction” come consigliere degli Stati Uniti sulla sua strategia nucleare. In tal modo, ha visto in prima persona come la logica economica della teoria dei giochi fosse in grado di rendere conto del comportamento che coinvolge le armi più distruttive inventate dall’umanità.

Un problema meno apocalittico di “struttura, organizzazione, informazione e controllo” – eppure centrale nell’ordine sociopolitico del ventunesimo secolo – è affrontato dagli allocatori di capitale e dai manager d’impresa che mirano a massimizzare il valore per gli azionisti. La quota crescente di risorse e la gamma di strategie, in particolare quelle che cercano di aumentare i valori delle azioni facendo affidamento su nessuna o solo modifiche accidentali alla produttività sottostante delle operazioni delle aziende, impiegate nella gestione patrimoniale e nella governance esemplifica la tendenza secolare prevista da von Neumann.

Quali sono le conseguenze dell’ascesa di un settore che cerca di massimizzare il valore dei portafogli di attività in modo più efficiente? Al livello più superficiale, il settore finanziario ha catturato una quota crescente del PIL, dei profitti e del capitale umano. L’influenza di una base di investitori sofisticata sulla natura dell’allocazione del capitale aziendale, tuttavia, ha avuto conseguenze maggiori rispetto alle rendite che ricava. I critici della finanziarizzazione hanno illustrato in modo convincente come un paradigma di asset governance progettato per massimizzare il valore per gli azionisti abbia creato un cuneo tra crescita del valore degli asset e produttività, investimento netto e crescita salariale. I profitti aziendali si sono sempre più concentrati all’interno di aziende superstar a basso contenuto di risorse e ad alto margine, e gli eccessi di profitto che una volta erano investiti in capitale fisico e utilizzati per produrre una prosperità più ampia sono stati dirottati verso l’acquisto di attività esistenti nei mercati pubblici e privati.

Politici come Elizabeth Warren possono incolpare la semplice avidità per questo approccio estrattivo all’allocazione del capitale, ma senza un resoconto strutturale della relazione tra finanziarizzazione e concorrenza, argomenti che denigrano riacquisti, acquisizioni con leva finanziaria, asset stripping, concentrazione del settore e altre forme di ingegneria finanziaria possono essere respinto sulla base del fatto che non vi è motivo di ritenere che l’efficienza sociale dei mercati sia stata ridotta. La dislocazione tra i valori degli asset e la crescita della produttività potrebbe semplicemente essere il risultato di un’allocazione del capitale più dinamica che aumenterà la prosperità a lungo termine.

Un esame del modo in cui i mercati odierni e gli incentivi gestionali modellano l’allocazione del capitale, tuttavia, rivela che la più potente forza economica che la finanziarizzazione ha scatenato a vantaggio degli azionisti non è l’avidità, ma il consenso. Creando incentivi per massimizzare i profitti complessivi del settore e ridurre al minimo gli investimenti competitivi, un modello di asset governance incentrato sugli azionisti ha minato la competitività dei mercati e incoraggiato un coordinamento de facto tra le imprese a vantaggio dei proprietari di asset a scapito di una più ampia prosperità.

Spostare il focus della concorrenza

Negli ultimi quattro decenni, i mercati statunitensi sono passati da un modello di allocazione del capitale basato sui valori delle singole imprese a uno basato sui valori di portafoglio dei gestori patrimoniali. Nel primo modello, i manager aziendali guidano l’economia cercando di massimizzare la crescita dei valori delle rispettive aziende. Nella seconda, il ruolo di primo piano è assunto dagli asset manager che riequilibrano le asset allocation e influenzano i comportamenti delle singole imprese per massimizzare il valore aggregato del portafoglio. Questo cambiamento è stato reso possibile da due innovazioni fondamentali.

Il primo è la crescita di un complesso di asset management, composto da fondi comuni, gestori patrimoniali alternativi e fondi indicizzati passivi, che ha aumentato la trasparenza delle informazioni e l’efficienza con cui la ricchezza dei proprietari può essere ribilanciata attraverso un più ampio universo di asset per massimizzare il portafoglio valore. In quanto clienti, i proprietari di asset guidano la finanziarizzazione attraverso la loro richiesta di un’allocazione del portafoglio più ottimale tra gli asset. Dagli anni ’80, la quota di proprietà degli investitori istituzionali è cresciuta dal 20% all’80% poiché la quota di partecipazione diretta da parte degli individui è diminuita. L’aumento dei piani pensionistici a contribuzione definita ha originariamente alimentato la crescita dei fondi comuni di investimento a gestione attiva. Le dotazioni e gli stanziamenti dei fondi pensione si sono spostati sempre più verso classi di attività alternative, storicamente al centro di individui con un patrimonio netto elevato, alla ricerca di rendimenti più elevati, e questa domanda è stata soddisfatta da un’industria in crescita di hedge fund, società di private equity e venture capitalist. Insieme a un’industria di banchieri, avvocati e consulenti, questi gestori patrimoniali alternativi strutturano le risorse, ne determinano il valore e consentono scommesse concentrate sulle singole aziende nei mercati pubblici e privati. Più recentemente, la crescita della gestione istituzionale è stata trainata dall’aumento degli indici passivi e dei fondi negoziati in borsa, che dal 1990 hanno aumentato gli asset in gestione da quasi zero a oltre $ 10 trilioni. I principali gestori di indici passivi e di fondi comuni di investimento (BlackRock , Vanguard, State Street, Fidelity e Capital Group) ora gestiscono asset per oltre 34 trilioni di dollari. Parallelamente, la crescita e la digitalizzazione dei mercati dei capitali, insieme all’espansione dell’universo degli asset investibili, ha ridotto i costi e aumentato le opportunità di ribilanciamento dei portafogli di asset.

Un secondo, correlato e in gran parte simultaneo, strutturalel’innovazione è la proliferazione di meccanismi che consentono una maggiore influenza sulla governance dell’impresa da parte di sofisticati proprietari e allocatori di asset. O, in altre parole, meccanismi che assicurino un maggiore allineamento della governance e dei comportamenti delle singole imprese agli interessi degli azionisti, che in pratica spesso significano interessi degli asset manager. Sebbene l’influenza degli azionisti sulle operazioni delle imprese sia sempre stata un meccanismo fondamentale dei mercati capitalistici, la portata di tale controllo è cresciuta rapidamente ed è più ampia di quanto non sia mai stata a causa dell’ascesa della governance istituzionale degli asset. Ciò include l’influenza degli hedge fund attivisti nel dettare le priorità ai team di gestione delle società pubbliche in cui hanno accumulato partecipazioni concentrate, o l’influenza diretta dei partner di private equity sui consigli di amministrazione delle società in portafoglio che possiedono a titolo definitivo. O, in modo diverso, l’influenza di Vanguard, State Street e BlackRock sui loro componenti dell’indice; collettivamente i principali gestori di indici hanno una quota media di quasi il 20 percento nelle società S&P 500 ed esercitano un’influenza attraverso riunioni private con i team di gestione e voti per delega. Inoltre, la proliferazione di compensi basati su azioni e un consenso instillato dall’MBA per dare la priorità al valore per gli azionisti ha creato incentivi e culture all’interno delle aziende che sono allineate con l’influenza istituzionale dall’alto verso il basso.

La combinazione di queste innovazioni ha sostituito le forze competitive di un’economia incentrata sull’impresa, in cui le imprese competono tra loro per servire i clienti, con gli incentivi di un’economia incentrata sugli azionisti, in cui gli asset allocators competono tra loro per servire meglio gli asset proprietari. Mentre in passato le aziende possono aver investito in modo eccessivo in asset fisici e ricerca e sviluppo a scapito dell’efficienza del capitale e dei rendimenti finanziari, oggi è probabile che privilegino questi ultimi, sapendo che è improbabile che le imprese rivali, operando anche secondo le priorità stabilite dai gestori patrimoniali competere aumentando gli investimenti.

Quindi, nonostante la crescita record dei valori degli asset, il tasso al quale le aziende americane hanno accresciuto la base di capitale che crea ricchezza e valore sociale più ampio è stagnante. L’attenzione alla massimizzazione dei rendimenti per gli azionisti, anziché alla massimizzazione dei profitti operativi e della produttività delle imprese, porta i manager ad applicare soglie di ritorno per gli investimenti, o tassi limite, molto al di sopra del loro costo del capitale e restituire profitti in eccesso invece di investirli.

Tuttavia, l’esodo di capitali dalle industrie consolidate non è sufficiente per incriminare i mercati. Un paradigma di “massimizzazione del valore dell’impresa”, in cui le aziende investono solo nelle opportunità più attraenti a livello locale, porterebbe al sequestro arbitrario del capitale all’interno delle industrie. Ma servire gli interessi degli azionisti richiede di valutare le opportunità locali rispetto al rendimento marginale più elevato disponibile in un universo di investimento più ampio. Se le aziende hanno storicamente investito in modo eccessivo nei rispettivi settori in aggregato, non sorprende che il risultato dell’applicazione di un approccio più rigoroso all’allocazione del capitale aggiusterà gli hurdle rate al rialzo rispetto al costo del capitale per indirizzare le risorse verso usi più efficienti altrove. Ma va notato che la transizione da un approccio di allocazione del capitale orientato all’impresa verso un approccio di allocazione del capitale “efficiente” spingerà meccanicamente verso il basso i livelli di investimento competitivo nei settori “maturi” fino a quando i rendimenti degli investimenti competitivi in ​​questi settori non saranno uguali ai più alti rendimenti marginali disponibili altrove. Un passaggio dalla massimizzazione del valore dell’impresa alla massimizzazione del valore per gli azionisti è, quindi, un riequilibrio della concorrenza e dovrebbe riguardarci dove la concorrenza viene diminuita e dove sta aumentando.

L’evidenza suggerisce che il luogo della concorrenza nell’economia statunitense oggi è nel mercato dell’acquisto di attività con leva, che fornisce agli investitori i rendimenti marginali più elevati (corretti per il rischio) e continua ad attrarre capitali. Le attività di private equity in gestione hanno raggiunto i 9,8 trilioni di dollari a luglio 2021 e il capitale non ancora utilizzato (“polvere secca”) continua ad accumularsi. Gli ultimi quattro decenni hanno visto la crescita esplosiva di un’industria di acquisto di attività con leva, amplificata dal credito a basso costo, che fa salire i prezzi di attività con affitti elevati.

Una relativa mancanza di informazioni e liquidità tra le imprese private ha anche portato a opportunità di acquisto a sconto rispetto ai mercati pubblici. Nei mercati privati, l’esistenza di attività sottocomprate significa che i rendimenti marginali rimangono elevati e che i profitti in eccesso vengono reinvestiti in una maggiore attività di acquisto; questo passaggio dalla costruzione all’acquisto potrebbe persistere per qualche tempo. L’acquisto di asset non è una serie di trasferimenti di denaro istantanei che lasciano il capitale libero di essere immediatamente ridistribuito per investimenti produttivi; il repricing al rialzo degli asset è un processo che richiede tempo e risorse che sottrae capitale finanziario alla costruzione di asset produttivi, aumentando la domanda di beni fisici e manodopera, e lo dirige verso l’attività di creazione di informazioni.

Inoltre, le attività con potere di mercato che possono trarre profitto dagli affitti non sono solo sottocomprate; sono anche sotto-leva. Un resoconto popolare fornito dai critici dell’ingegneria finanziaria è che la leva applicata dagli investitori per aumentare i rendimenti azionari ha un impatto negativo sugli altri stakeholder aumentando le possibilità di insolvenza. Ma questo fenomeno non si limita alle decisioni di leva finanziaria; in nome della massimizzazione del valore per gli azionisti, le aziende effettuano compromessi analoghi tra investimenti di riduzione del rischio (ad es. sicurezza, cybersecurity, integrità del prodotto, eccesso di capacità della catena di approvvigionamento, resilienza delle infrastrutture) e restituzione di denaro agli azionisti. Su un lasso di tempo sufficientemente lungo, i fornitori di tecnologia critica che non investono nella sicurezza informatica verranno violati; le aziende che non investono in resilienza e sicurezza ingegneristiche subiranno malfunzionamenti (ad es. aerei che cadono dal cielo, linee elettriche guaste, dighe che crollano); e le imprese sovraindebitate falliranno nelle flessioni cicliche. Con il 100% di capitale a rischio, questi eventi possono manifestarsi come una distruzione catastrofica della ricchezza per i proprietari e compromettere i rendimenti futuri, ma non se un fallimento critico ha un impatto solo sul 5% del portafoglio di uno sponsor finanziario.

La capacità dei proprietari di asset di diversificare significa che i risparmi derivanti dalla riduzione degli investimenti di riduzione del rischio in un intero portafoglio possono compensare i fallimenti relativamente rari ma catastrofici subiti dalle singole società. Questo incentivo è ulteriormente esagerato se l’aumento del rischio non è immediatamente osservabile su un orizzonte di investimento di private equity da tre a cinque anni e ha un impatto limitato sul prezzo delle azioni. Questo è un fattore fondamentale per i rendimenti del private equity: gli investitori incentivano la gestione delle singole aziende ad assumere livelli di rischio che massimizzano i rendimenti aggregati del portafoglio, ma sarebbero subottimali o addirittura catastrofici per un proprietario-operatore completamente investito, o anche un manager aziendale legato a una società . Fondamentalmente, la capacità di diversificare è un vantaggio unico per i proprietari di asset.

Quando gli investitori o le imprese consolidate effettuano investimenti fisici, l’eccezione conferma la regola: gli investimenti devono avere un’elevata efficienza patrimoniale (ricavi per dollaro di attività fisiche) e potere di mercato (capacità di addebitare più dei costi marginali). Sebbene a un certo livello sembri naturale deridere le critiche ai sani principi di investimento, l’impatto di un ribilanciamento di massa delle attività verso modalità di produzione finanziariamente ottimali è un problema per le parti interessate che non sono proprietari di attività e per l’economia nel suo insieme. Ogni dollaro di capitale successivamente investito ricostruisce la base di capitale americana a un tasso ridotto e in una forma che avvantaggia un minor numero di persone (asset-light) ed estrae maggiori rendite (margini più elevati).

Il consenso anticoncorrenziale

Ma anche un passaggio aggregato dall’edilizia all’acquisto non è una prova che i mercati siano rotti; nonostante sia descritto come pura speculazione, l’acquisto di asset ha un valore economico. Man mano che il capitale finanziario scorre tra i proprietari di asset, lascia informazioni aggiornate sui prezzi invece di asset fisici. L’aumento dei prezzi delle attività in un determinato settore dovrebbe consentire una maggiore concorrenza segnalando l’esistenza di profitti in eccesso e diminuendo il costo del capitale per i partecipanti competitivi.

La mancanza di informazioni che provoca costi di capitale più elevati è la barriera all’ingresso nella maggior parte degli scenari di investimento, non il costo iniziale fisso in sé e per sé. Considera che i concorrenti di Tesla sono stati in grado di raccogliere enormi quantità di capitale sulla scia del successo di Tesla sui mercati dei capitali. In questo senso, gli investimenti competitivi nella costruzione della capacità produttiva sono a valle della trasparenza dei prezzi per gli incumbent. In teoria, il capitale alla fine ritornerà verso l’investimento fisico dopo che gli asset sono stati offerti nella misura in cui costruirne di nuovi diventi relativamente più attraente. In altre parole, il legame tra valore patrimoniale e sottostante crescita della produttività e prosperità del lavoro può essere stato allungato, ma non è necessariamente interrotto. I critici che sottolineano l’attuale stagnazione nella crescita della produttività in mezzo alla crescita incontrollata dei prezzi delle attività devono affrontare l’intrinseca non falsificabilità dell’efficienza del mercato a lungo termine. Chi può provare che la mancanza di investimenti che si traduce in una rinuncia all’innovazione e l’erosione della base industriale statunitense non sarà compensata dalla futura crescita della produttività sbloccata da un’allocazione di capitale più efficiente?

Tuttavia, il fatto che le valutazioni siano ai massimi ciclici e che i margini di profitto siano sani suggerirebbe che gli investimenti competitivi dovrebbero essere altamente attraenti. Eppure, le aziende con rendite elevate e asset light che hanno visto aumenti fulminei delle valutazioni, in generale, non stanno vedendo un afflusso di concorrenti e investimenti per competere con profitti elevati.

Nei mercati privati, le società di private equity raramente effettuano investimenti competitivi in ​​capacità e innovazione anche nei mercati in cui trovano asset con un potere di mercato interessante, nonostante livelli record di polvere secca. Allo stesso modo in cui l’aumento dei prezzi della carne bovina nonostante i prezzi più bassi del bestiame può segnalare una mancanza di concorrenza nella lavorazione della carne, un divario persistente tra il costo del capitale e le hurdle rate segnala un approccio anticoncorrenziale agli investimenti.

L’economia neoclassica sostiene che la collusione oligopolistica è instabile nonostante sia più vantaggiosa della concorrenza, ma non ha tenuto conto dell’ascesa di un sofisticato settore della gestione patrimoniale dedito alla massimizzazione dei valori degli asset. Qualsiasi critica sostanziale o difesa della finanziarizzazione deve quindi riguardare se abbia creato condizioni che incentivino una mancanza di concorrenza o consentano comportamenti anticoncorrenziali. E infatti, mercati più efficienti e trasparenti possono rendere la concorrenza meno attraente.

L’idea che mercati efficienti rendano la concorrenza meno attraente dal punto di vista finanziario non è un concetto esoterico. In effetti, è la tesi di testi divulgativi sulla gestione strategica. In “Che cos’è la strategia?” di Michael Porter e Zero to One di Peter Thiel, gli autori sostengono che i rendimenti fuori misura sono guidati dalla creazione di un vantaggio competitivo attraverso innovazioni rivoluzionarie invece che dalla concorrenza incrementale nei settori esistenti. Un regime competitivo in cui le imprese possono confrontarsi reciprocamente con le innovazioni rende gli investimenti equivalenti a una tassa. È quindi improbabile che le innovazioni o le strategie operative che possono essere facilmente copiate vengano finanziate perché non forniscono un vantaggio competitivo duraturo e mercati efficienti dal punto di vista informativo facilitano l’accertamento e la copia del comportamento competitivo. La diffusione delle informazioni riflesse nei prezzi delle attività rende più difficile trattenere i profitti derivanti dagli investimenti in efficienze produttive incrementali e innovazioni di prodotto.

La prospettiva più preoccupante è che ci siamo spostati verso una struttura di mercato in cui la concorrenza tra imprese di qualsiasi tipo non è solo meno vantaggiosa, ma addirittura dannosa per i proprietari di asset. Si consideri un mercato in cui i proprietari di asset hanno partecipazioni uniformi in tutti gli asset investibili e i gestori d’impresa sono perfettamente incentivati ​​ad operare nel migliore interesse degli azionisti. Cosa significa massimizzare il valore per gli azionisti in questo contesto? In quali casi un investimento competitivo sarebbe vantaggioso per i proprietari di asset?

In questo scenario, l’unico incentivo a competere verrebbe dalla minaccia dei nuovi entranti che cercano di catturare la propria quota del pool di profitti. Ma perché le aziende dovrebbero sprecare denaro nel tentativo di interrompere preventivamente se stesse se i loro azionisti possono semplicemente ottenere esposizione ai perturbatori attraverso allocazioni al capitale di rischio? In questa ipotesi, ci si aspetterebbe una cessazione dell’attività competitiva a favore dell’acquisto di attività e una sempre maggiore esternalizzazione dell’innovazione dalle imprese mature. Certo, nessun mercato è interamente definito da queste caratteristiche, ma questi effetti sono oggi sempre più presenti.

Le industrie con una maggiore concentrazione e una proprietà più comune investono meno, anche dopo aver controllato le attuali condizioni di mercato e gli intangibili. All’interno di ciascun settore, il divario di investimento è guidato da imprese di proprietà di quasi-indicizzatori e ubicate in settori con maggiore concentrazione e proprietà più comuni. Queste aziende restituiscono agli azionisti una quantità sproporzionata di flussi di cassa gratuiti.

Ma anche questa linea di argomentazione sminuisce la portata degli incentivi anticoncorrenziali trascurando il potere dei mercati di stabilire una conoscenza comune e coordinare i comportamenti senza l’influenza diretta dei grandi azionisti. Il mercato azionario non è solo un mezzo per trasmettere informazioni sui prezzi, ma anche per coordinare i comportamenti creando un circolo vizioso di feedback immediato tra proprietari e gestori di asset. Nello stesso articolo in cui prevedeva una svolta verso “problemi di struttura, organizzazione, informazione e controllo”, von Neumann fornisce una definizione per i meccanismi di feedback:

[Feedback] osserva la relazione di un meccanismo con l’ambiente circostante, percepisce continuamente la direzione in cui i controlli del meccanismo devono essere regolati per avvicinarlo a una certa relazione desiderata con quelli circostanti, effettua la regolazione di questi controlli in la direzione indicata, e quindi fa sì che il meccanismo trovi gradualmente la posizione desiderata mediante questa procedura automatica.

In questo senso, le forze economiche che hanno plasmato l’economia americana negli ultimi quattro decenni sono simili a quelle che hanno dettato la traiettoria della corsa agli armamenti nucleari del ventesimo secolo. Proprio come gli stati-nazione avvieranno un primo attacco solo se la ritorsione sarà inefficace, i proprietari di asset perseguiranno investimenti solo dove possono creare un vantaggio competitivo duraturo. Per gli stati-nazione, lo sviluppo di arsenali nucleari grandi e più sofisticati ha neutralizzato qualsiasi potenziale vantaggio di primo colpo e questa distruzione reciprocamente assicurata ha stabilito le condizioni per una sorta di equilibrio pacifico. Così anche mercati più efficienti hanno minato la capacità delle imprese di mantenere il vantaggio competitivo nei mercati maturi. Ma la risposta delle aziende non è massimizzare gli investimenti, come le scorte di armi, ma piuttosto, in base al feedback degli asset manager, minimizzare il più possibile gli investimenti competitivi.

Rispetto alla capacità dei proprietari di asset distribuiti di punire collettivamente il comportamento dell’impresa che diminuisce i profitti complessivi del settore, la preoccupazione di Adam Smith che gli incontri tra concorrenti si tradurrebbero in una “cospirazione contro il pubblico, o in qualche espediente per aumentare i prezzi” sembra bizzarra. Il consenso nei mercati moderni opera secondo i principi di John von Neumann, non di Adam Smith, ed è più minaccioso dell’avidità a breve termine per l’efficienza sociale del capitalismo. Le aziende sanno che loro e i loro concorrenti hanno ricevuto lo stesso mandato per raggiungere obiettivi di guadagno successivi e applicare tassi di ostacolo elevati nella valutazione degli investimenti. Il consenso comune per evitare comportamenti concorrenziali è stabilito dalla reciproca conoscenza dei gestori che loro e i loro colleghi sono compensati da azioni che diminuiranno di valore se il mercato percepisce un rischio di concorrenza che diminuirebbe i profitti complessivi del settore. In questo senso, i margini operativi S&P in costante aumento, piuttosto che derivati ​​sempre più complessi, sono il volto più sinistro di un’economia finanziarizzata.

La decisione se investire o restituire il capitale dovrebbe idealmente essere presa dai gestori caso per caso. Ma con un feedback immediato del mercato e una compensazione basata su azioni, i manager devono anche convincere il mercato che le decisioni di allocazione del capitale sono valide. Solo una minoranza di gestori ha il mandato del mercato di perseguire investimenti significativi, di solito CEO-fondatori (come Elon Musk e Jeff Bezos) che operano in mercati in rapida crescita in cui ampie fette di quote di mercato sono ancora in palio. Questo consenso anticoncorrenziale reso possibile dall’allineamento degli incentivi per gli azionisti e dall’immediato ciclo di feedback dei mercati dei capitali fornisce una spiegazione fondamentale di come le società S&P 500 possono evitare investimenti competitivi ed espandere meccanicamente i margini ogni anno. Ma questo problema strutturale è spesso erroneamente caratterizzato dai critici come “breve termine, quando sia le motivazioni che gli effetti sono più profondi e complessi.

Alcuni apologeti dello status quo hanno interpretato il fatto che le imprese pubbliche investono più delle imprese private come prova che la compensazione basata su azioni e i riacquisti non sono la causa alla base del sottoinvestimento perché il minor investimento delle imprese private non può essere spiegato dal “breve termine” indotto dal mercato .” Ma questo ragionamento confonde un consenso anticoncorrenziale indotto dal mercato con un “breve termine” comportamentale tra i singoli dirigenti. L’assenza di obblighi di informativa al pubblico non significa che le imprese private siano meno soggette alla pressione degli investitori per perseguire comportamenti anticoncorrenziali.

Si consideri l’approccio adottato dalle società di private equity nella valutazione dei potenziali investimenti In genere, i fondi di private equity intrattengono solo l’acquisto di società leader di mercato oppure perseguono “giochi di piattaforma”, utilizzando fusioni e acquisizioni aggressive per raggruppare società più piccole in settori non consolidati. Sebbene la logica delle sinergie di costo e di altre efficienze di scala rendano i roll-up sempre più attraenti, gli investitori sono principalmente interessati alla quota di mercato relativa, alle dimensioni del mercato e alla crescita del mercato dell’obiettivo e alla capacità di aumentare i prezzi in modo coerente anno dopo anno.

Inoltre, le grandi società private che competono tra loro sono spesso di proprietà di società di private equity rivali e un consenso anticoncorrenziale è molto più facile da stabilire nei settori dominati da società di investimento che competono per fornire una soglia minima di ritorno sull’investimento ai propri clienti. Quando tutti i partecipanti al gioco sanno che i loro obiettivi di rendimento comprendono aumenti annuali dei prezzi e spese in conto capitale ridotte, le guerre dei prezzi e l’innovazione competitiva vengono effettivamente escluse come strategie plausibili. Questo approccio è esemplificato dal fatto che le società di private equity, durante la diligenza, in genere si concentrano sulla determinazione della misura in cui gli attori del settore target sono “razionali”, ovvero se eviteranno collettivamente di impegnarsi in concorrenza sui prezzi. Aneddoticamente, gli MBA riferiscono che la conoscenza del loro programma educativo più rilevante per il loro ruolo di investitori è meglio riassunta come “investi in imprese con un alto grado di potere di mercato”.

Pertanto, l’espansione di un’influenza più diretta degli investitori sulle singole imprese attraverso la compensazione basata su azioni e il consolidamento della proprietà privata ha incentivato un cessate il fuoco degli investimenti che consente alle imprese di evitare la distruzione del capitale reciprocamente assicurata, assicurando una pace più redditizia per gli azionisti. La finanziarizzazione non solo ha reindirizzato il capitale verso l’acquisto di attività, ma ha spostato l’equilibrio aggregato dei mercati della teoria dei giochi dalla concorrenza al consenso, consentendo alle imprese di servire meglio gli interessi ristretti dei proprietari di attività.

Lo stimolo monetario in un mondo finanziarizzato

Un resoconto strutturale dei meccanismi che producono consenso tra le imprese fornisce anche informazioni su come politiche monetarie e fiscali più flessibili influiscano sul comportamento delle imprese e trasferiscano ricchezza ai proprietari di attività. Gli analisti che si fanno beffe dell’idea che l’avidità delle imprese stia alimentando l’inflazione dei prezzi al consumo trascurano che, sebbene l’inflazione monetaria non sia il prodotto di un comportamento anticoncorrenziale, quest’ultima contribuisce a un consenso che consente alle imprese di coordinare gli aumenti dei prezzi in modo più efficace. Naturalmente, le aziende non sono diventate unicamente avide; invece, un regime inflazionistico ha consolidato un equilibrio cooperativo di aumenti dei prezzi.

In un’economia finanziarizzata, una politica monetaria accomodante non solo rafforza ulteriormente un consenso anticoncorrenziale, ma costituisce anche un trasferimento di ricchezza diretto ai proprietari di attività. Tassi di interesse più bassi influenzano l’attività economica reale riducendo gli oneri finanziari sulla premessa che questo minor costo del capitale sarà trasmesso in tutta l’economia sotto forma di maggiori spese in conto capitale, e quindi avvierà un ciclo di feedback positivo di domanda e offerta. La politica monetaria accomodante, tuttavia, costituisce anche un trasferimento economico ai proprietari di attività oa chiunque cerchi di acquistare attività con leva finanziaria. Di conseguenza, la politica della Fed ha contribuito a un boom dell’attività di acquisto di attività e la valutazione delle società si è adeguata al rialzo per riflettere il sostegno della banca centrale. Criticamente, però, in un regime di inflazione monetaria, chiunque sia più vicino al rubinetto della creazione monetaria riceverà enormi benefici. Considera uno scenario in cui la Federal Reserve ti fornisce personalmente un trilione di dollari per stimolare l’economia generale. Man mano che spendi il tuo stimolo, i prezzi si adegueranno gradualmente al rialzo, ma alla fine della tua follia di acquisto tu e coloro a cui hai assegnato prima il capitale (attraverso il consumo o l’investimento) avrete ricevuto il massimo beneficio. Questa proprietà eterogenea della trasmissione monetaria è nota come effetto Cantillon, e Matt Stoller ha descritto come esso mina sia l’economia a cascata che la politica monetaria accomodante. i prezzi si adegueranno gradualmente al rialzo, ma alla fine della tua follia di acquisto tu e coloro a cui hai assegnato prima il capitale (attraverso il consumo o l’investimento) avrete ricevuto il massimo beneficio. Questa proprietà eterogenea della trasmissione monetaria è nota come effetto Cantillon, e Matt Stoller ha descritto come esso mina sia l’economia a cascata che la politica monetaria accomodante. i prezzi si adegueranno gradualmente al rialzo, ma alla fine della tua follia di acquisto tu e coloro a cui hai assegnato prima il capitale (attraverso il consumo o l’investimento) avrete ricevuto il massimo beneficio. Questa proprietà eterogenea della trasmissione monetaria è nota come effetto Cantillon, e Matt Stoller ha descritto come esso mina sia l’economia a cascata che la politica monetaria accomodante.

Inoltre, in un’economia finanziarizzata, l’effetto Cantillon è amplificato. hurdle rate elevati al di sopra del costo del capitale e margini di profitto più elevati consentono ai gestori patrimoniali di ottenere un rendimento maggiore per ogni dollaro investito. Un consenso a restituire il capitale invece di investirlo significa che la maggior parte dello stimolo monetario rimane sequestrato nell’acquisto di attività per un periodo di tempo più lungo e lontano dagli investimenti produttivi; il valore non scenderà fino a quando i prezzi delle attività non saranno stati offerti in modo omogeneo per riflettere l’inflazione monetaria. Al suo interno, un mondo finanziarizzato è un mondo di inflazione degli asset, in cui i profitti in eccesso derivanti dai margini estesi e gli investimenti ridotti consentiti dalla mancanza di concorrenza vengono continuamente ribilanciati tra gli asset esistenti e il trasferimento di ricchezza dello stimolo monetario è catturato in modo più efficiente da proprietari di beni.

Aggiornamento dei modelli di concorrenza d’impresa

Negli ultimi decenni, le innovazioni dei mercati finanziarizzati hanno incentivato un consenso anticoncorrenziale all’interno del settore aziendale. Una tendenza alla riduzione della concorrenza spiega la persistenza del divario tra il costo del capitale e gli ostacoli agli investimenti, che ha portato a una riduzione aggregata degli investimenti complessivi, insieme al consolidamento in molti settori e all’espansione dei margini. Le questioni relative alla concorrenza nei mercati e ai fattori che consentono un consenso tra le aziende e i proprietari di attività introducono una linea di critica più seria rispetto all’accusa di “avidità aziendale” o “breve termine” e forniscono un quadro per comprendere l’impatto del comportamento dell’impresa e politiche macroeconomiche.

Molti dibattiti economici contemporanei rimangono fondati su modelli più vecchi di concorrenza tra imprese. Ma l’economia odierna è in gran parte caratterizzata da un consenso tra le imprese indotto dal feedback del mercato che riflette le priorità dei gestori patrimoniali e gli interessi dei proprietari di patrimoni. Il riconoscimento di questo fatto è il primo passo verso una migliore comprensione del capitalismo odierno e verso politiche che affrontino le sue principali debolezze, in particolare incentivi contro gli investimenti competitivi in ​​molti settori.

Marc Rohatyn è lo pseudonimo di uno scrittore che lavora nel settore finanziario.

https://americanaffairsjournal.org/2022/05/financialization-and-the-problem-of-mutually-assured-capital-destruction/

La grande strategia dell’Inghilterra, di OLIVIER KEMPF

Un articolo importante non solo per la ricostruzione storica e per la comprensione delle scelte di un paese dal recente passato importante, ridimensionato nel ruolo presente, ma con grandi ambizioni ed una ineguagliata capacità di muovere ed influire indirettamente sulle dinamiche geopolitiche. Il conflitto in Ucraina e la polarizzazione proatlantica di quasi tutti i paesi del Nord ed Est Europa sono almeno in parte l’esito di questo retaggio. Importante perché è la filosofia di fondo adottata per trasmissione culturale e simbiosi politica dalla potenza egemone da ormai oltre un secolo, ma che probabilmente sta conoscendo una fase di transizione e di probabile declino per molti versi simile a quella vissuta dal Regno Unito a cavallo tra ‘800 e ‘900. Le classi dirigenti statunitensi, in realtà, stanno mostrando una minore flessibilità nell’affrontare la fase transitiva al multipolarismo, segno dell’acutezza dello scontro politico interno e dell’influsso di diverse componenti culturali, in particolare tedesca, proprie di una formazione sociale particolarmente composita e polarizzata, incapace al momento di una sintesi coerente. Buona lettura, Giuseppe Germinario

La grande strategia dell’Inghilterra

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L’Inghilterra è un’isola. L’osservazione è nota, ma i geografi emettono subito chiarimenti: l’Inghilterra è solo una parte dell’isola principale (Gran Bretagna) che condivide con il Galles e la Scozia, a cui si deve aggiungere l’Irlanda del Nord (Ulster) per costruire il Regno Unito, a cui va aggiunta la Repubblica d’Irlanda (Eire) per finire nelle isole britanniche. Tuttavia, nonostante questi dettagli, nonostante il desiderio di indipendenza (Irlanda o Scozia) o addirittura di autonomia, ogni francese di solito designerà l’altra sponda della Manica con questo nome comune dell’Inghilterra. La rivalità è ancestrale come spesso accade in Europa quando si parla di Francia: il 20°secolo ci ha parlato del nemico ereditario parlando della Germania, facendoci dimenticare l’inespiabile lotta con la maggiore Spagna nei secoli XVI e XVII in particolare Ma è vero che abbiamo un rapporto millenario, contrastato e complicato con l’Inghilterra.

L’Inghilterra è quindi questa terra degli Angli, popolo germanico che, tra gli altri, si stabilì nell’isola al tempo delle grandi invasioni. Perché non solo Cesare o Guglielmo il Conquistatore riuscirono a sbarcare lì, ma anche tedeschi e vichinghi. Ciò diede origine ad una curiosa mescolanza tra antiche radici celtiche, poi romane e francesi, a cui infine se ne aggiunsero altre, più barbariche. Questa filiazione multipla non va omessa se si pensa a questo Paese: può manifestare talvolta una grande ferocia e poi la sua flemma e la sua correttezza possono improvvisamente scomparire. La versione più civile di questo tratto caratteriale è la tenacia e la testardaggine. Tuttavia, ci volle l’Inghilterra per passare da un paese scarsamente popolato e isolato alla più grande potenza del mondo,

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Come spesso, tutto è iniziato con una sconfitta. Nel 1453, la battaglia di Castillon suonò la campana a morto per le ultime speranze inglesi di avere un punto d’appoggio nel continente: c’erano voluti duecento anni di guerra per giungere a questa conclusione: l’Inghilterra non avrebbe più il possesso diretto del continente europeo. Influenze ovviamente, possibilmente punti di appoggio (qui Gibilterra, là Malta o Cipro), sostenitori ovviamente, ma nessun territorio in quanto tale. L’Inghilterra tornò ad essere un’isola, in esclusiva. Dopo un Cinquecento segnato da una dichiarata autonomia (la creazione dell’Anglicanesimo), il Seicentosecolo conobbe molti problemi interni (prima rivoluzione, Rivoluzione gloriosa), ma si concluse con l’Atto di Unione del 1707 che legò la Scozia all’Inghilterra. È in un certo senso una prima colonizzazione e il Regno diventa il Regno Unito. Si stava aprendo un ciclo imperiale…

Le Americhe o commercio triangolare (XVII secolo )

Tuttavia, le sue prime fondazioni risalgono alla fine del XVI secolo . Infatti, la lotta contro l’impero spagnolo passò poi attraverso le lettere di razza consegnate ai corsari Francis Drake e John Hawkins, prima sulle coste del Nord Africa, poi fino alle Americhe. Dall’inizio del XVII secolo, l’Inghilterra stabilì i primi posti commerciali nelle Americhe e il Parlamento decretò che solo le navi inglesi potevano commerciare con le colonie inglesi Ciò portò a una serie di guerre con le Province Unite (Paesi Bassi) per tutta la prima metà del secolo, che permisero l’espansione dei possedimenti britannici: Giamaica nel 1655, Bahamas nel 1666. Nel continente americano, Jamestown fu fondata nel 1607 con la Compagnia della Virginia. Seguono altre colonie: Plymouth (1620), Maryland (1634), Rhode Island (1636), Connecticut (1639), Caroline (1663). Fort Amsterdam fu conquistata nel 1664 e ribattezzata New York, quando la Pennsylvania fu fondata nel 1681. Le colonie americane erano meno redditizie di quelle dei Caraibi, ma i vasti tratti di terra disponibili attirarono molti coloni. Nel 1670, la Compagnia della Baia di Hudson ricevette il monopolio delle terre scoperte in quello che sarebbe diventato il Canada.

Questo sistema doveva essere completato dalla fondazione nel 1672 della Royal African Company. Le condizioni economiche dei Caraibi, infatti, imposero un cambiamento nella coltivazione della canna da zucchero e quindi l’arrivo di molti schiavi neri. La popolazione africana delle isole passò dal 25% nel 1650 all’80% nel 1780 (e dal 10% al 40% nelle colonie americane, soprattutto quelle del sud). Da quel momento in poi, fu istituito un commercio triangolare con forti stabiliti nell’Africa occidentale per fornire schiavi alle colonie americane. Vengono deportati 3,5 milioni di africani (un terzo di tutte le vittime di questo traffico), il che garantisce la ricchezza di città come Bristol o Liverpool. Il primo impero britannico fu quindi americano.

L’Asia e la lotta contro i Paesi Bassi e la Francia ( XVIII secolo )

Alla fine del XVII secolo, Inghilterra e Paesi Bassi si interessarono all’Asia e al monopolio portoghese del commercio delle spezie. Se la Compagnia inglese delle Indie orientali fu fondata nel 1600 (l’America è ancora chiamata “Indie occidentali), furono gli olandesi a prenderne inizialmente il vantaggio, soprattutto perché i problemi politici interni inglesi ostacolavano il progresso. Dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688, Guglielmo d’Orange divenne re d’Inghilterra. Si raggiunge un accordo: agli inglesi il commercio dei tessuti, agli olandesi quello delle spezie. Ma a poco a poco il commercio del tè e del cotone si sviluppò e gli inglesi ne approfittarono all’inizio del 18° secolo .

L’Inghilterra era così riuscita a sconfiggere la potenza spagnola ea controllare la rivale navale olandese. Rimase al suo posto un ultimo avversario: la Francia. Ci vorrà un secolo per raggiungere questo obiettivo. Dal 1702 al 1714, l’Inghilterra ha preso parte alla coalizione contro la Francia durante la guerra di successione spagnola. Nel Trattato di Utrecht, l’Inghilterra riceve Gibilterra, Minorca e Acadia. Gibilterra è la principale risorsa strategica che blocca l’accesso al Mediterraneo.

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Dalla grandezza al declino

La Guerra dei Sette Anni iniziò nel 1756 e fu la prima guerra “mondiale”, viste le operazioni in Europa, India e Nord America. Nel 1763, al Trattato di Parigi, la Francia abbandonò la Nuova Francia (i famosi “arpenti di neve in Canada” derisi da Voltaire) all’Inghilterra e la Louisiana alla Spagna. In India, se la Francia mantiene le sue stazioni commerciali, deve abbandonare il suo piano di controllo del subcontinente. Il primo impero coloniale francese è dislocato. Parigi vorrà la sua vendetta e la otterrà qualche anno dopo appoggiando le colonie americane che si stanno ribellando contro Londra.

Tuttavia, la Compagnia delle Indie Orientali approfittò della nuova situazione: conquistò molti territori, amministrava più o meno direttamente, quindi organizzò un proprio esercito. L’India britannica divenne dalla fine del diciottesimo secolosecolo la più redditizia delle colonie britanniche e il “gioiello dell’Impero”. Contemporaneamente alla perdita delle tredici colonie americane durante la Guerra d’Indipendenza americana, resa possibile dal sostegno francese, in particolare dalla flotta di Grasse. L’Inghilterra mantenne alcuni possedimenti nei Caraibi e in Canada, ma ora si interessava principalmente all’Asia. Ha anche continuato la sua espansione in Oceania con l’esplorazione dell’Australia (James Cook) e della Nuova Zelanda. L’Australia inizialmente divenne una colonia penale (fino al 1840 circa) prima di sperimentare la corsa all’oro.

La lotta contro Napoleone portò alla doppia osservazione della difficoltà della lotta di terra e del vantaggio della preminenza navale, confermata dalla vittoria di Trafalgar nel 1805. I Trattati di Vienna riorganizzarono alcune colonie: Mauritius, Trinidad e Tobago o Sainte-Lucia , ma anche Ceylon o la Provincia del Capo tornarono a Londra, che restituì alla Francia Guadalupa, Martinica, Guyana e Riunione. L’inizio dell’Ottocento vide anche la progressiva abolizione della schiavitù (1833). Così, il diciottesimo secolo vide l’impero inglese spostarsi dall’America all’Asia. Questa tendenza si accentuò nel secolo successivo.

Il periodo di massimo splendore (1815-1914)

Un secolo d’oro imperiale si aprì allora per l’Inghilterra, che non ebbe più avversari marittimi e poté costituire una pax britannica legata ad una politica di splendido isolamento. Questa situazione geopolitica fu supportata da due rivoluzioni tecniche: il battello a vapore e il telegrafo consentirono a Londra di controllare l’impero che crebbe di 26 milioni di km².

Questo è stato il primo caso in Asia: Singapore e poi Malacca sono state conquistate, consentendo di estendere la rotta dall’India all’Estremo Oriente. Il commercio di oppio con la Cina è stato organizzato per bilanciare i deflussi di denaro legati all’importazione di tè cinese. L’opposizione cinese fu contrastata dalla prima guerra dell’oppio, conclusa dal Trattato di Nanchino, che concedeva a Londra il porto di Hong Kong. In India, la rivolta dei Sepoy (1857) non fu repressa. La Compagnia delle Indie Orientali viene sciolta, i suoi possedimenti trasferiti al Raj, il regime coloniale che gestirà il subcontinente. La regina Vittoria fu incoronata imperatrice d’India nel 1876.

La rivalità con la Russia (il Grande Gioco) iniziò all’inizio del XIX secolo, sullo sfondo del crollo degli imperi ottomano e persiano. L’Inghilterra tenta di conquistare l’Afghanistan senza molto successo (1842), mentre sconfigge la Russia nella guerra di Crimea (1853). L’Inghilterra annette il Balochistan (1876) mentre la Russia si impossessa del Kirghizistan, del Kazakistan e del Turkmenistan (1877). Fu finalmente firmato un accordo sulle sfere di influenza e la rivalità si spense completamente con l’accordo anglo-russo del 1907.

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Il dominio dell’impero asiatico si basava su un certo numero di staffette: Gibilterra, Malta, Cipro, attraverso il Mediterraneo, il Capo aggirando l’Africa, poi Oman, India, Singapore, Hong Kong. La Colonia del Capo era stata annessa nel 1806 e scatenò l’immigrazione britannica che si oppose ai boeri locali. Questi si trasferirono (il grande Trek) alla fine degli anni ’30 dell’Ottocento, fondando la Repubblica del Transvaal e lo Stato di Orange. La guerra boera (1899-1902) portò all’annessione di questi due stati nel 1902. All’altra estremità del continente, lo scavo del Canale di Suez collegava il Mediterraneo all’Oceano Indiano. Gli inglesi vi investirono e l’Egitto fu occupato nel 1882 dopo una rapida guerra. Poco dopo gli inglesi si spostarono a sud e alla fine sconfissero i Mahdisti del Sudan, poi respinse l’avanzata francese nell’Alto Nilo (Fashoda, 1898). Da quel momento in poi, il desiderio di collegare le colonie africane fece nascere l’idea di una ferrovia, idea spinta da Cecil Rhodes e che provocò nuove occupazioni, una delle quali prese il nome di Rhodesia in suo onore (futuro Zambia e Zimbabwe).

Altrove, le posizioni inglesi si stanno rafforzando. I territori nordamericani si estendono attraverso il continente fino al Pacifico (British Columbia, Northwest Territory, Vancouver Island). La questione dell’emancipazione delle colonie bianche è sorta abbastanza rapidamente. L’Atto di Unione del 1840 creò così la provincia del Canada, prima della creazione di un dominio nel 1867, paese dotato di totale indipendenza tranne che per quanto riguarda la diplomazia. Lo statuto fu adottato per l’Australia nel 1901, la Nuova Zelanda nel 1907 e il Sud Africa nel 1910. Il dibattito per l’applicazione di tale statuto all’Irlanda continuò per un’adozione tardiva nel 1914, troppo tardi per essere applicata: questa fu una delle cause dell’insurrezione del 1916 e della futura indipendenza della Repubblica d’Irlanda.

Potenza navale, maestria tecnica, invenzione economica, ma anche grande emigrazione, queste sono le ricette di questo grande impero mondiale che si estende dal Canada all’Africa, dalle varie staffette asiatiche (Oman, India e Hong Kong) all’Oceania. Già però l’invenzione dei domini suggerisce che questo dominio non può essere duraturo e che sarà necessario, a poco a poco, liberarlo fino al completo abbandono.

RE GIORGIO V E LA REGINA MARY VISITANO L’INDIA

Il declino

Le due guerre mondiali videro la relativizzazione del potere britannico. L’ascesa della Germania e la sfida posta al dominio navale sono una delle cause del cambio di posizione inglese e dell’alleanza con Giappone (1902), Francia (1904) e Russia (1907). Durante la prima guerra mondiale, i soldati dei Domini si allearono con gli inglesi. La battaglia dei Dardanelli segna quindi la coscienza nazionale australiana o neozelandese, proprio come la battaglia di Vimy Ridge fa per la coscienza canadese. Tuttavia, il Trattato di Versailles consente all’Impero britannico di trovare la sua massima espansione, con la messa sotto mandato di colonie precedentemente tedesche e ottomane. La Gran Bretagna conquistò così Palestina, Iraq, Togo, Tanganica, parte del Camerun.

Ma questi guadagni non nascondono il fatto che Londra deve comporre e lasciar andare la zavorra. Nel 1922 firmò il Trattato di Washington dove accettò la parità navale con gli Stati Uniti. L’indipendenza sta già prendendo piede. Un trattato creò lo Stato d’Irlanda nel 1921 (diventato una Repubblica nel 1937), mentre l’Egitto divenne ufficialmente indipendente nel 1922 e l’Iraq nel 1932. Una conferenza imperiale concesse ai domini il potere di gestire la propria diplomazia.

La seconda guerra mondiale completa l’indebolimento degli equilibri imperiali. Le colonie e l’India prendono parte al conflitto così come gli ex domini, l’Irlanda rimanendo neutrale. La caduta della Francia nel 1940 e la guerra combattuta dai giapponesi (offensiva contro Hong Kong e Malesia) lasciarono l’Inghilterra sola. La Carta atlantica del 1941 ha stretto un’alleanza con gli Stati Uniti, ma l’incapacità di difendere le colonie asiatiche ha inferto un duro colpo all’immagine della potenza britannica. Di certo la Gran Bretagna è stata una delle vincitrici indiscusse della guerra, che le ha conferito un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza della nuova ONU. Ma una pagina è stata irrimediabilmente voltata. L’impero aveva permesso a Londra di sconfiggere la Germania, ma era un contributo definitivo. Ora dovevamo andare avanti.

Decolonizzazione

Le elezioni del 1945 videro la sconfitta di Churchill e l’ascesa al potere dei Labour, sostenitori della decolonizzazione. La guerra aveva indebolito profondamente l’economia britannica, che era quasi in bancarotta, dalla quale Londra si salvò solo con un ultimo prestito americano. Tuttavia, in questa nascente guerra fredda, sia Mosca che Washington si opposero al sistema coloniale. Dal 1946 in India scoppiarono gli ammutinamenti che costrinsero a concedere l’indipendenza nel 1947 e la scissione in due stati, uno indù, l’altro musulmano, che causò massicci trasferimenti di popolazione. Birmania e Ceylon ottennero la loro indipendenza nel 1948. Anche la Gran Bretagna si ritirò dalla Palestina nel 1948, lasciando due stati che entrarono immediatamente in conflitto. Infine, La Malesia entrò in insurrezione nel 1948 fino ad ottenere l’indipendenza nel 1957 (Singapore se ne separò rapidamente nel 1965 mentre il Brunei rimase un protettorato fino al 1984). In Kenya, la ribellione Mau-Mau fu attiva dal 1952 al 1957.

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Conflitto di confine sino-indiano: colpa della colonizzazione britannica?

La crisi di Suez è una delle ultime manifestazioni dell’imperialismo. Volendo contrastare la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser, Londra unì le forze con Parigi e Tel Aviv per organizzare una spedizione. Questo fu un successo militare, ma la pressione combinata dell’URSS e degli Stati Uniti costrinse l’Inghilterra a ritirarsi, che all’epoca era sentita come una “Waterloo britannica”. Altri interventi ebbero luogo (Oman nel 1957, Giordania 1958, Kuwait 1961), ma la Gran Bretagna si ritirò da Aden e Bahrain alla fine degli anni 1960. Così la decolonizzazione inglese fu forse più rapida di quella francese ma conobbe anche vicissitudini e conflitti armati.

Gli anni ’60 videro la decolonizzazione dell’Africa. Il Sudan e la Gold Coast avevano già ottenuto la loro indipendenza nel decennio precedente, ma Londra si ritirò da tutti i suoi possedimenti, nonostante la presenza di popolazioni bianche in alcuni, in particolare la Rhodesia. Cipro divenne indipendente nel 1960, così come le colonie caraibiche (Giamaica e Trinidad, poi Barbados, Guyana, ecc.). Negli anni ’70, queste erano Fiji e Vanuatu. Le ultime indipendenze sono avvenute negli anni ’80: Honduras britannico (Belize) e Rhodesia (Zimbabwe). Un ultimo colpo di stato britannico ebbe luogo nel 1982 quando l’Argentina invase l’arcipelago delle Falkland. L’Inghilterra ha lanciato una spedizione militare alla fine del mondo per mantenere questo territorio definitivo. Nel 1984 è stato raggiunto un accordo con la Cina sul futuro status di Hong Kong,

Avanzi, eredità e significato geopolitico

La Gran Bretagna conserva ancora 14 “British Overseas Territories”, a volte disabitati, il più delle volte con varie autonomie. Alcuni sono contestati (Gibilterra, Falkland, ecc.). Un Commonwealth, che riunisce i territori precedentemente britannici, è stato istituito nel 1949 (30 milioni di km², 2,5 miliardi di abitanti). Questa organizzazione intergovernativa non prevede alcun obbligo tra i membri che sono accomunati da lingua, storia, cultura e valori. 15 dei 54 stati sono monarchie guidate dalla regina d’Inghilterra.

Questo impero, tuttavia, ha lasciato molti segni. Oltre a un’intensa emigrazione di britannici in tutto il mondo e che da allora sono diventati cittadini di paesi diventati indipendenti, l’Inghilterra ha prima condiviso la sua lingua. 400 milioni di persone la condividono come lingua madre e diversi miliardi come lingua di comunicazione (grazie all’influenza americana, è vero). Ma il modello politico britannico, il suo modello giudiziario, la sua cultura, i suoi sport (calcio, rugby, cricket, tennis, golf) ei suoi missionari hanno lasciato numerose tracce in tutto il mondo.

Questo impero raggiunse il suo apice poco prima della prima guerra mondiale. Non è un caso che Halford MacKinder pubblicò The Geographical Pivot of History nel 1904, che è il testo fondante della geopolitica anglosassone. Inventa il concetto di Heartland (l’isola globale composta da Eurasia e Africa) a cui si contrappongono le isole esterne (America e Australia). In quanto potenza navale, l’Impero britannico deve controllare l’emergere delle potenze continentali (la Germania ai suoi tempi). È quindi necessario controllare l’Heartland dall’esterno, dalle rive. Il tema sarà ripreso qualche anno dopo dall’americano Spykman che inventerà il concetto di Rimland.

I nostri lettori conoscono questa fondamentale contrapposizione tra i popoli della terra ei popoli del mare: questa è infatti la ragione principale della potenza inglese che ben presto ne accettò il carattere insulare e quindi navale. Sir Walter Raleigh spiegò presto (dall’inizio del diciassettesimo secolo ) il principio che l’impero avrebbe seguito nel corso dei secoli: “Chi detiene il mare detiene il commercio del mondo; chi detiene il commercio detiene ricchezza; chi detiene la ricchezza del mondo detiene il mondo stesso. Da lì nasce l’ambizione di “ Rule Britannia, domina le onde   .

Il mare, fonte di ricchezza, esso stesso fonte di potere: questo è in fondo il destino dell’Impero Britannico. Approfittando della scoperta di un nuovo mondo, stabilendo una prima ricchezza commerciale poi estendendo il suo interesse a nuovi possedimenti sempre più lontani, inventando contemporaneamente la rivoluzione industriale, sfruttando appieno le nuove tecnologie (vapore, telegrafo), mandando i figli e le figlie a fondare stessa alla fine dei mondi per stabilirvi durevolmente la sua influenza, l’Inghilterra seppe costruire un sistema mondiale notevole per la sua durata. L’apogeo britannico durò infatti quasi un secolo, dalla caduta di Napoleone all’entrata in guerra nel 1914. Un dominio così lungo e universale è unico.

Questo orizzonte mentale su scala mondiale, questa associazione precoce della prosperità commerciale con il potere, questo feroce bisogno di una sovranità inalienabile sono invarianti inglesi: devono essere tenuti a mente per comprendere la scommessa della Brexit.

https://www.revueconflits.com/la-grande-strategie-de-langleterre/

L’America sta regredendo in una società tribale piena di acrimonia, ansia e sospetto_ Di Steve McCann

Gli Stati Uniti stanno vivendo il tribalismo, la povertà collettiva, l’aumento della criminalità, la cancellazione del confine meridionale, la distruzione delle norme costituzionali e l’inflazione ruggente. Siamo guidati da un presidente catastroficamente disorientato, irascibile e incompetente, favorito da un Congresso e da una burocrazia di sinistra ideologicamente guidati.

La nazione ha impiegato molti decenni per arrivare a questo stadio. Ci sono solo due componenti fondamentali in questa evoluzione verso l’attuale società fratturata. La prima e più importante è stata la diffusa capitolazione sottomessa allo sfruttamento malizioso del passato razziale della nazione. Il secondo, è stata la mancanza di un valido partito di opposizione per sfidare la trasformazione delle istituzioni della nazione.

Per quasi cinque decenni, mentre il Partito Repubblicano e i conservatori dell’establishment si crogiolavano nella loro “civiltà” e “bipartitismo”, un partito democratico sempre più socialista/marxista, un complesso mediatico/di intrattenimento e un’istituzione educativa hanno condizionato oltre due generazioni di americani a guardare al governo federale come fonte di salvezza, opportunità e soccorso nei momenti di difficoltà. Ciò ha creato un segmento della cittadinanza sempre più maleducato, suscettibile e facilmente sfruttabile che all’inizio del ventunesimo secolo era abbastanza grande da avere un impatto sul governo della nazione.

Il passo successivo è stato quello di inculcare colpa e animosità sociale in quella che un tempo era una nazione multirazziale tollerante che aveva superato il suo passato. Il loro successo è innegabile poiché hanno manipolato e alienato con successo le popolazioni nere e minoritarie demonizzando e facendo da capro espiatorio la popolazione bianca.

Nel 2008 il 77% degli americani (60% dei neri) pensava che le relazioni razziali fossero buone nella propria comunità individuale In un recente scioccante sondaggio tra i neri, il 75% ora crede che loro o qualcuno che amano saranno attaccati da un bianco. Questa è una convinzione facilmente smentita poiché le statistiche del governo del Dipartimento di Giustizia rivelano che i neri sono stati gli aggressori nell’85% dei crimini violenti che coinvolgono neri e bianchi.

Questo stesso recente sondaggio ha anche mostrato che il 70% dei neri crede che oltre la metà di tutti i bianchi (o 110 milioni di americani) “detengano convinzioni di supremazia bianca”. È impossibile trovare una stima accurata del numero effettivo di suprematisti bianchi poiché la definizione di “supremazia bianca” si è opportunamente evoluta con i venti politici (ad esempio, tutti gli elettori di Trump sono stati spesso indicati come solidali con la supremazia bianca). anni, estrapolando i dati dubbi e gonfiati dal Southern Poverty Law Center di sinistra rabbiosa, è stato stimato che “potrebbero” esserci fino a 500.000 credenti o lo 0,2% della popolazione bianca complessiva.

Non sorprende che solo il 24% dei bianchi, il 27% dei neri e il 29% delle altre minoranze credano che lo stato attuale delle relazioni razziali americane sia buono o eccellente.

Dopo decenni di miglioramento delle relazioni razziali, l’America sta rapidamente regredendo in una società tribale piena di acrimonia, ansia e sospetto generati da un ritorno al razzismo e al bigottismo.

Tra le date più importanti del movimento per i diritti civili c’era il 28 agosto 1963 e la marcia su Washington per il lavoro e la libertà. Quelli di noi che erano lì non capivano o apprezzavano poco quel giorno sarebbe stato storico, non solo per l’elettrizzante orazione pronunciata da Martin Luther King Jr., ma che questo singolare evento avrebbe segnato l’inizio della fine della discriminazione istituzionale e del razzismo nel Stati Uniti e l’affermazione nazionale quasi unanime che ognuno deve essere giudicato dal contenuto del proprio carattere e non dal colore della propria pelle.

Né la maggior parte di coloro che erano coinvolti nel movimento per i diritti civili degli anni ’60 potrebbero mai immaginare che a partire dagli anni 2000 la sinistra americana e il partito democratico avrebbero, con previdenza, sfruttato maliziosamente e incessantemente il passato della nazione e minato i risultati di così tanti.

Coloro che cercano l’egemonia politica fomentando deliberatamente l’animosità razziale ed etnica sono tra le persone più spregevoli sulla terra e sono poco diversi dai despoti che si sono scatenati nel ventesimo secolo.

Indipendentemente da ciò, questi vili ideologi estremisti, sia nel Partito Democratico che nei media o tra i professori, hanno perseguito con determinazione il loro obiettivo di un’egemonia politica permanente provocando consapevolmente divisione, paura e ostilità.

Dopo aver sfruttato con successo un razzismo istituzionale inesistente, questa cabala è ora certa di essere sul punto di raggiungere i propri obiettivi. Sono così fiduciosi che credono che la maggior parte della cittadinanza non solo acconsentirà docilmente alla loro agenda, ma accetterà anche la frode e la manipolazione palesi degli elettori. Grazie alla riprovevole demagogia razziale, la società americana è più disunita e addolorata che in qualsiasi momento nella lunga storia di questa nazione e quindi, credono, predisposta a una fondamentale trasformazione della società e del governo.

Di conseguenza, la sinistra è diventata più al vetriolo e ora sta lanciando senza pensare altri vili epiteti non solo contro la loro opposizione politica ma contro qualsiasi cittadino americano, indipendentemente dall’etnia, al fine di incorporare la loro agenda “svegliata” e minare ulteriormente la coesione sociale. Pertanto, la determinazione di destabilizzare la famiglia nucleare, di integrare ogni tipo di devianza, di sradicare l’autodeterminazione, di censurare sfacciatamente la parola, di emarginare la libertà di religione, di attaccare sistematicamente tutte le istituzioni della nazione e di fare da capro espiatorio ai nostri antenati per l’attuale incompetenza della classe dirigente.

La marcia verso la trasformazione della società e il socialismo/marxismo è progredita al punto che non può essere fermata o invertita semplicemente facendo affidamento su elezioni che ora possono essere manipolate senza sforzo e sono spesso composte da candidati, una volta in carica, che sono facilmente intimiditi dai radicali sinistra.

Mentre le elezioni sono importanti e la necessità di scegliere candidati che affermano di combattere per invertire il corso della nazione è vitale, questa guerra per l’anima della nazione non può essere vinta nelle aule del Congresso o nello Studio Ovale o nelle camere della Corte Suprema, o nella panoplia di edifici governativi che fiancheggiano le strade di Washington, DC

Invece, il popolo americano può vincere questa guerra se si unisce e conduce un combattimento senza vincoli con la sinistra americana attaccando i due elementi centrali della strategia che ha usato.

  1. Tutti, di qualsiasi razza o etnia, devono insorgere con sicurezza e dire categoricamente alla sinistra americana e alle élite dominanti di farla finita. Che si rifiutino di essere messi l’uno contro l’altro più a lungo. Che sono prima di tutto americani, indipendentemente dalla razza o dall’etnia. Che non saranno più intimiditi e manipolati attraverso false accuse e deliberate false dichiarazioni del cosiddetto razzismo. Che l’attuale popolazione bianca non si crogiolerà più insensatamente nel senso di colpa per un passato con cui non avevano nulla a che fare. E che la popolazione nera non sarà più manipolata e usata come pedine usa e getta dalla sinistra radicale.
  2. Ogni americano che ha a cuore il futuro della propria progenie deve iniziare immediatamente a boicottare il complesso mediatico/di intrattenimento e mandare in bancarotta l’istituto scolastico rifiutandosi di frequentare o scegliendo alternative praticabili che rispettino la cittadinanza e i principi della fondazione della nazione.

La guerra può essere vinta da una cittadinanza americana unita e determinata. Tuttavia, il tempo sta rapidamente scadendo poiché nessuna nazione tormentata dall’animosità razziale o etnica e dal tribalismo può sopravvivere a lungo.

Il 4 luglio 2026 gli Stati Uniti celebreranno il 250° anniversario della sua fondazione. Che tipo di occasione sarà? Una celebrazione nazionale di un popolo unito che si crogiola nella libertà e prosperità o una nazione frazionata e demoralizzata in modo schiacciante sull’orlo di una dissoluzione irreversibile e inevitabile?

https://www.americanthinker.com/articles/2022/05/america_is_regressing_into_a_tribal_society_rife_with_acrimony_anxiety_and_suspicion.html

Lo scontro di civiltà? Di Samuel P. Huntington

Un importante e significativo articolo apparso nel 1993. Concomitante con la breve illusione di un dominio unipolare statunitense, ha avviato un intenso dibattito sul nuovo mondo in procinto di sorgere dalle ceneri del sistema bipolare. Nel giro di pochi mesi, però, la narrazione dominante fece scomparire il punto interrogativo dal titolo del saggio, travisandone in buona parte il senso. Quello che avrebbe potuto essere uno spunto proficuo di riflessione sul rapporto tra i panismi e la storia e la territorialità che lega l’azione politica si è rapidamente trasformato in una interpretazione schematica tesa ad affermare la superiorità di un sistema in grado di unificare il mondo. Non fu certo un caso. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Lo scontro di civiltà?

IL PROSSIMO MODELLO DI CONFLITTO

La politica mondiale sta entrando in una nuova fase e gli intellettuali non hanno esitato a proliferare visioni di ciò che sarà: la fine della storia, il ritorno delle tradizionali rivalità tra stati nazione e il declino dello stato nazione dalle spinte contrastanti del tribalismo e globalismo, tra gli altri. Ognuna di queste visioni coglie aspetti della realtà emergente. Eppure a tutti loro manca un aspetto cruciale, anzi centrale, di ciò che probabilmente sarà la politica globale nei prossimi anni.

È mia ipotesi che la fonte fondamentale del conflitto in questo nuovo mondo non sarà principalmente ideologica o principalmente economica. Le grandi divisioni tra l’umanità e la fonte dominante del conflitto saranno culturali. Gli stati nazione rimarranno gli attori più potenti negli affari mondiali, ma i principali conflitti della politica globale si verificheranno tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica globale. Le linee di frattura tra le civiltà saranno le linee di battaglia del futuro.

Il conflitto tra civiltà sarà l’ultima fase nell’evoluzione del conflitto nel mondo moderno. Per un secolo e mezzo dopo l’emergere del moderno sistema internazionale con la pace di Westfalia, i conflitti del mondo occidentale furono in gran parte tra principi: imperatori, monarchi assoluti e monarchi costituzionali che tentavano di espandere le loro burocrazie, i loro eserciti, la loro attività economica mercantilista forza e, soprattutto, il territorio che governavano. Nel processo crearono stati nazione e, a partire dalla Rivoluzione francese, le principali linee di conflitto erano tra le nazioni piuttosto che tra i principi. Nel 1793, come disse RR Palmer, “Le guerre dei re erano finite; le guerre dei popoli erano iniziate”. Questo modello del diciannovesimo secolo durò fino alla fine della prima guerra mondiale. Poi, come risultato della Rivoluzione russa e della reazione contro di essa, il conflitto delle nazioni cedette al conflitto di ideologie, prima tra comunismo, fascismo-nazismo e democrazia liberale, e poi tra comunismo e democrazia liberale. Durante la Guerra Fredda, quest’ultimo conflitto si concretizzò nella lotta tra le due superpotenze, nessuna delle quali era uno stato nazione nel senso classico europeo e ognuna delle quali definiva la propria identità in termini di propria ideologia.

Questi conflitti tra principi, stati nazione e ideologie erano principalmente conflitti all’interno della civiltà occidentale, “guerre civili occidentali”, come le ha definite William Lind. Questo era vero per la Guerra Fredda come lo era per le guerre mondiali e le prime guerre del diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo. Con la fine della Guerra Fredda, la politica internazionale esce dalla sua fase occidentale e il suo fulcro diventa l’interazione tra l’Occidente e le civiltà non occidentali e tra le civiltà non occidentali. Nella politica delle civiltà, i popoli ei governi delle civiltà non occidentali non rimangono più gli oggetti della storia come bersagli del colonialismo occidentale, ma si uniscono all’Occidente come motori e plasmatori della storia.

LA NATURA DELLE CIVILTÀ

Durante la guerra fredda il mondo era diviso in Primo, Secondo e Terzo Mondo. Tali divisioni non sono più rilevanti. È molto più significativo ora raggruppare i paesi non in termini di sistemi politici o economici o in termini di livello di sviluppo economico, ma piuttosto in termini di cultura e civiltà.

Cosa intendiamo quando parliamo di civiltà? Una civiltà è un’entità culturale. Villaggi, regioni, gruppi etnici, nazionalità, gruppi religiosi, hanno tutti culture distinte a diversi livelli di eterogeneità culturale. La cultura di un villaggio dell’Italia meridionale può essere diversa da quella di un villaggio dell’Italia settentrionale, ma entrambi condivideranno una cultura italiana comune che li distingue dai villaggi tedeschi. Le comunità europee, a loro volta, condivideranno caratteristiche culturali che le distinguono dalle comunità arabe o cinesi. Arabi, cinesi e occidentali, tuttavia, non fanno parte di alcuna entità culturale più ampia. Costituiscono civiltà. Una civiltà è quindi il più alto raggruppamento culturale di persone e il più ampio livello di identità culturale che le persone hanno a corto di ciò che distingue gli esseri umani dalle altre specie. È definito sia da elementi oggettivi comuni, come la lingua, la storia, la religione, i costumi, le istituzioni, sia dall’autoidentificazione soggettiva delle persone. Le persone hanno livelli di identità: un residente a Roma può definirsi con vari gradi di intensità un romano, un italiano, un cattolico, un cristiano, un europeo, un occidentale. La civiltà a cui appartiene è il livello più ampio di identificazione con cui si identifica intensamente. Le persone possono e lo fanno ridefinire le loro identità e, di conseguenza, la composizione ei confini delle civiltà cambiano. un europeo, un occidentale. La civiltà a cui appartiene è il livello più ampio di identificazione con cui si identifica intensamente. Le persone possono e lo fanno ridefinire le loro identità e, di conseguenza, la composizione ei confini delle civiltà cambiano. un europeo, un occidentale. La civiltà a cui appartiene è il livello più ampio di identificazione con cui si identifica intensamente. Le persone possono e lo fanno ridefinire le loro identità e, di conseguenza, la composizione ei confini delle civiltà cambiano.

Le civiltà possono coinvolgere un gran numero di persone, come con la Cina (“una civiltà che finge di essere uno stato”, come diceva Lucian Pye), o un numero molto piccolo di persone, come i Caraibi anglofoni. Una civiltà può includere diversi stati nazione, come nel caso delle civiltà occidentali, latinoamericane e arabe, o solo uno, come nel caso della civiltà giapponese. Le civiltà ovviamente si fondono e si sovrappongono e possono includere subciviltà. La civiltà occidentale ha due varianti principali, europea e nordamericana, e l’Islam ha le sue suddivisioni arabe, turche e malesi. Le civiltà sono comunque entità significative e, sebbene i confini tra loro siano raramente netti, sono reali. Le civiltà sono dinamiche; salgono e scendono; si dividono e si fondono. E, come ogni studioso di storia sa,

Gli occidentali tendono a pensare agli stati nazione come ai principali attori negli affari globali. Lo sono stati, tuttavia, solo per pochi secoli. I tratti più ampi della storia umana sono stati la storia delle civiltà. In A Study of History , Arnold Toynbee ha identificato 21 grandi civiltà; solo sei di loro esistono nel mondo contemporaneo.

PERCHE’ LE CIVILTA’ SI SCONTRANNO

L’identità della civiltà sarà sempre più importante in futuro e il mondo sarà modellato in larga misura dalle interazioni tra sette o otto principali civiltà. Questi includono civiltà occidentale, confuciana, giapponese, islamica, indù, slavo-ortodossa, latinoamericana e forse africana. I conflitti più importanti del futuro si verificheranno lungo le faglie culturali che separano queste civiltà l’una dall’altra.

Perché sarà così?

Primo, le differenze tra le civiltà non sono solo reali; sono basilari. Le civiltà si differenziano l’una dall’altra per storia, lingua, cultura, tradizione e, soprattutto, religione. Le persone di diverse civiltà hanno opinioni diverse sulle relazioni tra Dio e l’uomo, l’individuo e il gruppo, il cittadino e lo stato, genitori e figli, marito e moglie, nonché opinioni diverse sull’importanza relativa dei diritti e delle responsabilità, libertà e autorità, uguaglianza e gerarchia. Queste differenze sono il prodotto di secoli. Non scompariranno presto. Sono molto più fondamentali delle differenze tra ideologie politiche e regimi politici. Le differenze non significano necessariamente conflitto e conflitto non significa necessariamente violenza. Nel corso dei secoli, però,

In secondo luogo, il mondo sta diventando un posto più piccolo. Le interazioni tra popoli di diverse civiltà sono in aumento; queste interazioni crescenti intensificano la coscienza della civiltà e la consapevolezza delle differenze tra le civiltà e dei punti in comune all’interno delle civiltà. L’immigrazione nordafricana in Francia genera ostilità tra i francesi e allo stesso tempo una maggiore ricettività all’immigrazione da parte dei “buoni” polacchi cattolici europei. Gli americani reagiscono in modo molto più negativo agli investimenti giapponesi che ai maggiori investimenti dal Canada e dai paesi europei. Allo stesso modo, come Donald Horowitz ha sottolineato: “Un Ibo potrebbe essere… un Owerri Ibo o un Onitsha Ibo in quella che era la regione orientale della Nigeria. A Lagos, è semplicemente un Ibo. A Londra è nigeriano. A New York è africano”.

In terzo luogo, i processi di modernizzazione economica e cambiamento sociale in tutto il mondo stanno separando le persone dalle identità locali di lunga data. Indeboliscono anche lo stato nazione come fonte di identità. In gran parte del mondo la religione è intervenuta per colmare questa lacuna, spesso sotto forma di movimenti etichettati come “fondamentalisti”. Tali movimenti si trovano nel cristianesimo occidentale, nel giudaismo, nel buddismo e nell’induismo, nonché nell’Islam. Nella maggior parte dei paesi e nella maggior parte delle religioni le persone attive nei movimenti fondamentalisti sono giovani, diplomati, tecnici della classe media, professionisti e uomini d’affari. La “non secolarizzazione del mondo”, ha osservato George Weigel, “è uno dei fatti sociali dominanti della vita alla fine del ventesimo secolo”. La rinascita della religione, “la revanche de Dieu”,

In quarto luogo, la crescita della coscienza della civiltà è accresciuta dal duplice ruolo dell’Occidente. Da un lato, l’Occidente è al culmine del potere. Allo stesso tempo, però, e forse di conseguenza, si sta verificando un fenomeno di ritorno alle radici tra le civiltà non occidentali. Sempre più spesso si sentono riferimenti alle tendenze verso l’introspezione e alla “asiatizzazione” in Giappone, la fine dell’eredità di Nehru e l'”induizzazione” dell’India, il fallimento delle idee occidentali di socialismo e nazionalismo e quindi la “re-islamizzazione” del Medio Est, e ora un dibattito sull’occidentalizzazione contro la russizzazione nel paese di Boris Eltsin. Un Occidente al culmine del suo potere si confronta con i non occidentali che hanno sempre più il desiderio, la volontà e le risorse per plasmare il mondo in modi non occidentali.

In passato, le élite delle società non occidentali erano solitamente le persone più coinvolte con l’Occidente, avevano studiato a Oxford, alla Sorbona oa Sandhurst e avevano assorbito atteggiamenti e valori occidentali. Allo stesso tempo, la popolazione dei paesi non occidentali è rimasta spesso profondamente imbevuta della cultura indigena. Ora, tuttavia, queste relazioni vengono invertite. Una de-occidentalizzazione e indigenizzazione delle élite si sta verificando in molti paesi non occidentali nello stesso momento in cui le culture, gli stili e le abitudini occidentali, solitamente americane, diventano più popolari tra la massa della gente.

Quinto, le caratteristiche e le differenze culturali sono meno mutevoli e quindi meno facilmente compromesse e risolte rispetto a quelle politiche ed economiche. Nell’ex Unione Sovietica i comunisti possono diventare democratici, i ricchi possono diventare poveri ei poveri ricchi, ma i russi non possono diventare estoni e gli azeri non possono diventare armeni. Nei conflitti di classe e ideologici, la domanda chiave era “Da che parte stai?” e le persone potevano e hanno fatto scegliere da che parte stare e cambiare schieramento. Nei conflitti tra civiltà, la domanda è “Cosa sei?” Questo è un dato che non può essere cambiato. E come sappiamo, dalla Bosnia al Caucaso al Sudan, la risposta sbagliata a questa domanda può significare una pallottola in testa. Ancor più dell’etnia, la religione discrimina nettamente ed esclusivamente tra le persone. Una persona può essere metà francese e metà araba e contemporaneamente anche cittadina di due paesi. È più difficile essere per metà cattolici e per metà musulmani.

Infine, il regionalismo economico è in aumento. Le proporzioni del commercio totale intraregionale sono aumentate tra il 1980 e il 1989 dal 51% al 59% in Europa, dal 33% al 37% in Asia orientale e dal 32% al 36% in Nord America. È probabile che l’importanza dei blocchi economici regionali continui ad aumentare in futuro. Da un lato, il successo del regionalismo economico rafforzerà la coscienza della civiltà. D’altra parte, il regionalismo economico può avere successo solo quando è radicato in una civiltà comune. La Comunità Europea poggia sulle fondamenta condivise della cultura europea e del cristianesimo occidentale. Il successo dell’area di libero scambio nordamericana dipende dalla convergenza in corso delle culture messicana, canadese e americana. Il Giappone, al contrario, incontra difficoltà nel creare un’entità economica comparabile nell’Asia orientale perché il Giappone è una società e una civiltà uniche a se stesso. Per quanto forti siano i legami commerciali e di investimento che il Giappone può svilupparsi con altri paesi dell’Asia orientale, le sue differenze culturali con quei paesi inibiscono e forse precludono la sua promozione dell’integrazione economica regionale come quella in Europa e Nord America.

La cultura comune, al contrario, sta chiaramente facilitando la rapida espansione delle relazioni economiche tra la Repubblica popolare cinese e Hong Kong, Taiwan, Singapore e le comunità cinesi d’oltremare in altri paesi asiatici. Con la fine della Guerra Fredda, le comunanze culturali superano sempre più le differenze ideologiche e la Cina continentale e Taiwan si avvicinano. Se la comunanza culturale è un prerequisito per l’integrazione economica, è probabile che il principale blocco economico dell’Asia orientale del futuro sarà incentrato sulla Cina. Questo blocco, infatti, sta già nascendo. Come ha osservato Murray Weidenbaum,

Nonostante l’attuale predominio giapponese nella regione, l’economia cinese dell’Asia sta rapidamente emergendo come un nuovo epicentro per l’industria, il commercio e la finanza. Questa area strategica contiene notevoli quantità di tecnologia e capacità manifatturiere (Taiwan), eccezionale acume imprenditoriale, marketing e servizi (Hong Kong), una rete di comunicazione raffinata (Singapore), un enorme pool di capitale finanziario (tutti e tre) e dotazioni molto grandi di terra, risorse e lavoro (Cina continentale)… Da Guangzhou a Singapore, da Kuala Lumpur a Manila, questa rete influente, spesso basata sull’estensione dei clan tradizionali, è stata descritta come la spina dorsale dell’economia dell’Asia orientale. [1]

Cultura e religione sono anche alla base dell’Organizzazione per la cooperazione economica, che riunisce dieci paesi musulmani non arabi: Iran, Pakistan, Turchia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan e Afghanistan. Un impulso alla rinascita e all’espansione di questa organizzazione, fondata originariamente negli anni ’60 da Turchia, Pakistan e Iran, è la consapevolezza, da parte dei leader di molti di questi paesi, di non avere alcuna possibilità di ammissione alla Comunità Europea. Allo stesso modo, Caricom, il Mercato comune centroamericano e il Mercosur poggiano su basi culturali comuni. Gli sforzi per costruire una più ampia entità economica caraibico-centroamericana che colmi il divario anglo-latino, tuttavia, sono finora falliti.

Quando le persone definiscono la propria identità in termini etnici e religiosi, è probabile che vedano una relazione “noi” contro “loro” esistente tra loro e persone di diversa etnia o religione. La fine degli stati ideologicamente definiti nell’Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica consente alle tradizionali identità etniche e animosità di emergere. Le differenze di cultura e religione creano differenze su questioni politiche, che vanno dai diritti umani all’immigrazione al commercio e al commercio all’ambiente. La vicinanza geografica dà origine a rivendicazioni territoriali contrastanti dalla Bosnia a Mindanao. Più importante, gli sforzi dell’Occidente per promuovere i suoi valori di democrazia e liberalismo come valori universali, mantenere il suo predominio militare e far avanzare i suoi interessi economici genera risposte contrastanti da parte di altre civiltà. Sempre più in grado di mobilitare sostegno e formare coalizioni sulla base dell’ideologia, governi e gruppi cercheranno sempre più di mobilitare sostegno facendo appello alla religione comune e all’identità della civiltà.

Lo scontro di civiltà avviene dunque su due livelli. A livello micro, i gruppi adiacenti lungo le linee di faglia tra le civiltà lottano, spesso violentemente, per il controllo del territorio e tra di loro. A livello macro, stati di diverse civiltà competono per il relativo potere militare ed economico, lottano per il controllo delle istituzioni internazionali e di terzi e promuovono in modo competitivo i loro particolari valori politici e religiosi.

LE LINEE DI FACOLTA TRA CIVILTA’

Le linee di frattura tra le civiltà stanno sostituendo i confini politici e ideologici della Guerra Fredda come punti di infiammabilità per crisi e spargimenti di sangue. La Guerra Fredda iniziò quando la cortina di ferro divise l’Europa politicamente e ideologicamente. La Guerra Fredda terminò con la fine della cortina di ferro. Con la scomparsa della divisione ideologica dell’Europa, è riemersa la divisione culturale dell’Europa tra il cristianesimo occidentale, da un lato, e il cristianesimo ortodosso e l’Islam, dall’altro. La linea di demarcazione più significativa in Europa, come ha suggerito William Wallace, potrebbe essere il confine orientale del cristianesimo occidentale nell’anno 1500. Questa linea corre lungo quelli che oggi sono i confini tra Finlandia e Russia e tra gli stati baltici e la Russia, attraversa la Bielorussia e l’Ucraina separando l’Ucraina occidentale più cattolica dall’Ucraina orientale ortodossa, oscilla verso ovest separando la Transilvania dal resto della Romania, e poi attraversa la Jugoslavia quasi esattamente lungo la linea che ora separa la Croazia e la Slovenia dal resto della Jugoslavia. Nei Balcani questa linea, ovviamente, coincide con il confine storico tra l’impero asburgico e quello ottomano. I popoli a nord e ad ovest di questa linea sono protestanti o cattolici; hanno condiviso le esperienze comuni della storia europea: il feudalesimo, il Rinascimento, la Riforma, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione industriale; generalmente stanno economicamente meglio dei popoli dell’est; e ora possono aspettarsi un maggiore coinvolgimento in un’economia europea comune e il consolidamento dei sistemi politici democratici. I popoli a est ea sud di questa linea sono ortodossi o musulmani; storicamente appartenevano agli imperi ottomano o zarista e furono solo leggermente toccati dagli eventi plasmanti nel resto d’Europa; sono generalmente meno avanzati economicamente; sembrano molto meno propensi a sviluppare sistemi politici democratici stabili. La cortina di velluto della cultura ha sostituito la cortina di ferro dell’ideologia come la linea di demarcazione più significativa in Europa. Come dimostrano gli eventi in Jugoslavia, non è solo una linea di differenza; a volte è anche una linea di sanguinoso conflitto. storicamente appartenevano agli imperi ottomano o zarista e furono solo leggermente toccati dagli eventi plasmanti nel resto d’Europa; sono generalmente meno avanzati economicamente; sembrano molto meno propensi a sviluppare sistemi politici democratici stabili. La cortina di velluto della cultura ha sostituito la cortina di ferro dell’ideologia come la linea di demarcazione più significativa in Europa. Come dimostrano gli eventi in Jugoslavia, non è solo una linea di differenza; a volte è anche una linea di sanguinoso conflitto. storicamente appartenevano agli imperi ottomano o zarista e furono solo leggermente toccati dagli eventi plasmanti nel resto d’Europa; sono generalmente meno avanzati economicamente; sembrano molto meno propensi a sviluppare sistemi politici democratici stabili. La cortina di velluto della cultura ha sostituito la cortina di ferro dell’ideologia come la linea di demarcazione più significativa in Europa. Come dimostrano gli eventi in Jugoslavia, non è solo una linea di differenza; a volte è anche una linea di sanguinoso conflitto. non è solo una linea di differenza; a volte è anche una linea di sanguinoso conflitto. non è solo una linea di differenza; a volte è anche una linea di sanguinoso conflitto.

Il conflitto lungo la linea di faglia tra la civiltà occidentale e quella islamica va avanti da 1.300 anni. Dopo la fondazione dell’Islam, l’ondata araba e moresca verso ovest e verso nord terminò solo a Tours nel 732. Dall’XI al XIII secolo i crociati tentarono con temporaneo successo di portare il cristianesimo e il dominio cristiano in Terra Santa. Dal quattordicesimo al diciassettesimo secolo, i turchi ottomani rovesciarono l’equilibrio, estesero il loro dominio sul Medio Oriente e sui Balcani, conquistarono Costantinopoli e due volte assediarono Vienna. Nel diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo, con il declino del potere ottomano, Gran Bretagna, Francia e Italia stabilirono il controllo occidentale sulla maggior parte del Nord Africa e del Medio Oriente.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’Occidente, a sua volta, iniziò a ritirarsi; gli imperi coloniali scomparvero; si manifestarono prima il nazionalismo arabo e poi il fondamentalismo islamico; l’Occidente è diventato fortemente dipendente dai paesi del Golfo Persico per la sua energia; i paesi musulmani ricchi di petrolio divennero ricchi di denaro e, quando lo desideravano, ricchi di armi. Diverse guerre si sono verificate tra arabi e Israele (creato dall’Occidente). La Francia ha combattuto una guerra sanguinosa e spietata in Algeria per la maggior parte degli anni ’50; Le forze britanniche e francesi invasero l’Egitto nel 1956; Le forze americane entrarono in Libano nel 1958; successivamente le forze americane tornarono in Libano, attaccarono la Libia e si impegnarono in vari scontri militari con l’Iran; Terroristi arabi e islamici, sostenuti da almeno tre governi mediorientali, impiegò l’arma dei deboli e bombardò aerei e installazioni occidentali e sequestrò ostaggi occidentali. Questa guerra tra arabi e Occidente culminò nel 1990, quando gli Stati Uniti inviarono un imponente esercito nel Golfo Persico per difendere alcuni paesi arabi dall’aggressione di un altro. In seguito, la pianificazione della NATO è sempre più diretta a potenziali minacce e instabilità lungo il suo “livello meridionale”.

È improbabile che questa secolare interazione militare tra l’Occidente e l’Islam diminuisca. Potrebbe diventare più virulento. La Guerra del Golfo ha lasciato alcuni arabi orgogliosi del fatto che Saddam Hussein avesse attaccato Israele e si fosse opposto all’Occidente. Ha anche lasciato molti umiliati e risentiti per la presenza militare dell’Occidente nel Golfo Persico, per lo schiacciante dominio militare dell’Occidente e per la loro apparente incapacità di plasmare il proprio destino. Molti paesi arabi, oltre agli esportatori di petrolio, stanno raggiungendo livelli di sviluppo economico e sociale in cui le forme di governo autocratiche diventano inadeguate e gli sforzi per introdurre la democrazia diventano più forti. Si sono già verificate alcune aperture nei sistemi politici arabi. I principali beneficiari di queste aperture sono stati i movimenti islamisti. Nel mondo arabo, insomma, La democrazia occidentale rafforza le forze politiche anti-occidentali. Questo può essere un fenomeno passeggero, ma sicuramente complica le relazioni tra i paesi islamici e l’Occidente.

Tali relazioni sono complicate anche dalla demografia. La spettacolare crescita della popolazione nei paesi arabi, in particolare nel Nord Africa, ha portato a un aumento della migrazione verso l’Europa occidentale. Il movimento all’interno dell’Europa occidentale verso la riduzione al minimo dei confini interni ha acuito le sensibilità politiche rispetto a questo sviluppo. In Italia, Francia e Germania il razzismo è sempre più aperto e dal 1990 le reazioni politiche e le violenze contro i migranti arabi e turchi sono diventate più intense e diffuse.

Da entrambe le parti l’interazione tra l’Islam e l’Occidente è vista come uno scontro di civiltà. Il “prossimo confronto” dell’Occidente, osserva MJ Akbar, uno scrittore musulmano indiano, “verrà sicuramente dal mondo musulmano. È nell’ambito delle nazioni islamiche dal Maghreb al Pakistan che la lotta per un nuovo ordine mondiale sarà inizio.” Bernard Lewis giunge a una conclusione simile:

Siamo di fronte a uno stato d’animo e un movimento che trascendono di gran lunga il livello delle questioni e delle politiche e dei governi che le perseguono. Questo non è altro che uno scontro di civiltà: la reazione forse irrazionale ma sicuramente storica di un antico rivale contro la nostra eredità giudaico-cristiana, il nostro presente secolare e l’espansione mondiale di entrambi.[2]

Storicamente, l’altra grande interazione antagonista della civiltà araba islamica è stata con i popoli neri pagani, animisti e ora sempre più cristiani a sud. In passato, questo antagonismo era incarnato nell’immagine dei trafficanti di schiavi arabi e degli schiavi neri. Si è riflesso nella guerra civile in corso in Sudan tra arabi e neri, nei combattimenti in Ciad tra i ribelli sostenuti dalla Libia e il governo, le tensioni tra cristiani ortodossi e musulmani nel Corno d’Africa e i conflitti politici, rivolte ricorrenti e violenze comunitarie tra musulmani e cristiani in Nigeria. È probabile che la modernizzazione dell’Africa e la diffusione del cristianesimo aumentino le probabilità di violenza lungo questa linea di faglia. Sintomatico dell’intensificarsi di questo conflitto fu il Papa Giovanni Paolo II’

Al confine settentrionale dell’Islam, il conflitto è sempre più esploso tra i popoli ortodossi e musulmani, tra cui la carneficina della Bosnia e Sarajevo, la violenza ribollente tra serbi e albanesi, i tenui rapporti tra i bulgari e la loro minoranza turca, la violenza tra osseti e ingusci, l’incessante massacro reciproco da parte di armeni e azeri, le relazioni tese tra russi e musulmani in Asia centrale e il dispiegamento di truppe russe per proteggere gli interessi russi nel Caucaso e nell’Asia centrale. La religione rafforza la rinascita delle identità etniche e restimola i timori russi sulla sicurezza dei loro confini meridionali. Questa preoccupazione è ben catturata da Archie Roosevelt:

Gran parte della storia russa riguarda la lotta tra i popoli slavi e turchi ai loro confini, che risale alla fondazione dello stato russo più di mille anni fa. Nel confronto millenario degli slavi con i loro vicini orientali si trova la chiave per comprendere non solo la storia russa, ma anche il carattere russo. Per comprendere la realtà russa oggi bisogna avere un’idea del grande gruppo etnico turco che ha preoccupato i russi nel corso dei secoli.[3]

Il conflitto di civiltà è profondamente radicato altrove in Asia. Lo storico scontro tra musulmani e indù nel subcontinente si manifesta ora non solo nella rivalità tra Pakistan e India, ma anche nell’intensificarsi del conflitto religioso all’interno dell’India tra gruppi indù sempre più militanti e la consistente minoranza musulmana indiana. La distruzione della moschea di Ayodhya nel dicembre 1992 ha portato alla ribalta la questione se l’India rimarrà uno stato democratico laico o diventerà uno stato indù. Nell’Asia orientale, la Cina ha controversie territoriali in sospeso con la maggior parte dei suoi vicini. Ha perseguito una politica spietata nei confronti del popolo buddista del Tibet e sta perseguendo una politica sempre più spietata nei confronti della sua minoranza turco-musulmana. Con la Guerra Fredda finita, le differenze di fondo tra Cina e Stati Uniti si sono riaffermate in settori quali i diritti umani, il commercio e la proliferazione delle armi. È improbabile che queste differenze si moderino. Una “nuova guerra fredda”, avrebbe affermato Deng Xaioping nel 1991, è in corso tra Cina e America.

La stessa frase è stata applicata alle relazioni sempre più difficili tra Giappone e Stati Uniti. Qui la differenza culturale esacerba il conflitto economico. La gente da una parte sostiene il razzismo dall’altra, ma almeno da parte americana le antipatie non sono razziali ma culturali. I valori di base, gli atteggiamenti, i modelli comportamentali delle due società non potrebbero essere più diversi. Le questioni economiche tra Stati Uniti ed Europa non sono meno gravi di quelle tra Stati Uniti e Giappone, ma non hanno la stessa rilevanza politica e intensità emotiva perché le differenze tra cultura americana e cultura europea sono molto minori di quelle tra Civiltà americana e civiltà giapponese.

Le interazioni tra le civiltà variano notevolmente nella misura in cui è probabile che siano caratterizzate dalla violenza. La concorrenza economica predomina chiaramente tra le subciviltà americane ed europee dell’Occidente e tra entrambe e il Giappone. Nel continente eurasiatico, tuttavia, la proliferazione del conflitto etnico, riassunto all’estremo nella “pulizia etnica”, non è stata del tutto casuale. È stato più frequente e più violento tra gruppi appartenenti a civiltà diverse. In Eurasia le grandi linee di faglia storiche tra le civiltà sono di nuovo in fiamme. Ciò è particolarmente vero lungo i confini del blocco islamico di nazioni a forma di mezzaluna dal rigonfiamento dell’Africa all’Asia centrale. La violenza si verifica anche tra musulmani, da un lato, e serbi ortodossi nei Balcani, ebrei in Israele, Indù in India, buddisti in Birmania e cattolici nelle Filippine. L’Islam ha confini sanguinosi.

CIVILIZZAZIONE RALLYING: LA SINDROME DEL PAESE KIN

Gruppi o stati appartenenti a una civiltà che vengono coinvolti in guerre con persone di una civiltà diversa cercano naturalmente di raccogliere il sostegno di altri membri della propria civiltà. Con l’evolversi del mondo del dopo Guerra Fredda, la comunanza di civiltà, ciò che HDS Greenway ha definito la sindrome del “paese parentale”, sta sostituendo l’ideologia politica e le tradizionali considerazioni sull’equilibrio di potere come base principale per la cooperazione e le coalizioni. Può essere visto emergere gradualmente nei conflitti del dopo Guerra Fredda nel Golfo Persico, nel Caucaso e in Bosnia. Nessuna di queste è stata una guerra su vasta scala tra civiltà, ma ognuna ha coinvolto alcuni elementi di raduno di civiltà, che sembravano diventare più importanti man mano che il conflitto continuava e che potrebbero fornire un assaggio del futuro.

In primo luogo, nella Guerra del Golfo uno stato arabo ha invaso un altro e poi ha combattuto una coalizione di stati arabi, occidentali e altri. Mentre solo pochi governi musulmani sostenevano apertamente Saddam Hussein, molte élite arabe in privato lo incoraggiavano ed era molto popolare tra ampi settori del pubblico arabo. I movimenti fondamentalisti islamici hanno sostenuto universalmente l’Iraq piuttosto che i governi appoggiati dall’Occidente del Kuwait e dell’Arabia Saudita. Rinunciando al nazionalismo arabo, Saddam Hussein ha esplicitamente invocato un appello islamico. Lui ei suoi sostenitori hanno tentato di definire la guerra come una guerra tra civiltà. “Non è il mondo contro l’Iraq”, come ha scritto Safar Al-Hawali, decano di studi islamici all’Università Umm Al-Qura della Mecca, in un nastro ampiamente diffuso. “E’ l’Occidente contro l’Islam”. Ignorando la rivalità tra Iran e Iraq, il principale leader religioso iraniano, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha chiesto una guerra santa contro l’Occidente: “La lotta contro l’aggressione, l’avidità, i piani e le politiche americane sarà considerata una jihad e chiunque venga ucciso su quella strada è un martire. ” “Questa è una guerra”, ha affermato il re Hussein di Giordania, “contro tutti gli arabi e tutti i musulmani e non solo contro l’Iraq”.

Il raduno di sezioni sostanziali delle élite e del pubblico arabo dietro Saddam Hussein ha indotto quei governi arabi nella coalizione anti-irachena a moderare le loro attività e ad attenuare le loro dichiarazioni pubbliche. I governi arabi si sono opposti o hanno preso le distanze dai successivi sforzi occidentali per esercitare pressioni sull’Iraq, inclusa l’applicazione di una no-fly zone nell’estate del 1992 e il bombardamento dell’Iraq nel gennaio 1993. La coalizione occidentale-sovietica-turca-araba anti-Iraq del 1990 nel 1993 era diventata una coalizione di quasi solo l’Occidente e il Kuwait contro l’Iraq.

I musulmani hanno contrastato le azioni occidentali contro l’Iraq con l’incapacità dell’Occidente di proteggere i bosniaci dai serbi e di imporre sanzioni a Israele per aver violato le risoluzioni delle Nazioni Unite. L’Occidente, hanno affermato, stava usando un doppio standard. Un mondo di civiltà in conflitto, tuttavia, è inevitabilmente un mondo di doppi standard: le persone applicano uno standard ai propri parenti e uno standard diverso agli altri.

In secondo luogo, la sindrome del paese di parentela è apparsa anche nei conflitti nell’ex Unione Sovietica. I successi militari armeni nel 1992 e nel 1993 hanno stimolato la Turchia a sostenere sempre più i suoi fratelli religiosi, etnici e linguistici in Azerbaigian. “Abbiamo una nazione turca che prova gli stessi sentimenti degli azeri”, ha detto un funzionario turco nel 1992. “Siamo sotto pressione. I nostri giornali sono pieni di foto di atrocità e ci chiedono se siamo ancora seriamente intenzionati a perseguire la nostra neutralità forse dovremmo mostrare all’Armenia che c’è una grande Turchia nella regione”. Il presidente Turgut Özal è d’accordo, sottolineando che la Turchia dovrebbe almeno “spaventare un po’ gli armeni”. La Turchia, minacciato di nuovo da Özal nel 1993, avrebbe “mostrato le zanne”. Jet dell’aeronautica militare turca hanno effettuato voli di ricognizione lungo il confine armeno; La Turchia ha sospeso le spedizioni di generi alimentari e i voli aerei per l’Armenia; e la Turchia e l’Iran hanno annunciato che non avrebbero accettato lo smembramento dell’Azerbaigian. Negli ultimi anni della sua esistenza, il governo sovietico ha sostenuto l’Azerbaigian perché il suo governo era dominato da ex comunisti. Con la fine dell’Unione Sovietica, però, le considerazioni politiche cedettero il passo a quelle religiose. Le truppe russe hanno combattuto dalla parte degli armeni e l’Azerbaigian ha accusato il “governo russo di aver girato di 180 gradi” verso il sostegno dell’Armenia cristiana. il governo sovietico ha sostenuto l’Azerbaigian perché il suo governo era dominato da ex comunisti. Con la fine dell’Unione Sovietica, però, le considerazioni politiche cedettero il passo a quelle religiose. Le truppe russe hanno combattuto dalla parte degli armeni e l’Azerbaigian ha accusato il “governo russo di aver girato di 180 gradi” verso il sostegno dell’Armenia cristiana. il governo sovietico ha sostenuto l’Azerbaigian perché il suo governo era dominato da ex comunisti. Con la fine dell’Unione Sovietica, però, le considerazioni politiche cedettero il passo a quelle religiose. Le truppe russe hanno combattuto dalla parte degli armeni e l’Azerbaigian ha accusato il “governo russo di aver girato di 180 gradi” verso il sostegno dell’Armenia cristiana.

Terzo, per quanto riguarda i combattimenti nell’ex Jugoslavia, l’opinione pubblica occidentale ha manifestato simpatia e sostegno per i musulmani bosniaci e per gli orrori che hanno subito per mano dei serbi. Tuttavia, è stata espressa relativamente poca preoccupazione per gli attacchi croati ai musulmani e la partecipazione allo smembramento della Bosnia-Erzegovina. Nelle prime fasi della disgregazione jugoslava, la Germania, con un’insolita dimostrazione di iniziativa e muscoli diplomatici, ha indotto gli altri 11 membri della Comunità europea a seguire il suo esempio nel riconoscere la Slovenia e la Croazia. Come risultato della determinazione del papa di fornire un forte sostegno ai due paesi cattolici, il Vaticano ha esteso il riconoscimento ancor prima che lo facesse la Comunità. Gli Stati Uniti hanno seguito la guida europea. Così i principali attori della civiltà occidentale si sono radunati dietro i loro correligionari. Successivamente è stato riferito che la Croazia ha ricevuto notevoli quantità di armi dall’Europa centrale e da altri paesi occidentali. Il governo di Boris Eltsin, d’altra parte, ha tentato di perseguire una via di mezzo che sarebbe stata in sintonia con i serbi ortodossi ma non avrebbe alienato la Russia dall’Occidente. I gruppi conservatori e nazionalisti russi, tuttavia, inclusi molti legislatori, hanno attaccato il governo per non essere stato più disponibile nel suo sostegno ai serbi. All’inizio del 1993 diverse centinaia di russi apparentemente prestavano servizio con le forze serbe e circolavano notizie di armi russe fornite alla Serbia. ha tentato di perseguire una via di mezzo che sarebbe stata in sintonia con i serbi ortodossi ma non avrebbe alienato la Russia dall’Occidente. I gruppi conservatori e nazionalisti russi, tuttavia, inclusi molti legislatori, hanno attaccato il governo per non essere stato più disponibile nel suo sostegno ai serbi. All’inizio del 1993 diverse centinaia di russi apparentemente prestavano servizio con le forze serbe e circolavano notizie di armi russe fornite alla Serbia. ha tentato di perseguire una via di mezzo che sarebbe stata in sintonia con i serbi ortodossi ma non avrebbe alienato la Russia dall’Occidente. I gruppi conservatori e nazionalisti russi, tuttavia, inclusi molti legislatori, hanno attaccato il governo per non essere stato più disponibile nel suo sostegno ai serbi. All’inizio del 1993 diverse centinaia di russi apparentemente prestavano servizio con le forze serbe e circolavano notizie di armi russe fornite alla Serbia.

Governi e gruppi islamici, d’altra parte, hanno castigato l’Occidente per non essere venuto in difesa dei bosniaci. I leader iraniani hanno esortato i musulmani di tutti i paesi a fornire aiuto alla Bosnia; in violazione dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite, l’Iran ha fornito armi e uomini ai bosniaci; I gruppi libanesi sostenuti dall’Iran hanno inviato guerriglie per addestrare e organizzare le forze bosniache. Nel 1993 fino a 4.000 musulmani provenienti da oltre due dozzine di paesi islamici avrebbero combattuto in Bosnia. I governi dell’Arabia Saudita e di altri paesi si sono sentiti sotto pressione crescente da parte dei gruppi fondamentalisti nelle loro stesse società per fornire un sostegno più vigoroso ai bosniaci. Entro la fine del 1992, l’Arabia Saudita avrebbe fornito ingenti finanziamenti per armi e rifornimenti ai bosniaci,

Negli anni ’30 la guerra civile spagnola provocò l’intervento di paesi politicamente fascisti, comunisti e democratici. Negli anni ’90 il conflitto jugoslavo sta provocando l’intervento di paesi musulmani, ortodossi e cristiani occidentali. Il parallelo non è passato inosservato. “La guerra in Bosnia-Erzegovina è diventata l’equivalente emotivo della lotta contro il fascismo nella guerra civile spagnola”, ha osservato un editore saudita. “Coloro che sono morti lì sono considerati martiri che hanno cercato di salvare i loro compagni musulmani”.

Conflitti e violenze si verificheranno anche tra stati e gruppi all’interno della stessa civiltà. Tali conflitti, tuttavia, saranno probabilmente meno intensi e meno propensi ad espandersi rispetto ai conflitti tra civiltà. L’appartenenza comune a una civiltà riduce la probabilità di violenza in situazioni in cui potrebbe altrimenti verificarsi. Nel 1991 e nel 1992 molte persone erano allarmate dalla possibilità di un conflitto violento tra Russia e Ucraina sul territorio, in particolare la Crimea, la flotta del Mar Nero, le armi nucleari e le questioni economiche. Se ciò che conta è la civiltà, tuttavia, la probabilità di violenze tra ucraini e russi dovrebbe essere bassa. Sono due popoli slavi, principalmente ortodossi, che da secoli intrattengono stretti rapporti tra loro. Dall’inizio del 1993, nonostante tutte le ragioni di conflitto, i leader dei due paesi stavano effettivamente negoziando e disinnescando le questioni tra i due paesi. Sebbene ci siano stati seri combattimenti tra musulmani e cristiani in altre parti dell’ex Unione Sovietica e molte tensioni e alcuni combattimenti tra cristiani occidentali e ortodossi negli stati baltici, non ci sono state praticamente violenze tra russi e ucraini.

La manifestazione della civiltà fino ad oggi è stata limitata, ma è cresciuta e ha chiaramente il potenziale per diffondersi molto ulteriormente. Mentre i conflitti nel Golfo Persico, nel Caucaso e in Bosnia continuavano, le posizioni delle nazioni e le divisioni tra di loro erano sempre più lungo linee di civiltà. Politici populisti, leader religiosi e media lo hanno trovato un potente mezzo per suscitare il sostegno di massa e per esercitare pressioni sui governi esitanti. Nei prossimi anni, i conflitti locali che molto probabilmente sfoceranno in grandi guerre saranno quelli, come in Bosnia e nel Caucaso, lungo le linee di frattura tra le civiltà. La prossima guerra mondiale, se ce ne sarà una, sarà una guerra tra civiltà.

L’OVEST CONTRO IL RESTO

L’Occidente è ora a uno straordinario picco di potere in relazione alle altre civiltà. Il suo avversario superpotente è scomparso dalla mappa. Il conflitto militare tra gli stati occidentali è impensabile e la potenza militare occidentale non ha rivali. A parte il Giappone, l’Occidente non deve affrontare alcuna sfida economica. Domina le istituzioni politiche e di sicurezza internazionali e con le istituzioni economiche internazionali del Giappone. Le questioni politiche e di sicurezza globali sono effettivamente risolte da una direzione di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, le questioni economiche mondiali da una direzione di Stati Uniti, Germania e Giappone, che mantengono tutte relazioni straordinariamente strette tra loro ad esclusione di minori e in gran parte paesi non occidentali. Decisioni prese all’ONU Consiglio di Sicurezza o nel Fondo Monetario Internazionale che riflettono gli interessi dell’Occidente sono presentati al mondo come un riflesso dei desideri della comunità mondiale. La stessa frase “la comunità mondiale” è diventata il nome collettivo eufemistico (che sostituisce “il mondo libero”) per dare legittimità globale ad azioni che riflettono gli interessi degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali.[4] Attraverso il FMI e altre istituzioni economiche internazionali, l’Occidente promuove i suoi interessi economici e impone ad altre nazioni le politiche economiche che ritiene appropriate. In qualsiasi sondaggio tra i popoli non occidentali, il FMI otterrebbe senza dubbio il sostegno dei ministri delle finanze e di pochi altri, ma otterrebbe una valutazione schiacciante sfavorevole da quasi tutti gli altri, che sarebbero d’accordo con Georgy Arbatov’

Il dominio occidentale del Consiglio di sicurezza dell’ONU e le sue decisioni, mitigato solo dall’occasionale astensione della Cina, hanno prodotto la legittimazione da parte dell’ONU dell’uso della forza da parte dell’Occidente per cacciare l’Iraq dal Kuwait e la sua eliminazione delle armi sofisticate e della capacità dell’Iraq di produrre tali armi. Ha anche prodotto l’azione senza precedenti da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia nel convincere il Consiglio di sicurezza a chiedere alla Libia di consegnare i sospetti di attentati Pan Am 103 e quindi a imporre sanzioni quando la Libia ha rifiutato. Dopo aver sconfitto il più grande esercito arabo, l’Occidente non ha esitato a gettare il suo peso nel mondo arabo. L’Occidente in effetti sta usando le istituzioni internazionali, la potenza militare e le risorse economiche per governare il mondo in modi che manterranno il predominio occidentale,

Questo almeno è il modo in cui i non occidentali vedono il nuovo mondo, e c’è un significativo elemento di verità nel loro punto di vista. Le differenze di potere e le lotte per il potere militare, economico e istituzionale sono quindi una fonte di conflitto tra l’Occidente e le altre civiltà. Le differenze di cultura, ovvero i valori e le credenze di base, sono una seconda fonte di conflitto. VS Naipaul ha affermato che la civiltà occidentale è la “civiltà universale” che “si adatta a tutti gli uomini”. A un livello superficiale, gran parte della cultura occidentale ha infatti permeato il resto del mondo. A un livello più elementare, tuttavia, i concetti occidentali differiscono fondamentalmente da quelli prevalenti in altre civiltà. Idee occidentali di individualismo, liberalismo, costituzionalismo, diritti umani, uguaglianza, libertà, stato di diritto, democrazia, libero mercato, la separazione tra chiesa e stato, spesso hanno poca risonanza nelle culture islamica, confuciana, giapponese, indù, buddista o ortodossa. Gli sforzi occidentali per diffondere tali idee producono invece una reazione contro “l’imperialismo dei diritti umani” e una riaffermazione dei valori indigeni, come si può vedere nel sostegno al fondamentalismo religioso da parte delle giovani generazioni nelle culture non occidentali. L’idea stessa che ci possa essere una “civiltà universale” è un’idea occidentale, direttamente in contrasto con il particolarismo della maggior parte delle società asiatiche e la loro enfasi su ciò che distingue un popolo dall’altro. In effetti, l’autore di una rassegna di 100 studi comparativi sui valori in diverse società ha concluso che “i valori più importanti in Occidente sono meno importanti in tutto il mondo”.[5] In ambito politico, ovviamente, queste differenze sono più evidenti negli sforzi degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali per indurre altri popoli ad adottare idee occidentali in materia di democrazia e diritti umani. Il governo democratico moderno ha avuto origine in Occidente. Quando si è sviluppato in società non occidentali, di solito è stato il prodotto del colonialismo o dell’imposizione occidentale.

L’asse centrale della politica mondiale in futuro sarà probabilmente, secondo l’espressione di Kishore Mahbubani, il conflitto tra “l’Occidente e il resto” e le risposte delle civiltà non occidentali al potere e ai valori occidentali.[6] Tali risposte generalmente assumono una o una combinazione di tre forme. Ad un estremo, gli stati non occidentali possono, come la Birmania e la Corea del Nord, tentare di perseguire un percorso di isolamento, isolare le loro società dalla penetrazione o dalla “corruzione” dell’Occidente e, in effetti, rinunciare alla partecipazione al Comunità globale dominata dall’Occidente. I costi di questo corso, tuttavia, sono elevati e pochi stati lo hanno perseguito esclusivamente. Una seconda alternativa, l’equivalente del “carrozzone” nella teoria delle relazioni internazionali, è tentare di unirsi all’Occidente e accettarne i valori e le istituzioni. La terza alternativa è tentare di “bilanciare” l’Occidente sviluppando il potere economico e militare e cooperando con altre società non occidentali contro l’Occidente, preservando i valori e le istituzioni indigene; in breve, modernizzare ma non occidentalizzare.

I PAESI STRATI

In futuro, poiché le persone si differenziano per civiltà, paesi con un gran numero di popoli di diverse civiltà, come l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, sono candidati allo smembramento. Alcuni altri paesi hanno un discreto grado di omogeneità culturale ma sono divisi sul fatto che la loro società appartenga a una civiltà oa un’altra. Questi sono paesi lacerati. I loro leader in genere desiderano perseguire una strategia del carrozzone e rendere i loro paesi membri dell’Occidente, ma la storia, la cultura e le tradizioni dei loro paesi non sono occidentali. Il paese lacerato più ovvio e prototipo è la Turchia. I leader turchi della fine del ventesimo secolo hanno seguito la tradizione di Attatürk e hanno definito la Turchia uno stato nazionale moderno, laico e occidentale. Hanno alleato la Turchia con l’Occidente nella NATO e nella Guerra del Golfo; hanno chiesto l’adesione alla Comunità Europea. Allo stesso tempo, tuttavia, elementi della società turca hanno sostenuto una rinascita islamica e hanno sostenuto che la Turchia è fondamentalmente una società musulmana mediorientale. Inoltre, mentre l’élite turca ha definito la Turchia una società occidentale, l’élite occidentale si rifiuta di accettare la Turchia come tale. La Turchia non entrerà a far parte della Comunità Europea, e il vero motivo, come ha detto il presidente Özal, “è che noi siamo musulmani e loro sono cristiani e non lo dicono”. Dopo aver rifiutato la Mecca, e poi essere stata respinta da Bruxelles, dove guarda la Turchia? Tashkent potrebbe essere la risposta. La fine dell’Unione Sovietica offre alla Turchia l’opportunità di diventare il leader di una civiltà turca rianimata che coinvolge sette paesi dai confini della Grecia a quelli della Cina.

Nell’ultimo decennio il Messico ha assunto una posizione in qualche modo simile a quella della Turchia. Proprio come la Turchia ha abbandonato la sua storica opposizione all’Europa e ha tentato di unirsi all’Europa, il Messico ha smesso di definirsi con la sua opposizione agli Stati Uniti e sta invece tentando di imitare gli Stati Uniti e di unirsi ad essi nell’area di libero scambio nordamericana. I leader messicani sono impegnati nel grande compito di ridefinire l’identità messicana e hanno introdotto riforme economiche fondamentali che alla fine porteranno a un cambiamento politico fondamentale. Nel 1991 un alto consigliere del presidente Carlos Salinas de Gortari mi descrisse a lungo tutti i cambiamenti che il governo di Salinas stava facendo. Quando ha finito, ho osservato: “È davvero impressionante. Mi sembra che in fondo tu voglia cambiare il Messico da paese latinoamericano a paese nordamericano.” Mi guardò sorpreso ed esclamò: “Esattamente! Questo è esattamente ciò che stiamo cercando di fare, ma ovviamente non potremmo mai dirlo pubblicamente”. Come indica la sua osservazione, in Messico come in Turchia, elementi significativi della società resistono alla ridefinizione dell’identità del loro paese. In Turchia, i leader a orientamento europeo devono fare gesti all’Islam (il pellegrinaggio di Özal alla Mecca), così anche i leader nordamericani del Messico devono fare gesti a coloro che considerano il Messico un paese latinoamericano (vertice iberoamericano di Guadalajara a Salinas).

Storicamente la Turchia è stata il paese più profondamente lacerato. Per gli Stati Uniti, il Messico è il paese lacerato più immediato. A livello globale, il paese lacerato più importante è la Russia. La questione se la Russia faccia parte dell’Occidente o sia il leader di una distinta civiltà slavo-ortodossa è stata ricorrente nella storia russa. Tale questione è stata oscurata dalla vittoria comunista in Russia, che ha importato un’ideologia occidentale, l’ha adattata alle condizioni russe e poi ha sfidato l’Occidente in nome di quell’ideologia. Il predominio del comunismo ha chiuso il dibattito storico sull’occidentalizzazione contro la russificazione. Con il comunismo screditato, i russi affrontano ancora una volta questa domanda.

Il presidente Eltsin sta adottando i principi e gli obiettivi occidentali e sta cercando di fare della Russia un paese “normale” e una parte dell’Occidente. Eppure sia l’élite russa che il pubblico russo sono divisi su questo tema. Tra i dissidenti più moderati, Sergei Stankevich sostiene che la Russia dovrebbe rifiutare il corso “atlantista”, che la porterebbe “a diventare europea, a entrare a far parte dell’economia mondiale in modo rapido e organizzato, a diventare l’ottavo membro dei Sette , e di porre un’enfasi particolare su Germania e Stati Uniti come i due membri dominanti dell’alleanza atlantica”. Pur rifiutando anche una politica esclusivamente eurasiatica, Stankevich sostiene comunque che la Russia dovrebbe dare priorità alla protezione dei russi in altri paesi, sottolineare i suoi legami turchi e musulmani e promuovere ” Un sondaggio d’opinione nella Russia europea nella primavera del 1992 ha rivelato che il 40% della popolazione aveva atteggiamenti positivi nei confronti dell’Occidente e il 36% aveva atteggiamenti negativi. Come è stato per gran parte della sua storia, la Russia all’inizio degli anni ’90 è davvero un paese lacerato.

Per ridefinire la propria identità di civiltà, un paese lacerato deve soddisfare tre requisiti. In primo luogo, la sua élite politica ed economica deve essere generalmente favorevole ed entusiasta di questa mossa. In secondo luogo, il suo pubblico deve essere disposto ad acconsentire alla ridefinizione. Terzo, i gruppi dominanti nella civiltà ricevente devono essere disposti ad abbracciare il convertito. Tutti e tre i requisiti esistono in gran parte rispetto al Messico. I primi due esistono in gran parte rispetto alla Turchia. Non è chiaro se qualcuno di loro esista rispetto all’adesione della Russia all’Occidente. Il conflitto tra democrazia liberale e marxismo-leninismo era tra ideologie che, nonostante le loro principali differenze, apparentemente condividevano obiettivi finali di libertà, uguaglianza e prosperità. Una Russia tradizionale, autoritaria e nazionalista potrebbe avere obiettivi ben diversi. Un democratico occidentale potrebbe portare avanti un dibattito intellettuale con un marxista sovietico. Sarebbe praticamente impossibile per lui farlo con un tradizionalista russo. Se, poiché i russi smetteranno di comportarsi come i marxisti, rifiutano la democrazia liberale e cominciano a comportarsi come i russi ma non come gli occidentali, le relazioni tra la Russia e l’Occidente potrebbero tornare di nuovo lontane e conflittuali.[8]

LA CONNESSIONE CONFUCIANA-ISLAMICA

Gli ostacoli all’adesione di paesi non occidentali all’Occidente variano considerevolmente. Sono meno per i paesi dell’America Latina e dell’Europa orientale. Sono maggiori per i paesi ortodossi dell’ex Unione Sovietica. Sono ancora maggiori per le società musulmane, confuciane, indù e buddiste. Il Giappone ha stabilito una posizione unica per se stesso come membro associato dell’Occidente: è in Occidente per alcuni aspetti ma chiaramente non in Occidente in dimensioni importanti. Quei paesi che per ragioni di cultura e di potere non vogliono o non possono entrare a far parte dell’Occidente competono con l’Occidente sviluppando il proprio potere economico, militare e politico. Lo fanno promuovendo il loro sviluppo interno e collaborando con altri paesi non occidentali.

Quasi senza eccezioni, i paesi occidentali stanno riducendo la loro potenza militare; sotto la guida di Eltsin lo è anche la Russia. Cina, Corea del Nord e diversi stati del Medio Oriente, tuttavia, stanno ampliando notevolmente le proprie capacità militari. Lo stanno facendo importando armi da fonti occidentali e non occidentali e sviluppando industrie di armi indigene. Un risultato è l’emergere di quelli che Charles Krauthammer ha chiamato “Stati delle armi” e gli Stati delle armi non sono stati occidentali. Un altro risultato è la ridefinizione del controllo degli armamenti, che è un concetto occidentale e un obiettivo occidentale. Durante la Guerra Fredda lo scopo principale del controllo degli armamenti era quello di stabilire un equilibrio militare stabile tra gli Stati Uniti ei suoi alleati e l’Unione Sovietica ei suoi alleati. Nel mondo successivo alla Guerra Fredda l’obiettivo primario del controllo degli armamenti è impedire lo sviluppo da parte di società non occidentali di capacità militari che potrebbero minacciare gli interessi occidentali. L’Occidente tenta di farlo attraverso accordi internazionali, pressioni economiche e controlli sul trasferimento di armi e tecnologie delle armi.

Il conflitto tra l’Occidente e gli stati confucio-islamici si concentra in gran parte, anche se non esclusivamente, su armi nucleari, chimiche e biologiche, missili balistici e altri mezzi sofisticati per trasportarli, e la guida, l’intelligence e altre capacità elettroniche per raggiungere tale obiettivo. L’Occidente promuove la non proliferazione come norma universale ei trattati e le ispezioni di non proliferazione come mezzo per realizzare tale norma. Minaccia anche una serie di sanzioni contro coloro che promuovono la diffusione di armi sofisticate e propone alcuni vantaggi per coloro che non lo fanno. L’attenzione dell’Occidente si concentra, naturalmente, su nazioni che sono effettivamente o potenzialmente ostili all’Occidente.

Le nazioni non occidentali, d’altra parte, affermano il loro diritto di acquisire e di schierare qualsiasi arma ritengano necessaria per la loro sicurezza. Hanno anche assorbito, fino in fondo, la verità della risposta del ministro della Difesa indiano quando gli è stato chiesto quale lezione avesse imparato dalla Guerra del Golfo: “Non combattere gli Stati Uniti se non hai armi nucleari”. Armi nucleari, armi chimiche e missili sono visti, probabilmente erroneamente, come il potenziale equalizzatore del potere convenzionale occidentale superiore. La Cina, ovviamente, ha già armi nucleari; Il Pakistan e l’India hanno la capacità di schierarli. Sembra che la Corea del Nord, l’Iran, l’Iraq, la Libia e l’Algeria stiano tentando di acquisirli. Un alto funzionario iraniano ha dichiarato che tutti gli stati musulmani dovrebbero acquisire armi nucleari,

Di fondamentale importanza per lo sviluppo delle capacità militari contro-occidentali è l’espansione sostenuta della potenza militare cinese e dei suoi mezzi per creare potenza militare. Sostenuta da uno spettacolare sviluppo economico, la Cina sta aumentando rapidamente le sue spese militari e sta procedendo vigorosamente con la modernizzazione delle sue forze armate. Sta acquistando armi dagli ex stati sovietici; sta sviluppando missili a lungo raggio; nel 1992 ha testato un ordigno nucleare da un megaton. Sta sviluppando capacità di proiezione di potenza, acquisendo tecnologia di rifornimento aereo e tentando di acquistare una portaerei. Il suo rafforzamento militare e l’affermazione della sovranità sul Mar Cinese Meridionale stanno provocando una corsa agli armamenti regionale multilaterale nell’Asia orientale. La Cina è anche un importante esportatore di armi e tecnologia delle armi. Ha esportato materiali in Libia e Iraq che potrebbero essere utilizzati per produrre armi nucleari e gas nervino. Ha aiutato l’Algeria a costruire un reattore adatto alla ricerca e alla produzione di armi nucleari. La Cina ha venduto all’Iran la tecnologia nucleare che secondo i funzionari americani potrebbe essere utilizzata solo per creare armi e apparentemente ha spedito in Pakistan componenti di missili con una portata di 300 miglia. La Corea del Nord ha avviato da tempo un programma di armi nucleari e ha venduto missili avanzati e tecnologia missilistica a Siria e Iran. Il flusso di armi e tecnologia delle armi è generalmente dall’Asia orientale al Medio Oriente. Vi è, tuttavia, qualche movimento nella direzione inversa; La Cina ha ricevuto missili Stinger dal Pakistan. Ha aiutato l’Algeria a costruire un reattore adatto alla ricerca e alla produzione di armi nucleari. La Cina ha venduto all’Iran la tecnologia nucleare che secondo i funzionari americani potrebbe essere utilizzata solo per creare armi e apparentemente ha spedito in Pakistan componenti di missili con una portata di 300 miglia. La Corea del Nord ha avviato da tempo un programma di armi nucleari e ha venduto missili avanzati e tecnologia missilistica a Siria e Iran. Il flusso di armi e tecnologia delle armi è generalmente dall’Asia orientale al Medio Oriente. Vi è, tuttavia, qualche movimento nella direzione inversa; La Cina ha ricevuto missili Stinger dal Pakistan. Ha aiutato l’Algeria a costruire un reattore adatto alla ricerca e alla produzione di armi nucleari. La Cina ha venduto all’Iran la tecnologia nucleare che secondo i funzionari americani potrebbe essere utilizzata solo per creare armi e apparentemente ha spedito in Pakistan componenti di missili con una portata di 300 miglia. La Corea del Nord ha avviato da tempo un programma di armi nucleari e ha venduto missili avanzati e tecnologia missilistica a Siria e Iran. Il flusso di armi e tecnologia delle armi è generalmente dall’Asia orientale al Medio Oriente. Vi è, tuttavia, qualche movimento nella direzione inversa; La Cina ha ricevuto missili Stinger dal Pakistan. La Corea del Nord ha avviato da tempo un programma di armi nucleari e ha venduto missili avanzati e tecnologia missilistica a Siria e Iran. Il flusso di armi e tecnologia delle armi è generalmente dall’Asia orientale al Medio Oriente. Vi è, tuttavia, qualche movimento nella direzione inversa; La Cina ha ricevuto missili Stinger dal Pakistan. La Corea del Nord ha avviato da tempo un programma di armi nucleari e ha venduto missili avanzati e tecnologia missilistica a Siria e Iran. Il flusso di armi e tecnologia delle armi è generalmente dall’Asia orientale al Medio Oriente. Vi è, tuttavia, qualche movimento nella direzione inversa; La Cina ha ricevuto missili Stinger dal Pakistan.

Si è così creato un collegamento militare confuciano-islamico, volto a promuovere l’acquisizione da parte dei suoi membri delle armi e delle tecnologie armate necessarie per contrastare il potere militare dell’Occidente. Può durare o non durare. Al momento, tuttavia, è, come ha detto Dave McCurdy, “un patto di mutuo sostegno dei rinnegati, gestito dai proliferatori e dai loro sostenitori”. Si sta così verificando una nuova forma di competizione armata tra gli stati islamo-confuciani e l’Occidente. In una corsa agli armamenti vecchio stile, ciascuna parte ha sviluppato le proprie braccia per bilanciare o per raggiungere la superiorità rispetto all’altra parte. In questa nuova forma di competizione armata, una parte sta sviluppando le proprie armi e l’altra parte sta tentando di non bilanciare ma di limitare e prevenire l’accumulo di armi riducendo allo stesso tempo le proprie capacità militari.

IMPLICAZIONI PER L’OCCIDENTE

Questo articolo non sostiene che le identità di civiltà sostituiranno tutte le altre identità, che gli stati nazione scompariranno, che ogni civiltà diventerà un’unica entità politica coerente, che i gruppi all’interno di una civiltà non entreranno in conflitto e nemmeno combatteranno tra loro. Questo documento espone le ipotesi che le differenze tra le civiltà siano reali e importanti; la coscienza della civiltà sta aumentando; il conflitto tra le civiltà soppianta le forme ideologiche e di altro tipo di conflitto come forma di conflitto globale dominante; le relazioni internazionali, storicamente un gioco svolto all’interno della civiltà occidentale, saranno sempre più de-occidentalizzate e diventeranno un gioco in cui le civiltà non occidentali sono attori e non semplici oggetti; politico di successo, la sicurezza e le istituzioni economiche internazionali hanno maggiori probabilità di svilupparsi all’interno delle civiltà che tra le civiltà; i conflitti tra gruppi di civiltà diverse saranno più frequenti, più sostenuti e più violenti dei conflitti tra gruppi di una stessa civiltà; i conflitti violenti tra gruppi di diverse civiltà sono la fonte più probabile e più pericolosa di escalation che potrebbe portare a guerre globali; l’asse fondamentale della politica mondiale saranno i rapporti tra “l’Occidente e il Resto”; le élite in alcuni paesi lacerati non occidentali cercheranno di rendere i loro paesi parte dell’Occidente, ma nella maggior parte dei casi si trovano ad affrontare grandi ostacoli per raggiungere questo obiettivo; un fulcro centrale del conflitto per l’immediato futuro sarà tra l’Occidente e diversi stati islamo-confuciani.

Non si tratta di sostenere l’opportunità di conflitti tra civiltà. Si tratta di formulare ipotesi descrittive su come potrebbe essere il futuro. Se queste sono ipotesi plausibili, tuttavia, è necessario considerare le loro implicazioni per la politica occidentale. Queste implicazioni dovrebbero essere divise tra vantaggio a breve termine e accomodamento a lungo termine. Nel breve termine è chiaramente nell’interesse dell’Occidente promuovere una maggiore cooperazione e unità all’interno della propria civiltà, in particolare tra le sue componenti europee e nordamericane; incorporare nell’Occidente società dell’Europa orientale e dell’America Latina le cui culture sono vicine a quelle dell’Occidente; promuovere e mantenere relazioni di cooperazione con Russia e Giappone; prevenire l’escalation dei conflitti tra le civiltà locali in grandi guerre tra le civiltà; limitare l’espansione della forza militare degli stati confuciani e islamici; moderare la riduzione delle capacità militari occidentali e mantenere la superiorità militare nell’Asia orientale e sudoccidentale; sfruttare differenze e conflitti tra stati confuciani e islamici; sostenere in altre civiltà gruppi in sintonia con i valori e gli interessi occidentali; rafforzare le istituzioni internazionali che riflettono e legittimare gli interessi e i valori occidentali e promuovere il coinvolgimento di stati non occidentali in tali istituzioni. sostenere in altre civiltà gruppi in sintonia con i valori e gli interessi occidentali; rafforzare le istituzioni internazionali che riflettono e legittimare gli interessi e i valori occidentali e promuovere il coinvolgimento di stati non occidentali in tali istituzioni. sostenere in altre civiltà gruppi in sintonia con i valori e gli interessi occidentali; rafforzare le istituzioni internazionali che riflettono e legittimare gli interessi e i valori occidentali e promuovere il coinvolgimento di stati non occidentali in tali istituzioni.

A più lungo termine sarebbero necessarie altre misure. La civiltà occidentale è sia occidentale che moderna. Le civiltà non occidentali hanno tentato di diventare moderne senza diventare occidentali. Ad oggi solo il Giappone è riuscito pienamente in questa ricerca. Le civiltà non occidentali continueranno a tentare di acquisire la ricchezza, la tecnologia, le abilità, le macchine e le armi che fanno parte dell’essere moderni. Tenteranno anche di conciliare questa modernità con la loro cultura e valori tradizionali. La loro forza economica e militare rispetto all’Occidente aumenterà. Quindi l’Occidente dovrà sempre più accogliere queste civiltà moderne non occidentali il cui potere si avvicina a quello dell’Occidente ma i cui valori e interessi differiscono significativamente da quelli dell’Occidente. Ciò richiederà all’Occidente di mantenere il potere economico e militare necessario per proteggere i propri interessi in relazione a queste civiltà. Tuttavia, richiederà anche all’Occidente di sviluppare una comprensione più profonda dei presupposti religiosi e filosofici di base alla base di altre civiltà e dei modi in cui le persone in quelle civiltà vedono i propri interessi. Richiederà uno sforzo per identificare elementi di comunanza tra l’Occidente e le altre civiltà.

[1] Murray Weidenbaum,  Grande Cina: la prossima superpotenza economica?  St. Louis: Washington University Center for the Study of American Business, Contemporary Issues, Series 57, February 1993, pp. 2-3.

[2] Bernard Lewis, “Le radici della rabbia musulmana”,  The Atlantic Monthly , vol. 266, settembre 1990, pag. 60; Time , 15 giugno 1992, pp. 24-28.

[3] Archie Roosevelt,  Per Lust of Knowing , Boston: Little, Brown, 1988, pp. 332-333.

[4] Quasi invariabilmente i leader occidentali affermano di agire per conto della “comunità mondiale”. Un piccolo errore si è verificato durante il periodo precedente alla Guerra del Golfo. In un’intervista a “Good Morning America”, il 21 dicembre 1990, il primo ministro britannico John Major ha fatto riferimento alle azioni che “l’Occidente” stava intraprendendo contro Saddam Hussein. Si corresse rapidamente e in seguito si riferì alla “comunità mondiale”. Tuttavia, aveva ragione quando ha sbagliato.

[5] Harry C. Triandis,  The New York Times , 25 dicembre 1990, p. 41 e “Studi interculturali dell’individualismo e del collettivismo”, Nebraska Symposium on Motivation, vol. 37, 1989, pp. 41-133.

[6] Kishore Mahbubani, “The West and the Rest”,  The National Interest , estate 1992, pp. 3-13.

[7] Sergei Stankevich, ”  La Russia alla ricerca di se stessa”, L’interesse nazionale , estate 1992, pp. 47-51; Daniel Schneider, “Un movimento russo rifiuta l’inclinazione occidentale”,  Christian Science Monitor , 5 febbraio 1993, pp. 5-7.

[8] Owen Harries ha sottolineato che l’Australia sta cercando (non saggiamente a suo avviso) di diventare un paese lacerato al contrario. Sebbene sia stato un membro a pieno titolo non solo dell’Occidente, ma anche del nucleo militare e dell’intelligence dell’ABCA dell’Occidente, i suoi attuali leader stanno in effetti proponendo di disertare dall’Occidente, ridefinirsi come paese asiatico e coltivare stretti legami con suoi vicini. Il futuro dell’Australia, sostengono, è con le economie dinamiche dell’Asia orientale. Ma, come ho suggerito, una stretta cooperazione economica richiede normalmente una base culturale comune. Inoltre, è probabile che nessuna delle tre condizioni necessarie affinché un paese lacerato si unisca a un’altra civiltà esista nel caso dell’Australia.

  • SAMUEL P. HUNTINGTON è Eaton Professor of the Science of Government e Direttore del John M. Olin Institute for Strategic Studies dell’Università di Harvard. Questo articolo è il prodotto del progetto dell’Olin Institute su “The Changing Security Environment and American National Interests”.

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/1993-06-01/clash-civilizations?utm_medium=newsletters&utm_source=fa100&utm_content=20220521&utm_campaign=FA%20100_052122_The%20Clash%20of%20Civilizations&utm_term=fa-100

Capire i dilemmi dell’economia russa oggi – Jacques Sapir

 

19.maggio.2022 // di Jacques Sapir

Capire i dilemmi dell’economia russa oggi – Jacques Sapir

Quali sono le prospettive per l’economia russa oggi? Due testi, uno pubblicato sul settimanale russo EKSPERT dai colleghi dell’Institute for Economic Forecasting of the Academy of Sciences (IPE-ASR)[1] e l’altro sul sito web di questo stesso istituto, co-scritto da Alexandre Shirov e dal suo team[2], ti permettono di formarti un’opinione.

Quale calo per la produzione?

La prima domanda è naturalmente quella di valutare le conseguenze delle sanzioni legate alla guerra in Ucraina sull’economia russa. Sappiamo, ed è già stato detto[3], che la situazione del rublo si è stabilizzata a fine marzo, grazie all’azione della Banca centrale russa. Ciò è stato in grado di allentare i controlli sui cambi posti in essere alla fine di febbraio 2022[4]. Tuttavia, esperti russi e stranieri stimano che lo shock delle sanzioni all’economia dovrebbe tradursi in un calo del PIL compreso tra -8% e -12%[5]. Per questo il testo di Alexandre Shirov e dei suoi colleghi è così importante perché fornisce dettagli importanti sull’argomento.

Il testo inizia quindi osservando che ” Il calo dell’economia russa entro la fine dell’anno in corso dall’8 al 10%, previsto dagli esperti, non ha ancora trovato riscontro nelle statistiche ufficiali (i calcoli si basano sui dati Rosstat di gennaio- marzo 2022) ”[6]. Ciò non sorprende a priori visto il ritardo di oltre un mese e mezzo nella pubblicazione dei principali indicatori economici. Va inoltre ricordato che calcoli basati su metodi di estrapolazione di serie storiche, nelle condizioni di uno shock esogeno maggiore, come quello causato dalla guerra e dalle sanzioni, non consentono di tenere pienamente conto degli sviluppi economici.

Tuttavia, Alexander Shirov e i suoi colleghi rilevano che, con un calo previsto del PIL per il 2022 dell’8% e data una crescita del 4% anno su anno nel primo trimestre del 2022, il calo nel secondo trimestre rispetto al periodo l’anno precedente, corretto per le variazioni stagionali, dovrebbe essere superiore al 14%; dopodiché, nel III e IV trimestre, non dovrebbe esserci ripresa della crescita della produzione. Tuttavia, “ sulla base dei dati disponibili per aprile 2022 (carico su trasporto ferroviario, produzione di petrolio e produzione di prodotti petroliferi, consumi di energia elettrica, spesa per consumi di bilancio), non si vede ancora un calo così significativo nel secondo trimestre ”[7] .

Le statistiche disponibili a inizio maggio indicano di fatto un rallentamento, ma non una regressione, dei tassi di crescita del PIL nel periodo febbraio-marzo 2022. Tali tassi, che sarebbero quindi scesi dal 4,3% al 3,1%, rispetto allo stesso periodo lo scorso anno rispetto al 5% del quarto trimestre 2021. Il calo della previsione del tasso di crescita del PIL nel 1° trimestre 2022 è di circa l’1,5% rispetto alle stime di marzo. È “ principalmente dovuto a un calo della produzione nel settore manifatturiero (dello 0,3% a marzo su base annua dopo un aumento dal 7 al 10% a gennaio-febbraio 2022). Le restrizioni al trasporto aereo introdotte nella Federazione Russa e all’estero hanno portato a una riduzione del trasporto passeggeri (del -4% a marzo anno su anno) ”[8].

Se l’impatto della guerra e delle sanzioni è innegabile, sembra comunque molto ridotto rispetto a quanto annunciano gli esperti “occidentali” o rispetto ai desideri di alcuni leader, come Bruno Le Maire, ministro delle Finanze francese, che ha dichiarato il 1° marzo che le sanzioni avrebbero “ … causato il collasso dell’economia russa”[9].

Preoccupanti prospettive per il futuro

Tuttavia, gli autori trovano anche elementi negativi nell’evoluzione del commercio all’ingrosso e al dettaglio, nonché per quanto riguarda il reddito delle famiglie. Qui il rallentamento della crescita del fatturato del commercio al dettaglio è -3,5% rispetto al mese precedente (+2,2% a marzo anno su anno contro +5,7% a febbraio anno su anno) e questo mentre il picco della domanda urgente di non food prodotti è stato superato all’inizio di marzo. Allo stesso modo, si è registrato un calo del fatturato del commercio all’ingrosso (dello 0,3% a marzo su base annua) a causa di problemi nell’implementazione delle attività di commercio estero. Infine, il calo del reddito monetario reale a disposizione delle famiglie è dell’1,2% nel primo trimestre del 2022 (rispetto al primo trimestre del 2021) e il calo del risparmio delle famiglie è di 1.280 miliardi, indicando che le famiglie sono improvvisamente scomparse. Tutti questi elementi non contribuiscono alla crescita dei consumi nei prossimi mesi.

Gli autori concludono quindi che: “ Il rallentamento dello slancio economico nel marzo 2022 ha portato a un calo della stima del tasso di crescita del PIL nel 2022 al +1,3%. Si tratta di una riduzione dell’1,9% rispetto alla stima presentata a marzo, ma comunque significativamente superiore alle stime fatte all’IPE-ASR con altre modalità (che hanno mostrato un calo di circa -6,0% subordinatamente all’istituzione di misure di sostegno statale), poiché esterne gli shock causati da fattori geopolitici si sono finora riflessi solo in parte nelle statistiche ”[10].

Gli autori indicano inoltre che i principali problemi di sviluppo economico che si presenteranno nei prossimi mesi saranno associati ad un’ulteriore riduzione della produzione in alcuni rami industriali, sia per mancanza di componenti importati, problemi di fornitura di apparecchiature e software esteri o la sospensione delle attività di società estere. Questi fattori dovrebbero portare a una riduzione dei consumi e degli investimenti. Un altro problema importante menzionato è la riduzione dei proventi delle esportazioni. Oltre alle restrizioni imposte agli esportatori dalla Federazione Russa, c’è uno sconto importante sulle esportazioni di materie prime russe: il prezzo del petrolio Brent supera i 100 dollari al barile.

Una mobilitazione dell’economia?

Di fronte a questa situazione, i ricercatori dell’IPE-ASR, che hanno partecipato al 4° convegno scientifico sullo sviluppo della Russia che si è tenuto a Belokourizhe nell’Altai, scriviamo – tramite la penna di Boris Porfiriev, di Alexandre Shirov e Valéry Krioukov – un testo importante dal titolo “ Memorandum for Sovereign Growth ” che è stato pubblicato lunedì 16 maggio sul numero 20 dell’influente settimanale EKSPERT [12]. Questo testo inizia innanzitutto con l’analisi della situazione creata dalle sanzioni a lungo termine.

Analizzano la situazione attuale come segue: “ Gli sconvolgimenti tettonici del panorama geopolitico, al cui epicentro c’era la Russia, hanno messo a nudo un certo numero di vulnerabilità nel suo modello economico. Ci troviamo di fronte a sfide fondamentali, alle quali una risposta rapida e adeguata può garantire lo sviluppo sostenibile a lungo termine del Paese nelle condizioni di un confronto frontale con un blocco di Paesi “vecchio capitalisti” (USA, UE, Canada, Australia, Giappone).

Le sanzioni dell'”Occidente collettivo” sono diventate solo un fattore scatenante per l’attuazione delle contraddizioni e dei rischi che si sono accumulati nell’economia nazionale durante i tre decenni di sviluppo post-sovietico”[13]. Questa analisi è importante per diversi motivi. La prima è che individua le vulnerabilità, o ciò che gli autori chiamano contraddizioni e rischi, del modello di sviluppo russo che esisteva PRIMA dello scoppio della guerra e delle sanzioni, ma che naturalmente con queste ultime ha assunto una nuova dimensione. La seconda è che queste vulnerabilità, se adeguatamente affrontate, non impediranno alla Russia di vivere in futuro uno sviluppo sostenibile, sviluppo che le consentirebbe di affrontare la minaccia rappresentata da quelli che gli autori chiamano i paesi occidentali “del vecchio capitalista”. Il terzo è tuttavia che queste risposte “adattate” devono essere prese “in fretta”.

Siamo chiaramente in una logica di adattamento strutturale alla nuova situazione.

Si tratta quindi proprio dello sviluppo di un nuovo paradigma di politica economica, un paradigma che si adatterebbe all’entità dei problemi e delle nuove sfide, auspicate dagli autori. Scrivono inoltre: “ Non è più solo un tributo alla tradizione accademica, ma una questione di sopravvivenza del Paese come centro indipendente di potere e sviluppo in un mondo in rapido cambiamento ”[14].

Questo nuovo paradigma, descrivono a grandi linee dove dovrebbe andare senza ovviamente farsi illusioni sulla difficoltà del compito: ” In primo luogo, il compito ovvio è ridurre l’eccessiva dipendenza dalle importazioni tecnologiche, progettuali e produttive pronte all’uso soluzioni provenienti da paesi industrializzati esteri, al fine di aumentare notevolmente il livello di localizzazione di tipologie critiche di prodotti esteri. In un contesto più generale, si tratta di superare l’arretrato tecnologico del nucleo fondamentale dell’economia nazionale, cosa che sarà particolarmente difficile da fare nel contesto delle sanzioni e del blocco dell’industria russa ”[15].

È chiaro che per i colleghi dell’Istituto di previsioni economiche è necessario sfruttare la situazione creata dalle sanzioni e dal tentativo di isolamento economico della Russia spinto dai paesi “occidentali” per realizzare il cambiamento di un’economia dominata dalla rendita delle materie prime verso un’economia reale di produzione industriale d’avanguardia.

Per questo ritengono essenziale cambiare le priorità implicite dello sviluppo economico. Ciò implica il passaggio dallo sviluppo delle esportazioni all’espansione quantitativa e geografica, ma anche alla complessificazione, del mercato interno in funzione dello sviluppo della struttura produttiva e tecnologica dell’economia russa.

Ciò significa anche andare oltre la pratica profondamente radicata di utilizzare la parità all’esportazione nei prezzi interni dei prodotti di una serie di industrie a domanda intermedia, che si tratti della raffinazione del petrolio, della metallurgia, dei prodotti chimici all’ingrosso, ma anche dei sottosettori delle materie prime che forniscono il complesso agroindustriale [16]. Avvertono che lo slittamento nella risoluzione di questi problemi potrebbe comportare un forte peggioramento dei problemi economici della Russia.

Metodi che non sono dissimili da quelli della pianificazione francese

È chiaro che ciò non sarà possibile senza una qualche forma di mobilitazione dell’economia russa. Il “Memorandum” disegna anche i contorni. I suoi autori scrivono quanto segue: “ Nelle condizioni attuali, la priorità degli obiettivi di sviluppo strategico nazionale rispetto agli interessi delle grandi imprese è evidente, indipendentemente dall’importanza delle risorse commerciali e amministrative di cui dispongono. Allo stesso tempo, lo stato deve creare un ambiente attraente per risolvere la maggior parte dei compiti di modernizzazione a scapito delle risorse delle imprese private.

Date le dimensioni e la diversità del Paese e della sua economia, in condizioni di gravi restrizioni degli scambi e delle relazioni economiche con l’Europa, l’imperativo di un forte aumento del livello di sviluppo della periferia settentrionale e orientale della Russia, superando la frammentazione del lo spazio economico del Paese è evidente ».

Ancora una volta, si devono notare due punti importanti.

Da un lato, la chiara e inequivocabile riaffermazione che l’interesse generale deve prevalere sugli interessi particolari. Questo può sembrare ovvio. Ma questo va contro il filo dell’opinione neoliberista fino ad allora prevalsa in Russia, così come nei paesi occidentali del resto, e che voleva che l’interesse generale risultasse dall’aggregazione degli interessi particolari, questa aggregazione essendo lasciata alla mercato. Questo era infatti ciò che il piano francese intendeva realizzare nella sua origine[17]. D’altra parte, c’è una preoccupazione, più volte espressa, per una politica di pianificazione regionale in un quadro che ricorda quello di DATAR in Francia. Perché si tende a dimenticare che anche la Francia ha praticato un’intensa pianificazione territoriale dalla fine degli anni ’50. Sotto l’impatto del libro-opuscoloParigi e il deserto francese [18] , lo Stato ha istituito organi di gestione e pianificazione regionali e territoriali, processo che è stato formalizzato dalla creazione, nel 1963, della Delegazione Interministeriale per lo Sviluppo del Territorio e dell’Attrattività Regionale (DATAR) che diviene esecutore delle decisioni del Comitato interministeriale permanente per l’azione regionale e la pianificazione territoriale (CIAT), istituito nel 1960[19].

Nel complesso, non siamo poi così lontani dalla definizione che Jean Monnat diede del Piano in una nota scritta nell’estate del 1946: « I nostalgici, con lo sguardo rivolto al passato, deplorano l’intrusione dello Stato nella vita economica. Si lamentano della libertà perduta e criticano con meticolosa asprezza l’attrito inerente al dirigismo di seconda mano. Gli ambiziosi, considerando certe conquiste straniere o la città dei loro sogni, sottolineano, al contrario, l’insufficienza dei fini che lo Stato si propone e dei mezzi che si dà. Il Piano Monnet deluderà entrambi.

Deve, al contrario, sedurre i francesi di buon senso per i quali la libertà non è anarchia, né ordine all’avvento della burocrazia. (…) Del liberalismo, il 1° Piano rifiuta il profitto come unica guida all’economia, ma vi ricorre come stimolo. Dalla burocrazia , il Piano rifiuta gli interventi invadenti e pignoli. Ma, dall’interventismo, ritiene la necessità di disciplinare la ricostruzione in nome del solo criterio dell’interesse generale. [20]»

UN CIP [21] 2.0

Gli autori del “Memorandum” affermano poi un programma chiaro che va contro la politica economica attuata in Russia fino ad oggi. Scrivono quanto segue: ” L’attuale situazione geopolitica e le nuove sfide che il Paese deve affrontare rendono impossibile condurre una politica economica basata sui precedenti assunti di base, ovvero una politica monetaria restrittiva, la ricerca a tutti i costi della vittoria sull’inflazione, un bilancio consolidamento segnato da avanzi di bilancio, dal sovraaccumulo di riserve in strumenti finanziari emessi da paesi ostili ”[22].

È importante comprendere che nei compiti urgenti della politica economica, come la definiscono gli autori, vi è un insieme di misure volte a ridurre l’impatto delle restrizioni economiche estere sull’economia del Paese. Questo è chiaramente un obiettivo principale. Ciò implica in primo luogo il passaggio da una politica di incremento delle esportazioni, politica che è stata quella che ha prevalso fino all’inizio della guerra in Ucraina, ad un equilibrato commercio estero con i paesi considerati “ostili”. Gli incassi delle esportazioni verso questi paesi presentano, a causa delle sanzioni che si può pensare dureranno oltre il periodo attivo dei combattimenti, la liquidità limitata per la Russia nonché i rischi di blocco che sono stati evidenziati da sanzioni pecuniarie. Anche, pure, negli scambi con questi paesi considerati “ostili”, gli autori del “Memorandum” consigliano di passare alla formula “materie prime contro importazioni critiche”. Ciò equivale a un ritorno a una forma di bilateralismo ma anche a una compensazione negli scambi. Resta da vedere se questa formula sia compatibile con le regole dell’OMC.

Allo stesso modo, gli autori consigliano un reindirizzamento dei flussi commerciali verso paesi amici e neutrali rispetto alla Russia, un riorientamento che deve essere attivato al massimo. Ritengono particolarmente importante per la Russia realizzare la formazione di canali stabili per la fornitura di importazioni critiche da paesi amici ma anche attraverso paesi amici. In questo quadro, gli autori identificano aree promettenti per una maggiore cooperazione economica estera con la Russia. Questo sarebbe poi il caso della Cina, ma anche dei paesi dell’ASEAN (ad eccezione dei paesi che gli autori considerano satelliti americani diretti), dei paesi dell’Asia meridionale e orientale e principalmente dell’India. Qui consigliano di andare oltre il mantenimento dei contatti commerciali esistenti e di stabilirne di nuovi e di spostarsi verso gli investimenti diretti e la cooperazione industriale e tecnologica, nonché la partecipazione reciproca a progetti in varie direzioni che promuovono il trasferimento di tecnologia e competenze. Poi insistono su un punto importante:Particolare attenzione dovrebbe essere prestata alla formazione di sistemi di regolamento internazionali che utilizzino strumenti alternativi alle principali valute di riserva. La necessità di sviluppare un’unica unità di conto negli scambi commerciali con i paesi dell’Unione economica eurasiatica e altri paesi amici, nonché lo sviluppo di un sistema di operazioni di compensazione, è fortemente aggiornata . [23]»

Ciò corrisponde a un vecchio obiettivo economico della Russia, sul quale peraltro ero stato personalmente interrogato dal presidente Vladimir Putin durante un Valdai Club nel 2011. La mia risposta, risposta che continuo a sostenere, è che il rublo russo non può che diventare un “ valuta di riserva regionale” se il debito pubblico russo raggiunge il 25%, o addirittura il 30%. In effetti, una valuta di riserva richiede che le banche centrali di altri paesi possano detenere grandi quantità di valuta di riserva, e ciò è possibile solo se il paese emittente ha un debito pubblico sufficiente, poiché tali importi sono detenuti sotto forma di buoni del tesoro del paese in questione.

Verso un “piano” russo?

Gli autori del “Memorandum” insistono poi su un intervento urgente nel campo delle politiche strutturali che altro non sia che l’uso attivo dei meccanismi del sistema finanziario per la creazione, il rinnovamento e lo sviluppo di asset chiave nelle industrie high tech. Qui troviamo i meccanismi esistiti in Francia dagli anni ’50 agli anni ’70[24], e in particolare il famoso “circuito del tesoro”[25]. Ritengono che, con l’imminenza di un’importante ristrutturazione economica, che chiedono, non sia più rilevante considerare il mantenimento di un’inflazione bassa come unico obiettivo della politica monetaria. Quale procedura operativa per la Banca Centrale,

Indicano che i progetti nel campo della cosiddetta sostituzione “critica” delle importazioni dovrebbero essere dotati di strumenti di prestito agevolato. Tra le misure strutturali più importanti, vale anche la pena notare il passaggio dalla giustificazione finanziaria ed economica alla giustificazione socioeconomica dell’efficacia dei progetti di investimento sostenuti dallo Stato. I criteri chiave per l’efficacia di tali progetti dovrebbero essere i parametri dell’occupazione, del reddito della popolazione e dell’efficienza di bilancio e non quelli della redditività immediata. Inoltre, gli autori chiedono una rilocalizzazione della produzione di componenti di prodotti complessi. Da questo punto di vista,

Concludono poi: ” Qui si raggiunge obiettivamente il compito fondamentale di creare un sistema unificato per il monitoraggio, la previsione e la gestione dello sviluppo scientifico e tecnologico del Paese basato su un sistema informativo integrato dello Stato, della scienza e delle imprese. Appare evidente la necessità di creare un organo esecutivo federale unificato che determini gli orientamenti generali dello sviluppo scientifico e tecnologico del Paese, ne accompagni il finanziamento e ne controlli l’attuazione. È estremamente importante dare nuovo slancio e integrare la scienza applicata in un unico sistema di progresso scientifico e tecnico, che oggi sta attivamente rivivendo nel tracciato dello Stato e delle grandi imprese private ”[27].

Questo descrive, in modo molto ampio, un mix tra com’era il Commissariat Général au Plan dagli anni ’50 alla fine degli anni ’70, ma anche com’era la pianificazione giapponese dal 1955 all’inizio degli anni ’70[28].

Questo “Memorandum” presenta quindi un programma economico e istituzionale coerente che consentirebbe alla Russia di affrontare con successo la situazione creata dalle sanzioni causate dalla guerra in Ucraina. Ma è importante sottolineare che contiene molte idee che furono espresse, in varie occasioni, anni prima di questa guerra. La domanda che si pone dunque realmente è se l’urgenza della situazione attuale sarà sufficiente a realizzare questo cambiamento radicale dei paradigmi fondamentali dell’economia russa.

Giudizi

[1] https://expert.ru/expert/2022/20/memorandum-suvrennogo-rosta/?mindbox-did=960284c6-e235-476c-91ee-6c49216c888c0&utm_source=email&utm

[2] https://ecfor.ru/publication/kratkosrochnyj-analiz-dinamiki-vvp/

[3] https://www.les-crises.fr/qui-est-isole-la-guerre-en-ukraine-dans-son-contexte-geoeconomique-jacques-sapir/

[4] https://www.cbr.ru/eng/press/pr/?file=13052022_171600ENG_PP16052022_125219.htm e https://www.cbr.ru/eng/press/event/?id=12832

[5] https://www.latribune.fr/economie/international/l-economie-russe-s-abaisse-inesorablement-dans-la-recession-913818.html

[6] https://ecfor.ru/publication/kratkosrochnyj-analiz-dinamiki-vvp/ . Traduzione personale.

[7] https://ecfor.ru/publication/kratkosrochnyj-analiz-dinamiki-vvp/ . Traduzione personale.

[8] https://ecfor.ru/publication/kratkosrochnyj-analiz-dinamiki-vvp/ . Traduzione personale.

[9] https://www.france24.com/fr/éco-tech/20220301-pour-bruno-le-maire-les-sanctions-vont-provoquer-l-lapse-de-l-économie-russe

[10] https://ecfor.ru/publication/kratkosrochnyj-analiz-dinamiki-vvp/ . Traduzione personale.

[11] Cosa è stato riscontrato in particolare sui contratti stipulati con gli importatori di petrolio indiani.

[12] https://expert.ru/expert/2022/20/memorandum-suvrennogo-rosta/?mindbox-did=3a12d0ee-2297-4040-57d-f11a9c3229bc&utm_source=email&utm

[13] Traduzione personale

[14] Traduzione personale.

[15] Traduzione personale

[16] Si noti la somiglianza tra le tesi del “Memorandum” e un articolo che avevo pubblicato più di dieci anni fa nella recensione dell’IPE-ASR: Sapir J., “Soglasovanie vnytrennykh u mirovykh cen na cyr’evye produkty v strategii yekonomitchekogo razvitija Rossii”, [Dinamica dei prezzi mondiali e interni delle materie prime nella strategia di sviluppo economico della Russia] in Problemy Prognozirovanija , n° 6 (129), 2011, pp. 3-16.

[17] Bauchet, P., Progettazione francese, 20 anni di esperienza , Parigi, Le Seuil, 1962.

[18] Gravier JF., Parigi e il deserto francese , Parigi, Le Portulan, 1947.

[19] JORF n.270 del 20 novembre 1960, p. 10363. https://www.legifrance.gouv.fr/jorf/id/JORFTEXT000000306952

[20] AMF 005/002/040, Fondo Jean Monnet, Fondazione Jean Monnet, Losanna.

[21] Riferimento, fatto nel Memorandum, alla “Nuova Politica Economica” all’inizio dell’URSS.

[22] Traduzione personale.

[23] Traduzione personale

[24] Sheahan, J., Promotion and Control of Industry in Postwar France , Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1963, p. 341-342. Delorme, R., Lo Stato e l’economia: un tentativo di spiegare l’evoluzione della spesa pubblica in Francia: (1870-1980), Parigi, Éditions du Seuil, 1983.

[25] Lelart M., The Issue of Money in the French Economy, Parigi, New Latin Editions, 1966. Plihon D., Money and its Mechanisms, Parigi, La Découverte, 2010.

[26] Leggerete qui un vecchio testo che ho scritto sulla necessità di cambiare la politica monetaria nel caso della Russia: Sapir J., “What Should Russian Monetary Policy Be” in Post-Soviet Affairs , vol. 26, n° 4, ottobre-dicembre 2010, pp; 342-372.

[27] Traduzione personale

[28] Sapir J., Il grande ritorno della pianificazione? Parigi, editore di Jean-Cyrile Godefroy, 2022.

Commento consigliato

antoniob // 19.05.2022 alle 08:01

Due settori che trovo interessanti da seguire, e significativi, sono quello dell’aeronautica e quello dei trasformatori.
Per la prima, la reattività è stata rapida, e “aiutata” dalle sanzioni progressive già in vigore tra il 2014 e il 2019, come l’Irkut MC-21 che è stato un progetto di collaborazione con l’estero, e per il quale a seguito di un embargo americano materiali compositi questi sono stati prodotti localmente, quindi embargo sui motori e idem sostituiti dal russo.

D’altra parte, a parte alcuni processori militari, il Paese non ha nano-fonderie e deve rifornirsi tramite l’India e con derivati ​​cinesi da Intel.

In ogni caso nel software, nella matematica, hanno sempre avuto il cervello.
Los gringos vogliono anche cercare di attirare gli scienziati per cercare di svuotare il paese dalla materia grigia. Abbiamo il diritto di dire stupidi come un americano?

Dal 2015 nei miei soggiorni mi aveva sorpreso la velocità di allestire formaggi e salumi francesi, spagnoli e italiani, questa volta a seguito dell’embargo decretato dalla Russia nei confronti dell’UE.
Vai a Simferopol e compra il camembert della Crimea, haha.

Per un ignorante dell’economia come me, per la piccola estremità del telescopio, la società mi sembra molto reattiva.
Ma hey, hanno letto la rete europea, che in pratica insegna loro che tutti in Occidente li vogliono morti… in una melodia molto “Der Russe muß sterben”…

Ironia della sorte, fanno l’opposto della Francia, che si deindustrializza attraverso il dumping sociale straniero, e si “bananizza”.

Dominique65 // 19.05.2022 alle 10:03

Innanzitutto una domanda:
“per realizzare il passaggio da un’economia dominata dalla rendita delle materie prime ad un’economia reale di produzione industriale d’avanguardia. La quota dell’industria
nel PIL russo è del 30%, quando è del 18% negli Stati Uniti e tre volte inferiore in Francia. Quanto dovrebbe essere alta la Russia per essere considerata un paese industriale e non un paese “profitto”?
Altrimenti, in questo studio, non vedo nulla di molto nuovo rispetto a quanto detto in questi anni, semplicemente una conferma. Ad esempio, la Russia ha iniziato a costruire trattori e macchine agricole.

max // 19.05.2022 14:47

Non siamo più nel mondo del 1990, dopo un attimo di esitazione il resto del mondo non prende posizione e osa anche dire di no, nonostante tutti i tentativi degli Usa e dei suoi alleati. Non è più come in passato un apolitico ma spesso un non legato alla storia dove li sfruttava il superbo Occidente, un ricordo non così lontano dove l’Occidente rappresentava la loro umiliazione.
Inoltre, con alcuni settori eccezionali, la scienza e la tecnologia non sono più prerogativa dell’Occidente, nell’estremo oriente i paesi stanno meglio e questo dimostra che possiamo fare le cose diversamente.
Tutto questo e altro impediscono alla Russia di crollare nonostante i suoi problemi interni (la dipendenza dall’Occidente è uno dei suoi problemi).
Le monde devient multipolaire, il ne parle plus d’une seule voix, les embargos peuvent maintenant être contournés, les produits même de hautes technologies ne sont plus le monopole d’un seul pays et cela a été constaté lors de l’affrontement technologique USA /Cina.
Segno, tra molti altri di questi cambiamenti l’ASEAN ha rifiutato di seguire le ingiunzioni degli USA contro la Russia
Anche la finanza si muove

La globalizzazione dopo la pandemia, Di  Antonia Colibasanu

La globalizzazione dopo la pandemia

Due crisi economiche globali in meno di due decenni hanno infranto la fiducia nella struttura dell’economia globale.

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Entriamo nel 2022 con la stessa speranza che avevamo all’inizio del 2021: che la pandemia finisca presto. Questa volta avremo ancora più vaccini e cure per il COVID-19. Ma abbiamo anche una nuova variante del virus e la quasi certezza che ce ne saranno altre. Comunque vada, qualcosa di profondo è successo all’umanità dall’inizio della pandemia. La malattia è sempre una minaccia per l’umanità, ma è una minaccia che ignoriamo la maggior parte del tempo. Ora che ciò non è possibile, siamo colpiti dall’incertezza, che a livello sociale si traduce in una generale mancanza di fiducia nel futuro.

In geopolitica, la fiducia conta. I leader agiscono in base a ciò che sanno o, più precisamente, a ciò che credono di sapere. La diminuzione della fiducia nell’economia, ad esempio, potrebbe modificare un’intera strategia nazionale. E ci sono molte ragioni per la scarsa fiducia nell’economia. La pandemia ha innescato una crisi energetica e della catena di approvvigionamento, carenza di manodopera e, in definitiva, inflazione, sconvolgendo la vita economica e sociale e aggravando la disuguaglianza all’interno e tra i paesi. Cosa più importante, ha accelerato il declino della globalizzazione in un momento in cui la cooperazione globale è più importante che mai.

Sondaggio mondiale Gallup | Indice di fiducia economica
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Dal 2008 al 2022

La deglobalizzazione è iniziata nel 2008 con la crisi finanziaria globale e si è sviluppata lentamente negli oltre dieci anni successivi, fino a quando il COVID-19 non l’ha portata in tilt. La deglobalizzazione è un processo economico, ma soprattutto è guidato dalla crescente mancanza di fiducia nel sistema economico globale e nelle sue convinzioni a sostegno. Dopo il 2008, le persone hanno dubitato della convinzione che la globalizzazione potesse portare solo un cambiamento positivo nella vita delle persone e che l’interconnessione e l’interdipendenza fossero forze di stabilità. Segnò la fine del mondo post Guerra Fredda e l’inizio di una nuova era in cui lo stato-nazione era chiamato a proteggere la società dalle forze negative della globalizzazione. L’ascesa di movimenti nazionalisti e populisti ha annunciato questo cambiamento, insieme a indicazioni di un aumento del protezionismo in tutto il mondo. Brexit e Stati Uniti

Commercio internazionale e investimenti
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Il 2021 ha visto una straordinaria ripresa economica dopo il crollo del 2020, ma l’impennata inaspettatamente grande del consumo globale ha innescato una crisi della catena di approvvigionamento ed è stata la causa principale della crisi energetica. Le restrizioni sui viaggi hanno privato l’industria navale di lavoratori a basso salario mentre i lavoratori esistenti nel settore, già sottoposti a forti pressioni, hanno lasciato il lavoro in gran numero. I costi di spedizione già elevati sono aumentati di quasi dieci volte rispetto al 2020. Queste interruzioni hanno prodotto scarsità, che ha fatto aumentare i prezzi per quasi tutto.

Tendenze dell'inflazione
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Inflazione settoriale
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Le interruzioni legate alla pandemia hanno anche indotto le aziende a rivalutare le proprie priorità e vulnerabilità. In una recente indagine dell’Istituto Ifo di Monaco di Baviera, in Germania, la potenza delle esportazioni europee, il 19% delle aziende manifatturiere ha dichiarato di voler reinsediare la produzione. Quasi due terzi di queste aziende hanno affermato che cercheranno fornitori tedeschi, mentre il resto ha affermato che cercherà di soddisfare le proprie esigenze internamente. Questo è un cambiamento importante per un’economia così dipendente dal commercio. Circa il 12% degli input totali utilizzati nei settori di esportazione della Germania (ad es. automobili, macchinari, apparecchiature elettriche, elettronica) viene importato da paesi a basso reddito come la Cina, altre parti dell’Asia oi Balcani. Il quadro è simile in altri paesi. E mentre questo sviluppo è guidato dalle imprese, i governi sono sicuri di adeguare anche le loro politiche,

Inflazione, automazione e implicazioni

Questi turni di produzione stanno accelerando il processo di deglobalizzazione. La pressione che aggiungono all’economia globale si farà sentire nel 2022.

Dalla fine degli anni ’80, le tendenze a favore della globalizzazione hanno contribuito a tenere a bada l’inflazione, poiché i produttori a basso costo hanno fornito input per le economie avanzate. Se la deglobalizzazione viene sostenuta, può portare a uno shock dal lato dell’offerta che aumenterà le già elevate pressioni inflazionistiche. Insieme al rallentamento dell’innovazione ea una forza lavoro limitata nel settore manifatturiero delle economie sviluppate, ciò potrebbe creare ulteriori carenze e persino, alla fine, una depressione.

Un potenziale rimedio sarebbe l’adozione accelerata dell’automazione. Nell’ambiente di bassi tassi di interesse che ha seguito la crisi finanziaria del 2008, il costo degli investimenti nei robot è diminuito, incoraggiando le aziende dei paesi ricchi ad automatizzare dove potevano e a ripristinare parte della produzione. La Germania è leader mondiale nell’adozione di robot, con 7,6 robot ogni 1.000 lavoratori, rispetto ai sei della Corea del Sud e poco più di quattro in Giappone. Gli Stati Uniti, invece, hanno solo 1,5 robot ogni 1.000 lavoratori. Non è chiaro se queste economie sviluppate abbiano attualmente livelli di automazione sufficientemente elevati da separarsi dai paesi a basso reddito. Inoltre, il lento tasso di adozione dal 2011 e l’adozione ineguale tra le economie sviluppate e in via di sviluppo è motivo di scetticismo. A lungo termine, tuttavia,

Un altro effetto della deglobalizzazione è che i mercati nazionali diventeranno meno vulnerabili agli shock esterni. Invece, saranno più suscettibili agli shock interni. E poiché le aziende accorciano le loro catene di approvvigionamento, aumenterà la loro esposizione alle interruzioni regionali.

Il nuovo paradigma

Dalla fine della seconda guerra mondiale, e soprattutto dal crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno guidato l’ascesa della globalizzazione. Integrazione tradotta in beni più economici per gli americani e per il mondo. L’outsourcing era visto come un vantaggio, non una minaccia, per la prosperità interna. Ma il 2008 ha infranto la fiducia del pubblico in quelle idee e la sicurezza economica è tornata a essere una priorità assoluta dei politici. La pandemia ha ulteriormente rafforzato questa tendenza, un amaro promemoria che il profitto non è nulla senza resilienza e robustezza.

Nel nuovo paradigma, le alleanze bilaterali soppianteranno quelle multilaterali, anche se queste perdurano. L’Unione europea, ad esempio, manterrà il suo principale vantaggio di ospitare il più grande mercato comune del mondo. Continuerà a sviluppare accordi commerciali strategici con paesi come il Giappone e, più recentemente, il Vietnam. Di fronte alla percepita aggressione cinese, gli Stati Uniti e l’UE continueranno a lavorare per stabilire accordi commerciali e di investimento in settori strategici come i semiconduttori e l’acciaio. Allo stesso tempo, le strutture di alleanza in evoluzione come il patto USA-Regno Unito-Australia noto come AUKUS (costruito sulla struttura di condivisione dell’intelligence Five Eyes che esiste dalla fine della seconda guerra mondiale) integreranno accordi commerciali come la Trans-Pacific Partnership , a cui il Regno Unito (e la Cina) stanno tentando di aderire.

La pandemia ha creato distorsioni (come l’inflazione) che evidenziano la necessità di un’azione collettiva globale. Il cambiamento climatico sta spingendo i leader delle economie avanzate a presentare piani ambiziosi per una finanza globale “verde”. La pressione interna per tenere a freno le aziende multinazionali, in particolare le big tech, ha aperto la strada a un accordo globale sulla tassazione minima sulle società alla fine dello scorso anno. Allo stesso tempo, le economie sviluppate si stanno allontanando ulteriormente dal resto del mondo e crescono le aspirazioni a ricostruire comunità politiche ed economiche dietro i confini nazionali. Una cosa è chiara: il 2022 sarà un anno di tensioni per l’economia globale.

https://geopoliticalfutures.com/globalization-after-the-pandemic/

Lettera al Presidente, lettre à monsieur le Président_di e a cura di Giuseppe Germinario

Invito a leggere questa lettera-appello pubblicata in Francia il 22 aprile scorso. Segue qualche considerazione_Giuseppe Germinario

“Per un ritorno all’onore dei nostri governanti”: 20 generali chiedono a Macron di difendere il patriottismo

Su iniziativa di Jean-Pierre Fabre-Bernadac, ufficiale di carriera e direttore del sito di Place Armes , una ventina di generali, un centinaio di alti ufficiali e più di mille altri soldati hanno firmato un appello per un ritorno di onore e dovere all’interno della classe politica. Valeurs Actuelles diffondono, con la loro autorizzazione, la lettera intrisa di convinzione e impegno da parte di questi uomini legati al loro Paese.

Signor Presidente,
Signore e Signori del Governo,

Signore e Signori, Membri del Parlamento,

L’ora è seria, la Francia è in pericolo, diversi pericoli mortali la minacciano. Noi che, anche nella riserva, rimaniamo soldati di Francia, non possiamo, nelle attuali circostanze, restare indifferenti alle sorti del nostro bel Paese.

Le nostre bandiere tricolori non sono solo un pezzo di stoffa, simboleggiano la tradizione, attraverso i secoli, di coloro che, qualunque sia il loro colore della pelle o la loro fede, hanno servito la Francia e hanno dato la vita per essa. Su queste bandiere, troviamo in lettere d’oro le parole “Onore e Patria”. Tuttavia, il nostro onore oggi sta nella denuncia della disgregazione che colpisce la nostra patria.

– Disgregazione che, attraverso un certo antirazzismo, si manifesta con un unico scopo: creare sul nostro suolo un malessere, addirittura odio tra le comunità. Oggi alcuni parlano di razzismo, indigenismo e teorie decoloniali, ma attraverso questi termini è la guerra razziale quella che vogliono questi odiosi e fanatici partigiani. Disprezzano il nostro Paese, le sue tradizioni, la sua cultura, e vogliono vederlo dissolversi portandogli via il suo passato e la sua storia. Così attaccano, attraverso statue, antiche glorie militari e civili analizzando parole vecchie di secoli.

– Disgregazione che, con l’islamismo e le orde suburbane, porta al distacco di molteplici lembi della nazione per trasformarli in territori soggetti a dogmi contrari alla nostra costituzione. Tuttavia, ogni francese, qualunque sia il suo credo o il suo non credo, è ovunque a casa in Francia; non può e non deve esistere nessuna città, nessun distretto in cui non si applicano le leggi della Repubblica.

– Disgregazione, perché l’odio ha la precedenza sulla fraternità durante le manifestazioni in cui il potere usa la polizia come agenti ausiliari e capri espiatori di fronte ai francesi in gilet giallo che esprimono la loro disperazione. Questo mentre individui infiltrati e incappucciati saccheggiano aziende e minacciano le stesse forze di polizia. Tuttavia, questi ultimi applicano solo le direttive, a volte contraddittorie, fornite da voi, governanti.

I pericoli aumentano, la violenza aumenta di giorno in giorno. Chi avrebbe previsto dieci anni fa che un giorno un professore sarebbe stato decapitato al momento di uscire dal liceo? Tuttavia, noi, servitori della Nazione, che siamo sempre stati pronti a garantire con la vita il nostro impegno – come richiesto dal nostro stato militare, non possiamo essere di fronte a tali atti degli spettatori passivi.

Inoltre, coloro che guidano il nostro paese devono assolutamente trovare il coraggio necessario per sradicare questi pericoli. Per fare ciò, spesso è sufficiente applicare le leggi esistenti senza debolezze. Non dimenticare che, come noi, la grande maggioranza dei nostri concittadini non ne può più delle vostre colpevoli tergiversazioni.

Come ha detto il cardinale Mercier, primate del Belgio: “Quando la prudenza è ovunque, il coraggio non è da nessuna parte. ” Allora, signore e signori, basta rinvii, la situazione è seria, il lavoro è enorme; non perdete tempo e sappiate che siamo pronti a sostenere politiche che tengano conto della salvaguardia della nazione.

D’altra parte, se non si interviene, il lassismo continuerà a diffondersi inesorabilmente nella società, provocando alla fine un’esplosione e l’intervento dei nostri camerati in servizio in ​​una pericolosa missione di protezione dei nostri valori di civiltà e salvaguardia dei nostri connazionali sul territorio nazionale.

Come si vede, non è più tempo di procrastinare, altrimenti domani la guerra civile metterà fine a questo caos crescente e le morti, di cui voi sarete responsabili, si conteranno a migliaia.

I generali firmatari:

General de Corps d’Armée (ER) Christian PIQUEMAL (Legione straniera), General de Corps d’Armée (2S) Gilles BARRIE (Fanteria), Generale di divisione (2S) François GAUBERT ex governatore militare di Lille, Generale di divisione (2S ) Emmanuel de RICHOUFFTZ (fanteria), generale di divisione (2S) Michel JOSLIN DE NORAY (truppe di marina), generale di brigata (2S) André COUSTOU (fanteria), generale di brigata (2S) Philippe DESROUSSEAUX di MEDRANO (treno), aria Generale di brigata (2S) Antoine MARTINEZ (Air Force), Generale di brigata aerea (2S) Daniel GROSMAIRE (Air Force), Generale di brigata (2S) Robert JEANNEROD (Cavalleria), Brigata generale (2S) Pierre Dominique AIGUEPERSE (fanteria) generale Brigade (2S) Roland DUBOIS (Trasmissioni), gBrigadier General (2S) Dominique DELAWARDE (Fanteria), Brigadier General (2S) Jean Claude GROLIER (Artiglieria), Brigadier General (2S) Norbert de CACQUERAY (Directorate General of Armament), Brigadier General (2S) Roger PRIGENT (ALAT), Brigadier Generale (2S) Alfred LEBRETON (CAT), Medico generale (2S) Guy DURAND (Servizio sanitario dell’esercito), Contrammiraglio (2S) Gérard BALASTRE (Marina).

Il documento ha una rilevanza intrinseca sia per la qualità che per il numero dei firmatari, tutti militari di vario ordine e grado dell’armée, che per il tono sorprendentemente ultimativo impresso. Un accento che non lascia troppi spazi a vie di mezzo e tempi lunghi. Può essere l’indizio di qualcosa di grosso e di risolutivo in via di preparazione, come di una prosopopea senza esito fattivo, ma che porterà di sicuro discredito e dileggio ai promotori pur mossi dalle migliori intenzioni. Sicuramente è un grido di allarme. La situazione in Francia, pur comune a gran parte dei paesi occidentali, in realtà è particolarmente grave se addirittura un politico dall’approccio globalista e cosmopolitico del calibro del Presidente Macron, coltivato certosinamente in quegli ambienti, ha dovuto assumere occasionalmente e artatamente le vesti del sovranista; vesti che non sono con ogni evidenza le sue.
Assume un peso ancora più significativo e interessante sia per il merito esplicito e sottinteso che per il contesto che l’appello ha smosso ed entro il quale sta agendo.
  • nel merito ci rivela in primo luogo quello che sul nascere avevamo prontamente sottolineato a suo tempo in vari articoli del sito: il movimento di massa dei “Gilet Gialli” per le sue modalità operative e per la contestuale diffusione territoriale presupponeva l’esistenza di addentellati se non proprio di una direzione e indirizzo veri e propri di importanti centri decisionali e politici presenti nelle istituzioni francesi. La sorprendente denuncia, per altro più che fondata, nel documento dell’utilizzo violento, strumentale e decisamente sproporzionato di settori delle forze dell’ordine sono una sorta di certificazione di quanto sottolineato. Stigmatizza giustamente e apertamente la funzione politica dell’antirazzismo e delle rivendicazioni antidiscriminatorie prevalenti odierni, capovolgendoli paradossalmente in forme subdole di razzismo, di frammentazione e separatismo identitari tali da erodere irreversibilmente le fondamenta della coesione sociale e della nazione. L’islamismo radicale in realtà è forse la forma più scoperta e radicale di queste manifestazioni, ma ne esistono altre, concomitanti, molto più subdole, perché espressione diretta della cultura occidentale e sostenute da buona parte delle élites dominanti; anche questi, aspetti più volte evidenziati nei nostri articoli.
  • Riguardo al contesto e alle dinamiche innescate il documento ci dice analogamente molto di più del significato letterale delle parole ivi contenute. Si rivolge correttamente di fatto a tutte le forze politiche e a tutti i rappresentanti delle istituzioni. I promotori infatti hanno stigmatizzato gelidamente l’invito inopportuno e intempestivo di Marine Le Pen ad aderire al suo partito, il RN ex Front National. Una conferma dei rapporti deteriorati e di sorda diffidenza già emersi dopo pochi mesi dalle elezioni europee e a pochi mesi dal loro ingresso con la fuoriuscita di importanti esponenti di questa area dal partito della Le Pen, ma anche della funzione di eterna oppositrice di comodo di quest’ultima nel panorama politico transalpino. Si inserisce in una vasta campagna politica portata avanti da organi di informazione conservatori in Francia ben consolidati ed affermati, tra i vari questo https://www.valeursactuelles.com/clubvaleurs/politique/philippe-de-villiers-jappelle-a-linsurrection/ Segue numerose vicende significative tra le quali la clamorosa defenestrazione per via giudiziaria di Fillon, personaggio per altro inadeguato, dalla candidatura alle ultime presidenziali e le rumorose dimissioni del popolare Pierre de Villiers, fratello di Philippe, da comandante delle forze armate nel luglio del 2017 e del quale per altro brilla l’assenza tra i firmatari.

Il dibattito e gli schieramenti politici in Francia sono certamente meno delineati rispetto alla situazione offerta dagli Stati Uniti, certamente più nitidi e chiari rispetto alla frivolezza e alla irrilevanza dei temi affrontati in Italia. Si avvicina a quella americana nella frammentazione geografica e socioeconomica e nel livello politico di ostilità. Può aiutare a decifrare ciò che in realtà si muove meno consapevolmente e in drammatico ritardo anche nel nostro paese. Rivela le intenzioni politiche e le prospettive di autonomia presenti in maniera strutturata in una parte rilevante della sua classe dirigente, ma evanescenti nella nostra. Prospettive ed intenzioni da realizzare però con una qualche possibilità di successo solo a patto di dosare l’azione politica e gli obbiettivi alla reale condizione di forza del paese, ormai strettamente integrato politicamente e ormai militarmente nel campo occidentale piuttosto che essere guidata dalla illusione di grandeur di tempi ormai passati. E’ il discrimine che passa tra la eventuale ripetizione del tentativo gaullista degli anni ’60 e una sua disastrosa parodia. In Francia non mancano espressioni e autorevoli pubblicazioni dotate dell’adeguata consapevolezza della posta in palio. L’intervista a de Villiers, citata in precedenza, fa invece parte della categoria dei velleitari, forse non a caso così ampiamente promossa. Parla di insurrezione, un atto politico forte ed estremo, necessario in delimitati momenti, contingenze e ambiti di azione; in realtà pensa ad una battaglia culturale conducibile in altri ambiti che prescindono tra l’altro dalla detenzione effettiva di potere. Parla di un nemico politico, in realtà lo confonde e lo assimila ad una componente e/o un avversario, il capitalista, in particolare il rentier, in posizione dominante in ambito economico, largamente influente in ambito sociale, ma dal punto di vista politico e nelle sue varie frazioni solo parte di centri decisionali cooperanti e in conflitto tra di essi; una figura alla quale le forze politiche, anche le più “antagonistiche”, non sanno che offrire modalità diverse di regolazione piuttosto che la sua estinzione vista la inesistenza di alternative. Un limite di impostazione che accomuna paradossalmente le componenti radicali dei due versanti opposti e contrapposti. Da qui l’omologazione fuorviante ad un’unica tendenza del radicalismo islamico che, per quanto settario, ha una funzione aggregante e alternativa e del particolarismo identitario e nichilista, legato alla rivendicazione del desiderio personale come diritto e della diversità come convivenza giustapposta di gruppi separati. Il richiamo alla patria, alla nazione, alla identità nazionale rischia di ridursi ad una sterile declamazione. L’avversario politico diventa indefinito, come regolarmente accaduto con i movimenti mondialisti antiglobalisti e il più delle volte quello sbagliato o quello meno rivelante, portando il più delle volte inavvertitamente la serpe in casa. Così per de Villiers, non solo per lui, sul podio di nemico numero uno assurge l’economista Klaus Schwab, il gruppo di Davos, la cupola globalista senza avvedersi che tali gruppi certamente esistono, perpetrano propositi di cambiamento della natura umana e di controllo totalitario globale, ma solo se compatibili con le mire di controllo e di potere politico di centri decisionali, di unità statali tanto totalitari nelle intenzioni quanto costretti a prendere atto dell’esistenza di altri centri contrapposti e potenzialmente dalle mire similari. Le implicazioni di tale rappresentazione sono molteplici: si può cadere nella tentazione velleitaria di un pedissequo ritorno al passato tipico dei reazionari, nel rifiuto della tecnologia piuttosto che nella valutazione del suo utilizzo e dei principi che ne informano gli sviluppi, fermo restando che la conoscenza e l’ambizione di controllo dei processi naturali sono parte integrante dello sviluppo scientifico quali che siano i rapporti sociali e a prescindere da come questi rapporti vi entrino; si possono proporre “sante alleanze” (ad esempio tra tutti gli stati) contro una cosiddetta cupola che è in realtà parte integrante del sistema di potere di qualcuno di essi; non si riesce a percepire l’esistenza di varie “cupole” anche finanziarie al servizio di centri e stati “amici” o ritenuti tali o esenti per natura da certi esercizi di potere. La lettera, forse al di là della valutazione e delle stesse intenzioni dei firmatari, assume quindi una importanza politica enorme, specie in una Europa addomesticata ormai da oltre settanta anni. Vedremo verso quale versante penderà la propensione dei promotori; quel declivio ne determinerà la sorte. In Italia ci guardiamo bene dal raggiungere quel crinale che obbligherebbe senza scampo ad una scelta. Potrebbe essere ancora una volta la nostra salvezza da tragedie immani ma anche successi che invece la Francia ha conosciuto; sicuramente, nel migliore dei casi, si tratterebbe di una sopravvivenza di una classe dirigente, meno di un popolo, costantemente con il cappello in mano. Giuseppe Germinario

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare, di Giuseppe Gagliano

La questione ambientale sarà un terreno fondamentale di confronto e di scontro politico. Dagli indirizzi che verranno imposti e dagli strumenti che verranno utilizzati dipenderà la prevalenza dei particolari centri decisionali e la conformazione delle formazioni politico-sociali. E’ già un terreno di duro scontro nelle dinamiche geopolitiche celato dietro un lirismo stucchevole e strumentale. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare

di

L’articolo di Giuseppe Gagliano sulla chiusura della centrale nucleare di Fessenheim in Francia

 

“Nella notte tra lunedì 29 giugno e martedì 30, la centrale nucleare alsaziana di Fessenheim ha cessato definitivamente l’attività prima di essere smantellata. Situata sulle rive del Reno, vicino alla Germania e alla Svizzera, la più antica centrale elettrica della Francia ha smesso per sempre di produrre elettricità. Nei prossimi quindici anni ne è previsto lo smantellamento, a partire dalla rimozione del combustibile altamente radioattivo, che, secondo il programma sarà completato nel 2023”.

La chiusura è stata accolta come un successo della lotta ambientalista. Da molti anni infatti numerosi attivisti antinucleari hanno portato avanti manifestazioni non violente e azione di lobbying sulle autorità francesi per chiudere la centrale nucleare di Fessenheim alle quali hanno risposto provocatoriamente gli attivisti pro – nucleare.

In un primo momento si era previsto che questa chiusura dovesse essere per così dire sincronizzata con il lancio della terza centrale a Flamanville.

Ma la data di completamento è stata posticipata a causa di nuovi problemi al 2023. Quindi, come produrre i 12,32 TWh prodotti nel 2019 dalla centrale nucleare?

È più che ingenuo scommettere su mega fattorie di pannelli solari o turbine eoliche. La prevista installazione massiccia di un pannello solare nell’Alto Reno in sostituzione di Fessenheim fornirebbe solo il 17% della potenza dell’impianto. È importante sottolineare che il sole della regione ha una percentuale del 13%.

Per continuare e per compensare questa improvvisa perdita di energia, EDF dovrà rivolgersi a centrali termiche. Queste ultime pesano molto nella produzione di carbonio rispetto alle loro omologhe nucleari. Dove l’elettricità nucleare emette solo 6 g di CO2 per KWH, quella prodotta dal gas emette fra 500 e 1000 g di CO2 prodotta dall’energia dal carbone.

Anche se è necessario credere nelle fonti energetiche rinnovabili come l’eolico, il solare o l’idroelettrico, occorre assumere un atteggiamento realistico: il miraggio di questa transizione non tiene conto di molteplici elementi.

Per citarne solo uno, l’offshoring dell’inquinamento. Infatti per poter avere elettricità verde, occorre importare pannelli solari o turbine eoliche. Merci prodotte per la stragrande maggioranza nella Repubblica popolare cinese in modo molto inquinante e che richiedono materie prime estratte in modo identico e in condizioni umane più che deplorevoli.

Sarebbe quindi più realistico e soprattutto più ecologico parlare di complementarità energetica, dove le fonti di energia rinnovabile producono simultaneamente centrali nucleari, riducendo la quota di elettricità a base di carbonio.

Partendo dalla constatazione di natura storica che il nucleare sia civile che militare ha consentito alla Francia autorevolezza e credibilità sia nel contesto della autonomia energetica che in quello della politica internazionale, il caso francese dimostra in modo esemplare come i fondamentalismi in campo ecologico conducano i governi a scelte che finiscono per danneggiarne l’autonomia energetica e soprattutto la competizione globale.

A tale riguardo è di estremo interesse l’intervista rilasciata dall’ex direttore dell’impianto nucleare Joël Bultel che smentisce numerosi luoghi comuni. Secondo l’ex direttore seguire il modello tedesco costituirebbe un grave danno per la Francia.

In primo luogo gli impianti tedeschi producono quasi 10 volte più CO2 rispetto al sistema francese nel quale i consumatori pagano circa il 75% in più per la loro elettricità rispetto ai loro omologhi francesi. Si tratta di un modello energetico dai costi altissimi: parliamo di oltre 500 miliardi di euro.

Sostituire una tecnologia che produce quanto effettivamente serve con un’altra tecnologia che produce in modo intermittente a seconda delle condizioni meteorologiche significa degradare l’autonomia energetica.

In secondo luogo la chiusura di questo impianto è stata in realtà dettata da motivi squisitamente politici e questa chiusura sarà pagata molto cara da i consumatori: quasi mezzo miliardo di euro a breve termine e diversi miliardi cumulativi (tra 4 e 7 per un prezzo medio di mercato dell’elettricità compreso tra 40 e 50 € / MWh) per i prossimi 20 anni per compensare il danno.

In terzo luogo — sottolinea il direttore — questo impianto era in realtà funzionante e avrebbe potuto continuare a produrre elettricità a basso costo per altri vent’anni. Infatti la Corte dei Conti francese ha sottolineato il grave danno economico che una tale chiusura determinerà.

In quarto luogo questa vicenda dimostra per l’ennesima volta il ruolo sempre più importante e rilevante delle associazioni e delle ONG ambientaliste nel condizionare le scelte di politica energetica dei governi e dall’altro lato dimostra la debolezza della classe politica che per ragioni di consenso politico — non certo per convinzione — asseconda queste scelte.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-succede-in-francia-sullenergia-nucleare/?fbclid=IwAR1sKIHI1dKPW9-yz87f5qNgSMmVOLu4wb1aHXXh44NHxuLSgltKWFxO-9I

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