Il re è nudo, ma non tutti ancora lo vedono. Qui sotto la conferenza stampa tenuta due giorni fa da Matteo Salvini, presente lo stato maggiore della Lega, a proposito dell’adesione dell’Italia al MES. Una esposizione di insolita chiarezza nel panorama politico italiano. Gli autori del sito hanno più volte espresso valutazioni severe e critiche sull’operato del precedente Governo Conte e sull’apertura e gestione della crisi di governo. L’insieme delle politiche di quel Governo, a cominciare dalla politica estera per finire con la politica economica e con la gestione delle politiche industriali, sono state segnate dal trasformismo e da una concezione dell’azione politica meramente elettoralistica, inadeguata rispetto al contesto geopolitico. La crisi dell’ILVA è uno degli esempi di tale condotta. Come si fa ad affidare un settore strategico ad una multinazionale franco-indiana, parte integrante di strategie geopolitiche e geoeconomiche opposte e ostili all’interesse nazionale? La vicenda del MES svela un altro aspetto particolarmente amaro: la collocazione geopolitica e la condotta sugli aspetti fondamentali e portanti di questa collocazione tende ad andare al di là delle intenzioni delle forze politiche; muove forze, punti di vista ed interessi annidati in prassi, routine e strutture dei centri decisionali ed istituzionali difficili da fronteggiare. Pare evidente che una parte della classe dirigente si stia allarmando e svegliando pur tardivamente e in maniera goffa. La conferenza stampa e gli allegati inseriti aprono squarci alla consapevolezza inusuali_Giuseppe Germinario
Un bell’articolo dell’analista Hajnalka Vincze con il solo limite di enfatizzare un po’ troppo il ruolo autonomo, sia pure di retroguardia, della Francia quando appare evidente il tentativo, soprattutto a partire dalla Presidenza Sarkozy, di assumere la leadership europea di una organizzazione a trazione statunitense. E’ il segno, comunque che almeno in Francia esistono ancora forze strutturate che aspirano al recupero della autonomia politica_Giuseppe Germinario
Per più di venti anni, gli Stati Uniti hanno spinto a “globalizzare” l’Alleanza, sulla base del fatto che deve adattarsi a nuovi rischi e minacce se vuole, presumibilmente, “rimanere rilevante” (in altri parole: dimostrare la sua utilità per gli interessi americani e garantire, in cambio, il mantenimento dell’impegno americano nel vecchio continente). Dopo tutto, il ragionamento è logico. Solo che per gli europei porterebbe meccanicamente ad abbandonare tutte le loro politiche. La sfida è impedire, per quanto possibile, che la portata della giurisdizione dell’organizzazione si estenda ad altre aree (non militari) e altre aree geografiche (oltre l’area dell’euro -Atlantique).
L’esperienza dimostra che ciò sta esercitando un’enorme pressione sugli alleati affinché accettino le priorità degli Stati Uniti, ribadendo le loro argomentazioni, il loro approccio, i loro standard e, infine, abbandonando le proprie analisi e il proprio pensiero. Per gli europei, il proseguimento dell’estensione della competenza funzionale e geografica della NATO rischia di mettere definitivamente le loro politiche in settori come il cyber, l’energia, lo spazio e i poteri come la Russia, la Cina o il Medio Oriente su una traiettoria stabilita dagli Stati Uniti. Il loro spazio di manovra si restringerebbe singolarmente, con ripercussioni disastrose sia in materia diplomatica che economica.
La Francia ha avvertito il pericolo molto presto. Di fronte alla tentazione di espandere le competenze della NATO all’infinito (e di mordicchiare di conseguenza quelle dell’UE di conseguenza), continua a sostenere la “rifocalizzazione” dell’Alleanza. All’inizio del 2007 il Ministero della Difesa ha spiegato che la NATO fa cenno ai settori civili, o ai paesi partner in Asia e Oceania, e di sostenere quindi “un cambiamento nella natura dell’Alleanza” e “obiettivo, sotto la guida degli Stati Uniti, per trasformare la NATO in un’organizzazione di sicurezza globale, sia geograficamente che funzionalmente “ . Ma per la Francia “la NATO non dovrebbe diventare un’organizzazione che comprenda competenze disparate che non avrebbero alcun legame con il suo core business”[1] Allo stesso modo, il ministro Le Drian, parlando nel 2014 in un seminario della NATO, ha chiesto di “focalizzare l’Alleanza sulla sua area di eccellenza” . [2]
Estensione geografica: moltiplicazione di partner e obiettivi
Di fronte agli incessanti sforzi della burocrazia della NATO di conformarsi il più strettamente possibile alle ingiunzioni statunitensi (con la discreta acquiescenza della maggior parte dei partner), la posizione dei francesi assume l’aspetto di una battaglia di retroguardia. La perdita della focalizzazione euro-atlantica, vale a dire il fatto che l’istituzione di partenariati e la designazione di avversari sta avvenendo su scala globale, fa parte della grande trasformazione postbellica. Come ha riassunto l’eccellente Jolyon Howorth “di un’organizzazione il cui obiettivo iniziale era quello di garantire un impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea, [la NATO] è stata trasformata, quasi impercettibilmente, in un altro, il cui nuovo obiettivo è garantire un impegno europeo al servizio della strategia globale degli Stati Uniti “.[3]
Per gli europei, questa evoluzione amplifica due tipi di rischi: militare e diplomatico. Il generale de Gaulle aveva già messo in guardia dal pericolo di essere trascinato nelle avventure militari degli Stati Uniti. “In primo luogo, abbiamo visto che le possibilità di conflitto, e di conseguenza delle operazioni militari, si estendevano ben oltre l’Europa, e che c’erano tra i loro principali partecipanti all’Alleanza atlantica differenze politiche che potrebbero, se necessario, trasformarsi in divergenze strategiche . “ [4] “I conflitti in cui l’America si impegna in altre parti del mondo, in virtù della famosa escalation, potrebbero essere così estesi che potrebbe emergere una conflagrazione generale. In questo caso, l’Europa, la cui strategia è, nella NATO, quella americana, sarebbe automaticamente coinvolta nella lotta anche se contraria alla sua volontà “ . [5]
Con la fine della guerra fredda, le divergenze politiche su entrambe le sponde dell’Atlantico si moltiplicano e si manifestano sempre più apertamente, prima sul fronte diplomatico. Questo è il famoso “gap politico” : gli interessi di europei e americani non coincidono, lungi da ciò, su molte questioni, che si tratti di Russia, Siria, Iran, Vicino Oriente, Artico, Cina o Africa. Accettare di formulare queste politiche all’interno della NATO, quindi sotto la tutela dell’America, significa accettare di bloccare le relazioni dell’Europa con altre potenze e altre regioni del mondo in una posizione di follow-up e allineamento sugli Stati Uniti. Come diceva con straordinario eufemismo, il ministro della difesa francese nel 1999: “È innegabile che l’Alleanza non è necessariamente la migliore entità per garantire all’Europa una voce più forte negli affari mondiali” [6]
(Credito fotografico: NATO)
In termini di propensione della NATO per i partenariati a tutto campo, il concetto sembra innocente a prima vista – ma ci sono alcuni seri pericoli. La diplomazia francese è sempre stata riservata in relazione ai progetti di “partenariato globale” che è, di fatto, l’associazione al lavoro della NATO di paesi geograficamente distanti dall’area euro-atlantica, ma contraddistinti dalla loro lealtà verso gli Stati Uniti. Oggi ci sono 42 paesi, tra cui Giappone e Australia, 5 con accesso a informazioni riservate dell’Alleanza (tra cui Giordania e Georgia). La riluttanza tradizionale della Francia può essere spiegata innanzitutto dal rifiuto di istituire una sorta di grande “alleanza di democrazie”. Che avrebbe, da un lato, la vocazione appena nascosta di sostituire le Nazioni Unite, e ciò stabilirebbe, d’altra parte, una logica da blocco a blocco tra l’Occidente e il resto del mondo. All’epoca il ministro Michèle Alliot-Marie ha denunciato il rischio “Per affrontare un brutto messaggio politico: quello di una campagna su iniziativa degli occidentali contro coloro che non condividono le nostre opinioni . “ [7]
In effetti, la continua espansione della rete di partenariati fa parte di una logica di estensione degli avversari e dei teatri di potenziali operazioni. Non è un caso che firmando un accordo di partenariato rafforzato con l’Australia, il Segretario Generale dell’Alleanza abbia chiarito che l’obiettivo è gestire / contrastare l’ascesa della Cina [8]. Lo scorso gennaio, Foreign Policy ha pubblicato un articolo di Stephen M. Walt, uno dei teorici più rispettati delle relazioni internazionali, in cui ha scritto neo su bianco che per salvare la NATO “gli europei devono diventare il nemico della Cina “[9] O chiunque sia indicato dagli Stati Uniti come principale oppositore del momento. Perché è sempre la stessa logica: per garantire le buone grazie di Washington e con il pretesto di “salvare” l’Alleanza, agli europei viene chiesto di allineare le loro politiche a quelle degli Stati Uniti. Va da sé che la NATO è il forum all-inclusive per svolgere questo lavoro di “coordinamento” tra gli alleati.
Estensione funzionale: dalla politica interna allo spazio
Su base regolare, i funzionari statunitensi lanciano anche “sfide” tematiche alla NATO per dimostrarne l’utilità e la pertinenza. Come il presidente Trump che lo ha definito “obsoleto” a meno che non diventi più attivo nella lotta al terrorismo. Con lo stesso spirito, dall’inizio degli anni 2000, abbiamo assistito a un’estensione totale delle aree di competenza dell’Alleanza. L’attenzione si è concentrata su energia e cyber, ma l’elenco delle possibili aree è praticamente infinito – come affermava Jaap de Hoop Scheffer, segretario generale dell’Alleanza nel 2006: “Praticamente tutti i problemi della società possono rapidamente trasformarsi in una sfida di sicurezza »[10] E questo è positivo, dal momento che, per Washington, è particolarmente importante ridurre al minimo il numero di argomenti su cui gli europei si consultano (all’interno dell’UE), senza il suo diretto controllo. Uno dei grandi vantaggi per gli Stati Uniti dell’ampliamento dell’ambito di competenza della NATO è il blocco / recupero delle iniziative dell’UE nelle aree di loro interesse.
Lo scenario è sempre lo stesso. Un soggetto viene proiettato, su iniziativa degli Stati Uniti, sullo schermo radar dell’Alleanza. Gli europei, i francesi in testa, sostengono che la NATO dovrebbe concentrarsi sul proprio core business e non avventurarsi nell’UE. Tuttavia, poiché è già all’ordine del giorno, gli alleati procedono a consultazioni. Arriveranno ad accettare l’inclusione del nuovo soggetto come una delle competenze dell’Alleanza, inizialmente in un modo attentamente circoscritto. La nuova competenza si limita principalmente alla protezione delle capacità proprie della NATO (infrastrutture, forze operative). Quindi, con il pretesto del “valore aggiunto” dell’Alleanza, l’Alleanza propone di sostenere un determinato Stato membro. L’argomento finirà per insinuarsi nella pianificazione della difesa, dove la definizione di “approccio coordinato” si baserà, ovviamente, sulle priorità degli Stati Uniti. La ciliegina sulla torta, le voci si alzeranno per inserire il nuovo campo tra quelle coperte dall’articolo 5. Così, il segretario generale Stoltenberg è stato in grado di dichiarare, lo scorso agosto, che un attacco informatico contro i computer del sistema sanitario britannico potrebbe innescare la difesa collettiva. [11]
(Credito fotografico: NATO)
La sicurezza energetica è un altro caso di studio. Nel 2006, al vertice di Riga, il presidente Chirac ha sottolineato chiaramente che “la sicurezza energetica non era all’ordine del giorno e non doveva essere all’ordine del giorno della NATO. Quindi non ne abbiamo parlato . “ [12] Tuttavia, in seguito al vertice, sono state avviate” consultazioni “. La Divisione Sfide per la sicurezza emergente ha una sezione dedicata alla sicurezza energetica già dal 2010 e due anni dopo è stato istituito un Centro di eccellenza per la sicurezza energetica della NATO. [13] Al vertice di Bruxelles del luglio 2018, i leader alleati, ansiosi di placare il presidente Trump, dichiararono che “Gli sviluppi energetici possono avere implicazioni politiche e di sicurezza significative per gli alleati” e per questo motivo “Riteniamo che sia essenziale garantire che l’Alleanza non sia vulnerabile alla manipolazione delle risorse energetiche a fini politici o di coercizione, cosa che rappresenta una potenziale minaccia. Gli alleati continueranno quindi a cercare di diversificare le loro forniture di energia. “ [14]Sarà solo una felice coincidenza che, per molti, ciò equivale ad acquistare gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti. [15]
Lo spazio è il prossimo nella lista. L’argomento è affrontato due anni fa in un rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO: “Qualsiasi attacco ai beni spaziali di un alleato avrebbe un impatto sulla sicurezza di tutti gli altri. Deve quindi avere un approccio globale che gli consenta di proteggere i suoi interessi nello spazio. È anche indispensabile, dal punto di vista operativo, integrare lo spazio nelle strutture di pianificazione e comando della NATO. Infine, le esercitazioni della NATO dovrebbero includere scenari di guerra spaziale che comportano il divieto temporaneo o la disattivazione di risorse spaziali alleate.[16] Una delle decisioni attese al vertice di Londra del prossimo dicembre è proprio il riconoscimento ufficiale dello spazio come area di competenza e intervento per la NATO. [17] Se è concepito come “un dono a Trump” (ancora una volta, il famoso appeasement), è comunque gravido di conseguenze. La Francia, in particolare, vuole garanzie di comando (le sue capacità spaziali saranno poste sotto il comando NATO / USA in una situazione di crisi) e articolazione con l’articolo 5 (un attacco al satellite di uno dei paesi membri sarebbe in grado di attivare la difesa collettiva)? Ma, ancora una volta, va oltre l’essenziale: non appena lo spazio sarà riconosciuto come dominio della NATO, sarà un intero ingranaggio che verrà messo in atto.
A medio e lungo termine, l’Alleanza atlantica potrebbe essere tentata di avventurarsi ulteriormente nel campo del commercio e dell’economia (il segretario generale della NATO non ha menzionato forse il TTIP come “una NATO economica, sottolineando che queste sono le due parti della ” comunità transatlantica integrata ” da costruire?) e persino quella della politica interna dei suoi stessi Stati membri (tranne la più grande, in modo del tutto naturale) [18-19] . Uno dei migliori specialisti statunitensi nella NATO, Stanley R. Sloan ha dedicato il suo ultimo libro quasi interamente alla sfida posta dall’interrogativo sulla democrazia liberale negli Stati membri. Egli spiega che, fin dall’inizio, “la NATO non era solo militare, ma anche politica ed economica” , con la vocazione “a difendere i sistemi politicamente democratici ed economicamente liberali dei suoi stati membri” [20] Tuttavia, continua, la domanda è come può resistere oggi la NATO, quando questi stessi valori sono minacciati all’interno dell’Alleanza atlantica.
Un recente rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO, firmato dal parlamentare Gerald Connolly, presidente della delegazione americana, esamina lo stesso argomento. Osserva: “Le minacce ai valori della NATO non provengono solo dai suoi avversari. I movimenti politici che mancano di rispetto alle istituzioni democratiche o allo stato di diritto stanno guadagnando slancio in molti paesi membri dell’Alleanza. Questi movimenti sostengono la preferenza nazionale per la cooperazione internazionale. Le democrazie liberali sono minacciate da movimenti politici e personalità ostili all’ordine stabilito che sono di destra e di sinistra nello spettro politico “ . Suggerisce quindi che “La NATO deve dotarsi dei mezzi necessari per rafforzare i valori in questione nei paesi membri” istituendo “un centro per il coordinamento della resilienza democratica” . [21] Sarebbe un errore pensare che queste proposte siano motivate unicamente dalle battaglie politiche negli Stati Uniti. L’idea di “supervisione democratica”, pervasiva durante la guerra fredda, è stata ripresa all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, in un documento confidenziale del Pentagono le cui fughe avevano provocato una protesta pubblica all’epoca: La NATO è descritta come “il canale dell’influenza degli Stati Uniti” , e gli obiettivi statunitensi includono iniziative “Per scoraggiare, nei paesi sviluppati, qualsiasi tentativo di rovesciare l’ordine politico ed economico” . [22]
[1] Risposta del Ministero della difesa a un’interrogazione scritta all’Assemblea nazionale (Risposta pubblicata nella GU il 13 novembre 2007, pag. 7061)
[2] Dichiarazione di Jean-Yves Le Drian, Ministro della difesa, sulle sfide e le priorità della NATO, apertura del seminario ACT a Parigi, 8 aprile 2014.
[3] Jolyon Howorth, Transatlantic Perspectives on European Security in the Coming Decade, Yale Journal of International Affairs, Summer-Fall 2005, p .9.
[4] Conferenza stampa del generale de Gaulle, 5 settembre 1960.
[5] Conferenza stampa del generale de Gaulle, 21 febbraio 1966.
[6] Dichiarazione di Alain Richard, ministro della Difesa, sulle prospettive futuro dell’Alleanza atlantica dopo cinquant’anni di esistenza, Parigi, 4 maggio 1999.
[7] “La NATO deve rimanere un’organizzazione euro-atlantica”, Tribune della signora Michèle Alliot-Marie, ministro della Difesa, Le Figaro, 30 ottobre 2006.
[8] La NATO deve affrontare l’ascesa della Cina, afferma Stoltenberg, Reuters, 7 agosto 2019.
[9] Stephen M. Walt, Il futuro dell’Europa è come nemico cinese, politica estera, 22 gennaio 2019.
[10] Discorso del segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jaap de Hoop Scheffer, Riga, 28 novembre 2006.
[11] L’attacco informatico al SSN darebbe il via alla piena risposta della NATO, afferma il segretario generale dell’alleanza, The Telegraph, il 27 agosto 2019.
[12] Conferenza stampa di Jacques Chirac, Presidente della Repubblica, a Riga il 29 novembre 2006 .
[13] La NATO Energy Security Center of Excellence (NATO Ensec WCC).
[14] Dichiarazione del vertice di Bruxelles, pubblicata dai capi di Stato e di governo che partecipano alla riunione del Consiglio del Nord Atlantico tenutasi a Bruxelles l’11 e 12 luglio 2018.
[15] Vendite di gas statunitensi al L’Europa procede rapidamente, Le Figaro, 2 maggio 2019.
[16] Madeleine Moon, Space and Allied Defense, Rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO, 162 DSCFC 17 settembre 2017.
[17] Robin Emmott, La NATO mira a creare una nuova frontiera della difesa, Reuters Exclusive, 21 giugno 2019.
[18] Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP).
[19] Discorso del segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen alla conferenza “Una nuova era per il commercio UE-USA”, Copenaghen, 7 ottobre 2013
[20] Stanley R. Sloan, Transatlantic Traumas, Manchester University Press, 2018, p.5.
[21] 70 anni della NATO: perché l’Alleanza rimane indispensabile?, Gerald E. Connolly (Stati Uniti), Rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO, settembre 2019.
[22] Difesa Guida alla pianificazione, estratti narrati sul New York Times, 8 marzo 1992.
Dopo aver descritto le tre rivoluzioni della geopolitica, l’idea di potenza e la teoria del commercio, meritano di essere analizzati nel dettaglio i protagonisti e le forme assunte dagli scontri geo-economici. La nuova centralità dello Stato nelle relazioni internazionali, soprattutto quelle di tipo economico, è funzionale alla delimitazione del concetto di “guerra economica”, definibile come lo scontro fra nazioni mediante e ai fini dell’economia e non come competizione economica tout court, che riguarda piuttosto le imprese. Il rinnovato ruolo centrale dello Stato nell’economia è una tendenza recente, evidenziabile con il passaggio del millennio e ancora di più in seguito alla grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, mentre negli anni Ottanta e Novanta il neoliberalismo imperante considerava lo Stato esclusivamente come un ostacolo allo sviluppo economico, alla globalizzazione finanziaria, alla transnazionalizzazione delle imprese e all’intensificazione degli scambi internazionali (restano celebri, a questo proposito, le parole del Presidente Reagan: “il problema è lo Stato”). Lo Stato, con le sue prerogative anche in campo economico, è però resistito a questa svalutazione e, continuando a favorire lo sviluppo delle proprie imprese tramite la costruzione di un ambiente giuridico, fiscale e infrastrutturale adeguato, ha posto solide basi per l’assunzione del suo ruolo odierno, quasi di “capo militare” risoluto che conosce il “mestiere delle armi”, ridonando morale e spirito di conquista all’economia e guidando le proprie truppe alla conquista di mercati e risorse. Esempi di amministrazioni statali che hanno incarnato o tuttora incarnano questo ruolo possono essere considerati il Ministero per il Commercio Internazionale e l’Industria giapponese, emblema della potenza economica nipponica, e in Francia l’unione di Presidenza della Repubblica, Presidenza del Governo e Ministero delle Finanze. Le truppe, invece, non sarebbero altro che le stesse imprese del settore privato, anche se i critici della guerra economica insistono nell’affermare che tale gerarchia di ruoli sia impossibile da realizzare, dato che la logica di potenza dello Stato e la logica di
profitto delle imprese non coinciderebbero. Tali critiche, d’altra parte, vengono screditate nel momento stesso in cui si considera che ciò che si verifica non è tanto un’alleanza diretta fra Stato e imprese, quanto piuttosto una ripercussione indiretta della forza di queste ultime sullo Stato in cui sono stabilite. S’intendono qui soprattutto le grandi multinazionali: un rapido sguardo ai principali Paesi d’origine delle prime 1.000 aziende manifatturiere mondiali nel 2007 dà conto in maniera piuttosto evidente, per non dire scontata, delle dinamiche appena evidenziate. Stati Uniti e Giappone, con rispettivamente 305 e 209 società multinazionali, distaccano di gran lunga gli altri Paesi occidentali (Francia, Germania, Regno Unito, Canada, Svizzera, Italia, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia e Lussemburgo) e i mercati emergenti (Corea del Sud, Taiwan, Cina, Brasile, India e Russia), i quali evidenziano però tassi di crescita nettamente superiori che potrebbero rovesciare, nei prossimi anni, questa classifica. Si tratta, naturalmente, di un impianto strategico che va a discapito delle istituzioni multilaterali, sviluppatesi soprattutto negli anni Novanta, con gli Stati occidentali che oggi preferiscono gli accordi bilaterali, lasciando il campo più libero a una dinamica di alleanze e di rapporti di forza, secondo quanto afferma Bernard Nadoulek. Di fatto, quello che è avvenuto è che lo Stato si è messo a capo di quelle tre rivoluzioni indicate nella sezione precedente del presente contributo, che sono state il motore del passaggio da una logica di Guerra Fredda a quella di guerra economica, piuttosto che svolgere un mero ruolo di garante delle regole del gioco, di controllore della correttezza dello stesso o di strumento di salvataggio in caso di sconfitta. Questo perché esso possiede delle prerogative che non sono alla portata delle imprese, per quanto grandi esse siano, soprattutto in termini di finanziamento a lungo termine e di investimenti lungimiranti in tecnologie costose e settori all’avanguardia. Non solo il finanziamento, ma anche la pianificazione di lunga durata è appannaggio dello Stato piuttosto che delle aziende: è il caso del Commissariato per la Pianificazione Economica in Francia, in vigore dal 1946 al 2006, e a livello europeo delle due strategie decennali rispettivamente di Lisbona, adottata nel 2000 dai Paesi membri dell’UE allo scopo di rendere l’Unione Europea
“la prima economia della conoscenza”, ed Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Vi è poi il caso di capi di Stato e di governo che incarnano personalmente ruoli di tipo economico: emblematici sono gli esempi carismatici di Margaret Thatcher e Bill Clinton, entrambi impegnatisi in prima persona in particolare con l’Arabia Saudita per la stipula di contratti di fornitura, e quello decisamente più duro di Putin, che usa deliberatamente il gas russo come arma allo stesso tempo di dissuasione e di pressione. Il ruolo delle imprese, in questo contesto di guerra economica, sarebbe dunque quello di “truppe”, al fronte se esportano in maniera consistente, nelle retrovie se mantengono saldamente il controllo di nicchie del mercato interno, di sfondamento se svolgono una parte consistente della loro attività in terra straniera. In quest’ultimo caso ci riferiamo soprattutto alle grandi industrie multinazionali, il cui peso e importanza economica vengono stabiliti non tanto in funzione del loro fatturato annuale, bensì sul grado di globalizzazione, cioè sulla loro capacità di conquistare mercati esteri. Questa abilità si può misurare considerando i valori che costituiscono l’indice di transnazionalità di un’azienda, nonché gli attivi detenuti al di fuori del Paese dove ha sede la casa madre, la percentuale di vendite realizzate all’estero e il numero di dipendenti che lavorano all’estero. Vi sono però alcuni elementi che non rendono quest’identificazione di tipo militare così automatica come sembrerebbe. Innanzitutto, la questione della nazionalità delle imprese, soprattutto le multinazionali: analizzando i listini dei principali indici borsistici degli Stati occidentali, ciò che salta immediatamente all’occhio è la quantità di capitali detenuta da residenti stranieri, che molto spesso supera la metà del totale delle società quotate nei listini stessi; in questi casi risulta quindi controverso affermare un’unica nazionalità per queste imprese. Eppure, il concetto di nazionalità è fondamentale per la definizione di guerra economica, poiché quest’ultima cessa di esistere se non vi è nessuna esigenza di difendere delle proprietà interne alla nazione stessa, sia in maniera diretta – con il possesso di quote azionarie da parte dello Stato, ad esempio –, sia in maniera indiretta – garantendone l’indipendenza nei confronti di imprese straniere. Gli Stati Uniti si
confermano, anche in questo caso, in prima linea nella difesa dei propri interessi interni, come hanno dimostrato due interventi dell’amministrazione Bush, rispettivamente nel 2005 e nel 2006, per impedire l’acquisto di Unocal (azienda del settore petrolifero) da parte della China National Offshore Corporation e per costringere la Dubai Port World alla vendita della gestione di sei grandi porti americani a favore di AIG International, una società di servizi finanziari e assicurativi. D’altronde, vi sono almeno tre fattori che permettono di considerare nazionali imprese che, a tutti gli effetti, si fondano invece su capitali internazionali: in primo luogo il territorio dove originariamente la società è stata fondata e ha sviluppato la propria attività, costruendo legami con fornitori e clienti e operando sulla base di prassi non scritte derivanti da una determinata cultura nazionale; in secondo luogo, le norme e i rapporti istituzionali che permettono lo sviluppo dell’impresa, anch’essi dipendenti dal Paese in cui la stessa ha la sede principale; infine, l’ubicazione del centro decisionale, la cultura d’impresa e la nazionalità dei proprietari del capitale. Il secondo elemento che rende problematica l’identificazione automatica delle imprese come “truppe” della guerra economica è la convergenza d’interessi di Stati e imprese. Come già anticipato in precedenza, la logica di potenza degli Stati differisce dalla logica di profitto delle imprese, che spesso si dimostrano indifferenti alle necessità degli interessi nazionali. In realtà, al giorno d’oggi l’economia è forse la preoccupazione principale degli Stati, come pure i suoi operatori i quali, con la conquista di segmenti di mercato su cui vendere le merci prodotte, garantiscono il mantenimento di livelli adeguati di occupazione ed entrate costanti e sicure nelle casse dello Stato sotto forma di imposte, contribuendo così alla gestione degli equilibri sociali e al finanziamento dei servizi pubblici (sanità, istruzione, giustizia, difesa, ecc.). Il fatto che alcune imprese generano occupazione e versano imposte in Stati esteri concorre però, almeno indirettamente, al controllo di un mercato straniero da parte di interessi nazionali ed è a servizio della politica di potenza dello Stato. Questa convergenza d’interessi spiega, in ogni caso, perché gli Stati cercano di promuovere e consolidare le
aziende leader a livello nazionale e internazionale nei diversi settori. Gli Stati Uniti si confermano al primo posto in varie classifiche: con il primato in settori quali quello aerospaziale e della difesa (Boeing Co.), quello farmaceutico e nella grande distribuzione (con Walmart che da diversi anni si conferma come la prima multinazionale mondiale per fatturato), sono lo Stato con il più alto numero di multinazionali di punta, seguiti dalla Germania, che detiene il primato nei settori automobilistico (Volkswagen) e chimico (BASF) e Cina, le cui imprese statali dominano soprattutto il settore petrolifero (Sinopec Group e China National Petroleum Corporation); l’Italia, grazie al primato di Exor, gode di una posizione di rilievo nel settore dei servizi finanziari. È palese, anche agli occhi della sempre più informata opinione pubblica, che l’apertura di filiali all’estero da parte delle multinazionali o la delocalizzazione della produzione – anche da parte di imprese di dimensioni inferiori – in virtù dei minori costi sostenuti non favorisce l’occupazione interna, indicatore di potenza economica (nonché di controllo sociale) tanto caro agli Stati. Partendo da questa constatazione, gli Stati hanno sviluppato due tipi di atteggiamento in merito: il più diffuso è cercare di incentivare le società straniere a investire sul proprio territorio con politiche fiscali e normative più vantaggiose (ambito in cui l’Italia è fanalino di coda fra i Paesi occidentali, a causa delle inefficienze della triade burocrazia, fiscalità e giustizia civile), mentre il secondo è un tipo di approccio attuato, ancora una volta, dagli Stati Uniti della prima presidenza Clinton, con la proposta di sostenere le imprese presenti sul territorio statunitense a prescindere dalla loro nazionalità, allo scopo di creare o mantenere l’occupazione nazionale. La conclusione che si può trarre da quanto analizzato finora è dunque quella di uno scenario in cui imprese e Stati si muovono nell’arena della competizione economica non collaborando strettamente (anche perché si tratterebbe di una constatazione ingenua), ma utilizzando le rispettive armi e carte vincenti che, in taluni casi, contribuiscono e favoriscono le logiche di intervento delle une e degli altri. Considerato, d’altra parte, il ruolo che lo Stato sempre più deve assumere nel contesto delle relazioni economiche internazionali, destabilizzando l’impianto
liberale finora prevalente a livello globale, si può immaginare un futuro in cui Stati e imprese dovranno, a tavolino, trovare un equilibrio che tenga conto delle reciproche prerogative. La grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, a motivo della sua eccezionale gravità che coinvolge tutti i Paesi e per cui è impensabile che vi sia qualcuno che ne uscirà vincitore a discapito degli altri, favorisce nelle relazioni internazionali una dialettica in cui vengono rimesse al centro le logiche multilaterali dei grandi organismi, FMI e Unione Europea in testa, ma anche OMC e ONU. I Paesi del G20, che sostituirà gradualmente il G8 come principale forum economico delle nazioni più sviluppate, mantengono ufficialmente il dialogo come metodo di regolamentazione delle difficoltà economiche, anche perché l’urgenza della situazione economica sembra richiedere una risposta collettiva per salvare la finanza ed evitare la contrazione degli scambi, senza ricadere perciò in quel cortocircuito di natura economica generatosi negli anni Trenta del Novecento che portò agli avvenimenti storici mondiali e soprattutto europei che ben si conoscono. Tuttavia, la contraddizione è dietro l’angolo: se questo è, infatti, il discorso ufficiale mantenuto dagli Stati, la realtà dei fatti dimostra come la necessità di conservare le porzioni di mercato acquisite sia preponderante rispetto all’imperativo di solidarietà nel settore finanziario, aumentando così le tensioni già abbastanza elevate a causa della crisi. Quest’ultima, d’altra parte, se nella percezione generale è connotata esclusivamente in senso negativo, si rivela spesso una grossa opportunità per le imprese che le sopravvivono di conquistare nuovi “territori” rimasti sprovvisti di fornitori (in Francia, esse sono sostenute in questo tipo di attività da Ubifrance, l’Agenzia francese per lo Sviluppo Internazionale delle Imprese, di cui il corrispettivo italiano è l’Agenzia ICE). Ecco che torna dunque la logica di guerra economica, che ci aiuta ancora una volta a comprendere atteggiamenti che potrebbero sembrare discordanti, se non addirittura schizofrenici, e che devono invece essere letti come l’evoluzione dei rapporti postGuerra Fredda, dove le alleanze non più militari consentono di non sentirsi
vincolati a costo della vita ai propri partner, ma addirittura di considerarli dei concorrenti commerciali e di trattarli di conseguenza. Il mondo post-bipolarismo, quindi, non è più un unico scacchiere dove solo due giocatori muovono di volta in volta le loro pedine, ma è composto di numerosi scacchieri sovrapposti dove si conducono partite spesso legate le une alle altre. Si potrebbe affermare che resta valido il concetto di multipolarismo adottato per definire le relazioni internazionali successive alla fine della Guerra Fredda, benché non vada interpretato in senso idilliaco e come orizzonte di una definitiva concordia fra i popoli, bensì in senso di guerra economica e come scena su cui gli Stati-attori assumono sempre più i ruoli ambivalenti di partner/concorrente e sempre meno quelli di alleato/avversario, che si escludono a vicenda. Secondo questa lettura, ai due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti tre blocchi: il primo sarebbe lo spazio di potenza ancora teorica ma in via di erosione progressiva del mondo occidentale, eccezion fatta forse per gli Stati Uniti; il secondo sarebbe l’ampio spazio di manovra delle nuove potenze, in continua (anche se al giorno d’oggi rallentata) espansione anche per quanto riguarda il numero dei Paesi che ne farebbero parte; il terzo, infine, corrisponderebbe allo spazio di sopravvivenza dei Paesi non compresi nei due blocchi precedenti, un nuovo ipotetico Terzo Mondo. L’analisi che i due esperti Christian Harbulot e Didier Lucas conducono a proposito delle strategie di potenza fino al 2020 conferma tuttavia la generale crisi del multilateralismo e la riaffermazione della sovranità e della potenza degli Stati nazionali. È opportuno ribadire che le alleanze interne ai tre nuovi blocchi di cui abbiamo appena presentato la proposta non hanno il carattere necessario delle passate alleanze, anzi vi sono collegamenti anche molto stretti fra Paesi che integrano blocchi diversi. Si pensi, ad esempio, alla complessità del rapporto CinaUSA: rivali nell’Africa subsahariana, dove si affrontano in una guerra per le risorse senza esclusione di colpi, ma reciprocamente dipendenti a causa del finanziamento del debito pubblico statunitense tramite l’acquisto di buoni del Tesoro americano, da un lato, e dei consistenti investimenti diretti all’estero su cui si sostiene la
crescita del gigante asiatico, dall’altro. Le analisi, in questo senso, sono ambivalenti: c’è chi sostiene che la Cina non si accontenterà del secondo posto a livello mondiale e che fin d’ora, tramite la dipendenza economica e il trasferimento di tecnologia, mostra ciò di cui sarà capace nelle offensive di una futura, probabile guerra del Pacifico; c’è chi invece legge con maggiore preoccupazione l’alleanza strategica con l’India sulle alte tecnologie, che potrebbe mettere in scacco le potenze occidentali sprovviste di una simile arma. Nonostante tutto, anche tenendo conto di questi scenari in cui i Paesi emergenti avrebbero finalmente la meglio sul vecchio Occidente, gli Stati Uniti restano ancora l’incontestabile leader della globalizzazione, anche in virtù della loro sapiente difesa degli interessi nazionali.La guerra economica come mezzo al servizio delle strategie di potenza degli Stati, siano esse di natura geopolitica o geo-economica, può assumere tre diverse tipologie: guerra economica con finalità economiche; guerra economica con finalità politico-strategiche; guerra economica con finalità militari. La prima forma è l’oggetto di tutti i discorsi fatti finora, sarà ulteriormente approfondita nella sezione seguente e non è altro che l’indebolimento degli avversari sui mercati internazionali attraverso l’espansione della forza economica dei singoli Stati. La seconda forma si esplicita principalmente nelle sanzioni intese come danni economici imposti a un Paese affinché cambi politica. Si tratta di un’arma antica della guerra economica, di cui molti sono gli esempi recenti e contemporanei: le sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni contro l’Italia in seguito alla guerra d’Etiopia, quelle contro il Sudafrica al tempo dell’apartheid e le più recenti e ancora in vigore “misure restrittive”, come vengono definite nel gergo dell’UE, a danno della Russia in risposta alla crisi in Ucraina, di carattere diplomatico (sospensione del G8), finanziario (congelamento dei beni e restrizioni di viaggio) e più specificamente economico (divieti di importazione e di esportazione in settori specifici). La terza forma di guerra economica, dal momento che per lo più assume le forme della seconda, se ne differenzia esattamente per il fine; in questo caso, ne sono esempi le sanzioni economiche contro l’Iraq di
Saddam Hussein negli anni Novanta (successive alla prima guerra del Golfo ma interrotte con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1483 del 2003), l’embargo sulle armi imposto su tutti i territori dell’ex Jugoslavia pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Croazia (determinante per l’andamento della guerra in Bosnia-Erzegovina) e l’attuale embargo sulle armi nei confronti della Siria, causato dalle violente repressioni del governo che nel 2011 hanno dato avvio alla guerra civile ancora in corso. Sarebbe auspicabile pensare, come alcuni teorici sostengono, che la prima forma di guerra economica abbia soppiantato quasi completamente gli scontri bellici diretti, almeno fra le grandi potenze del pianeta. Tuttavia, la guerra cosiddetta tradizionale non si è davvero ritirata in favore della sua forma meno virulenta (e sicuramente meno sporca di sangue), come auspicano i liberali da ormai due secoli. Gli scenari di alcuni importanti conflitti degli ultimi vent’anni dimostrano piuttosto come ciò che avviene sia una sostanziale sovrapposizione e un intreccio fra guerra classica e guerra economica. Questa constatazione può essere verificata in quasi tutti i continenti: in Africa, ad esempio, le guerre che insanguinano la regione dei Grandi Laghi sono contemporaneamente lotte per il potere e per il controllo delle risorse naturali. Il caso della Repubblica Democratica del Congo è emblematico con le regioni del Nord e Sud Kivu che, dopo il genocidio del Ruanda nel 1994, sono state il teatro di atrocità belliche permanenti causate da conflittualità di tipo etnico (scontro plurisecolare fra nilotici e bantu, esacerbato ma tenuto a bada in epoca coloniale ed esploso in seguito all’indipendenza dei Paesi dell’area) intrecciate a questioni territoriali (alcune etnie rivendicano le terre di grandi proprietari appartenenti ad altre etnie) e a ragioni di tipo economico (per il controllo delle zone di estrazione di rame, cobalto, diamanti, oro, zinco e altri metalli di base). In Europa, le motivazioni politiche della già citata crisi ucraina (opposizione russa all’Accordo di Associazione con l’Unione Europea, annessione della Crimea e proteste filorusse nelle altre regioni dell’Ucraina orientale) sono legate a doppio filo con motivazioni economiche più o meno evidenti, come la necessità per la Russia di mantenere il controllo del porto di Sebastopoli
(fondamentale per i suoi traffici commerciali), l’importanza di Kiev sul mercato internazionale dei cereali (secondo esportatore mondiale nel 2014) e la sua posizione strategica come corridoio di importanti gasdotti diretti verso il continente europeo. Il caso siriano, infine, è esemplificativo di quanto sul quadrante geopolitico mediorientale pesino considerazioni di tipo economico legate principalmente alle risorse energetiche: all’origine del mancato intervento occidentale in una guerra che infiamma ormai da cinque anni ci sarebbe la relativa povertà di idrocarburi e gas naturale dei giacimenti controllati da Damasco, che non motiverebbe quindi i costi ingenti di una mobilitazione
Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica
La realtà della guerra economica veniva fin dal XIX secolo percepita da intellettuali
del calibro di Victor Hugo e da studiosi dei campi più disparati come l’ineluttabile
evoluzione della logica di conflitto, che da guerra materiale, combattuta sui campi
di battaglia dai soldati con le armi, si sarebbe trasformata in un confronto più
“addolcito” fra mercati nazionali sul campo del commercio internazionale e, infine,
in un aperto scambio di idee fra spiriti liberi. Ciò che gli ultimi vent’anni
evidenziano, però, non è certo uno scenario internazionale in cui gli scontri sono
meno aspri di quando imperversavano ordigni e bombe sull’Europa: infatti la
concordia fra le nazioni non si è realizzata nemmeno in Occidente, fra Stati Uniti e
Unione Europea, per non parlare del resto del mondo, dove la democrazia resta
ancora un ideale per miliardi di individui, nonostante i notevoli passi avanti
compiuti in questo senso in tutti e cinque i continenti. Oltre a una generale
disillusione sulla reale portata di quel progresso la cui idea ha definito in maniera
netta la modernità, rimane quindi la convinzione che la guerra convenzionale si
possa esprimere naturalmente nell’economia, attraverso quella “guerra
economica” la cui definizione appare per la prima volta all’epoca della Prima
Guerra Mondiale come componente della guerra totale cara al generale tedesco
Erich Ludendorff. Risulta così assodato, ormai, che l’economia non è
esclusivamente la posta in gioco della guerra convenzionale.
Il concetto di guerra economica sembra essere diventato un tema “alla
moda” non solo nell’ambito degli studi strategici, ma anche – più in generale –
all’interno di un certo dibattito geopolitico che, orfano di una Guerra Fredda che
per quattro decenni aveva polarizzato tutte le attenzioni e cancellato ogni speranza
rispetto a una possibile “globalizzazione felice” e alla definitiva vittoria del
multilateralismo degli anni Novanta, doveva presto trovare uno schema
interpretativo dei rapporti sullo scacchiere globale. Secondo questa concezione,
dunque, il XXI secolo segnerebbe il ritorno della politica internazionale dominata
dagli Stati in pieno possesso della loro sovranità, impegnati a garantire la
perpetuazione della propria potenza in un complesso gioco di alleanze e diffidenze.
È pur vero però che, come sempre accade, il successo anche mediatico di una
definizione è foriero di molti malintesi, interpretazioni poco precise e una generale
banalizzazione dei termini del discorso. Scopo del presente contributo sarà perciò
individuare con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico e valutarne la
reale portata e gli strumenti tramite i quali agisce come concetto interpretativo,
per dare un’immagine più aderente alla realtà storica ed evitare schematizzazioni
semplicistiche che non contribuiscono a una vera comprensione dei fenomeni.
Natura e scopo della guerra economica
Uno dei primi a parlare di guerra economica nel senso in cui la si intende
oggi è stato l’ex Consigliere del Presidente francese Georges Pompidou, Bernard
Esambert, che nel 1991, ossia paradossalmente proprio all’inizio del decennio di
relativa pace nei rapporti internazionali seguito al crollo dell’URSS e precedente
l’attacco alle Torri gemelle di New York, pubblicò un’opera controcorrente per
l’epoca. Fin dalle prime pagine La guerra economica mondiale sfatava il mito allora
in costruzione di un mondo multilateralista e pacifico sotto l’egida dell’ONU. In un
contesto di economia globalizzata quale potenzialmente si presentava all’indomani
della caduta del comunismo e del conseguente ingresso di un consistente numero
di economie nazionali sul mercato globale, l’antico colonialismo territoriale si
trasformava in conquista delle tecnologie più all’avanguardia e dei mercati più
redditizi. Alla violenza delle armi si sostituirebbe dunque una lotta a suon di
prodotti e servizi, la cui esportazione costituisce il mezzo a disposizione di ogni
nazione per cercare di vincere questa guerra di tipo nuovo, in cui le imprese
costituiscono gli eserciti e i disoccupati le vittime. L’origine di questa guerra è da
ricercare nella confluenza di tre rivoluzioni, di cui ricostruiremo qui di seguito la
cronologia.
Si è visto come il concetto di guerra economica non sia di recente
definizione. La sua forma contemporanea, tuttavia, può essere fatta risalire
all’immediato secondo dopoguerra e, più precisamente, alla firma degli accordi del
GATT nel 1947, evento che pone le basi (regolamentate) della competizione
commerciale multilaterale allo scopo di favorire la liberalizzazione del commercio
mondiale. L’ambito originario dell’accordo era comunque di portata limitata, dal
momento che restarono esclusi sia il settore primario sia il settore terziario,
divenuti oggetto di discussione dei negoziati solo a cavallo del passaggio di
millennio; inoltre, anche la logica dei blocchi e il contesto geopolitico della Guerra
Fredda limitavano le rivalità economiche, evidenziando maggiormente la necessità
della solidarietà interna fra le varie economie di mercato piuttosto che prese di
posizione a difesa di singoli prodotti e/o settori industriali.
Questa situazione di relativo equilibrio viene scossa nel 1991 dalla caduta
del blocco comunista, che lascia il posto al modello capitalista (e in particolare alla
sua forma neoliberista) come unico sistema economico funzionante a livello
mondiale. Non solo gli ex Paesi comunisti vengono integrati a poco a poco
nell’economia mondiale (l’ingresso della Cina nell’OMC, istituzione nata dal GATT,
è del 2001, quello della Russia del 2011), ma anche i Paesi del cosiddetto Terzo
Mondo spingono per accedere ai mercati globali: è il trionfo della globalizzazione,
iniziata negli anni Settanta con le prime misure di deregolamentazione e il nuovo
scenario politico-economico di un mondo non più diviso in due. Quella che sembra
essere un’unificazione finalmente pacifica di tutte le nazioni all’insegna del libero
scambio non è altro, in realtà, che un presupposto per la conduzione di una nuova
guerra, finalmente a carte scoperte e non più mascherata dalla contrapposizione
militare fra blocchi della Guerra Fredda: la guerra economica. Come molti analisti
sottolineano, vi è in effetti uno spostamento delle politiche di potenza dal terreno
militare e geopolitico, dove assumevano per l’appunto la forma di scontro fra
blocchi anche in conflitti periferici, al terreno economico e commerciale, dove le
nazioni si contendono l’accaparramento di risorse e mercati. Gli scambi
commerciali, in quest’ottica, non sarebbero altro che una delle modalità della
guerra nel momento in cui si indebolisce il suo fronte armato; perciò investimenti,
sovvenzioni e azioni di penetrazione dei mercati esteri non sarebbero altro che
l’equivalente delle dotazioni in armamenti, dei progressi tecnici del settore bellico
e dell’avanzamento militare in territorio straniero. È evidente che siamo ben
lontani dalle visioni degli intellettuali illuministi e ottocenteschi che auspicavano
un “addolcimento” delle relazioni internazionali grazie al libero movimento di beni
e idee. Sarebbe tuttavia riduttivo pensare che la geo-economia cancelli la
geopolitica. Fra gli altri studiosi della questione, Christian Harbulot insiste sul fatto
che esistono scacchieri diversi che si intersecano parzialmente: scambi armoniosi,
guerra economica e mire geopolitiche possono coesistere e anche interagire,
poiché si inscrivono in mondi dalle logiche autonome ma inevitabilmente legati fra
loro.
È dunque negli anni Novanta che avviene quella che possiamo definire come
una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito delle relazioni
internazionali, che segna il passaggio da una geopolitica classica caratterizzata da
Stati che lottano fra loro per il controllo di territori a una geo-economia (o guerra
economica) in cui gli Stati si confrontano per il controllo dell’economia globale.
Non si tratta esclusivamente di una considerazione di tipo intellettuale, elaborata
dagli studiosi della materia, bensì di una constatazione ormai alla portata anche
dell’opinione pubblica, tanto da essere ripresa addirittura in slogan pubblicitari.È
questo il caso di un’impresa europea di elettronica che, in piena Prima Guerra del
Golfo, affermava: “la Terza guerra mondiale sarà una guerra economica: scegli fin
d’ora le tue armi”. La posizione degli Stati Uniti in questa nuova epoca è molto
chiara: la sicurezza nazionale dipende dalla potenza economica. Innanzitutto, come
superpotenza del blocco uscito vincitore dalla Guerra Fredda, già si trovava in una
posizione privilegiata per comprendere prima di qualunque altro Paese il
cambiamento in atto, anche in virtù degli investimenti sotto forma di sovvenzioni
fatti nei decenni precedenti in ricerca e sviluppo, in modo da equipaggiare al
meglio le proprie imprese per la concorrenza internazionale che si profilava
all’orizzonte. In secondo luogo, il neoeletto Bill Clinton ha da subito messo in
pratica questa “dottrina” della sicurezza nazionale dipendente dall’economia
istituendo una “War room” direttamente collegata al dipartimento del Commercio,
come canale privilegiato di relazione fra lo Stato e le imprese per sostenere queste
ultime nella competizione mondiale; allo stesso tempo, il Segretario di Stato
Warren Christopher dichiarava ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva
essere elevata al rango di prima priorità della politica estera degli Stati Uniti
d’America. Si può perciò parlare di una vera e propria dichiarazione di guerra
economica da parte della prima potenza economica mondiale al resto del mondo,
anche se mascherata da difesa degli interessi nazionali, in un mix originale e
audace di principi liberali e mercantilisti.
Nel contesto di questa nuova geo-economia ad alto tasso concorrenziale,
caratterizzata negli ultimi tre decenni da fenomeni quali la deregolamentazione, la
rivoluzione tecnologica e la globalizzazione della finanza, è proprio l’arrivo di
nuovi attori sulla scena del mercato ad aver rimescolato le carte in tavola e turbato
quello che era un relativo ordine costituito. Si tratta perlopiù di Paesi che, forti di
una nuova autonomia e indipendenza non solo politica, vogliono prendere parte
alla spartizione di ricchezze ed entrare nelle dinamiche di arricchimento che fino a
questo momento sono state esclusivo appannaggio del Nord del mondo. È grazie
alla loro voce che la realtà della povertà emerge e si mostra a quel 2% di
popolazione mondiale che beneficia del 50% della ricchezza totale. Nonostante sia
in costante diminuzione, il fenomeno della povertà risulta comunque allarmante:
2,8 miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno. In un mondo come
quello odierno, caratterizzato dall’immediatezza dell’informazione e, come
conseguenza, dalla sempre più ampia presa di coscienza dell’opinione pubblica
delle dinamiche internazionali, la povertà viene a maggior ragione percepita come
intollerabile. In questa lotta per la spartizione delle ricchezze, i nuovi Paesi
emergenti (in primo luogo Brasile, Russia, India e Cina, ma a seguire anche il
Sudest asiatico e molte nazioni africane) possono peraltro far tesoro
dell’esperienza di predecessori come il Giappone e le Tigri asiatiche, la cui
integrazione negli scambi internazionali ha significato arricchimento e aumento
della potenza. Tuttavia la posta in gioco rappresentata dalle risorse è caratterizzata
da una scarsità (assoluta per alcune, relativa per altre) tale per cui gli scambi si
sono trasformati in competizione, ossia in guerra economica. In questo scenario, il
pensiero liberalista sull’indebolimento dello Stato viene necessariamente messo in
discussione in quanto i recenti cambiamenti richiedono non solo una
trasformazione del ruolo dello Stato rispetto all’economia ma anche della stessa
natura dell’organismo Stato.
Il cambiamento della natura dello Stato prende origine, innanzitutto, da una
trasformazione del concetto di potenza. Il concetto di potenza può essere
scomposto in hard power e soft power, ovvero nelle due componenti di uso della
forza e dell’influenza. In un contesto in cui gli Stati ricorrono sempre meno che in
passato alla prima componente, perché più costosa sotto molti aspetti e addirittura
meno efficace, la seconda componente prende il sopravvento e si manifesta sotto
forma di guerra economica (anche se quest’ultima, in realtà, si porrebbe piuttosto
al confine tra hard e soft power). Ecco perché per lo Stato è diventata sempre più
importante la sua situazione economica, mentre i suoi investimenti in armamenti e
dotazioni militari hanno progressivamente perso rilevanza. Le politiche di potenza
odierne avranno allora la forma di sovvenzioni alle imprese perché queste possano
godere di una posizione di favore sui mercati internazionali, del sostegno
all’occupazione affinché la delocalizzazione non penalizzi il mercato interno e della
diplomazia economica volta all’accaparramento di risorse scarse. Tradotte in
termini di guerra economica, tali politiche di potenza significano, per uno Stato,
assicurarsi l’indipendenza in termini di risorse, la capacità di difendersi di fronte
alla minaccia commerciale o finanziaria rappresentata dagli altri Stati e
un’attitudine all’intelligence, risorsa imprescindibile nell’odierna società della
comunicazione. Secondo un’altra definizione, non si tratterebbe di altro se non
della capacità di imporre la propria volontà agli altri (Stati) senza che questi
possano imporre la propria, per quanto ciò possa essere possibile in un mondo in
cui la dipendenza è sempre più dispersa e frammentata. La vera rivoluzione,
quindi, non è altro che la trasformazione della potenza politica in potenza
economica o, per meglio dire, la dipendenza della prima dalla seconda: gli Stati
cercano innanzitutto di modificare le condizioni della concorrenza e di trasformare
i rapporti di forza economici non solo per conservare posti di lavoro, ma
soprattutto assicurarsi il proprio dominio tecnologico, commerciale, economico e,
pertanto, politico.
Andando ad analizzare più nel dettaglio i singoli obiettivi della guerra
economica, almeno per quanto riguarda i Paesi occidentali, il primo risulta essere
di natura difensiva, ovvero il mantenimento dell’occupazione industriale
nonostante l’ormai avvenuta terziarizzazione di queste società. Fra il settore
secondario e quello terziario si cela infatti un forte legame, quello che Bernard
Esambert definisce come “simbiosi industria-servizi”, dal momento che l’aumento
dell’occupazione nel settore secondario si traduce in un corrispondente aumento
dell’occupazione in quello terziario e, a fronte della richiesta di una sempre
maggiore specializzazione dei lavoratori delle industrie ad alto coefficiente
tecnologico, è evidente l’incremento di servizi quali la formazione e la consulenza.
La difesa, ovvero il mantenimento dei posti di lavoro nel settore dell’industria
serve non solo a evitare la recessione economica, ma anche a contenere la
disoccupazione e la sottoccupazione, due realtà la cui forte carica di
destabilizzazione sociale rappresenta una minaccia per tutte le democrazie. A
questo proposito, a causare la perdita più considerevole di posti di lavoro non
sarebbero tanto le “delocalizzazioni” in senso stretto, quanto piuttosto le “non
localizzazioni”, ossia l’apertura da parte delle aziende di filiali all’estero piuttosto
che nel Paese in cui hanno sede e rispetto allo stesso mercato di destinazione delle
merci prodotte. Emblematica di questa centralità del mantenimento
dell’occupazione nei discorsi sulla guerra economica è la prima campagna
presidenziale di George W. Bush (ma anche di molti esponenti democratici in
quello stesso frangente), in cui l’Accordo nordamericano per il libero scambio
veniva indicato come la causa di un dissanguamento occupazionale a favore del
Messico. Altri esempi concreti in questo senso possono essere considerati
l’impegno dell’esecutivo francese per salvare lo stabilimento di Gandrange del
gruppo ArcelorMittal, nonostante il notevole sforzo economico richiesto alle casse
dello Stato in quell’occasione, o il più recente accordo con Electrolux in Italia. La
ragione che conduce a questo genere di decisioni è, ovviamente, elettorale, ma
rivela anche un altro aspetto: nessun Paese può perdere il proprio potenziale di
produzione, pena la dipendenza. Quello delle delocalizzazioni è peraltro un
discorso difficilmente accettabile agli occhi di qualsiasi elettorato e, quindi, sempre
al centro del dibattito politico, visto che le conseguenze di disoccupazione,
sottoccupazione, pressione salariale, disequilibrio della bilancia sociale e
diminuzione dei consumi farebbero crollare i presupposti su cui si reggono le
nostre società di consumo – anche se naturalmente vi è anche chi le difende, ad
esempio l’FMI, che tende piuttosto a evidenziare i vantaggi di produttività da esse
generati. La politica di potenza, dunque, si concretizza al giorno d’oggi anche in
politiche industriali volte alla conservazione di un controllo di tipo “territoriale” da
parte dello Stato.
Il secondo obiettivo della guerra economica è invece di natura offensiva ed è
la conquista di mercati, ma soprattutto di risorse limitate, la cosiddetta “corsa alle
materie prime”. Infatti, l’approvvigionamento sicuro e continuo delle materie
prime da parte degli Stati è l’unica garanzia per il mantenimento e magari per la
crescita del loro livello economico. In questa vera e propria guerra per le risorse, le
più ambite sono le fonti di energia (petrolio, gas naturale, carbone, uranio per la
produzione di energia nucleare, corsi d’acqua per la produzione di energia
idroelettrica), la cui domanda è direttamente collegata allo sviluppo economico,
nonché l’oggetto del contendere. Un certo spazio nelle dinamiche di potenza messe
in atto sui mercati finanziari è tuttavia riservato anche alle derrate alimentari quali
mais, riso, soia e grano. Quest’ultimo, in particolare, è oggetto di ogni sorta di
speculazione e di lotte, scatenando i rapporti di potenza fra coloro che lo
producono e coloro che ne hanno bisogno, determinando l’estrema attualità di
quella che è, a tutti gli effetti, un’arma (alimentare).
Fa parte ormai della percezione comune il fatto che il petrolio sia all’origine
di scontri economici molto duri, quando non di veri e propri conflitti armati.
Risorsa scarsa, da sola rappresenta oltre il 35% del consumo energetico totale,
principalmente da parte dei Paesi asiatici (30% del consumo mondiale),
nordamericani (oltre il 28%) e dell’Unione Europea (oltre il 17%). La portata della
guerra economica in corso è ben illustrata dalla doppia tensione fra Stati
produttori/Stati consumatori da un lato e, dall’altro, Stati la cui domanda si
stabilizza/Stati la cui domanda aumenta. Si tratta di una tensione che nasconde
peraltro la prospettiva futura di conflitti anche armati (si pensi ai precedenti delle
due guerre del Golfo). La lotta feroce che contrappone Stati Uniti e Cina per il
petrolio africano, ma anche per altre risorse del sottosuolo (vari metalli rari e
pietre preziose), è un altro esempio di questa guerra economica. La Cina ha iniziato
a investire nell’Africa subsahariana solo dalla fine della Guerra Fredda ma ne è
ormai diventata il terzo partner commerciale dietro a Stati Uniti e Francia, anche
se non sempre percepita positivamente dai governi locali a causa del suo
atteggiamento predatore, al pari delle ex potenze coloniali e dell’Occidente più in
generale. Il gigante cinese rappresenta bene l’inversione dei rapporti di forza in
atto tra Paesi occidentali e Paesi emergenti, BRIC in testa. Tali Stati, un tempo
esclusivamente produttori e fornitori delle materie prime necessarie al Nord
industrializzato, stanno ora risalendo la gerarchia mondiale grazie a un aumento
del controllo anche interno della propria produzione.
È evidente che questo risveglio del Sud del mondo rovescia completamente
gli equilibri globali, anche perché si concretizza nel controllo non solo delle risorse
naturali, ma anche di intere società un tempo esclusivamente occidentali e oggi
pervase in maniera sempre più massiccia da capitali di provenienza soprattutto
araba e asiatica. I fondi sovrani la fanno da padrone in questo ambito, soprattutto
quelli cinese e quelli di Singapore i quali, avvantaggiati dalla crisi economica che ha
colpito le mature economie europee e statunitense, detengono quote significative
di importantissime imprese fra cui, ad esempio, Morgan Stanley e Merrill Lynch.
Questi esempi dimostrano come non solo il debito pubblico dei Paesi capitalisti è
oggi nelle mani dei cosiddetti Paesi emergenti, ma ormai anche una parte dello
stesso prodotto interno lordo, attraverso il controllo dei capitali delle imprese o,
come nel caso dell’Arabia Saudita, attraverso la creazione di ricchezze permessa
dall’uso del petrolio arabo. Come è logico dedurre, il vantaggio strategico che ne
deriva per questi Paesi è considerevole.
Infine, c’è un’altra risorsa cruciale il cui controllo risulta determinante in un
contesto di guerra economica: la conoscenza del livello tecnologico, del mercato di
riferimento, di partner e concorrenti, in poche parole della strategia economica di
imprese e Stati “nemici”, ossia dell’intelligence. Si tratta di una risorsa
relativamente nuova, resa però fondamentale dallo sviluppo tecnologico degli
ultimi decenni, al pari dei capitali finanziari necessari all’avvio e al mantenimento
delle imprese, delle materie prime per la produzione e delle risorse umane
impiegate. I programmi di intelligence economica gestiti e coordinati dallo Stato
sono perciò diventati indispensabili per non subire ritardi inammissibili in un
quadro concorrenziale sempre più competitivo e duro.
La terza rivoluzione che ha portato all’attuale contesto di guerra economica
in cui gli Stati in costante competizione fra loro mirano ad accaparrarsi risorse di
ogni genere (non solo materie prime, dunque) è di tipo teorico, per non dire
ideologico. È possibile parlare, infatti, di un ritorno al mercantilismo, ovviamente
con sembianze moderne, nella misura in cui la potenza si esprime principalmente
sotto forma di esportazioni. Nelle parole di Bernard Esambert, “esportare è
l’obiettivo della guerra economica e della sua componente industriale” perché
“significa occupazione, stimolo, crescita. La posta in gioco è conquistare la maggior
parte possibile [dei mercati mondiali]”. Non è difficile riconoscere la stretta
correlazione esistente fra volume delle esportazioni e potenza economica nella
classifica dei principali Paesi esportatori, che vede sul podio la Germania (che da
sola detiene il 9,5% delle esportazioni mondiali) seguita da Cina e Stati Uniti, oltre
alle principali potenze del G7 (Giappone, Francia, Italia, Regno Unito e Canada) e ad
alcuni Paesi emergenti (Corea del Sud, Russia, Hong Kong e Singapore) fra le prime
quindici posizioni. Anche fra i principali Paesi importatori, d’altra parte, ritroviamo
le massime potenze economiche mondiali come Stati Uniti, Germania, Cina,
Giappone, Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Spagna, Hong Kong, Corea del Sud e
Singapore, segno dunque del ruolo fondamentale che, più in generale, rivestono gli
scambi ai fini delle considerazioni sulla potenza economica.
È dunque un nuovo trionfo degli Stati sovrani come protagonisti delle
relazioni internazionali quello evidenziato da questa tendenza neo-mercantilista,
che di fatto scredita in parte le tesi del loro indebolimento progressivo e inevitabile
in epoca di globalizzazione. Il politologo Edward N. Luttwak esprime bene questa
concezione quando afferma che nell’arena degli scambi mondiali dove si vedono
americani, europei, giapponesi e altre nazioni sviluppate cooperare e rivaleggiare
allo stesso tempo, le regole nel complesso sono cambiate. Quale che sia la natura o
la giustificazione delle identità nazionali, la politica internazionale rimane
dominata dagli Stati (o da associazioni di Stati come la Comunità Europea), i quali
si basano sul principio del “noi” in opposizione all’ampio insieme formato dagli
“altri”. Gli Stati sono delle entità territoriali delimitate e protette da confini
gelosamente rivendicati e spesso ancora sorvegliati. Anche se non pensano a
rivaleggiare militarmente, anche se cooperano quotidianamente in decine di
organizzazioni internazionali o di tutt’altro tipo, gli Stati restano
fondamentalmente antagonisti.
La fine della Guerra Fredda, come già evidenziato precedentemente, è lo
snodo cruciale che ha rimesso al centro delle relazioni internazionali i singoli Stati,
anche se gli anni Novanta, con l’apparente trionfo del multilateralismo,
sembravano affermare il contrario. Infatti, proprio nel momento in cui, da un lato,
si dava impulso alla creazione di un’Organizzazione Mondiale del Commercio
orientata al libero scambio e garante di rapporti equi e paritari fra Stati in ambito
commerciale, dall’altro lato, risultavano indeboliti, o addirittura svuotati di
significato, i legami di solidarietà che univano i membri del blocco occidentale, che
da alleati diventavano così concorrenti. Questa lettura viene interpretata da alcuni
critici della nozione di “guerra economica” come il risultato della mancanza
generale di cultura economica nella società, tale da favorire l’individuazione di
nemici e colpevoli esterni per le oscillazioni più o meno brusche dell’economia
interna. In realtà, questa visione dipende piuttosto da un rinnovato impulso della
volontà di potenza degli Stati: è una pura espressione irrazionale e non coincide
esattamente con l’interesse generale.
Il cambiamento interpretativo emerso in concomitanza con questa
congiuntura storica è fortemente legato alla pubblicazione di alcune opere
(tuttavia non disponibili in traduzione italiana) da parte di economisti e analisti
politici particolarmente influenti, prima fra tutte Head to Head: The Coming Battle
among America, Japan and Europe (1992) del recentemente scomparso Lester
Thurow, stimato studioso delle conseguenze della globalizzazione, il quale ha
ricevuto fin dagli anni Sessanta la considerazione del governo statunitense. Del
Segretario del Lavoro degli Stati Uniti durante la presidenza di Bill Clinton, Robert
Reich, è invece The Work of Nations (1993), opera di analisi della concorrenza fra
le nazioni, e dello stesso tenore è fin dal titolo A Cold Peace: America, Japan,
Germany and the Struggle for the Supremacy (1992) di Jeffrey Garten, anch’egli
divenuto membro della prima amministrazione Clinton come Sottosegretario di
Stato per il Commercio Estero. Tutti questi lavori, scritti da uomini di Stato e
decisori politici che hanno imposto, fra gli altri, la “diplomazia degli affari” dell’era
Clinton, hanno contribuito a plasmare l’odierna accezione di guerra economica
grazie alle loro descrizioni dell’economia mondiale in termini di scontri fra Stati.
D’altra parte, per quest’ultimi si trattava di una esigenza particolarmente
pressante: l’unico modo di riaffermare la loro supremazia soprattutto nei confronti
delle multinazionali, che sembravano essere le uniche padrone e detentrici del
controllo dell’economia mondiale. È ancora una volta Luttwak a suggerire
un’interpretazione di quest’improvvisa conversione delle élite al dogma della
guerra economica, suggerendo ai burocrati europei e giapponesi, come a quelli
americani, l’idea che la geo-economia sia l’unico sostituto possibile dei ruoli
diplomatici e militari del passato: infatti, sarebbe solo invocando gli imperativi
geo-economici che le amministrazioni statali possono rivendicare la loro autorità
sui semplici uomini d’affari e sui loro concittadini in generale
L’EUROPA TRA LE VIE DELLA NATO, LE VIE DELLA SETA E LE VIE DELL’ENERGIA. Prima parte.
di Luigi Longo
La Nato ovverosia gli Stati Uniti
Noam Chomsky*
Verso la fine del XIX secolo, un eminente geologo Tedesco, Ferdinand von Richthofen […] diede a questa estesa rete di connessione un nome che è entrato stabilmente nell’uso: SeidenstraBen, vie della Seta
Peter Frankopan**
Premessa
La situazione politica in Europa, parafrasando Ennio Flaiano, è grave ma non è seria (1). Vediamo perché la situazione è grave e perché non è seria.
La situazione è grave perché il progetto dell’Unione Europea, pensato e messo in atto dagli USA nella fase monocentrica (dopo la seconda guerra mondiale), è finito. La sudditanza europea, coordinata soprattutto dalla Germania, cessa di avere la sua funzione unitaria nelle strategie statunitensi, di contrasto e di conflitto, verso le potenze Cina e Russia che vogliono ridefinire l’ordine politico mondiale con una nuova forma di relazioni tra grandi potenze, nel rispetto della propria effettiva sfera di influenza.
La nuova sudditanza europea è improntata a relazioni bilaterali tra ciascuna nazione e gli Usa. Cambia la tattica degli agenti strategici principali degli USA: quelli rappresentati da George W. Bush-Bill Clinton-Barack Obama hanno utilizzato soprattutto la sfera economica dell’Europa, in maniera coordinata, tramite la Germania << La Germania è l’emblema di un gigante economico e politico, che però a livello militare è rimasto un nano. E’ economicamente integrata con gli altri Stati vicini ed è protetta dall’America, il capo assoluto della sicurezza con il suo ombrello atomico >> (2); quelli rappresentati da Donald Trump stanno proponendo l’uso dell’Europa attraverso il sovranismo asimmetrico di ciascuna nazione. A mio avviso, diventa secondario pensare l’appartenenza delle nazioni europee ad uno dei due suddetti principali schieramenti di agenti strategici, mentre diventa prioritario riflettere sul perché l’Europa continua nella sua condizione di servitù volontaria verso gli Stati Uniti d’America. Il problema, quindi, come ho già sostenuto in altri scritti, non è passare da una servitù volontaria all’altra, a seconda delle strategie statunitensi di volta in volta egemoni, quanto, piuttosto, come pensare una strategia europea per liberarsi da questa servitù volontaria e costruire altre strade e altri ponti verso l’Oriente, in modo da restare nella fase multicentrica con le armi della dialettica (il dialogo tra le potenze mondiali) e non arrivare alla fase policentrica con la dialettica delle armi (la guerra di distruzione tra le potenze mondiali). Dalla fine del XV secolo ad oggi, nella storia tra le potenze dominanti e le potenze in ascesa, utilizzando la Trappola di Tucidide (3), abbiamo avuto dodici rivalità che si sono risolte con la guerra e quattro rivalità che non hanno prodotto nessuna guerra così come indicata nella sottostante figura (4).
Fonte:Allison,2018
La situazione europea non è seria perché gli attuali sub-decisori delle diverse nazioni (è bene ricordare sempre che l’Europa non è un soggetto politico!) e le relative forze politiche, cosiddette sovraniste e populiste, sono antitetico polari (in opposizione e sostegno reciproco) al mantenimento, in maniera diversa, della servitù volontaria europea verso gli USA; questi servi andrebbero liquidati con ‘o pernacchio, con il significato profondo che gli dà don Ersilio Miccio, interpretato con maestria da Eduardo De Filippo nel famoso episodio de “ Il professore”, nel film L’oro di Napoli, con regia di Vittorio de Sica (la sintesi dell’arte è straordinaria).
E’ proprio il segno dei tempi interpretare le relazioni della sfera economica come il cambiamento di strada verso l’Oriente (Russia, Cina, India); l’egemonia (coercizione e consenso) degli agenti strategici che dominano la società non è data solo da quelli della sfera economica ma da quelli espressi dall’insieme delle sfere sociali: nelle fasi multicentrica e policentrica essi trovano infatti maggior peso proprio nelle sfere politica, militare e istituzionale. In questa logica lo Stato è configurato come strumento all’interno dei rapporti sociali, esso è inteso, cioè, come l’insieme dei luoghi istituzionali e territoriali dove si svolge il conflitto sociale e politico tra dominanti e dominati e tra gli stessi dominanti per il potere e il dominio della società. La storia dimostra, tranne alcune eccezioni (le rivoluzioni), che il conflitto prevalente che si svolge nelle società è quello tra gli agenti strategici delle diverse sfere del legame sociale (dove si esprimono le forme del potere) che configurano il blocco degli agenti strategici egemonici che governano, in una situazione di equilibrio dinamico, la nazione (dove si esprimono le forme del dominio). E’ questa formazione degli agenti strategici egemonici che realizza le capacità di coordinare l’insieme delle relazioni nazionali e delle alleanze fra nazioni soprattutto nelle fasi multicentrica e policentrica.
2.Il declino irreversibile degli USA
Gli Stati Uniti sono una potenza mondiale in irreversibile declino; le ragioni sono molteplici: a) i gravi squilibri interni economici, sociali e territoriali; b) un allentamento complessivo dei legami della società civile; c) la incapacità degli agenti strategici di creare una nuova sintesi di sviluppo e di legame sociale [come quello che ha caratterizzato il Novecento come il secolo americano (5)] capace di ri-lanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale alle potenze che si sono configurate in questa fase storicamente data (Cina e Russia). La frattura all’interno degli agenti strategici è caratteristica del declino irreversibile di un impero; essa non produce più la sintesi nazionale, ma una sintesi di parte, su base imperiale, che si erode sempre di più proprio per la crisi interna della società sempre più impoverita e degradata (6).
Gli Usa hanno la convinzione di essere la nazione indispensabile a guidare il mondo e non accettano, per la propria storia, di condividere, in maniera rispettosa e dialogante, il governo del mondo con altre potenze.
Sergio Romano scrive che la superpotenza degli Stati Uniti << […] si considera autorizzata a stroncare qualsiasi aspirazione che possa turbare i suoi sogni imperiali. Dopo aver vinto la Seconda guerra mondiale, l’America ha fatto guerre inutili, da quelle del Vietnam a quella dell’Iraq, e le ha perdute con risultati che hanno scompigliato gli equilibri di intere regioni. Dopo aver assistito alla scomparsa dell’Unione Sovietica e alla nascita di Russia federale, ha fatto del suo meglio per restituire a quest’ultima il ruolo del pericoloso nemico che aveva sostenuto dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1989. Dopo aver corteggiato la Cina, all’epoca di Nixon e Kissinger, per meglio isolare l’Unione Sovietica, ha deciso di trattare la Repubblica Popolare come un pericoloso concorrente e sta combattendo con Pechino due guerre: la prima, quella dei dazi, per impedirle di crescere sino a diventare la prima economia mondiale; la seconda, quella delle nuove tecnologie, per impedirle di conquistare un primato scientifico. Il Paese che si è presentato al mondo, sin dalle sue origini, come testimone e missionario di democrazia, è in realtà uno Stato militaresco, governato spesso da uomini che hanno una formazione militare. E’ una democrazia, ma ha una concezione gerarchica e militare della società internazionale e, quindi, ha sempre bisogno di un nemico che giustifichi i suoi arsenali e di alleati che obbediscano ai suoi ordini. >> (7).
Per queste ragioni gli USA vanno combattuti e neutralizzati nonché indirizzati a un modello di governo mondiale condiviso tra potenze (fase multicentrica) onde evitare il conflitto mondiale tra le potenze (fase policentrica).
Questo declino statunitense ha radici profonde nella crisi del modello sociale capitalistico che ha rappresentato la modernità Occidentale (8) [ben diversa dalla modernità Orientale anch’essa con il suo modello sociale capitalistico (9) ] a partire dai quattro cicli egemonici (il ciclo genovese-iberico, dal XV secolo agli inizi del XVII; il ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo alla metà del XVIII; il ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi del XX; il ciclo statunitense, dalla fine del XIX secolo fino ad oggi) che hanno caratterizzato la storia del capitalismo (10).
3.Le vie della Nato
La situazione oggettiva è che abbiamo una Europa servile in totale sbando e decadenza e una potenza imperiale (USA) di coordinamento mondiale, in irreversibile declino, non propensa ad un ordine mondiale condiviso con altre potenze.
In questa fase storica data, l’Europa si trova ad un bivio: o proseguire la servitù volontaria verso gli Stati Uniti d’America scegliendo le vie della NATO, oppure iniziare un cammino di liberazione dalla servitù e scegliere un nuovo orientamento verso l’Oriente attraverso le vie della seta e le vie dell’energia (queste ultime che riguardano il ruolo dell’altra potenza in ascesa, cioè la Russia, saranno oggetto della seconda parte di questo scritto). Un cammino che non può prescindere dal << […] “saltare il passaggio” della piena restaurazione della sovranità politica e monetaria degli stati nazionali >> (11).
La strategia statunitense, nella fase multicentrica sempre più intensa, necessita di una Europa coordinata dalla Nato (12). La Nato non è solo una macchina da guerra come sostiene Sergio Romano: << La Nato è un’alleanza politica militare in cui esiste un esercito permanente integrato, esiste un comando militare che lavora 24 ore su 24 ore con un comandante supremo che è in realtà un Capo di Stato Maggiore di tutti i paesi dell’Alleanza Atlantica, ma è sempre americano[ corsivo mio], e questo Capo di Stato Maggiore fa esattamente quello che fanno tutti i capi di Stato Maggiore, cioè, preparano la prossima guerra […] >> (13); né essa è soltanto un mercenariato militare globalizzato al servizio della geopolitica di potenza USA come affermava Costanzo Preve (14), né tantomeno la Nato è in stato di “morte cerebrale” come dichiara Emmanuel Macron con i suoi deliri di grandezza nel concepire una Europa “come una potenza del mondo con una autonomia strategica e di capacità sul piano militare” (15), magari sotto l’egemonia francese (sic).
La Nato è una istituzione mondiale che ha subito diverse metamorfosi dalla sua costituzione (1949) ad oggi. Essa è lo strumento degli Stati Uniti in tutti gli scenari mondiali per affermare la democrazia e imporre il suo modello sociale, politico, culturale ed economico. La Nato penetra in tutte le sfere del legame sociale delle nazioni e delle macroregioni (economica, istituzionale, culturale, infrastrutturale, eccetera), trasforma territori e città (Europa, Medio Oriente, Mediterraneo, Africa, Asia), incide e condiziona lo sviluppo dei Paesi [penso, a mò di esempio, ai corridoi europei, ai territori e città Nato dell’Italia (Napoli, Taranto, Vicenza…), all’aumento delle spese militari sottratte agli investimenti, alla nuova base Usa di Alessandropoli (Grecia), alle strategie nel Mar Nero] in funzione degli scenari di guerra contro le potenze mondiali, per contrastare il formarsi di alleanze tra le potenze in ascesa in grado di mettere in discussione il loro dominio (16). La potenza mondiale da centrare, da parte degli USA è data dall’entità del pericolo che rappresenta e dalla capacità di potenza raggiunta che può mettere in discussione la sua egemonia; ma gli USA sono attenti anche alle alleanze che si possono formare tra le potenze in ascesa che sarebbero deleterie per loro (Cina e Russia hanno avuto ed hanno forme di collaborazione e di intesa politica, economica, finanziaria e militare ben raffigurate, in questa fase, dalle Vie della Seta). Con Richard Nixon-Henry Kissinger la Russia era nel mirino strategico degli USA e l’alleanza con la Cina era la logica conseguenza del divide et impera. Con Barack Obama-Donald Trump la Cina è nel mirino strategico degli USA, perché nel lungo periodo può rappresentare la potenza cardine del sistema mondiale, e l’alleanza con la Russia è la logica conseguenza del divide et impera.
Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, ben introdotto nei gangli del potere servile statunitense, afferma, a proposito delle strategie Nato nel XXI secolo, che :<< Le interferenze russe avvenute nelle elezioni di più paesi occidentali e la nuova via della seta pongono la Nato davanti ad una competizione strategica […] maggiore cooperazione sulla sicurezza per affrontare le interferenze russe e unità per occuparsi dei rapporti con la Cina […] genesi della nova Nato del XXI secolo. >> (17).
Il presidente Sergio Mattarella, nel messaggio del 4 Novembre, definisce la Nato una<< alleanza alla quale abbiamo liberamente scelto di contribuire, a tutela della pace nel contesto internazionale, a salvaguardia dei più deboli e oppressi e dei diritti umani >>. Qui, per dirla con Costanzo Preve, siamo alla menzogna sistematica!
Le vie della Nato, ovverosia degli Stati Uniti, sono vie che preparano scenari di guerra e l’Europa per la prima volta nella storia sarà teatro passivo di future guerre!
Fonte: Limes, 2018
4.Le vie della seta
Riporto una lunga ma significativa sintesi di cosa sono le Vie della Seta tratta dall’omonimo libro dello storico Peter Frankopan:<<In realtà, per millenni, fu la regione che si estendeva tra l’Est e l’Ovest, collegando l’Europa con l’oceano pacifico, a fungere da asse da rotazione del mondo. La regione a metà tra Oriente e Occidente, che si estende approssimativamente dalle coste orientali del Mediterraneo e del Mar Nero fino all’Himalaya, potrebbe sembrare un luogo poco promettente per farne il punto di osservazione del mondo […] In realtà, il ponte tra Oriente e Occidente è il vero crocevia della civiltà. Lungi dall’essere al margine degli affari globali, questi paesi ne sono proprio al centro, come lo sono stati fin dall’alba della storia […] Fu su questo ponte tra l’Est e l’Ovest che circa 5000 anni fa vennero fondate grandi metropoli, fu qui che le città di Harappa e Mohenjo-daro, nella valle dell’Indo, fiorirono come meraviglie del mondo antico, con popolazioni che ammontavano a decine di migliaia di abitanti e strade che si connettevano in un sofisticato sistema fognario che non sarebbe stato uguagliato in Europa per migliaia di anni. Altri grandi centri di civiltà come Babilonia, Ninive, Uruk e Akkad, in Mesopotamia, erano celebri per la loro grandiosità e la loro architettura innovativa. E oltre duemila anni fa un geografo cinese annotava che gli abitanti della Battriana, una regione incentrata sul fiume Oxos e oggi situata nell’Afghanistan settentrionale, erano commercianti e negoziatori leggendari; la loro capitale ospitava un mercato in cui si comprava e vendeva un’enorme gamma di prodotti, provenienti da ogni dove.
Questa regione è il luogo dove videro la luce le grandi religioni del mondo, dove il giudaismo, il cristianesimo, l’islam, il buddhismo e l’induismo vissero gomito a gomito. E’ il crogiuolo dove competevano vari gruppi linguistici, dove lingue indoeuropee, semitiche e sino-tibetane coabitavano con idiomi altaici, turcici e caucasici. Questo è il luogo in cui grandi imperi sorsero e caddero, dove le conseguenze degli scontri fra culture rivali si avvertivano a migliaia di chilometri di distanza. Qui si aprivano nuovi modi di guardare al passato e si rivelava un mondo profondamente interconnesso, dove quanto accadeva in un continente aveva effetti su un altro, dove le scosse secondarie di ciò che succedeva nelle steppe dell’Asia centrale potevano essere avvertite nel Nord Africa, dove eventi verificatisi a Baghdad avevano risonanza in Scandinavia, deve scoperte compiute nelle Americhe alteravano i prezzi delle merci in Cina e facevano schizzare la domanda sui mercati dei cavalli in India settentrionale.
Questi scossoni si diffondevano lungo una rete estesa in ogni direzione, un ventaglio di strade lungo le quali hanno viaggiato pellegrini e guerrieri, nomadi e mercanti, lungo le quali merci e materie prime sono state trasportate e vendute, e le idee sono state scambiate, modificate e perfezionate. Queste strade hanno portato non solo prosperità, ma anche morte e violenza, malattie e disastri. Verso la fine del XIX secolo, un eminente geologo tedesco, Ferdinad von Richthofen (zio del <<Barone Rosso>>, l’asso dell’aviazione della prima guerra mondiale), diede a questa estesa rete di connessioni un nome che è entrato stabilmente nell’uso: SeidenstraBen, Vie della Seta.
Queste direttrici fungono da sistema nervoso centrale del mondo, collegando popoli e luoghi ma rimanendo sottotraccia, invisibili a occhi nudo. Allo stesso modo in cui l’anatomia spiega come funziona il corpo, la comprensione di queste connessioni ci consente di capire come funziona il mondo. Eppure, nonostante la sua importanza, questa parte del pianeta è stata dimenticata dalla storia tradizionale. In parte ciò è dovuto a quello che è stato chiamato <<orientalismo>>, ovvero la concezione netta e drasticamente negativa dell’Oriente come sottosviluppo e inferiore all’Occidente, e quindi non meritevole di uno studio serio. Ma deriva anche dal fatto che la narrazione del passato è diventata così dominante e consolidata da non lasciare spazio a una regione che è stata a lungo vista come periferica rispetto alla vicenda dell’ascesa dell’Europa e della società occidentale.>> (18).
Fonte Limes, 2019
I territori delle Vie della Seta, da inquadrare nelle diverse fasi della storia mondiale caratterizzate da segni particolari e da questioni rilevanti e peculiari proprie delle fasi (Peter Frankopan ne individua ben 25 Vie nei periodi storici che vanno dalla sua configurazione ad oggi passando dalla Via delle Fedi alla Via alla Tragedia), sono interessati da un grande progetto di respiro mondiale basato sullo sviluppo economico, politico, culturale tra le nazioni coinvolte nell’idea di scambio tra Oriente e Occidente che ricalca il senso e gli obiettivi delle antiche Vie della Seta. Xi Jinping così dichiarava, nel discorso di Astana (Kazakhstan), nell’autunno del 2013, dove annunciava per la prima volta il progetto della Via della Seta:<< Per più di duemila anni […] i popoli che vivono nella regione che collega l’Est e l’Ovest sono stati in grado di coesistere, cooperare e prosperare nonostante le differenze di razza, fede e cultura. Per la Cina è una priorità di politica estera […] sviluppare rapporti di cooperazione amichevole con i paesi dell’Asia centrale. E’ giunto il momento […] di rendere più stretti i legami economici, migliorare le comunicazioni, incoraggiare gli scambi e incrementare la circolazione monetaria […] >> (19).
E l’Europa che fa?
L’Europa mostra i suoi limiti nella cooperazione con la Cina sul grande progetto mondiale della Nuova Via della Seta (Belt and Road Iniziative), limiti derivanti da una mancanza di politica unitaria essendo l’Unione Europea, come già detto, un non soggetto politico. Diego Angelo Bertozzi (uno dei maggiori esperti italiani della Cina e della Nuova Via della Seta) sostiene che :<<E’ fuor di dubbio che, dal momento del suo lancio nel 2013, la Belt and Road Initiative abbia attirato l’interesse dei Paesi membri dell’Unione Europea. Poco dopo infatti, nel settembre del 2015, la Cina e l’UE hanno firmato un accordo per istituire la piattaforma di connettività UE-Cina per la promozione della cooperazione congiunta in materia di investimenti infrastrutturali e servizi di trasporto; già prima Pechino aveva mostrato il proprio interesse a rendere compatibili la nascente Bri con il piano Juncker da 385 miliardi di euro centrato principalmente sulla costruzione di infrastrutture. Resta però il fatto che la maggior parte degli investimenti cinesi in infrastrutture europee (autostrade, ferrovie e porti) si sono verificati al di fuori della piattaforma di connettività e che a prevalere è un approccio bilaterale con i singoli Paesi interessati, in modi e intensità diverse, alla collaborazione [corsivo mio, LL]>> (20). Molte nazioni europee (Francia, Germania, Regno Unito) hanno fatto accordi con la Cina nonostante ci siano critiche e conflitti all’interno dei Paesi G7 :<<Le critiche all’adesione italiana alla BRI, primo fra i paesi G7, nascono dal timore di uno stabile insediamento cinese, con investimenti industriali e logistici, che completi un corridoio dall’Asia al Centro Europa via Trieste (anche Genova ha firmato un’intesa preliminare), che potrà riprendere quella centralità che già l’Impero asburgico aveva compreso trasformandola in porto franco>>. La Commissione europea, inoltre, ha definito la Cina avversario sistemico nonostante <<Contando solo le partecipazioni almeno del 10%, in dieci anni la Cina ha speso per aziende europee 145 miliardi […] Ma altre stime […] arrivano a 350 miliardi. Più di 670 gruppi cinesi della terraferma o con sede a Hong Kong […] hanno investito in Europa dal 2008; quasi 100 hanno alle spalle lo stato o fondi di investimento. Circa 360 imprese sono state acquisite, anche colossi come l’italiana Pirelli. Controllo o partecipazioni riguardano inoltre quattro aeroporti, sei porti, parchi eolici e squadre di calcio […] In parecchi hanno dunque rapporti assai stretti con quello che la Commissione europea ha definito inaspettatamente avversario sistemico, timorosa forse di suscitare ritorsioni commerciali dalla Casa Bianca (corsivo mio, LL)>> (21).
La Nuova Via della Seta è un grande progetto a livello mondiale, messo in atto dalla Cina nella logica del dialogo con i popoli, ricalcando in maniera diversa il senso e l’idea delle relazioni tra Oriente e Occidente << Nonostante la loro apparente <<estraneità>>, queste terre sono sempre state di importanza fondamentale nella storia mondiale, in un modo o nell’altro, collegando est e ovest e ponendosi come un crogiuolo dove, dall’antichità ad oggi, si sono incontrate e scontrate idee, abitudini e lingue. E oggi le Vie della Seta stanno riacquistando importanza, un fenomeno che molti ignorano o a cui non prestano interesse. Gli economisti non hanno ancora rivolto l’attenzione alle ricchezze che si trovano sotto e sopra il suolo, sotto le acque o sepolte nelle montagne delle catene che collegano l’Himalaya al mar Nero, all’Asia Minore e al Levante. Si concentrano su gruppi di paesi senza connessioni storiche (corsivo mio, LL) i cui indici misurabili appaiono a prima vista simili, come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), spesso ormai sostituiti dal nuovo trend dei MIST (Messico, Indonesia, Corea del Sud e Turchia). In realtà, è al vero Mediterraneo- << il centro del mondo >>- che dovremmo invece guardare. Non c’è un Selvaggio Oriente, nessun nuovo mondo da scoprire, ma una regione e una serie di connessioni che riemergono sotto i nostri occhi >> (22).
La Cina è una potenza in ascesa, come lo fu Atene nella fase multicentrica precedente la guerra del Peloponneso, con la caratteristica di sconvolgere l’ordine esistente: << Essi (gli ateniesi, mia precisazione) sono amanti delle novità, rapidi nel concepire un piano e nel portare a compimento ciò che hanno deciso […] >> (23). Per questo motivo gli Stati Uniti cercano di bloccare e contrastare il progetto cinese perché vedono in esso un serio pericolo alla loro egemonia mondiale (“sindrome della potenza dominante”).
Fonte Limes, 2016
La Nuova Via della Seta della Cina è una Via che recupera un nuovo senso e un nuovo dialogo tra Oriente e Occidente e ha come obiettivo l’equilibrio dinamico tra le potenze dominanti della fase multicentrica.
5.In sintesi: abbiamo due potenze in ascesa, Cina e Russia, che rivendicano un ordine mondiale dialogante e rispettoso delle proprie diversità storiche, politiche e culturali in modo da superare la “Trappola di Tucidide” e restare nella fase multicentrica.
Al contrario, la potenza dominante, gli Stati Uniti d’America, rivendica un ordine mondiale sotto la propria egemonia e non accetta un limite al proprio dominio nella configurazione di un nuovo ordine mondiale avanzato dalle potenze in ascesa. Quindi gli USA metteranno in atto strategie politiche di conflitto per contrastare sia la minaccia del proprio declino (ormai irreversibile) sia le potenze in ascesa; difficilmente si fermeranno nella fase multicentrica.
Cosa farà l’Europa? Quali vie intraprenderà?
Sono pessimista nell’accezione di Ennio Flaiano << Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un pleonasmo, ossia anticipare quello che accadrà […].>>. Abbiamo, purtroppo, sub-decisori europei (in particolare quelli italiani per la loro peculiarità storica) che sono dei rubagalline (il significato pieno del termine è nel film Totò, Peppino e i fuorilegge, regia di Camillo Mastrocinque del 1956) e hanno le facce da servi (per il prosieguo della definizione delle facce rimando alla magnifica sintesi fatta da Giorgio Gaber nel brano Mi fa male il mondo dell’album “E pensare che c’era il pensiero”, 1995). Sub-decisori inaffidabili e pericolosi per la maggioranza delle popolazioni. Sono i cotonieri lagrassiani, soggetti politici espressione di una sfera economica caratterizzata da modelli di produzione superati e tecnologicamente arretrati (di processo e di prodotto), che hanno venduto l’anima e i relativi paesi per n’anticchia di potere e non sanno andare oltre una visione economica delle relazioni internazionali.
In Europa ci vorrebbe un Gelsomino (24) dalla voce potentissima che, con l’aiuto di un moderno Principe, sconfiggesse la prepotenza e l’arroganza e ristabilisse la verità e l’ordine per traghettare l’Europa fuori dalla servitù statunitense e pensare una Europa (espressione di una recuperata sovranità politica delle nazioni) dei dialoghi e dei confronti tra mondi diversi (Occidente e Oriente).
Le citazioni che ho scelto come epigrafe sono tratte da:
* Noam Chomsky, Venti di protesta, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, pag.81.
** Peter Frankopan, Le vie della seta, Mondadori, Milano, 2017, pag.8.
NOTE
1.Ennio Flaiano, Diario notturno, Adelphi, Milano, 2012, pp. 114 e 165.
2.Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, Fazi editore, Roma, 2018, pag.309.
3.La situazione storica che si venne a creare nella guerra del Peloponneso dove la potenza dominante di Sparta fu messa in discussione dalla emergente potenza di Atene. La trappola di Tucidide definisce la << “sindrome della potenza in ascesa” e la “sindrome della potenza dominante”. La prima mette in evidenza l’accresciuta consapevolezza di sé, dei propri interessi e del proprio diritto a essere riconosciuto e rispettato. La seconda è essenzialmente l’immagine speculare della prima, ossia il manifestarsi da parte del potere costituito di un crescente senso di paura e di insicurezza difronte alla minaccia del proprio “declino” […]. Sparta era una polis conservatrice, una potenza incline allo status quo. Come in seguito ebbe a dichiarare l’ambasciatore di Corinto all’Assemblea degli spartani:<< Loro caratteristica [degli ateniesi, mia specificazione] è di sconvolgere l’ordine esistente: veloci nell’ideare, veloci nel realizzare ciò che hanno deciso. Vostra caratteristica [degli spartani, mia specificazione] è invece l’immobilismo: non vi sforzate di ideare vie nuove e, sul piano dell’azione, non siete all’altezza neanche dello stretto necessario >> in Graham Allison, Destinati alla guerra, op.cit., pag. 90 e 74; Sull’ascesa della potenza di Atene si rimanda a Tucidide, La guerra del Peloponneso, Mondadori, Milano, 1976, volume primo, Libro I, pp.3-97.
4.Sul progetto della Trappola di Tucidide si rimanda a Graham Allison, Destinati allaguerra, op.cit., in particolare all’Appendice I dove è riportato il dossier completo sulla Trappola di Tucidide che fa parte del progetto di storia applicata del Belfer Center di Harvad (Cambridge, USA).
5.Per la costruzione di un nuovo modello di società che ha caratterizzato il Novecento come il secolo americano, si rimanda a Olivier Zunz, Perché il secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2002.
6.Per gli indicatori economici del declino statunitense si rimanda a Graham Allison, Destinati alla guerra, op. cit., pp.33-63.
8.Sulla crisi della modernità occidentale si veda Marshall Berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, 1985; David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 1993; Costanzo Preve-Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale, il Prato editrice, Saonara (Padova), 2016.
9.Sulla diversità della modernità orientale si legga Maxime Rodinson, Islam e Capitalismo, Einaudi, Torino, 1968; Luce Irigaray, Tra Oriente e Occidente, Manifestolibri, Roma, 1997; Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti Editore, Roma, 2016; Aleksandr Dugin, L’Occidente e la sua sfida in www.ariannaeditrice.it, 18/10/2018, prima e seconda parte; Graham Allison, Destinati allaguerra, op.cit.
10.Per una lettura che superi le periodizzazioni dei cicli economici delle diverse fasi storiche del capitalismo, si intreccino gli studi di Giovanni Arrighi, Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve.
11.Costanzo Preve-Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale, op. cit., pag.153.
12.Luigi Longo, Il Progetto dell’Unione Europea è finito, la Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica, www.italiaeilmondo.com, 26/11/2018.
13.Sergio Romano, Sulle finalità della Nato e il bisogno di Occidente della Russia, www.ispionline.it, video intervento, 4/6/2018.
Costanzo Preve-Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale, op. cit., pag.152.
15.Redazione Ansa, Macron, Nato in stato di “morte cerebrale”, www.ansa.it, 7/11/2019; Anais Ginori, Siria: Macron, la Nato è in stato di morte cerebrale, www.repubblica.it, 7/11/2019.
16.Per le politiche di espansione, di allargamento, di sicurezza, di alleanze e controalleanze, di partenariato di pace (sic), di investimenti infrastrutturali, di spese militari della Nato, si rimanda a Mahdi Darius Nazemroaya, La globalizzazione della NATO. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate, Arianna editrice, Bologna, 2014; Manlio Dinucci, Geopolitica di una “guerra globale” in AaVv, Escalation. Anatomia della guerra infinita, DeriveApprodi, Roma, 2005, pp.11-112; sul continuo aumento delle spese militari a favore della Nato si veda Manlio Dinucci, 4 Novembre, vedi Napoli e poi muori, www.volitairenet.org, 10/11/2019; sulla base USA di Alessandropoli in Manlio Dinucci, Alessandropoli, nuova base USA contro la Russia, www.voltairenet.org, 24/9/2019; sulla strategia USA-NATO sul Mar Nero in Martin Sieff, USA e NATO in preda a “pazzia da Mar Nero”, www.comedonchisciotte.org, 17/6/2019.
17.Maurizio Molinari, Il doppio fronte della Nato, www.lastampa.it, video editoriale, 29/7/2019.
18.Peter Frankopan, Le Vie della Seta, op.cit., pp. 7-8; si legga anche Claudio Mutti, La nuova Via della Seta, www.euroasia-rivista.com, 24/6/2019.
Peter Frankopan, Le Vie della Seta, op.cit., pag. 595; per una analisi sintetica degli obiettivi del progetto della Via della Seta si invia a Vladimiro Giacchè, Un progetto per molti obiettivi, www.sinistrainrete.info, 29/4/2019.
20.Osservatorio Globalizzazione, Sulle rotte della Nuova Via della Seta, conversazione con Diego Angelo Bertozzi, www.comunismoecomunita.org, 8/10/2019.
21.Luciano Santilli, La Nuova Via della crescita in Capital n. 465-466 giugno 2019, pag.7. E’ interessante la lettura completa dello speciale Cina perchè ricca di informazioni, dati, analisi delle relazioni tra Cina ed Europa e soprattutto il livello di penetrazione cinese in Italia; sugli accordi dei paesi europei con la Cina si rimanda a Pino Nicotri, Con la nuova Via della Seta la Cina è vicina, anzi è tra noi, www.sinostrainrete.info, 1/4/2019.
Peter Frankopan, Le Vie della Seta, op.cit., pag.585.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, op.cit., pag. 46.
24.Per la storia di Gelsomino si legga Gianni Rodari, Gelsomino nel paese dei bugiardi, Einaudi, Torino, 2010.
E SI CHE CE N AVOCATO DE FAMA
Una specificazione molto precisa. Dettagliata. Arcelor Mittal può recedere dal contratto di affitto – preliminare alla vendita – in tutta una serie di ipotesi. Già il contratto d’affitto con obbligo di acquisto di rami d’azienda, siglato il 28 giugno 2017, era abbastanza nitido. Ma l’accordo di modifica del contratto, che risale al 14 settembre 2018, è ancora più chiaro.
Il Sole 24 Ore ha avuto modo di leggere entrambi i documenti. E, a meno che non siano intervenute successive modifiche, dalla loro consultazione evapora ogni ambiguità. L’accordo che modifica il contratto dedica a ogni plausibile declinazione l’articolo 27. Il titolo è esaustivo: “Retrocessione dei rami d’azienda”. Quattro pagine fitte di fattispecie, sei paragrafi che definiscono ogni ipotesi.
«Nel caso in cui – si legge nel documento – con sentenza definitiva o con sentenza esecutiva (sebbene non de o finitiva) non sospesa negli effetti ovvero con decreto del Presidente della Repubblica anch’esso non sospeso negli effetti ovvero con o per effetto di un provvedimento legislativo o amministrativo non derivante da obblighi comunitari, sia disposto l’annullamento integrale del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 adottato ai sensi dell’art. 1, comma 8.1, del D.L. 191/2015, ovvero nel caso in cui ne sia disposto l’annullamento in parte qua tale da rendere impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto (anche in conseguenza dell’impossibilità, a quel momento di adempiere ad una o più prescrizioni da attuare, ovvero della impossibilità di adempiervi nei nuovi termini come risultanti dall’annullamento in parte qua), l’Affittuario ha diritto di recedere dal contratto».
Il linguaggio contrattuale dà forma verbale alla sostanza della questione: cambia il quadro giuridico generale, che rappresenta lo sfondo regolamentare su cui si è svolta l’asta internazionale che ha visto ArcelorMittal prevalere su Jindal, Arvedi, Leonardo Del Vecchio e Cassa Depositi e Prestiti? Viene cancellata la non punibilità per reati compiuti da altri, prima dell’arrivo del nuovo proprietario a Taranto? Arcelor Mittal restituisce le chiavi dello stabilimento. E, questo, con qualunque tipo di misura, di qualunque fonte normativa.
Ma c’è dell’altro. Sempre nell’addendum al contratto siglato il 14 settembre 2018 si legge: «L’affittuario potrà altresì recedere dal contratto qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano Ambientale come approvato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano Industriale».
UN’INCHIESTA A ROMA PER PRESUNTE INTERCETTAZIONI ABUSIVE. IL COINVOLGIMENTO RUSSIAGATE DI TRUMP. IL CASO BIJA. LA GUERRA AI VERTICI PER LE NOMINE. SONO GLI SCANDALI CHE FANNO TREMARE I NOSTRI 007 DI EMILIANO FITTIPALDI
Il grande caos all’italiana di fine 2019 sembra non risparmiare niente e nessuno. Fa traballare il neonato governo giallorosso di Giuseppe Conte, senza ossigeno a soli due mesi dalla nascita. Mo- stra le crepe profonde dell’economia nazionale, caratterizzata da crescita asfittica e crisi industriali che si trascinano insolute verso il burrone. Il disordine investe la maggioranza, i partiti, istituzioni e corpi intermedi e – secondo i pessimisti – rischia di risolversi in un solo modo: elezioni anticipate e vittoria della destra estrema di Matteo Salvini.
Dallo scompiglio non si salva nemmeno uno dei settori più delicati della Repubblica. Quello, cioè, dei nostri servizi segreti e delle autorità preposte alla sicurezza nazionale. Dal Russiagate di Trump alla vicenda dei trafficanti libici in visita nei ministeri, passando per le furiose guerre interne sulle nomine sino al coinvolgimento di pezzi da novanta dei nostri 007 nell’inchiesta su Antonello Montante, agenzie come Dis, Aisi e Aise (le ultime due monitorano rispettivamente la sicurezza interna e le minacce che arrivano dall’esterno) sembrano vivere uno dei momenti più delicati degli ultimi tempi.
«Il nostro core business, sia chiaro, resta solido: vantiamo ancora capacità ed eccellenze invidiate in mezzo mondo», spiega un’accreditata fonte interna. «Il problema è
che una crisi di sistema come quella che stiamo vivendo non può non avere rilessi anche su di noi. È come in uno specchio: siamo organismi che rispondono all’autorità politica. La debolezza dell’amministrazione, l’incapacità di comando e la selezione discutibile della nostra classe dirigente ha generato tensioni e trambusto».
MISTERO EXODUS
La situazione, ora, rischia di deteriorarsi ancora. A causa di alcune inchieste della magistratura. Su tutte, quella della procura di Roma sulla vicenda Exodus, un sistema spyware che una ditta di Catanzaro, la E. Surv, ha venduto anni fa a procure di mezza Italia per efettuare intercettazioni telefoniche attraverso l’inoculazione dei trojan nei cellulari degli indagati. Non solo: Exodus è stato acquistato anche dall’Aisi e dall’Aise.
Lo scorso maggio i pm di Napoli in un’inchiesta parallela hanno arrestato il proprietario della srl calabrese e il creatore della piattaforma informatica. Le accuse sono gravi: aver efettuato intercettazioni illecite su soggetti estranei a qualsiasi indagine penale e aver compiuto una frode in pubbliche forniture. Tutti i dati sensibili captati da Exodus sarebbero infatti finiti non all’interno di server protetti ubicati sul territorio nazionale – come previsto dai contratti con le procure e le authority – ma in un archivio segreto su un cloud Amazon in Oregon,
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Usa. Anche Vito Tignanelli e Maria Aquino, titolari della società STM che commer- cializzava Exodus per conto della E.Surv, sono stati indagati.
L’inchiesta dei colleghi di Roma sta invece cercando di capire chi e perché – nelle nostre agenzie di intelligence – ha voluto comprare il malware, e soprattutto se Exodus sia stato usato in modo illecito dai nostri 007 per spiare di nascosto obiettivi sensibili.
L’aggiunto Angelantonio Racanelli, presente il capo dell’ufficio “facente funzioni” Michele Prestipino, qualche settimana fa ha così deciso di sentire Luciano Carta, il generale della Finanza oggi numero uno dell’Aise. Sei mesi fa il capo dell’agenzia aveva già risposto con una lettera ad alcuni quesiti rivoltigli dall’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone andato poi in pensione, chiarendo che – almeno secondo quanto evidenziato dai documenti interni – il software-spia all’Aise non era mai stato utilizzato da nessuno.
Carta, per stilare la lettera, ha dovuto chiedere informazioni agli uomini che si erano occupati del dossier. Exodus, infatti, è stato acquistato tra fine del 2016 e l’inizio del 2017, quando il generale della Finanza era semplice numero due di Alberto Manenti. Le deleghe sui sistemi di sorveglianza interni e sulle intercettazioni preventive erano però in mano a Giuseppe Caputo, allora capo di gabinetto di Manenti e oggi attuale vicedirettore dell’Aise. Fu lui, d’accordo con l’allora direttore, a decidere di comprare Exodus. Anche perché la piattaforma, comprata per circa 350 mila euro con un versamento in contanti, era stata consigliata da Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, che in quel periodo aveva lasciato i Carabinieri per approdare all’Aise.
All’uomo che catturò Totò Riina Manenti e Caputo avevano subito affidato compiti importanti, dalla sicurezza degli accessi della sede romana al tentativo (fortemente sponsorizzato da Marco Minniti, allora sottosegretario a Palazzo Chigi con delega
Gennaro Vecchione, direttore del Dis, l’organismo di coordinamento dei servizi.
Nell’altra pagina: il presidente degli Stati Uniti Donald Trump
ai servizi) di pacificare le tribù del Fezzan per provare a chiudere le rotte subsahariane dei trafficanti di migranti. Ma la mansione primaria di De Caprio e dei suoi uomini (quasi tutti appartenenti al reparto dei carabinieri del Noe) era vigilare sulla sicurezza interna. Dunque guidare il reparto che deve investigare anche sulle possibili talpe che si nascondono tra le nostre barbe finte: Exodus fu preso anche perché i vecchi software forniti da Hacking Team non erano più utilizzabili.
Ora qualcuno in procura – nessuno è stato ancora iscritto nel registro degli indagati – teme che qualcuno dentro l’Aise possa aver efettuato intercettazioni abusive: le domande rivolte da Racanelli a Carta hanno riguardato proprio Exodus, e alla luce di quanto richiesto presto il direttore potrebbe fornire nuova documentazione sull’affaire.
Se le ipotesi investigative fossero fondate, il caso sarebbe ovviamente clamoroso. Fonti dell’intelligence e altre vicinissime all’inchiesta, però, evidenziano non solo che lo spyware Exodus non sarebbe mai stato usato dall’agenzia per la sicurezza esterna. Ma soprattutto che tutte le intercettazioni effettuate (con altri metodi e/o software senza bug) avrebbero tutte le autorizzazioni necessarie. In primis quella della procura generale della Corte d’Appello di Roma, guidata da Giovanni Salvi.
Ma come mai l’agenzia non avrebbe mai utilizzato Exodus per mesi nonostante i denari spesi? «L’Aise non ha mai usato Exodus per una ragione molto semplice: mancavano i prerequisiti tecnici», spiegano fonti qualiicate. Per dirla semplice, nel 2017 gli agenti degli affari interni e quelli dell’E. Surv che da contratto dovevano inoculare il trojan nei telefoni degli obiettivi (una volta innestato il trojan, gli uomini di Ultimo avrebbero dovuto remotizzare le informazioni in server sicuri), dopo aver avuto i decreti autorizzativi non sarebbero riusciti a iniettare Exodus nei dispositivi.
Un’operazione in efetti non semplicissima
IL PM CHE INDAGA SUL SOFTWARE EXODUS È RACANELLI. REGISTRATO DALLA GUARDIA DI FINANZA MENTRE PARLA CON PALAMARA SULL’AFFAIRE CSM
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ma, come dimostrato anche dall’ultima inchiesta sullo scandalo del Csm: il Gico della Guardia di Finanza riuscì ad infettare solo il cellulare di Luca Palamara, mentre gli altri indagati non aprirono l’Sms che nascondeva il virus, restando così immuni dalle intercettazioni ordinate della procura di Perugia.
Se gli accertamenti della procura dovessero confermare quanto già spiegato a suo tempo da Carta, generale stimato da tutto l’arco parlamentare, l’inchiesta sull’uso di Exodus in Aise potrebbe chiudersi presto. In caso contrario, Racanelli potrebbe presto chiamare in procura nuovi testimoni.
La questione resta delicata, e sono molti ad essere interessati allo sviluppo delle investigazioni. Nei servizi, al governo, ma anche dentro l’ufficio giudiziario di Roma, che aspetta ancora il successore di Pignatone. Anche perché il pm Racanelli – secondo qualcuno – rischia di essere in conlitto di interessi, perché suo fratello Paolo, nei mesi in cui Ultimo tentò di usare Exodus per incastrare presunte talpe interne all’agenzia, lavorava proprio nell’Aise.
Si racconta che i rapporti tra il fratello del pm e i suoi superiori, coloro dunque che sembrano essere al centro dell’indagine giudiziaria del congiunto, non fossero eccellenti. Non abbiamo certezze in merito. Ma è un fatto che lo 007 lasciò improvvisamente Forte Braschi nel 2017, per trasferirsi alla sede dell’Aisi di Bari. In Puglia è rimasto quasi due anni: oggi Paolo è tornato a Roma, in una sede del controspionaggio guidato da Mario Parente.
Anche quest’ultimo potrebbe presto es- sere chiamato a dare informazioni utili per chiarire se e come Exodus sia stato usato dai suoi agenti segreti: l’Aisi avrebbe infatti usato il software in dosi massicce. È necessario capire se dati sensibili siano finiti nel cloud in Oregon, e se informazioni chiave per la nostra sicurezza nazionale non siano state bucate da soggetti esterni senza autorizzazioni.
Vedremo. Di sicuro il pm Racanelli da qualche settimana è coadiuvato nell’inchiesta anche dall’aggiunto Paolo Ielo, che Prestipino ha voluto affiancare al titolare dell’indagine per rafforzare il pool. Una scelta non banale: grazie alla lettura di carte inedite risulta all’Espresso che proprio Racanelli a maggio fu ascoltato mentre discuteva con il collega Luca Palamara in merito a un esposto del pm Stefano Fava, che i magistrati di Perugia considerano essere stato scritto per danneggiare proprio Ielo. «Bisogna insistere per avere le carte, e incominciare a muovere le carte», dice Angelantonio a Palamara, furioso con Ielo perché aveva mandato gli atti su una sua presunta corruzione alla procura umbra. «La tua cosa in Prima Commissione (la sezione disci- plinare del Csm, ndr) rimarrà in stand by
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Foto: L. Mistrulli – Ag. Fotogramma, O. Douliery – Getty Images
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finché non si chiude il processo… questo è pacifico perché là non ci sono elementi… quindi secondo me la commissione non fa niente sulla pratica tua» spiega Racanelli (dimessosi a luglio da segretario di Magistratura indipendente subito dopo lo scoppio dello scandalo) all’amico. «Su quell’altra bisogna insistere… incominciare a convocare… perché così segnali…».
PATTO SCELLERATO
L’inchiesta sul malware Exodus non è l’unica che coinvolge i vertici dei nostri servizi. Divorati da guerre intestine per il potere e le nomine, da settimane le nostre barbe finte leggono e rileggono le motivazioni della sentenza con cui i giudici di Caltanissetta hanno condannato a 14 anni di carcere Antonello Montante, l’ex numero uno di Confindustria Sicilia che aveva – secondo il gup Graziella Luparello, «occupato, mediante corruzione sistematica e raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali». La sentenza cita anche due pezzi grossi dell’Aise, Mario Parente e Valerio Blengini, oggi numero uno e due dell’Aisi, che – interrogati dal gup in merito ad alcune fughe di notizie e un presunto tentativo di preservare un colonnello dei servizi (Giuseppe D’Agata considerato vici- nissimo a Montante) dall’inchiesta giudiziaria – avrebbero entrambi detto bugie ai giudici. «Blengini e Parente mentono sapendo di mentire
la carica riunisce quelle di ministro della Giustizia e Procuratore Generale
pendo di mentire», dice la Luparello. Per preservare «un patto scellerato, al quale potrebbe aver aderito, lo si afferma con grande desolazione, anche l’attuale direttore generale Mario Parente». Il gup è talmente convinta che i vertici del servizio interno non le hanno raccontato la verità che ordina, nei confronti di Blengini e il suo capo, la trasmissione degli atti alla procura nissena. Per valutare se i due abbiano compiuto o meno reati.
Il premier Conte, che ha mantenuto le deleghe sui servizi, segue i dossier che arrivano dalla magistratura con grande attenzione. Ma le sue preoccupazioni maggiori riguardano, in questi giorni, i possibili sviluppi del Russiagate americano. O meglio, del côté tricolore della vicenda, che rischia di tenere a lungo sulle spine sia Palazzo Chigi sia Gennaro Vecchione, che l’avvocato di Volturara Appula ha voluto fortemente a capo del Dis, il dipartimento che coordina i nostri servizi.
È noto che Conte ha chiesto al suo fedelissimo (e a Carta e Parente che si sono adeguati obtorto collo) di incontrare ad agosto e settembre il ministro della Giustizia William Barr. L’uomo che insieme al procuratore John Durham sta indagando sull’ipotesi che Donald Trump, accusato di essere stato aiutato dai russi nella campagna elettorale del 2016, sia al contrario vittima di un complotto ai suoi danni ordito da pezzi dell’Fbi e dai democratici, con l’aiuto di governi e servizi di alcuni paesi alleati.
Due incontri segreti di cui Conte non informò nessuno, nemmeno il Quirinale. Riunioni che alcuni giudicano fatto gravissimo («il premier ha venduto i nostri servizi a un governo straniero per ottenere il sostegno da Trump», attaccano le opposizioni), e che molti valutano quantomeno inopportuni, dal momento che Barr è un’autorità politica, e che i servizi possono scambiare informazioni solo con i loro omologhi.
Il presidente del Consiglio e Vecchione, interrogati davanti al Copasir, hanno minimizzato gli eventi, negando con forza che i nostri 007 abbiano girato a Barr informazioni sensibili sul presunto complotto. Sarà però fondamentale leggere il rapporto finale del Dipartimento di giustizia sui presunti abusi compiuti dal deep state Usa per azzoppare la campagna di Trump: se dovessero esserci particolari rilevanti sull’Italia che non collimassero con le dichiarazioni di Conte e Vecchione, le polemiche potrebbero tornare in prima pagina con efetti devastanti. E l’ipotesi già raccontata dal nostro settimanale di uno spostamento del generale a Palazzo Chigi come consigliere militare, con lo spostamento di Carta al Dis e la promozione di un interno come nuovo capo dei servizi esterni (Giovanni Caravelli è in pole position, Caputo pagherebbe la vicenda Exodus) prenderebbe di nuovo corpo.
«L’indagine di Durham (che ha cercato prove in Italia, Australia, Ucraina e Gran Bretagna, ndr) è molto importante, sento che è una delle indagini più importanti nella storia del nostro Paese», ha ribadito il presidente americano in settimana. Nel palazzo romano di Piazza Dante, nuova sede dei nostri servizi, si augurano che Trump e Barr, essendo alle prese con la procedura di impeachment per le presunte pressioni fatte al governo ucraino per danneggiare il rivale Joe Biden, bluffino. O che, quantomeno, il lavoro di Durham e dell’ispettore generale del Dipartimento di Stato Michael Horowitz alla fine non citi espressamente l’Italia. «Se fossimo coinvolti davvero nel rapporto sarebbe un disastro», spiegano dal Dis. «Anche perché oggi non possiamo permetterci distrazioni. Le nostre agenzie devono concentrarsi pancia a terra su fronti caldi, in primis sulla Libia e sui tentativi di riportare a casa i nostri concittadini rapiti all’estero», come Silvia Romano.
In questi giorni, inoltre, a creare ansia è pure il rinnovo automatico degli accordi con l’esecutivo di Al Serraj, firmati da Paolo Gentiloni e Minniti nel 2017. Mentre molti addetti ai lavori, tra cui il prefetto Mario Morcone, non si capacitano ancora di come abbiano fatto i nostri servizi a permettere che un guardacoste e trafficante di rango come Abdulrahman Al Milad detto “Bija”, potesse due anni fa arrivare in Italia per discutere di politiche migratorie con nostri funzionari. Tanto da essere immortalato con tutti gli onori in alcune fototografie pubblicate su “Avvenire” che hanno dato il via al caso.
A Palazzo Chigi sottolineano che le eventuali responsabilità politiche e quelle inerenti al “mancato controllo” siano da addebitare a chi c’era prima, e che Conte e i nuovi vertici da poco insediatesi nulla potevano sapere. Nessuno fa nomi a chi scrive, ma è facile immaginare che ad Alberto Manenti, ex capo dell’Aise, possano fischiare le orecchie. Per trent’anni nell’agenzia, di cui conosce a menadito strutture e segreti, Manenti – grande conoscitore dello scenario libico, vanta buoni rapporti sia con Al Sarraj sia con il rivale Khalifa Haftar – è tornato a sorpresa sulla scena pochi giorni fa. Quando ha prima incontrato il capo della Cia Gina Haspel in un albergo della Capitale vicino l’ambasciata di Via Veneto (di che hanno parlato? Dello spygate?), poi ha “portato” l’ambasciatore libico a Roma dal neo ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. A che titolo, resta un mistero.
Gli amici sostengono che Manenti sia così intraprendente solo per provare a dare qualche buon consiglio «dall’alto della sua grande esperienza», eppure nei servizi segreti e a Palazzo Chigi le mosse dell’ex numero uno non sono affatto piaciute. Non solo per l’eccessiva autonomia di un semplice pensionato: gli si rinfaccia pure un rapporto ancora troppo stretto con Caputo e legami con Leonardo Bellodi, ex capo delle relazioni istituzionali di Eni che lo scorso febbraio ha fondato il “Marco Polo Council”. Un think tank specializzato in intelligence che ha ottime entrature in Usa, Israele e Medio Oriente.
Il problema di fondo, però, resta uno sol- tanto: quando il caos indebolisce l’autorità politica, la confusione si riverbera automaticamente sulle istituzioni controllate. Dunque: o Conte riprende rapidamente il controllo saldo della barra del timone, o altri scandali porteranno la barca della no- stra intelligence verso scogli ancora più perigliosi. Q
IL PREMIER CONTE E IL DIRETTORE DEL DIS VECCHIONE ASPETTANO CON ANSIA LA PUBBLICAZIONE
DEL RAPPORTO BARR. CHE POTREBBE SMENTIRLI
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Foto: E. Ferrari – Ansa, S. Georges – The Washington Post via Getty Images
Dopo aver scritto molto sullo spazio e sull’incanto, è tempo di scendere sulla terra. Voglio tornare alla tesi centrale della geopolitica mentre la pratico: l’idea del determinismo geopolitico. Differisco dalle altre persone che scrivono sulla geopolitica in due sensi. Mentre considero la geografia come determinante fondamentale nel comportamento umano, non la considero l’unica determinante.
Per me, la filosofia greca è fondamentale nel definire cosa significa essere umani. Non sono sicuro che Platone o Aristotele avrebbero potuto scrivere in qualsiasi luogo tranne la Grecia, o in qualsiasi altro momento diverso da loro. Ma indipendentemente da quella domanda, siamo tutti, nella civiltà globale che è emersa, modellati in una certa misura da loro come dai momenti più alti di tutta la civiltà. Ma ciò non sarebbe potuto accadere senza l’imposizione europea di un sistema globale al mondo, quindi torniamo alla geopolitica. Il mio punto qui è che la geopolitica è molto più complessa e sottile della semplice realtà fisica del globo, ma anche che la sottigliezza del mondo circonda costantemente su quella realtà fisica.
Più controverso è che sono un determinista. Non credo che siamo modellati semplicemente da montagne e deserti, ma è evidente per me che ognuno di noi è modellato da entrambi i luoghi e dalle forze che emanano da un luogo. Nell’esempio più semplice, la vita di un indiano nato nei bassifondi di Mumbai è profondamente diversa dalla vita di un americano nato in un ricco sobborgo di Dallas come Highland Park. Entrambi sono vincolati. È improbabile che l’indiano diventi partner di un fondo di private equity. È improbabile che Highland Parker diventi un piccolo ladro. Il primo deve ricorrere al suo o ad altri modi di vivere correlati e tutto ciò che conosce, inclusa la cultura del suo quartiere povero, lo conduce lì. Allo stesso modo, Highland Parker vivrà una vita molto diversa. (Certo, dato che il furto fa parte della condizione umana,
L’esistenza dei bassifondi di Mumbai è modellata dalla terra, dal clima, dal surplus di persone e dall’esistenza minima di risorse. Tutto ciò pone dei limiti alla vita di qualcuno nato lì. L’esistenza di Highland Park è modellata dalla vastità e dalla relativa sottopopolazione del Texas, dal generoso flusso di petrolio e dagli investimenti effettuati nelle infrastrutture del Texas e nell’istruzione superiore a seguito di tale petrolio. Metti quelle condizioni e la ricchezza a Mumbai piuttosto che in Texas, e mentre le due persone potrebbero non cambiare posto, ognuna probabilmente avrebbe una vita diversa. Ai più ricchi piace dire che sei ciò che ti fai. Anche questo non è vero, dal momento che sei circondato non solo dalla ricchezza ma dalle aspettative culturali che ne derivano. Un individuo potrebbe sfuggire al suo destino, ma la probabilità statistica di divergenza è limitata.
Il luogo in cui sei nato ti permette di scappare. Mentre scrivo, sono a Dubai e sono circondato da una sottoclasse indiana composta da persone che puliscono le camere d’albergo e guidano i visitatori da e per l’aeroporto. Se qualcuno di Highland Park è qui, allora è probabilmente il destinatario dei servizi di questi indiani, come lo sono io. Non so da dove vengano, ma se non proviene dai bassifondi, probabilmente è vicino a loro. Il punto è che anche quando cambi il tuo posto nel mondo, lo cambi nei limiti di chi sei.
Andre Malraux, lo scrittore francese (e perdonami se mi ripeto, ma lo apprezzo molto), ha detto che gli uomini lasciano i loro paesi in modi molto nazionali. L’espatriato americano che ha imparato il bulgaro perfetto è ancora un espatriato americano che vive in Bulgaria. Puoi riconoscere uno studente americano nel suo ultimo anno all’estero, con la Columbia University blasonata nelle loro anime. Sono nato in Ungheria e quando torno in Ungheria, sciocco mia moglie per la rapidità con cui sono diventato ungherese anche se sono partito da bambino. Gli ungheresi, d’altra parte, sanno con ogni senso che sono americano, e quindi che dovrei essere venduto un diamante falso.
Il grado in cui le nostre vite e le nostre anime sono modellate da dove siamo nati e dove viviamo è sorprendente. Ho vissuto in un quartiere del Bronx e ho continuato a ottenere un dottorato. I portoricani con i quali vivevo e combattevo per la maggior parte non avevano idea del valore di un dottorato e non desideravano averne uno. Mi mancava la loro comprensione della strada ma avevano altri bisogni, che non riuscivo a capire. Non è ovvio quale fosse più importante. Ma i miei genitori furono modellati dalla prima metà del 20 ° secolo, dalla seconda guerra mondiale e dall’Olocausto. I portoricani furono modellati dai retroscena delle loro famiglie, spesso impoveriti, su un’isola tropicale. La loro immaginazione e appetito erano diversi dal momento della nascita, e così sono andato in un modo e in un altro, e non potevo immaginare nessun altro percorso – con importanti eccezioni da tutte le parti.
L’idea che il luogo non crei vincoli e imperativi che pochi possono superare è, penso, ingenuo. Questo è il fondamento del determinismo e non abbiamo problemi a immaginarlo nei mercati. In economia, si presume che tu preveda l’appetito o la repulsione di azioni buone o cattive. Ricevo infinite e-mail da consulenti che promettono di rendermi ricco (nota a margine: se qualcuno può accumulare una vasta ricchezza, perché mi sta spingendo per pochi soldi?). L’ipotesi è che i mercati abbiano un certo grado di prevedibilità. Ciò vale anche per l’interruzione del mercato. Il fondatore di Amazon Jeff Bezos ha capito cosa avrebbe fatto Internet e si è allineato con l’inevitabile.
Le nostre vite sono piene di previsioni. Quando scendi dal marciapiede con una luce “a piedi”, stai prevedendo che l’auto in avvicinamento si fermerà. Quando scegli la tua professione, stai prevedendo che soddisferà le tue esigenze. Quando sposate il coniuge, lo fate in base alle aspettative di felicità. Il fatto che ciò non si verifichi non cambia il fatto che la previsione è indissolubilmente legata all’esistenza umana.
L’argomento che sto formulando è duplice. Innanzitutto, è impossibile evitare le previsioni, ma maggiore è il rischio e la ricompensa, più le previsioni devono essere perfezionate. In secondo luogo, dal momento che il comportamento degli stati-nazione può darti la più grande ricompensa o rischio, è indispensabile prevedere il comportamento delle nazioni e perfezionare la previsione in una guida affidabile è indispensabile.
Sembra impossibile Ma per la maggior parte, l’auto in arrivo si ferma alla luce. La tua lettura della situazione è corretta. Allo stesso modo, sosterrò che è possibile prevedere come si comporteranno le nazioni, se si inizia con una comprensione di come le forze di quella nazione definiranno il comportamento degli individui. Il determinismo geografico può essere una forma di volgarità superficiale. Ma se fa parte di una comprensione generale del modo in cui gli umani vedono il mondo e le loro stesse anime, allora è possibile prevedere il movimento di 330 milioni di persone. Nel prevedere cosa faranno gli Stati Uniti, devi iniziare con il fatto che gli americani sono umani, che differiscono dagli altri umani in base a dove si trovano e che, come tutti gli umani, vivono imperativi e vincoli allo stesso modo.
Questa è la base del futuro geopolitico e quello che sto facendo. È imperfetto, ma lo sono tutte le cose. Non è una modellazione semplicistica basata sulla geografia. È un tentativo di considerare come la geografia della Grecia abbia forgiato i Greci, come i Greci abbiano creato un momento straordinario nel pensiero umano e come abbiano lasciato il posto a Roma.
Puoi prevedere, nel complesso e con eccezioni, la traiettoria della vita di qualcuno da dove è nato e da chi è nato. Puoi descrivere ciò in cui crederà, chi amerà e chi odierà. E mettendoli insieme, puoi vederli rompersi sotto pressione o stare a cavalcioni dei loro nemici. Potrebbe non essere perfetto, ma la vita è tutt’altro che casuale.
Vado da Dubai a Calgary a New York e Istanbul. Sono sicuro che esiste un filo conduttore che lo rende necessario e risale alle tribù Magyar a est dei Carpazi. Lo troverò.
Riflessioni da un punto di vista transalpino_Giuseppe Germinario
Nel Sahel, nella stessa settimana, un soldato francese è stato ucciso, gli eserciti del Mali e del Burkina Faso hanno subito diverse gravi sconfitte, perdendo più di cento morti, mentre cinquanta lavoratori civili impiegati in una miniera canadese massacrato in Burkina Faso, un paese in via di disintegrazione. Anche se la Francia annuncia di aver ucciso un importante leader jihadista, la situazione sfugge a poco a poco a qualsiasi controllo.
La realtà è che gli stati africani in fallimento non sono in grado di difendersi, il G5 Sahel è un guscio vuoto e le forze internazionali schierate in Mali usando la maggior parte delle loro risorse per l’autoprotezione, sul campo, fanno tutti affidamento i 4500 uomini della forza Barkhane.
oro:
1) Abbiamo interessi vitali nella regione che giustificano il nostro coinvolgimento militare? La risposta è no
2) Come condurre una vera guerra quando, per ideologia, ci rifiutiamo di nominare il nemico? Come combattere quest’ultimo, allora, facciamo come se fosse nato dal nulla, non appartenesse a gruppi etnici, tribù e clan ma perfettamente identificati dai nostri servizi?
3) Quali sono gli obiettivi del nostro intervento? Il minimo che possiamo dire è che sono “fumosi”: combattere il terrorismo attraverso lo sviluppo, la democrazia e il buon governo, mentre ostinatamente, sempre ideologicamente, minano o talvolta rifiutano prendere in considerazione la storia regionale e il determinante etnico che costituisce comunque le sue basi?
4) Gli stati africani coinvolti hanno gli stessi obiettivi della Francia? È lecito dubitare …
Il fallimento è quindi inevitabile? Sì, se non cambiamo rapidamente il paradigma. Soprattutto perché l’obiettivo primario del nemico è quello di causarci perdite che saranno sentite insopportabili dal pubblico francese.
In queste condizioni, come evitare l’imminente disastro?
Sono possibili tre opzioni:
– Invia almeno 50.000 uomini sul campo per incrociare e pacificare. Questo è ovviamente del tutto irrealistico perché i nostri mezzi lo vietano e perché non siamo più nell’era coloniale.
– Piega la nostra forza. Barkhane è in una situazione di stallo con possibilità di manovra sempre più ridotte, soprattutto a causa della proliferazione di mine poste sugli assi di comunicazione richiesti. Ma anche perché ora dedica una parte sempre più importante dei suoi mezzi alla sua autoprotezione.
– Infine, dai a Barkhane i mezzi “dottrinali” per condurre efficacemente la controinsurrezione. E sappiamo come farlo, ma a condizione di non metterci più in imbarazzo con considerazioni “morali” e ideologiche paralizzanti.
Questa terza opzione si baserebbe su tre pilastri:
1) Tenendo conto della realtà che la conflittualità sahelo-sahariana fa parte di un continuum storico millenario e che, come mostro nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri, non possiamo ambire con 4500 uomini a dirimere le questioni regionali iscritte nella notte dei tempi.
2) Dare priorità al focolaio principale del fuoco, vale a dire la questione tuareg che, nel 2011, era all’origine dell’attuale guerra. Infatti, se riusciamo a risolvere questo problema, asciugiamo i fronti di Macina, Soum e Liptako tagliandoli dai settori sahariani. Ma per questo, sarà indispensabile “torcere il braccio” alle autorità di Bamako dando loro un mercato in mano: o fai delle concessioni politiche e costituzionali reali al tuareg che si farà la polizia nella loro zona, oppure noi andiamo e lasciati coccolare per te stesso. Per non parlare del fatto che diventa insopportabile notare che il governo maliano tollera le manifestazioni che denunciano Barkhane come forza coloniale quando, senza l’intervento francese, il tuareg prese Bamako …
3) Quindi, una volta estinto il focolaio settentrionale e i Tuareg diventeranno garanti della sicurezza locale, sarà quindi possibile affrontare seriamente i conflitti nel sud non esitando a designare coloro che sostengono il GAT (gruppi armati terroristici) e armare e inquadrare coloro che sono ostili nei loro confronti. In altre parole, dovremo operare come gli inglesi hanno fatto in modo così efficace con il Mau-Mau del Kenya quando hanno lanciato contro il Kikuyu, matrice etnica del Mau-Mau, le tribù ostili a queste. Certamente, gli eterici sostenitori dei “diritti umani” urleranno, ma se vogliamo vincere la guerra e prima evitare di dover piangere i morti, dovremo attraversarla. Quindi, tieni presente che, come ha detto Kipling, “il lupo dell’Afghanistan sta cacciando con il levriero afgano”. Non sarà quindi più necessario denunciare le frazioni Fulani e quelle dei loro ex tributari che costituiscono il vivaio di jihadisti. Ma, allo stesso tempo, e ancora una volta, sarà necessario imporre ai governi interessati di proporre una soluzione di uscita ai Fulani.
Sarà quindi possibile isolare i pochi clan che danno combattenti al “GAT”, che impedirà il contraccolpo regionale. Il jihadismo, che afferma di voler andare oltre l’etnia fondandola in un califfato universale, sarà quindi intrappolato in scontri etno-centrici e potrà quindi essere ridotto ed eradicato. Rimarrà la questione demografica e quella delle elezioni etno-matematiche che ovviamente non possono essere risolte da Barkhane.
Collocate alla confluenza tra islamismo, contrabbando, rivalità etniche e lotte per il controllo di territori o risorse, le nostre forze colpiscono regolarmente le dinamiche locali e costanti. Tuttavia, il percorso della vittoria passa prendendo in considerazione e usando questi ultimi. Ma è ancora necessario conoscerli …
Una riluttante macchina per i media si è nuovamente conclusa con l’ultima offensiva turca nel nord della Siria. Ancora una volta, le emozioni e la moralità (politicamente corrette) soppiantano l’informazione fattuale e l’analisi politica, portando una situazione complessa allo stretto dualismo buono / cattivo, buono / cattivo, curdi / turchi … Le belle anime giuste gli hommist usano e abusano dell’anacronismo storico non esitando a descrivere la reazione non occidentale all’offensiva turca di “Monaco oggi”. Bernard-Henri Levy e i suoi complici moltiplicano le imposture intellettuali e il “bugiardo degli altipiani” – Caroline Fourest – ci presenta una clip alla gloria dei “combattenti” curdi, finanziata dai sostenitori israeliani. Non facile
Molti giornalisti, che stanno semplicemente localizzando la Siria su una mappa, stanno piegando le orecchie con l’autonomia di “Rojava”. Il Rojava? È il nome di un territorio “fabbricato”, le cui basi demografiche e storiche sono in gran parte fantasticate. Il 17 marzo 2016, le fazioni curde hanno proclamato il “Rojava”, un’entità “democratica federale” che comprende i tre cantoni “curdi”: Afrina, Kobane e Djezireh. Ma prima di considerare il “Rojava” come un’entità naturale, geografica se non eterna che sarebbe sempre esistita, dobbiamo fermarci un attimo sulla genealogia storica di questa denominazione per vedere meglio cosa copre.
CHE COS’È IL “ROJAVA”?
Il termine è usato da alcuni movimenti nazionalisti curdi per designare un’area geografica, storicamente popolata dai curdi, e inclusa nello stato siriano dalle autorità francesi dopo la prima guerra mondiale e lo smantellamento dell’Impero ottomano. In effetti, con l’accordo franco-turco del 20 ottobre 1921, la Francia si era annessa la Siria e aveva posto sotto il suo mandato le province curde di Djezireh e Kurd-Dagh. Le popolazioni curde lungo il confine turco occupavano tre aree strette separate (senza continuità territoriale): le regioni di Afrine, Kobane e Qamichli, motivo per cui alcuni autori non parlano di un “Kurdistan siriano” ma piuttosto di “Regioni curde della Siria”. Le tre enclavi curde estendono tuttavia i territori curdi di Turchia e Iraq.
Nella sua autoproclamata costituzione del dicembre 2016, il nome ufficiale di “Rojava” è accompagnato dalla seguente espressione: “Sistema democratico federale della Siria settentrionale”. Questo annuncio è stato fatto a Rmeilane dal Partito dell’Unione Democratica (PYD). Dal 2012 il Kurdistan siriano è controllato da varie milizie curde. Nel novembre 2013, i rappresentanti curdi hanno dichiarato di fatto un governo in questa regione, che ospita circa due milioni di persone.
Nel 2012, le autorità siriane sono costrette a inviare truppe principalmente ad Aleppo e nei dintorni di Damasco. Queste emergenze strategiche non consentono di proteggere l’intero territorio siriano, mentre l’insurrezione si sviluppa nelle città di Afrine, Kobane e Hassake. Dal 12 novembre 2013, il Kurdistan siriano ha il suo “autogoverno” autoproclamato. L’annuncio è stato fatto dal PYD, la sussidiaria siriana del Kurdistan Workers ‘Party (PKK) con sede in Turchia. Questa entità afferma di gestire “questioni politiche, militari, economiche e di sicurezza nella regione curda della Turchia e della Siria”.
Fatto unilateralmente dal PYD, questo annuncio non ha ricevuto l’accordo del Consiglio nazionale curdo, che lo rimprovera di “andare nella direzione sbagliata”. Da parte sua, il PYD risponde all’opposizione siriana non islamista di non aver fatto nulla per difendere le località curde attaccate dalla primavera da gruppi jihadisti come l’organizzazione dello “Stato islamico”, il Jabbath Front al-Nusra e Formazioni salafiste come Ahrar al-Cham. Infine, il PYD ha proclamato una “Costituzione del Rojava” il 29 gennaio 2014.
Come “Eretz-Israel” (Grande Israele), il “Rojava” è, quindi, una creazione politica e ideologica che rientra nell’auto-proclamazione delle organizzazioni politiche curde e non una geografia che si imporrebbe dal inizio dei tempi. Pertanto, dovremmo evitare di usare questo nome in modo errato e come se fosse il Polo Nord o Adélie Land!
IL “FDS”, COME IL KOSOVO KLA
Come hanno fatto in Kosovo alla fine degli anni ’90 con l’istituzione dell’UCK (Kosovo Liberation Army) – una banda di criminali e assassini che praticano il traffico di armi, droga e organi – i servizi speciali statunitensi hanno prodotto l’FDS, le “forze democratiche siriane” nell’est dell’Eufrate, principalmente da fazioni curde e filo-curde. Al fine di non prestarsi alle critiche a una tale “milizia confessionale” e di presentare, al contrario, un fronte multiconfessionale, i servizi del Pentagono hanno incluso negli “arabi” FDS, spesso combattenti persi, mercenari inizialmente impegnati in ranghi di Qaeda o Dae’ch.
L’architetto di questo esercito locale era il generale Joseph Votel che era il capo delle forze speciali statunitensi. Il 24 giugno 2014, il presidente Barack Obama ha nominato Votel al posto dell’ammiraglio William H. McRaven alla posizione di 10 °capo del comando delle operazioni speciali degli Stati Uniti. Questa nomina è stata confermata dal Congresso a luglio e il cambio di comando è avvenuto il 28 agosto. Joseph Votel è diventato il comandante di USCENTCOM il 30 marzo 2016. Il 23 aprile 2018, Votel ha effettuato la sua prima visita ufficiale in Israele come comandante di CENTCOM. Durante la sua visita, ha incontrato il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano – Gadi Eisenkot -, il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat e altri alti funzionari della sicurezza in Israele responsabili del monitoraggio della guerra civilo-globale della Siria.
Come comandante della CENTCOM, il generale Votel ha supervisionato la continuazione della “guerra al terrorismo” ufficiale, in particolare con la Joint Task Force Joint Operation Inherent Resolve contro l’ ISIS. in Iraq e Siria. Queste operazioni contro Dae’ch hanno visto la CENTCOM essere maggiormente coinvolta nelle guerre siriane e irachene. Di fatto, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, si trattava principalmente di rovesciare “il regime di Bashar al-Assad”, per usare l’espressione usata dalle agenzie di stampa parigine che designano il governo siriano.
LOTTA “ANTI-TERRORISTA” CONTRO BACHAR
Il 25 settembre 2017, il ministro degli Esteri siriano Walid Mouallem ha dichiarato che i curdi siriani “vogliono una qualche forma di autonomia nel quadro della Repubblica araba siriana. “Questa domanda è negoziabile e può essere oggetto di dialogo”, afferma. Questo tipo di dichiarazione e l’uso del termine “autonomia” è una novità per Damasco, ma allo stesso tempo annuncia la sua opposizione al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno “totalmente inaccettabile per la Repubblica araba siriana”.
Dall’apertura della crisi siriana nel marzo 2011, Washington e i suoi alleati hanno avanzato la lotta contro il terrorismo – guidato in particolare sostenendo varie fazioni curde – per rovesciare il governo siriano. Cercando di fare in Siria ciò che hanno applicato in Iraq, i funzionari statunitensi perseguono una pausa, una “divisione” del paese, modestamente chiamata “soluzione federale”, anche se nessuno crede nella volontà di Washington di trasformare la Siria in Confederazione Svizzera …
I media occidentali accusano abitualmente Damasco di aver deliberatamente rilasciato migliaia di jihadisti incarcerati per giustificare le sue operazioni militari. Ripresa da tutti i donatori di lezioni siriane, questa affermazione è un’assurdità assoluta, nella misura in cui questa richiesta era un requisito dell’Arabia Saudita per consentire ai rappresentanti dell’opposizione siriana – nominati e finanziati da Riayd – continuare a partecipare alle discussioni di Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Con la generalizzazione della guerra civile, gli Stati Uniti e la Francia hanno armato diverse unità dell’Esercito siriano libero (ASL), presentate come un’organizzazione di opposizione “moderata”, “secolare” e “democratica”. Diavolo! Nel corso dei mesi, l’ASL diventerà l’anticamera obbligatoria della maggior parte dei gruppi jihadisti più radicali impegnati contro l’esercito del governo siriano. Da parte sua, i servizi britannici finanzieranno la creazione di una strana ONG – i “White Helmets” – la cui missione ufficiale è di salvare i combattenti jihadisti. Col tempo, questi stessi “caschi bianchi” passeranno all’azione armata anti-siriana e al traffico di organi umani, così come i criminali dell’UCK del criminale di guerra Hassim Thaçi in Kosovo.
In una conversazione telefonica con Recep Tayyip Erdogan domenica 6 ottobre 2019, il Presidente degli Stati Uniti ha dato il via libera alle forze armate turche per entrare in Siria ad est dell’Eufrate e occupare tutto o parte del “Rojava”. Il Pentagono ha affermato che se gli FDS resistessero alle armi in mano, le forze statunitensi (che si sono stabilite su otto basi tra Kobane e Raqqa) si asterrebbero dal sostenerle. La partenza delle truppe americane dal nord della Siria è stata appena confermata. La Francia ha ancora cinque mini-basi militari a Rojava, praticamente accoppiate con basi statunitensi. Sarà sola con l’esercito turco prima di essere costretta a ritirarsi in Iraq?
Dal 2013, Mosca convoca Washington per trasmettervi l’elenco delle cosiddette fazioni ribelli “moderate”, “secolari” e “democratiche”, al fine di stabilire un migliore coordinamento antiterroristico. In effetti, i servizi americani non hanno mai voluto o potuto trasmettere questo famoso elenco perché le organizzazioni terroristiche sostenute dai paesi occidentali, quelle del Golfo e persino Israele, risultano essere le più radicali in termini di fondamentalismo religioso.
Il 26 settembre ad Ankara, in occasione del vertice tripartito dei presidenti turco, iraniano e russo, è stato deciso di istituire corridoi umanitari al fine di risparmiare la popolazione civile dalla tasca di Idlib (a ovest di Aleppo). Dopo il vertice, Mosca informò le autorità di Damasco dell’imminente attacco di Ankara, dicendo che era il modo migliore per riportare il PYD nei ranghi e riprendere il controllo – alla fine – di questo lungo tratto di territorio lungo il confine turco da Aleppo a Deir ez-Zor (nell’estremo oriente del paese). Per diversi anni, il Cremlino non ha disperato di una stretta di mano tra Recep Tayyip Erdogan e Bashar al-Assad. Siamo ancora lontani da ciò, ma questo rimane uno degli obiettivi della diplomazia russa.
Da parte sua, Teheran si oppone risolutamente all’operazione turca, pur avendo cura di non aggiungere ulteriori atti ad essa per non compromettere l’ottimo livello delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Il grande perdente in questa vicenda è Donald Trump, che dopo aver dato il via libera a questa nuova operazione militare, ora offre … la sua mediazione. Per quanto riguarda la Corea del Nord e l’Afghanistan, non è vinto! Tuttavia, i massimi esperti del Pentagono e del Partito Repubblicano hanno condannato la decisione della Casa Bianca e riconoscono che in Siria gli Stati Uniti hanno perso la partita, poiché perderanno anche in Yemen grazie o piuttosto a causa della disattenzione dell’alleato saudita.
La debolezza e l’isteria americane mettono in luce la forza silenziosa dell’orso russo, che sta emergendo come il vincitore di questa nuova resa dei conti. In Medio Oriente, come altrove, l’impero sta gradualmente svanendo e lasciando il posto al suo grande avversario strategico, anche se la strada sarà tutt’altro che una passeggiata per Mosca …
I KURDES NON HANNO PARIGI GRATUITI!
In breve, non si tratta di decolorare Ankara e cadere, a nostra volta, in un contro-dualismo altrettanto assurdo di quello che abbiamo sottolineato nel preambolo. No, vale anche la pena ricordare che i servizi segreti turchi hanno partecipato alla nascita dell’organizzazione “Stato islamico” ( Dae’ch ) in Siria dal 2014 al 2016, colpevole di numerosi attacchi mortali. Fedele ai comandamenti dell’ideologia della Fratellanza Musulmana, lo stesso Recep Tayyip Erdogan ha ripetutamente parlato a favore del rovesciamento del “regime di Bashar al-Assad”, incredulo agli occhi della via turca sunnita. Ankara ha continuato a giocare la carta dell’apertura delle porte dei migranti contro i paesi europei e continua a farlo.
Nonostante una sessione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – organizzata su richiesta della Francia – ma che non ha dato nulla, perché l’Unione europea (UE) non infastidisce – puramente e semplicemente: qualsiasi tipo di discussione sull’adesione della Turchia all’UE è sempre più improbabile? Perché la NATO non sta prendendo provvedimenti per condannare chiaramente l’attacco unilaterale di uno dei suoi principali stati membri? Perché non sono previste sanzioni economiche per rispondere al colpo di stato di Ankara?
Storicamente molto mal consigliato – come notato da Alain Chouet (vedi ORIENT-ATIONS) – Donald Trump non avrebbe dovuto essere sorpreso dal fatto che i curdi non combatterono sulle spiagge dello sbarco alleato il 6 giugno 1944 – il Papuani, pigmei e yanomami, i bastardi! – d’altra parte, avrebbe potuto ricordare che diverse fazioni e popolazioni curde hanno partecipato al genocidio armeno dall’aprile 1915 al luglio 1916, nonché alle recidive nel 1923! Pertanto, non ci lasceremo confinare al pianto dei curdi che sarebbero le vittime eterne della storia. Certamente, legati a difficili battute d’arresto militari, i loro successivi fallimenti sono anche e soprattutto il frutto dei loro leader politici in primo piano quali quelli delle unità di protezione del popolo (YPG),
Infine, come prendere sul serio lo scrittore francese Patrice Franceschi e la sua isterica difesa dei curdi quando vediamo che indossa con orgoglio – sopra la tasca sinistra della sua uniforme da ufficiale di riserva – le insegne del Paracadutisti israeliani !!! Non è solo una colpa del gusto, ma anche un grave ostacolo al codice militare che vieta tale uso delle insegne di un esercito straniero. Inoltre, e prima di unirsi agli interessi del regime di Tel Aviv, questo scrittore-ufficiale dovrebbe invece concentrarsi sugli interessi vitali del suo paese. Comprenderebbe che nel Vicino e Medio Oriente gli interessi di Israele non corrispondono necessariamente a quelli dell’eterna Francia …
L’atterraggio dell’aereo è ben eseguito ma brusco, senza nessun riguardo
per gli ammortizzatori del carrello. Quando esco, una mattinata soleggiata mi accoglie all’aeroporto di Rostov sul Don. Mi rendo conto che la mia pesante giacca invernale è fuori luogo, per adesso, anche se siamo a metà ottobre nella grande città del sud della Russia alle porte del Caucaso. Siamo nell’area che storicamente apparteneva ai cosacchi del Don e l’aeroporto è intitolato all’Ataman cosacco Anatolj Solovjanenko. I cosacchi del Don hanno protetto il confine sud della Russia fin dai tempi di Pietro il Grande. L’aeroporto rimodernato per i mondiali di calcio è uno dei più importanti di tutta la Russia; collega la città di Rostov, circa 3 milioni di abitanti, con moltissimi altri centri dello stato-continente federazione di Russia. Già vedere la modernità delle struttura aeroportuale mi aveva fatto affiorare il ricordo di tanti articoli letti sui media atlantici di una Russia retrogada che si sostiene a forza di vendite di armi e gas. Ma la discrepanza tra questo teatro mediatico e la realtà è aumentata a dismisura nelle 4 ore buone di macchina tra Rostov ed il confine con la Repubblica di Donetsk. Una distesa ininterrotta di migliaia di ettari di campi arati da trattori enormi e dall’aspetto moderno. Ricchi villaggi con case rinnovate o costruite recentemente dai tetti rossi fiammanti indice di una ricchezza diffusa tra gli imprenditori agricoli e tutto l’indotto che ruota intorno al settore.(1)
Un periodo d’oro per l’agricoltura in Russia che ha portato il paese a rivaleggiare con il Canada come esportatore di grano e renderlo nel 2017 il terzo produttore assoluto dopo Cina ed India di cui la produzione però si riversa per gran parte sul mercato interno. Gli Usa hanno una produzione di grano pari a poco più la metà di quella Russa.
La produzione cerealicola è solo la punta di diamante di una produzione agricola che sta conoscendo crescita in tutti i campi dal settore dell’allevamento per passare da quello ortofrutticolo e che grazie alle sanzioni dei paesi occidentali ha avuto sviluppo anche il settore di trasformazione di questi prodotti di base. Copie di formaggi francesi ed italiani sono ormai reperibili a buon mercato negli alimentari delle grandi città. Certo copie spesso non comparabili agli originali ma comunque produzione che prima del 2014 non trovava ne spazi ne incentivi da parte dello stato.
Uno dei maggiori incentivi sono sicuramente i bassi prezzi del carburante
che qui per i privati sta a 64 centesimi di euro al litro.
Questo balzo in avanti del paese nel settore agricolo è uno dei grossi successi della politica di Putin. La battaglia del grano vinta dallo “Zar” ha nel porto fluviale di Rostov uno degli importanti centri di smistamento. Qui le enormi chiatte smistano i carichi nei mercantili, che attraversando il mare di Azov e il ponte dello stretto della Crimea di Kerch, portano il grano russo nel Mar Nero e da lì nelle varie zone del mondo.
Il grano usato come strumento geopolitico, se si pensa che sia Venezuela che Siria hanno avuto accesso agevolato a questa risorsa. Strumento stabilizzante della politica russa in quei paesi.
Ma non solo, Egitto ed altri paesi arabi nelle loro crisi cicliche di aumento di prezzi alimentari sanno in caso di necessità di potersi rivolgere ad un altro interlocutore che non siano USA e Canada.
Questo aspetto della politica estera Russa viene volutamente censurato dai nostri media. In viaggio su strade provinciali non sempre perfette in questa grande regione del sud della Russia europea, mi rendo conto con i miei occhi di quanto sia grande questa trasformazione e la ricchezza che essa produce. Il traffico è intenso, soprattutto di grandi automezzi e appena passiamo un centro abitato è un susseguirsi di bar, trattorie, bancarelle; segno di opportunità di commercio continue nella zona. Il conducente che mi sta portando al confine con la Repubblica Popolare di Donetsk,mi fa presente che la terra di Rostov è un po’ inferiore come qualità a quella della repubblica in quanto più argillosa. Facendo la tara sul patriottismo locale, deve essere vero; le enormi zolle sui campi testimoniano una terra che ha bisogno di trattori di massima potenza, come testimoniano la popolarità dei trattori Zavody, CNH -Kamaz sui campi, esemplari giganteschi che emettono una visibile scia di fumo.
Con il passare delle ore ci avviciniamo al posto di confine Ustinovka. Si iniziano a vedere monumenti ai caduti della seconda guerra mondiale, ricordo dei sanguinosi scontri avvenuti oltre 70 anni fa. Dalla strada appaiono ben curati; la politica di Putin ha sempre sottolineato il significato unificante della “grande guerra patriottica”, definizione riattualizzata dopo il golpe in Ucraina e la guerra in Donbass.
L’obiettivo dei nazisti ieri e della Nato oggi erano e sono gli stessi: lo smembramento dell’immenso territorio dell’ex URSS vero continente minacciato dagli artigli del neoliberismo.
Il più importante di questi monumenti è il mausoleo di Matveyev Kurgan, posto su una altura strategica sul fiume Mius, su cui si incerniò una importante linea di difesa tedesca, avendo la bassa collina un valore strategico, dominando essa quel tratto di pianura del sud della Russia.
Decine di migliaia di anime russe sono sepolte su questi campi di grano tra i papaveri rossi come recitava in una sua canzone De Andrè.
Lo stato russo sta rinnovando radicalmente il mausoleo che diventerà un importante museo sulla guerra.
Segno di finanze statali non proprio malmesse e non potrebbe essere altrimenti visto che la Russia si appresta a superarci come riserve auree, continuando a vendere titoli di stato statunitensi per acquistare tonnellate di oro.
In realtà essendo le nostre riserve auree depositate all’estero, il nostro controllo su di esse è meramente teorico, specialmente in un paese occupato come l’Italia; ma questa è un argomento che esula da questo articolo.
Ritornando ai dati economici della Russia, per me rimane un mistero come persona di buon senso, come un paese che ha un tasso di disoccupazione stabile sotto il 5% (4,5 2019), una inflazione che sta andando sotto il 5% nel 2019 viene costantemente additata come economia debole dipendente dal petrolio. Ma sono una persona di buon senso e non un economista quindi non percepisco la realtà come si deve ed a volte mi viene il dubbio che i dati economici siano un tantinello usati come una coperta corta, tirata a coprire le convenienze del potere.