Stati Uniti, NATO e Unione Europea! L’illusione di un addio, il miraggio dell’autonomia_di Giuseppe Germinario

Gli alti lai hanno raggiunto alla fine l’Olimpo; sono riusciti a smuovere la magnanimità dell’Onnipotente. Per quattro anni gli orfanelli hanno smarrito la guida; hanno dovuto sopportare smarriti le bizze dell’impostore. Hanno avuto davanti a sé l’uscio maliziosamente socchiuso verso le incertezze della libertà; non dovevano far altro che liberarsi dei guardiani arcigni, ma privi di una guida. Non hanno nemmeno avuto il coraggio di sbirciare il nuovo mondo dai pertugi. Hanno tramato invece per il ritorno del vecchio padrone aspirando nient’altro che al ripristino delle sicurezze di una strada obbligata scelta da altri. Joe Biden, il nuovo messia, li ha accontentati prontamente. Ha indicato loro la strada obbligata con piglio fermo e modi cortesi; ma la direzione indicata non è proprio la medesima percorsa per trenta anni. Biden, però, impersona più l’umanità e le debolezze delle divinità greche, che la purezza del dio cristiano; il prezzo chiesto agli alleati è stato quindi piuttosto salato e guidato da una tattica levantina.

I recenti vertici del G7 e della NATO tenutisi a giugno non possono infatti essere considerati nella ordinaria routine diplomatica.

Il G7 ha certamente assunto la funzione politica di allineare preliminarmente il gruppo di paesi determinanti per lo svolgimento degli indirizzi; nella divisione dei compiti ha assunto il compito politico-culturale di offrire nuovamente al mondo, in particolare nelle zone critiche di competizione con la Cina e la Russia, il modo di vita, i valori e la generosità occidentali. Ben più corposi i due vertici successivi della NATO e con Putin.

Mi ero ripromesso di scriverne a ridosso. Non è stato possibile, ma il tempo trascorso non è passato invano.

Tra la piaggeria e il lirismo prevalenti, non sono mancati commenti e analisi più avveduti; tra questi la constatazione che nell’assemblea NATO i diversi punti di vista, gli interessi strategici potenzialmente divergenti hanno spinto l’egemone statunitense ad una salomonica divisione dei compiti tra gli alleati eurorientali impegnati a sostenere gli USA nel fronteggiare la Russia e i fondatori originari, in particolare Italia, Francia e Germania impegnati nel loro sostegno ai propositi americani di arginare la Cina nel Pacifico con alcune varianti legate al comportamento britannico. In pratica una fotografia se non una interpretazione sin troppo letterale del contenuto dei colloqui e dei testi finali concordati.

Eppure quei documenti, i finali ed i preparatori, in particolare quelli della NATO, rivelano qualcosa di ben più complesso ed articolato.

LA NATO, QUESTA (S)CONOSCIUTA

Già soffermandosi sulla constatazione “fotografica” dei testi non è sufficiente ricondurre la dicotomia (schizofrenia?) al classico schema delle divisioni e differenze tra alleati senza considerare quindi l’acceso conflitto e le incertezze ormai, con l’uscita di Trump, tutte interne alla amministrazione americana in primo luogo, ma anche in particolare e in subordine in quella francese.

Una prima chiave di interpretazione di questa complessità la si trova in alcune frasi apparentemente anodine a partire da pag 77 del documento preparatorio dell’Assemblea NATO*: “a partire dal 2014 la NATO ha adattato con successo le proprie strutture militari e la propria postura di potenza. Continua a farlo alla luce delle nuove sfide (Depuis 2014, l’OTAN a adapté avec succès ses structures militaires et sa posture de forces. Elle continue de le faire à la lumière des nouveaux défis.)”; ancora: “tuttavia il braccio politico della NATO che permette al segretario generale e all’Organizzazione stessa di adattarsi e posizionarsi in un ambiente securitario in rapida trasformazione, deve ancora evolvere (Cependant, le bras politique de l’OTAN, qui permet au secrétaire général et à l’Organisation ellemême de s’adapter et de se positionner dans un environnement de sécurité en rapide transformation, doit encore évoluer).

La riproposizione in ambito NATO della pratica funzionalista brillantemente adottata nell’ambito della Unione Europea.

Niente di originale in un caso come nell’altro. Tutto rientra da sempre nei normali canoni dell’azione politica dei centri decisionali più avveduti capaci di occupare i posti chiave, di innescare le inerzie degli apparati e di creare una situazione di fatto propedeutica alla sanzione politica o quantomeno in grado di contrastare e rendere improbabili eventuali scelte alternative. Nella fattispecie imporre di fatto con un livello di integrazione addirittura maggiore quello che gli statunitensi non riuscirono a sancire per decisione esplicita negli anni ‘50 con la CED (Comunità Europea di Difesa).

Il filo conduttore del documento è sin troppo chiaro ed esplicito e si traduce in pochi indirizzi strategici della NATO:

  • deve affermarsi sempre più come un centro di decisione politica in quanto detentrice della forza militare;

  • deve diventare una sede privilegiata di incontro, di consultazione e di coordinamento non solo dei ministri della difesa, ma anche degli esteri e degli altri ambiti che abbiano implicazione con la difesa e la sicurezza della alleanza e dei singoli appartenenti, in particolare la ricerca scientifica, le comunicazioni, l’energia; devono essere ulteriormente rafforzati i legami e il coordinamento con le strutture della UE (Unione Europea);

  • deve decidere, operare e comunicare in maniera univoca evitando progressivamente sovrapposizioni delle altre istituzioni nazionali e comunitarie concorrenti sino a curare la stessa formazione culturale e tecnica del personale e dei collaboratori nonché dell’ambiente operativo;

  • deve agire statutariamente in ambiti operativi e spazi geopolitici più ampi e globali rispetto a quelli fondativi della fase bipolare di confronto sul fronte occidentale con la Unione Sovietica ipotizzando, anche se non ancora esplicitamente, l’allargamento ad una “NATO mondiale” e praticando l’estensione dei rapporti di collaborazione;

  • deve stabilire una linea di comando più efficace che superi su più temi l’obbligo della unanimità nelle decisioni, che attribuisca maggiori poteri al Segretario Generale, compresa la maggiore autonomia nell’utilizzo delle risorse disponibili e la verifica della effettiva esecuzione delle decisioni, che stabilisca tempi certi nelle decisioni, che attribuisca infine al Comando Generale maggiori poteri nella preparazione degli interventi in situazioni di emergenza anche in anticipo e propedeutici alle decisioni politiche.

Una chiarezza, una puntualità ed una sicumera inedite ampiamente corroborate e indotte da due situazioni:

  • la progressiva affermazione pratica e ormai sempre più adozione concettuale del modello di guerra ibrida e in subordine asimmetrica che estende compiutamente il classico confronto militare diretto con armi da fuoco ai più diversi ambiti e spazi dell’agire umano e lo “diluisce” di fatto nell’ambito del più generale confronto geopolitico; una dinamica innescata inesorabilmente dall’avvento dell’economia industriale e resa organica dalle nuove potenzialità tecnologiche e dalla capacità operativa e di influenza delle grandi potenze. Un modello che implica un salto qualitativo della visione strategica e della capacità operativa e una mole immane di risorse necessarie;

  • l’accelerazione ormai trentennale dei processi di integrazione militare, innescata dalla prima Guerra del Golfo, proseguita con l’allargamento delle adesioni all’Allenza Atlantica e non ancora compiuti. Una integrazione che ha riguardato il rapporto tra le forze territoriali e le unità mobili centrali, l’integrazione e velocizzazione delle reti di mobilità e comunicazione, l’integrazione delle reti energetiche, quella dei centri di comando e la creazione di centri operativi e logistici (17?) a direzione NATO nei diversi ambiti compreso quello tecnologico. Tutti processi che stanno svuotando di fatto la capacità e le prerogative dei singoli stati nazionali europei in materia di difesa e di influenza geopolitica.

In questo quadro vengono definiti i punti dichiarati di attacco dell’alleanza: quello in atto contro la Russia, dovuto bontà loro al carattere estremamente aggressivo sul fronte europeo pur riconoscendo capacità operative non comparabili con quelle della Unione Sovietica; quello in divenire con la Cina, paese le cui ambizioni vanno contenute ma con il quale ci sono margini di trattativa e collaborazione.

In sintesi, più che l’individuazione pur indispensabile degli avversari colpisce, a parere dello scrivente, il tentativo articolato di allargare ed approfondire il campo di azione e le prerogative “statuali” su base oligarchica di una alleanza sino ad ora statutariamente definita “militare” e basata nominalmente sulla pari dignità degli aderenti. Non a caso prendono piede proposte tali quali la costituzione di una DARPA atlantica, di una agenzia quindi in grado di sviluppare l’uso civile e militare delle applicazioni tecnologiche frutto della ricerca scientifica con tutto quello che ne consegue nei rapporti con le università e con gli apparati industriali; l’uso ventilato delle forze militari a fini di sicurezza interna nei paesi dell’alleanza in risposta alle minacce del terrorismo, ma anche di fenomeni politici emergenti.

L’esigenza di rispondere tempestivamente alle dinamiche multipolari sempre più complesse e imprevedibili sono certamente un impulso potente all’accentramento politico. Un proposito più facilmente perseguibile in una struttura chiusa come la NATO nel quale il personale è selezionato sulla base della fedeltà alla missione. Più complicato e meno dissimulabile nelle intenzioni reali e nelle contraddizioni intrinseche quando deve essere adottato coerentemente dai paesi e dagli stati nazionali europei.

Su questo ci offre lumi particolari il documento conclusivo dell’assemblea, altrettanto articolato di quello preliminare; meno compassato, decisamente più pervaso piuttosto da enfasi propagandistica ed ideologica.

A prima vista ha colpito il furore con il quale si scaglia contro il pericolo ru(o)sso, reo di revanscismo, di militarismo, di autoritarismo ai danni delle democrazie dei paesi vicini; una sfrontatezza tale da rimuovere e ribaltare la realtà della delusione della fine dello spolpamento della Russia, dell’aggressività continua perpetrata ai suoi danni, dell’impronta russofoba dell’adesione alla NATO e alla UE dei paesi dell’Europa Orientale, dei colpi di mano perpetrati in Ucraina ed altri paesi; in particolare della rimozione vergognosa della questione del trattamento riservato alle popolazioni russe e russofone rimaste intrappolate nei nuovi stati frutto dell’implosione dell’URSS, tanto più grave in quanto perpetrata dai sedicenti paladini dei diritti umani.

Del tutto ignorato al contrario l’insolito lirismo, un vero e proprio panegirico di numerose pagine, riservato al decisivo contributo offerto dalla UE e dalla sua Commissione al processo di integrazione intensiva e allargamento della NATO. Un cappello addirittura imbarazzante nella sua evidenza tale da mettere in dubbio impietosamente l’immagine di relativa autonomia politica costruita intorno alla costruzione europea. Un florilegio che manca il punto qualificante e più paradossale di questo altruismo comunitario: quello dell’apprezzamento di un documento della Commissione Europea sulla politica estera e di difesa autonoma europea che prevede la costruzione di una forza militare per le missioni estere, in realtà di supporto e che ignora del tutto la creazione di una forza militare autonoma posta a difesa dei confini territoriali europei.

“Italia e il Mondo”nel proprio piccolo, grazie in particolare agli articoli di Luigi Longo, ha cercato di smontare nel merito questa immagine sottolineando in particolare la coincidenza dei progetti infrastrutturali europei con gli interessi strategici e di riorganizzazione della NATO; ci stanno ora pensando in grande gli stessi artefici principali della costruzione europea a demolirla assieme al giocattolo stesso. Un gioco rischioso che intanto di fatto mette in imbarazzo e erode ogni sponda a quella componente europeista, di impronta radicale e progressista, che fonda la propria fedeltà al progetto sul carattere endogeno della formazione e sul potenziale offerto di autonomia politica dell’istituzione rispetto a tutte le grandi potenze, compresi gli stessi Stati Uniti.

LO STATO dell’ARTE

Un gioco rischioso appunto, che rischia di creare problemi ben più gravi di quanti ne possa risolvere, ma non per questo meno sagace ed articolato.

Gli Stati Uniti, i loro centri decisori in particolare, hanno diversi problemi strategici di fondo da risolvere:

  • la individuazione e la scelta del nemico principale da affrontare con una strategia coerente. Questo nemico sta diventando oggettivamente la Cina in uno scenario nel quale sta emergendo e riemergendo l’intraprendenza di numerosi attori regionali ed alcuni “quasi globali”, come la Russia; in una situazione però nella quale gli Stati Uniti hanno grosse collusioni e interdipendenze nella Cina stessa e della cui ascesa a potenza sono di fatto uno dei principali responsabili assieme alla geniale abilità della classe dirigente mandarina;

  • il baricentro politico e militare statunitense è orientato ancora prevalentemente in Europa, area da cui trae la maggiore forza politico-economica e la maggiore capacità pervasiva; lo rimarrà per altro ancora per molto tempo. La resilienza ormai settantennale di questo enorme coagulo di potere ha consentito la formazione di potenti ed imprescindibili centri decisionali e di apparati di potere in grado di condizionare e decidere degli orientamenti e dello scontro politico interno agli Stati Uniti, come si è visto apertamente durante i quattro anni di presidenza Trump; centri difficili da scalzare, ridimensionare e riorientare a seconda delle necessità e delle condizioni;

  • gli Stati Uniti dispongono, in termini relativi, non assoluti, di una minore quantità di risorse materiali e umane rispetto ai numerosi fronti che si stanno aprendo e al peso degli avversari in lizza ferma restando la ancora sostanziale superiorità tecnologica, economica ed operativa. Sono ancor meno in grado di sostenere più di un confronto militare diretto e di gestire soprattutto l’esito dello scontro;

  • gli Stati Uniti, sfortunatamente per i loro centri decisori ancora prevalenti, fortunatamente per il resto del mondo, stanno vivendo una situazione interna nella quale gran parte, forse la maggioranza della popolazione è nettamente contraria ad ulteriori impegni militari diretti sul terreno e dotata di una superiore consapevolezza, rispetto agli europei, delle implicazioni interne della collocazione e delle scelte geopolitiche del paese. Questo grazie soprattutto alla evidenza e alla violenza dello scontro politico in atto, alla pesantezza in termini di squilibri delle conseguenze delle dinamiche concrete della globalizzazione; alla formazione infine di una sorta di platea magmatica particolarmente inquieta e manipolabile sempre più legata ad una visione assistenziale dei diritti.

In tale contesto, in attesa che lo scontro politico interno, nient’affatto sopito, si delinei e risolva più chiaramente, nella sua sostanza quindi sciolga il dilemma tra una delimitazione della propria sfera d’influenza accettando la condizione multipolare oppure la conferma della propria ambizione egemonica mondiale, ai centri decisori americani non resta che rifugiarsi sempre più nel modello egemonico britannico del secolo XIX teso a giocare sulle rivalità e a creare un equilibrio nel quale fungere da arbitro-giocatore senza eccessive esposizioni militaresche.

Da questo punto di vista il gioco europeo assume caratteristiche particolarmente complesse e sofisticate; di questo vissuto si alimenta anche la Alleanza Atlantica.

ESEMPI DI PERVICACIA

Le dinamiche in corso, compreso il manifesto programmatico appena illustrato, accrediterebbero la parvenza di autonomia istituzionale e di esercizio di sovranità della NATO; un accredito sempre in voga tra i fautori e gli esorcisti del governo mondiale.

Niente di più ingannevole.

La NATO rimane una alleanza militare con precise gerarchie interne attraverso le quali la potenza egemone americana esercita uno stretto controllo sugli alleati; le uniche libertà che possono esercitare entro certi limiti i paesi subalterni sono quelle di astenersi dalle azioni, ma mai e poi mai di agire in contrasto.

Si tratta però di un esercizio molto sofisticato, dai meccanismi assunti ormai quasi naturalmente e dove l’uso dell’imposizione esplicita pende sulla testa, ma solo come estrema ratio; un esercizio che agisce soprattutto per vie interne o sfruttando i dualismi presenti in un continente così affollato e variegato o ancora attraverso il sistema di relazioni bilaterali dirette.

Già di per sé sarebbe sufficiente osservare la localizzazione della sede di comando militare (Norfolk-USA) e il centro di elaborazione strategica della NATO e a chi deve rispondere direttamente il comandante militare.

Per chi non dovesse accontentarsi vi sono numerosi esempi di tecniche avvolgenti a conforto:

  • si parla di creare un complesso industriale-militare europeo a sostegno delle forze militari europee con il patrocinio della UE ed un primo significativo sforzo di 17 miliardi di euro? Arriva la batteria di paesi filogermanici che riescono a ridurre l’investimento a 7 miliardi e la cancelliera Merkel che esorta ad essere “inclusivi” e ad inserire le industrie americane nel pool;

  • alcuni paesi europei si avventurano a creare con successo un sistema di posizionamento satellitare simile e più efficiente del GPS (Galileo)? Il bon ton non consente sgarbi e dinieghi di principio; il prezzo dell’accoglienza è però il divieto di utilizzo del sistema a fini militari;

  • qualcosa di analogo accade con AIRBUS, nato con la contrarietà della Commissione Europea, sviluppatosi per altro quasi esclusivamente nel settore civile, incappato nello spionaggio industriale americano grazie alla posizione equivoca del proprio ex-amministratore delegato tedesco, successivamente nelle grinfie delle sanzioni economiche statunitensi per quegli stessi finanziamenti pubblici dei quali fruiscono le imprese aeronautiche americane dal proprio governo;

  • si tratta di sviluppare tecnologia “atlantica”, di creare addirittura una DARPA ( agenzia per le applicazioni miste civili-militari delle tecnologie) della NATO? L’Alleanza decide di creare il centro più importante a ridosso di quello francese, a controllarne ed assorbirne le attività. Tutto questo dopo che il governo francese, lo stesso Macron, ha consentito la cessione di ALSTOM energia, una azienda strategica nel settore nucleare civile e militare, alla General Electric americana e quest’ultima, a pochi mesi dall’acquisizione, ha annunciato la chiusura del suo centro ricerche nei pressi di Parigi con il suo corredo di novecento dipendenti altamente qualificati;

  • la NATO decide di creare qualche decina di centri operativi e logistici sparsi per l’Europa? Guarda caso chi riesce a far man bassa degli incarichi di direzione, in particolare i più strategici, è la Germania con il corollario dei paesi più germano-americanofili; il paese più debole militarmente e più occupato e infiltrato, in termini assoluti e relativi alla potenza economica, soprattutto nei settori della sicurezza, della difesa, dell’intelligence e della comunicazione;

  • Francia e Germania decidono a più riprese di creare una forza militare comune, una prima volta a ridosso dell’intervento nei Balcani negli anni ‘90? Puntualmente queste iniziative non riescono a decollare, mentre funzionano le collaborazioni tedesche con olandesi, cechi ed altri;

  • Francia e Germania decidono di incontrare Putin a ridosso del G7, vista l’analoga iniziativa di Biden? Puntualmente arriva la retromarcia per l’opposizione vivace di paesi dell’Europa Orientale russofobi, debitamente incoraggiati e sostenuti da inglesi, americani e tedeschi.

L’elenco potrebbe proseguire. Le costanti sono il ricorrente cedimento pubblico di tutti e il tornaconto politico ed economico della propria subalternità che riesce ad ottenere la classe dirigente tedesca, compresa qualche fregatura di successo come le acquisizioni in America della Bayer tedesca. È accaduto all’inizio del periodo esaminato con la guerra nei Balcani; è riconfermato appena adesso con il clamoroso via libera americano al Northstream II, dopo la beffa al diniego del Southstream all’Italia di cinque anni fa. Un chiaro messaggio a Putin di garanzia almeno temporanea di statu quo e la concessione di un ulteriore strumento di controllo tedesco, per conto terzi, della platea europea utilizzando lo strumento strategico della rete energetica.

RIMOSTRANZE e DETERMINAZIONE

Non si tratta di proseguire nelle rimostranze più o meno violente nei confronti degli americani. Le rimostranze sono comunque un segno di subalternità e di debolezza. Le classi dirigenti e i centri decisori statunitensi fanno semplicemente il loro mestiere; riescono ancora a sfruttare egregiamente in Europa il successo politico-militare ottenuto nella seconda guerra mondiale e con l’implosione della Unione Sovietica; sono stati capaci di proporsi positivamente, offrendo in cambio di subordinazione politica, un modello economico e culturale altrettanto subordinato ma di successo e proficuo anche per i subordinati pur con evidenti segni di crisi e decadenza. Modelli in larga misura adottati da quegli stessi paesi che si stanno ergendo ad alternativa geopolitica.

Una proposta positiva, proattiva che non si è ancora esaurita.

Gli indirizzi di movimento geopolitico non sono solo una presa d’atto e un utilizzo, a mo’ di constatazione, dei dualismi geopolitici presenti in Europa con i paesi dell’Est impegnati in prima linea contro la Russia e la triade italo-franco-tedesca distolta dalle tentazioni di pacificazione con i russi e indotta a limitare le potenziali relazioni strategiche con la Cina, trascinata com’è, con la complicità britannica, nella partecipazione militare marittima e in futuro aerea nel Pacifico. La Francia e la Gran Bretagna, per inciso, hanno ancora corposi interessi in quell’area.

Si tratta di qualcosa di più propositivo e complesso. Si tratta di assecondare e vellicare, in condizioni di aperta dipendenza politico-militare, le ambizioni politiche e geopolitiche della triade, soprattutto di Francia e Germania, nelle loro aree tradizionali di influenza, il Vicino Oriente, il Mediterraneo, l’Africa Sahariana e Sub-sahariana, in modo tale da evidenziare il loro contrasto di interessi con la Cina e la Russia in quelle aree. L’impressione è che sia ancora la Germania il fulcro sul quale gli statunitensi agiranno principalmente per mantenere le redini del gioco. Sta di fatto che gli Stati Uniti devono risolvere un problema di fondo ancora più complicato. La NATO nel Pacifico per ovvi motivi logistici e di geografia potrà svolgere una funzione pur importante di supporto; lo zoccolo duro delle alleanze e il teatro delle operazioni dovrà essere costruito soprattutto con gli stati e i paesi posti sul Pacifico con dinamiche affatto diverse da quelle adottate in un continente simile culturalmente e particolarmente frammentato politicamente. Non sarà semplice condurre rigorosamente al proprio gioco giganti come l’India e i paesi del Sud-est asiatico i quali si sono guadagnati recentemente l’indipendenza a scapito degli occidentali e tessono rapporti importanti con il vicino rivale.

Il nodo da sciogliere e l’ostacolo da affrontare sono le classi dirigenti, i centri decisionali e i ceti politici unionisti e dei singoli paesi europei; soprattutto la doppiezza di quelli tedeschi. Non tanto quelli politico-economici particolarmente adatti a sfruttare gli spazi ed interstizi offerti dalle congiunture politiche e ad adagiarvisi; non ha caso in questi i tedeschi non conoscono rivali. Quanto quelli presenti negli altri ambiti, particolarmente in quelli prettamente politico-istituzionali. Coaguli abbarbicati inesorabilmente a questo sistema di relazioni dal quale traggono forza e ragion d’essere.

Basterebbe ricordare la determinazione e il sollievo con i quali hanno contribuito a chiudere la parentesi di Trump, ovverossia della finestra e dell’occasione più eclatante di potersi ritagliare la propria autonomia.

L’evolversi delle dinamiche interne alla NATO cercheranno di accrescere l’incisività della sua azione, ma porteranno in seno alla alleanza militare competenze e funzioni in parte esorbitanti la missione propria dell’organizzazione e con la corrispondenza in senso sempre più univoco delle sue relazioni con gli stati nazionali e soprattutto con le strutture della UE la priveranno sempre più di uno scudo ed una maschera sino ad ora particolarmente efficaci ma in via di logoramento.

Cogliere queste dinamiche e approfittare degli spazi che inevitabilmente si apriranno in forme inedite comporta l’evaporazione di due illusioni ben radicate sia nelle componenti più servili per giustificare le proprie implorazioni che in quelle “sovraniste” più o meno presenti nei paesi europei, ma particolarmente strutturate in Francia in settori chiave, che confidano nella facilità di strade aperte generosamente dai liberatori:

  • che saranno gli statunitensi ad allontanarsi di buon grado dall’Europa e dagli europei

  • che gli sforzi di autonomia ed indipendenza politica e geopolitica comporta una sagacia e degli sforzi economici e socio-politici non particolarmente impegnativi e difficilmente perseguibili senza una particolare coesione politica.

In questo contesto è comunque possibile una azione politica interna a queste organizzazioni; deve servire però ad inibire ulteriori processi di subordinazione e soprattutto di integrazione tali da perpetuare a costi inferiori il predominio e rendere sempre più difficoltoso l’eventuale districarsi dal groviglio, piuttosto che puntare su velleitarie riforme ormai storicamente rivelatesi un fattore di paralisi o di mistificazione opportunista. Su queste basi sarà possibile determinare su basi più paritarie e di confronto i rapporti con la Cina e la Russia, ma anche con gli stessi Stati Uniti.

Contribuirebbe certamente a far uscire gli Stati Uniti da una impasse e una incertezza particolarmente rischiose per il mondo e favorevole ad incontrollati colpi di mano di centri decisori fuori controllo. Di seguito offriremo la traduzione di un articolo di “Foreign Affairs” particolarmente illuminante in proposito.

https://www.consilium.europa.eu/media/50361/carbis-bay-g7-summit-communique.pdf

https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2020/12/pdf/201201-Reflection-Group-Final-Report-Fre.pdf

file:///C:/Users/admin/Downloads/OF0116825FRN.fr.pdf

https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_185000.htm

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2021-08-04/right-way-split-china-and-russia

https://www.startmag.it/mondo/cina-russia-cyber-e-non-solo-ecco-cosa-scrive-la-nato/

Giorgia Meloni en français_a cura di Giuseppe Germinario

Non siamo soliti riprendere interviste di leader politici italiani. La stampa italiana offre sin troppo spazio e piaggeria ai nostri pressoché inutili protagonisti. L’intervista del settimanale francese “Valeurs Actuelles” https://www.valeursactuelles.com/ a Giorgia Meloni rappresenta quindi un’eccezione alla regola e una conferma che un minimo di chiarezza di termini la si può trovare su lidi stranieri. I motivi sono il fatto che Giorgia Meloni si avvia a qualificarsi come leader di un centrodestra che all’avvicinarsi delle elezioni sembra sempre più destinato a sparigliarsi in parallelo ai problemi di stallo e di decomposizione dello schieramento avverso. Una eccezione giustificata dalla maggiore coerenza delle posizioni assunte nel merito e nel tempo, facilitate dalla postura politica e dalla strutturazione storica del partito. Una coerenza che dovrà fare i conti con i punti critici della sua costruzione analitica. “L’Europa delle Nazioni” è il richiamo sul quale si appoggia la leader nel tentativo di prospettare una nuova costruzione europea; la costruzione di un asse latino-mediterraneo lo strumento per riequilibrare i rapporti di forza interni all’Europa. Manca però una riflessione sul sostanziale fallimento di quella prospettiva, del tutto ignorata e osteggiata dagli altri paesi europei. Una mancanza non casuale in quanto nell’intervista vi è un grande assente, gli Stati Uniti d’America, il vero dominus dell’Occidente. Un egemone che per perpetuare la propria posizione ha bisogno di giocare su almeno tre poli europei debilitati in competizione che di due aree più caratterizzate che potrebbero spingere la Germania a posizioni più autonome. In questa ottica le rivalità europee possono essere viste in funzione della ricorrente conquista di un rapporto privilegiato con gli USA, piuttosto che una dinamica di sganciamento da questi, specie con la probabile permanenza di Macron in Francia e della componente più atlantista della CDU-CSU in Germania. La finestra aperta dall’avvento di Trump si è ormai chiusa e la collocazione geopolitica della Meloni e di FdI non sembra dare adito a dubbi. La Meloni, in sovrappiù, è stata la maggiore artefice, in un gioco speculare con i progressisti, della riproposizione della dinamica destra-sinistra alternativa e complementare al processo di assorbimento nello schieramento liberal-progressista promosso da altre forze. Uno scotto il cui pagamento non dovrà tardare a pagare sulla sua coerenza, viste le fibrillazioni e la frenesia “statica” delle dinamiche politiche italiane. Buona lettura_Giuseppe Germinario

GIORGIA MELONI:“È ORA DI COSTRUIRE UN’ALLEANZA TRA NAZIONI DELL’EUROPA LATINA”
La figura emergente della destra
L’italiana spiega le ragioni
della sua lotta e di ciò che vuole
per il suo paese. Ci dice anche lei
come un’alleanza franco-italiana
può cambiare l’Europa.
Intervista di Antoine Colonna

Rifiutando, a differenza di Matteo Salvini, di entrare a far parte del governo di Mario Draghi, hai affermato la tua linea e ora sei in testa ai sondaggi.
Hai anche appena rifiutato la fusione con Berlusconi. I compromessi non sono il tuo forte?

Ci impegniamo per gli italiani a non appoggiare i governi di sinistra e il Movimento 5 Stelle (M5S), perché noi crediamo che la convivenza con loro possa portare solo a compromessi al ribasso, che i promotori non sono utili all’Italia, soprattutto in questa fase storica. La storia di questa legislatura ha purtroppo dato ragione: il governo Lega-M5S non ha avuto un impatto, il governo M5S-Partito Democratico è stato disastroso e accompagnò l’Italia negli abissi durante la pandemia e il governo Draghi non è comunque riuscito a fare il cambio di passo che molti si aspettavano.
Per quanto riguarda il partito unico di centrodestra, ho fondato Fratelli d’Italia (FdI) proprio perché ho capito che il partito unico di centrodestra (il Popolo della Libertà, di Berlusconi, all’epoca) non aveva funzionato e aveva gradualmente emarginato la rappresentazione delle idee di destra. Ecco perché preferisco una coalizione unita di centrodestra ma plurale al partito unico. non ho intenzione portare i nostri elettori, un’altra volta, su vecchie strade che si sono già rivelate infruttuose e mi sembra che gli italiani apprezzino la chiarezza di queste posizioni, che riempie di orgoglio.
Sei stata recentemente eletta alla guida del partito ECR (Conservatori e Riformisti europei). L’hai spesso menzionato l’idea di un’Europa confederale, proposta dal generale de Gaulle. È questa ancora la tua idea?
Assolutamente, questa è la visione alternativa che noi vogliamo portare alla Conferenza sul Futuro d’Europa, che è stato appena lanciato dall’Unione europea ma che è concepita come un semplice podio che porta ad un risultato prestabilito in direzione federalista, senza alcun spazio all’autocritica. La sua tesi è allo stesso tempo semplice e sbagliata: se l’Europa non funziona
non è perché non ha abbastanza potere; togliamo quindi la sovranità agli Stati nazionali, lascia che passi a Bruxelles e tutto andrà di bene in meglio. La gestione dell’attuale crisi sanitaria, dove il tentativo della Commissione Europea di subentrare agli stati si è rivelato un disastro, ha recentemente negato questo principio.
Crediamo nell’idea che l’Unione Europea non debba fare altro che farle bene, non dovrebbe fare tutto, ma agire solo nei settori in cui può portare un reale valore aggiunto ai suoi cittadini. Ad
esempio, per quanto riguarda il Gafam, la concorrenza sleale dei mercati extraeuropei, dumping fiscale, sicurezza delle frontiere, lotta al terrorismo e sinergie in politica estera; deve rispettare la sovranità nazionale, dove risiede la vera democrazia, e il principio di sussidiarietà, che porta il potere di scelta dei cittadini valorizzando le specificità di ogni nazione e di ogni popolo. Il famoso slogan “L’Europa delle nazioni” di cui parlava anche de Gaulle.
In questo contesto, che futuro vuoi per l’euro?

L’euro è una moneta, come tale uno strumento, mentre negli ultimi anni si è trasformato in un fine; i risparmi dei cittadini di alcuni paesi, Italia al prima posto, si sono piegati alla sua stabilità. Inoltre, è
una moneta nata male, con una forza definita più in base alle esigenze tedesche rispetto alle esigenze europee, in cui l’Italia è entrata ancor peggio con un tasso di cambio troppo alto. Quando un’area valutaria comune si crea anche tra economie diverse, è necessario fornire compensazioni tra coloro che beneficiano del moneta unica e coloro che essa svantaggia. Non è stato così e, dopo la crisi finanziaria del 2008, la Banca centrale europea ha dovuto svolgere questo compito, anche se parzialmente e indirettamente, al fine di evitare l’implosione della zona euro, ma questo ha dato origine a nuove tensioni tra i paesi cosiddetti “frugali” e paesi più indebitati come l’Italia.
La nostra economia è profondamente interconnessa e, con l’altissimo livello del nostro debito pubblico aggravato dalla pandemia, sarebbe impossibile uscirne. Quello che è certamente necessario, invece, è una riforma approfondita delle norme di accompagnamento.
Pensa, ad esempio, che dal 1 gennaio 2023, il patto di stabilità potrebbe essere ripristinato in vigore con i parametri di riduzione di debito in vigore prima della pandemia; è follia e provocazione inaccettabile.
Sarebbe come massacrare la società e uccidere aziende anche quando dovrebbero ricominciare. E questo annullerebbe tutto il lavoro, anche imperfetto, eseguito sul fondo per il recupero e resilienza.
Con l’emergenza Covid, gli italiani però, tra i più fiduciosi nella costruzione europea, sentivano di essere traditi da Bruxelles. Quali tracce quando la crisi se ne andrà?
I primi mesi hanno sicuramente lasciato un po’ di tracce, come se pensassimo in Europa che
noi italiani avevamo una responsabilità specifica nell’innescare la pandemia.
Purtroppo abbiamo avuto solo la sfortuna di fare da cavia per tutti, permettendo ad altre nazioni europee di osservare ciò che stava accadendo e di evitare i nostri errori. C’era
certamente responsabilità politica nei dettagli attribuibili al precedente governo e Fratelli d’Italia furono i primi a evidenziarli fortemente. Ma la percezione che avevamo dell’Europa era pessima: mentre chiedevamo respiratori e maschere, altri paesi dell’Unione Europea impedivano le esportazioni, i nostri autotrasportatori erano bloccati alle frontiere e, in un pomeriggio, Christine Lagarde [Presidente della Banca European Central, ndr] ha bruciato dozzine di miliardi di euro di denaro italiano con un solo comunicato stampa. Un disastro. Poi venne l’idea di un debito comune per finanziare la ripresa, un’idea giusta anche se si tratta di un tuffo tardivo, che porterà molti soldi per l’Italia ma con troppe condizioni politiche grazie alle quali pagheremo il conto. Infine, c’è stata la cattiva gestione della questione vaccini, con contratti opachi scritti sulla sabbia e la comunicazione confusa che ha creato incertezza tra i cittadini. In breve, l’Europa della pandemia ha molto da farsi perdonare.
Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno molte vicinanze. Noi stiamo parlando di un “trattato del Quirinale” sul modello di quello dell’Eliseo che la Francia ha firmato per il riavvicinamento franco-tedesco. Cosa ne pensi?
Trovo paradossale che chi sostiene allora l’azione da campioni dell’europeismo, agisce attraverso trattati bilaterali, ammettendo di fare quello che diciamo da tempo, vale a dire che le strutture comunitarie attuali non sono in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini europei. Detto questo, io non so se un’iniziativa simile al trattato sul modello franco-tedesco sia la più efficace, ma sono convinta che i nostri due paesi devono cercare un nuovo modo per impostare le proprie relazioni. In passato, purtroppo, ai nostri occhi le autorità francesi sull’Italia sembravano più concentrarsi sulle possibilità di acquisire i nostri beni e parti preziose del nostro sistema di produzione piuttosto che concentrarsi sullo sviluppo di una partnership strategica; cosa che ha generato il risentimento dell’opinione pubblica italiana verso il tuo paese. Anche questo è spiegato dal fatto che accanto alla determinazione con con cui la Francia ha sempre difeso il suo interesse nazionale, abbiamo assistito alla facilità con la quale i leader italiani erano pronti a svendere i nostri interessi. È quindi necessario ricreare un clima di fiducia, amicizia e cooperazione tra i nostri due popoli, perché noi
abbiamo così tante sfide comuni da superare.
Vorresti un’alleanza latina tra Francia e Italia? Credi che questo sia un movimento necessario per controbilanciare il peso della Germania?
Assolutamente. Fino ad ora, la Francia spesso ha preso la guida di un asse mediterraneo, ma solo per ragioni opportunistiche, per aumentare il tuo potere contrattuale al tavolo con la Germania, senza molto successo. È tempo di passare dalla tattica alla strategia, provando a costruire una vera alleanza tra nazioni dell’Europa latina, grazie alle somiglianze in termini di identità, storia, lingua, tradizioni, costumi, valori, vocazione; la geopolitica e le emergenze da affrontare possono dare un impulso nuovo e alternativo al progetto Europeo. Se un minimo di pressione coordinata tra Italia, Francia e Spagna sulla Germania è bastato a tenerla lontana dalle sirene di paesi del Nord e per convincerla a porre uno strumento di redistribuzione come il fondo di stimolo, immagina cosa potremmo fare se ci organizzassimo come i paesi di Visegrád o della Nuova Lega Anseatica. Ci sono molti argomenti sui quali una forte cooperazione tra i nostri paesi potrebbe portare l’Europa a un cambio di passo. Pensa a un cambiamento nei paradigmi economici che governino l’Unione Europea o al superamento di iniziative inefficaci come il Trattato di Dublino e il Patto migratorio per la gestione dei flussi migratori e, più in generale, la strategia per il Mediterraneo e l’Africa
dove l’Unione brancola nel buio ma dove la sinergia tra Italia e Francia potrebbe favorire
stabilizzazione di aree come il Sahel e Nord Africa, prevenendo, da un lato, la proliferazione del terrorismo islamista e, dall’altro il contenimento della penetrazione di potenze straniere come Turchia e Cina.
Poi c’è la questione dell’industria manifatturiera, dove entrambi ci inseriamo nella grande tradizione che è stata soffocata dalle redini dell’Unione Europea e dove potremmo, al contrario, cooperare per raggiungere l’Asia e l’America in termini, ad esempio, di tecnologia in prodotti all’avanguardia e di alta qualità generale. Inoltre Italia e Francia sono due nazioni il cui gigantesco retaggio culturale è un vettore di influenza e soft power nel mondo; un strumento in grado di garantire all’Europa un posto al sole sull’attuale scena internazionale; insomma non una semplice reazione alle tendenze egemoniche tedesche, ma l’ambizione di un vero progetto strategico che mira a costruire un nuovo modello di Europa, di identità sociale e geopolitica, che mette le persone e non i mercati al centro.
Quanto alla Francia, come vede il suo futuro politico? Cosa ispirano Emmanuel Macron, Xavier Bertrand, Marine Le Pen, Éric Zemmour, Marion Marechal a cui a volte vieni paragonata in termini di linea politica?
Seguo gli sviluppi politici francesi con grande curiosità e, da osservatore esterno, mi è sempre dispiaciuto vedere un sistema politico bloccato in cui gli elettori che non si identificano con la sinistra sono incapaci di avere una rappresentanza unificata. Certo, conosco le ragioni storiche di
questa situazione, ma spero che prima o poi saranno superate. Da quando sono stata eletta Presidente dei Conservatori Europei, mi sforzo ad operare per favorire lo sviluppo di un partito di
destra in tutto il continente che non tradisce valori e che possano trasformarli in una offerta politica matura, concreta e credibile, in modo che non siano emarginati, ma che diventino azione di governo. Noi costruiamo una famiglia politica che possa fare affidamento su forti realtà nazionali e
affermati ovunque, a cominciare dall’Italia, Spagna e Polonia, e con partnership in tutto l’Occidente. In questo panorama, ovviamente posso guardare solo con grande interesse una nazione importante come la Francia e siamo pronti a collaborare con chiunque nel tuo paese condivida questo progetto.
Hai appena pubblicato una storia scritta in prima persona: Io sonoGiorgia, che rieccheggia la tua celebre frase: “Io sono Giorgia, sono una donna, Sono una mamma, sono italiana, sono cristiana! Puoi sentire che la tua esperienza, l’assassinio del giudice Borsellino, ti ha segnato.
Come se volessi “aggiustare” la società…
È vero, le stragi mafiose del 1992 sono state la scintilla che mi ha portato all’attivismo politico. Ero molto giovane, ho visto un’Italia tradita da una classe politica corrotta eattaccata al cuore da un contropotere mafioso. Non potevo accettarlo e ho scelto di bussare alla porta dell’unica forza politica che era estraneo alla mafia e alla corruzione. Vedi, per me la politica è sempre stata prima di
tutto una lotta per il bene della mia patria, che ho sempre vissuto come la mia famiglia allargata secondo questo principio di comunità che trae origine in famiglia e si estende a cerchi concentrici
come ci ha insegnato Aristotele.
Quindi mi sono sempre sentita in dovere di agire per difenderla, per garantirle il benessere, per riparare le sue ferite. Questo è quello che si intende politico per me, prima ancora che potere, nomine e dinamiche elettorali; questo è anche il motivo per cui ho deciso di accettare di raccontare la mia storia in un libro, qualcosa che di solito non faccio di mia spontanea volontà, proprio per aggirare il filtro delle ricostruzioni giornalistiche, che si limitano ovviamente a un resoconto parziale e strumentale dei propri interessi; spiegare alle persone la vera natura della missione
che sto perseguendo. Vederlo come il più venduto è stato una sorpresa straordinaria, perché ha confermato che gli italiani volevano conoscere meglio la natura della mia passione e del mio impegno politico. È vero che attraverso queste pagine si può capire molto del mio carattere e quindi anche sul mio modo di intendere la vita e la politica, che sono entrambe guidate dallo stesso principio guida: non fare niente non sono completamente convinta.
Tra le grandi sfide che attendono l’Italia, c’è la demografia. Come? “O” Cosa?
restituire alle donne italiane “il diritto di essere”madre”?

Fin dalla sua creazione, Fratelli d’Italia ha preso l’iniziativa nel proprio programma elettorale dell’emergenza demografica e il sostegno alla famiglia come pilastro economico, sociale e valoriale della nostra Comunità. Avevamo ragione, perché, dieci anni dopo queste domande sono più che mai
attualità e non abbiamo smesso di lavorare ogni giorno per affermarlo, sia in Italia che in Europa, dove, come presidente dei conservatori europei, combatto quotidianamente contro i tentativi della sinistra di imporci politiche che vanno nella direzione opposta sostenendo che l’immigrazione compenserà il declino demografico dei popoli europei.
La verità è che viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che ci definisce è sotto attacco. La nostra identità nazionale è sotto attacco, e ancora di più il ruolo della famiglia, diritto alla vita, libertà educativa dei genitori e nostra identità sessuale. Cercano di rompere ogni punto di riferimento dell’identità e della comunità dell’essere umano per svuotarlo di qualsiasi arma di difesa
e modellarlo a immagine e somiglianza di interessi di mercato. Ecco perché non lo facciamo,
non dobbiamo aver paura di rivendicare e riaffermare questi valori, ma soprattutto, una volta al governo, dobbiamo essere pronti a dare risposte concrete, a partire da regimi fiscali favorevoli alle famiglie, asili nido gratuiti e di sostegno per le giovani madri che scelgono di non abortire.
Il tuo prossimo grande appuntamento politico saranno le elezioni comunali di Roma, il prossimo ottobre. Prendere Roma, non è simbolicamente molto di più di prendere una città?
Roma è la nostra capitale e, negli ultimi anni, ha sofferto della cattiva gestione del movimento 5 stelle. È quindi soprattutto una città che dobbiamo salvare da un declino inaccettabile per ciò che rappresenta, per la sua storia di faro della civiltà europea e per la cultura millenaria che incarna. Lo stesso giorno si svolgeranno anche le votazioni in altre importanti città italiane, come Milano, Torino, Napoli e Bologna. È una tendenza diffusa in tutta Europa che la destra è forte nelle province ma incapace di esprimere un’offerta politica tale da convincere la maggioranza degli abitanti nelle grandi città, i cui profili economici e sociali sono sicuramente più elitari e quindi meno consapevoli delle conseguenze negative del sistema in cui viviamo. Io credo che la destra debba colmare questa lacuna dall’espressione di proposizioni e classi dirigenti leader in grado di portare il diritto di amministrare i centri maggiori, come fa Fratelli d’Italia, che – pur essendo un partito relativamente giovane – governa già due importanti regioni del centro-sud Italia (Marche e Abruzzo) e città come
Catania, Cagliari, Verona •

Riusciranno le ONG e il Parlamento europeo a provocare la guerra civile in Ciad?_di Bernard Lugan

Intanto che, per “miracolo”, il Ciad non è (ancora?) deflagrato dopo la morte di Idriss Déby  solo perché un forte potere ha riempito il vuoto politico causato dalla sua scomparsa, il Parlamento europeo giunge a convocare il CMT (Transitional Military Council ), per avviare “urgentemente un processo democratico pluralista” chiedendo un ritorno surrealista all ‘”ordine costituzionale e al rispetto dei valori democratici”, cedendo il potere agli “attori della società civile”, al fine di “garantire la transizione pacifica attraverso elezioni democratiche ”.
Totalmente ignaro  delle faglie nella tettonica etnica ciadiana e della storia caotica del paese dagli anni ’60, accecato dall’ideologia democratica, la “cosa” di Bruxelles non poteva fare di meglio per creare le condizioni per il caos. Questa posizione fuori dal mondo non dovrebbe sorprendere perché, in verità, questa cecità  è la conseguenza del “lobbismo” praticato da ONG irresponsabili che tessono il web  ideologico in cui imprigionano il parlamento di Bruxelles. Dietro questa posizione troviamo, tra gli altri, il marchio  di “Bread for the World”, l’organizzazione delle chiese protestanti ed evangeliche tedesche, quella di “CCFD Terre solidaire”, quella di “Agire insieme per i diritti umani, quella di“ Misereor ”l’organizzazione dei vescovi cattolici tedeschi” e quella di Acat (Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura). E l’elenco potrebbe proseguire …
Così, in nome delle “virtù cristiane destinate all’impazzimento”, queste ONG, in gran parte confessionali, si sono impegnate coscienziosamente a preparare la strada alla dislocazione del Ciad, una serratura essenziale della stabilità regionale. Infatti, se il CMT avviasse un processo democratico, l’etno-matematica elettorale ciadiana darebbe potere ai più numerosi, cioè ai meridionali. Tuttavia, dall’indipendenza, la vita politica in Ciad ha invece ruotato attorno ai principali gruppi etnici del nord, ovvero gli Zaghawa, i Toubou di Tibesti (i Teda), i Toubou di Ennedi-Oum Chalouba (i Daza-Gorane) e gli arabi di Ouadaï che ammontano a meno del 25% della popolazione del paese (si veda su questo argomento il mio libro: Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri ) . Tuttavia, le ONG e gli eurodeputati rifiutano di vedere che è intorno alle loro relazioni interne a lungo termine, alle loro alleanze, alle loro rotture e alle loro riconciliazioni più o meno effimere che da allora è stata scritta la storia del paese. È intorno a loro che si sono combattute tutte le guerre in Ciad dal 1963. È dalle loro relazioni che dipende il futuro del paese, essendo la maggioranza della popolazione solo spettatrice-vittima dei loro crepacuori e delle loro ambizioni. Eccoci qua, la legge della “democrazia parlamentare …”
Se gli attuali leader ciadiani cedessero al diktat europeo ispirato dalle ONG, il Ciad cadrebbe in guerra come il Mali, con le minoranze settentrionali che rifiutano il totalitarismo democratico meridionale basato sulla sola legge dei numeri.
Il Ciad deve quindi rifiutare il ricatto democratico e il suo complice, l’odioso e ipocrita neocolonialismo della  pietà ed emotivo. Ne va della pace civile. Non perdiamo di vista il fatto che è stato il diktat democratico imposto dalla Francia socialista al generale Habyarimana che ha risvegliato e poi esacerbato le fratture della società ruandese, che hanno portato al genocidio (si veda su questo argomento il mio libro Rwanda: un genocide en questions ) .
Più in generale, e a meno di rimanere per l’eternità  colonizzati, gli africani devono cacciare gli sciami di ONG che si abbattono su di loro. Cosa possono fare queste organizzazioni costituite da persone escluse, lasciate o pensionati dai paesi del Nord, le cui motivazioni altruistiche mascherano il fatto che troppo spesso sono loro stesse alla ricerca di soluzioni ai loro  problemi esistenziali o materiali? Salvo rare eccezioni in campo medico o come nel caso di alcune ammirevoli organizzazioni come l’Ordine di Malta, questi “piccoli bianchi” soffocano letteralmente l’Africa sotto il peso delle loro lamentele umanitarie, sotto i loro “piccoli” progetti dalle “piccole” capacità, mosse da “piccole” ambizioni, tutte supportate da “piccole” risorse e soprattutto con una totale mancanza di prospettiva e coordinamento.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

Draghi e ologrammi, di Giuseppe Germinario

Il 10 marzo scorso Mario Draghi ha compiuto il secondo atto significativo del suo ministero, seguito alla sostituzione del vertice della Protezione Civile e del Commissario all’Emergenza Sanitaria: il patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, sottoscritto con i sindacati confederali “http://www.governo.it/sites/governo.it/files/PATTO_INNOVAZIONE_LAVORO_PUBBLICO_COESIONE_SOCIALE.pdf “.

Di fatto una discontinuità rispetto agli ultimi governi in materia di relazioni sindacali; apparentemente una riedizione di quella concertazione che ha conosciuto il proprio sussulto crepuscolare con il Governo Ciampi, a metà anni ‘90.

I motivi pesanti che hanno spinto e reso necessario questa inversione sono diversi:

  • l’iniziativa fa da necessario corollario al sostegno quasi ecumenico offerto dai partiti al Governo Draghi in un contesto di paralisi e di grande disgregazione e debolezza di questi ultimi. Se il Governo Ciampi si era assunto il compito di preparare l’investitura del PDS/DS, della sinistra in pratica, di un partito graziato da “tangentopoli”, l’unico sufficientemente strutturato, radicato ed autorevole, a direttore di orchestra delle future compagini governative, il Governo Draghi a sua volta dovrà creare le condizioni per una ricostruzione e riconfigurazione di quasi tutti i partiti, alcuni dei quali in fase di evidente disgregazione ed assecondare il riallineamento nello schieramento europeista di quelli riottosi. Non che la condizione dei sindacati confederali sia molto migliore, tanto più che la caratteristica di confederalità, di progettualità e costruzione politica unitaria delle associazioni quindi, si sta ormai affievolendo vistosamente nel corso degli anni; rimangono comunque la sola significativa forza intermedia in grado di assecondare in qualche maniera ordinata i pesanti processi di riorganizzazione in corso e che soprattutto si annunciano nel prossimo futuro

  • la gestione della crisi pandemica, tra i tanti aspetti anche oggettivi dai quali si potrà valutare, si sta rivelando un test attendibile della capacità di affabulazione e di manipolazione della classe dirigente dominante e della reattività e della lucidità di azione di centri alternativi ben lungi ancora da sedimentarsi, ammesso che esistano attualmente. L’enormità dei problemi da affrontare in un contesto drammatico di recessione e ridimensionamento delle basi sociali e produttive è probabilmente la molla principale che sta spingendo questo governo a riproporre un coinvolgimento più stretto delle parti sindacali. Sta accelerando inesorabilmente la dinamica di un gigantesco processo di riorganizzazione, legato alla digitalizzazione e alla ridefinizione delle catene e delle gerarchie di produzione, che riguarderà all’interno i processi produttivi e la qualità dell’organizzazione e delle gerarchie delle varie attività economiche, istituzionali e di comando. Sono la nervatura e la base le quali definiscono le stratificazioni sociali, la conformazione dei ceti e la formazione dei blocchi sociali di una particolare formazione. In Italia assumerà connotazioni ancora più radicali per le caratteristiche proprie della formazione sociale costituita da industria ed attività più polverizzate e mediamente più arretrate tecnologicamente ed organizzativamente e da una pletora di piccola borghesia legata a rendite ed attività interstiziali, ma fondamentale nel garantire la coesione sociale e la stabilità politica.

Mario Draghi è arrivato per gestire al meglio alcune di queste dinamiche senza mettere in discussione la collocazione geopolitica e senza compromettere la collocazione geoeconomica del paese in maniera talmente grave e distruttiva da rischiarne la dissoluzione.

L’accordo quadro affronta un aspetto particolare e fondamentale di questa riorganizzazione; quello del funzionamento e della operatività degli apparati amministrativi fondamentali per il governo di questa riorganizzazione in vista in particolare dell’arrivo dei fondi europei.

Una missione che rende alquanto improbabili le analogie di questo patto con quello sottoscritto a suo tempo con Ciampi: quello intendeva regolare le cadenze contrattuali e la componente salariale della contrattazione interconfederale e di categoria; questo propone uno scambio tra i rinnovi contrattuali, il riconoscimento di aumenti stipendiali contrattuali, al momento per il solo pubblico impiego, in cambio della disponibilità ad affrontare e cogestire i processi di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Quello era un accordo che riguardava tutte le categorie di dipendenti, questo riguarda il pubblico impiego allargato, anche se probabilmente, in caso di successo, fungerà da apripista per un sistema di relazioni paragonabile per le altre categorie, ma da gestire più in autonomia con le associazioni datoriali.

Le ambizioni dichiarate in questo accordo sono grandi.

Gli organi di stampa hanno sottolineato soprattutto nell’avvicendamento legato ai prepensionamenti, nella formazione continua, tra i più avveduti nella assunzione di personale e quadri tecnici gli aspetti salienti dell’accordo. I punti essenziali in realtà riguardano ben altro: la possibilità di creare collaborazioni, comitati ed agenzie a conduzione privatistica o mista che gestiscano gli aspetti cruciali dei progetti, che fungano da supporto e da modello da implementare nelle amministrazioni attualmente incapaci di progettare e gestire interventi rilevanti; il cambiamento dello stato giuridico del pubblico impiego e l’intercambiabilità dei quadri dirigenti con il settore privato; una verifica operazionale legata al rispetto della tempistica e al raggiungimento dei risultati piuttosto che al rispetto formale delle procedure. Orientamenti che prendono ad esempio i modelli operativi della burocrazia europea legata per lo più all’utilizzo dei fondi strutturali e in maniera più approssimativa quelli della amministrazione inglese e statunitense.

Non è la prima volta però che si sono manifestate queste ambizioni.

La legge quadro sul pubblico impiego del 1983 è stato sino ad ora il tentativo più organico di riorganizzazione del personale pubblico ad eccezione parziale delle carriere direttive. Quell’articolato non intendeva agire direttamente sulla organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sulle fonti che ne determinavano le modalità di funzionamento; definiva la contrattualizzazione collettiva del rapporto di lavoro, i soggetti abilitati a trattare e i criteri di inquadramento professionale; l’obbiettivo era di liberare il rapporto di lavoro pubblico dal legame diretto e dal clientelismo dei politici e dai provvedimenti legislativi dedicati a gruppi specifici, di trasformare il rapporto di lavoro secondo criteri civilistici e attribuire al sindacato del pubblico impiego un ruolo autonomo piuttosto che di mera appendice dei voleri delle fazioni politiche. Obbiettivo raggiunto, ma solo in parte e con qualche implicazione negativa, piuttosto pesante. La principale, che il sindacato oltre ad aver acquisito una propria autonomia operativa e una ragione d’essere costitutiva ha accentuato la sua pervasività nei meccanismi decisionali e operativi sino ad entrare a pieno titolo nelle pratiche di selezione delle promozioni e di occupazione dei centri decisionali diventando di fatto, in particolare la CISL, anche un’associazione lobbistica imprescindibile per il funzionamento. Una prerogativa rimasta anche in quegli ambiti, come quello di Poste Italiane, trasformatisi in aziende a gestione privatistica con tutte le distorsioni e i soffocamenti che ne sono conseguiti.

Il patto proposto e sottoscritto da Draghi è qualcosa di più profondo e strutturale, di più complesso.

Non può prescindere assolutamente da questa realtà informale che sino ad ora è sempre riuscita a neutralizzare i propositi di ridefinizione delle gerarchie sul campo.

L’altra cartina di tornasole in grado di svelare la reale credibilità e positività di quanto sottoscritto è la riorganizzazione istituzionale che definisca chiaramente le gerarchie e le competenze dello Stato centrale e delle amministrazioni periferiche nonché due o tre modelli organizzativi, non di più, ai quali attenersi secondo la missione dei vari ambiti operativi, siano essi aziende di servizio o ordinamenti funzionali. È la via attraverso la quale lo Stato ed il Governo centrali possono assumere il pieno controllo interno della situazione e possono porsi come interlocutori autorevoli e meno permeabili all’esterno, soprattutto in sede di Unione Europea (UE). Una riforma, mancando la quale, rischia in partenza di annacquare le potenzialità del patto o di ricondurlo lungo le dinamiche di disarticolazione ulteriore del controllo centrale e di ulteriore connessione diretta con la burocrazia della UE

Questo non pare rientrare nel programma di governo per due motivi, uno di orientamento strategico, l’altro tattico.

Il primo è che il nostro, essendo paladino di questo europeismo, non ha nessuna intenzione di accettare il fatto che quello della UE è, pur con regole particolari, un campo di azione di stati nazionali sul quale vince chi riesce a preservare meglio le proprie prerogative piuttosto che uno spazio di liquefazione concordata della propria realtà istituzionale; il secondo è che porre sul piatto la questione metterebbe prematuramente in crisi la Lega, soprattutto la componente più convinta nel sostegno a Draghi, ma comunque l’unico partito al momento non in crisi convulsiva, sostenitore del governo almeno sino a quando non si risolverà, se si risolverà, in qualche maniera lo stato confusionale del PD.

Una riorganizzazione istituzionale potrà aver luogo, comunque non in maniera risolutiva, solo nel momento in cui la componente europeista tradizionale dovesse assumere il pieno controllo non solo dei centri decisionali ma anche dell’opinione pubblica.

C’è un altro fattore che impedisce di porre correttamente sia la questione istituzionale che l’impostazione e l’applicazione del Patto. L’atteggiamento gretto e settario della destra radicale che contrappone visceralmente gli interessi e la condizione privilegiata dei ceti “garantiti” a quelli più minacciati dalla crisi pandemica e socioeconomica. Una postura che le impedisce di cogliere la effettiva posta in palio e l’opportunità di entrare nel merito delle questioni. Una ottusità ricorrente che le ha impedito di cogliere gli spazi che le si erano aperti nel mondo del lavoro e negli stessi ambienti sindacali. Una miopia che ad esempio non ha colto, almeno non nella stessa entità, Donald Trump negli Stati Uniti.

Un complesso di fattori ed orientamenti che nell’ipotesi riduttiva di attuazione del Patto rischiano di annichilire le migliori intenzioni riformatrici e di ridurre quel documento ad un mero pretesto per giustificare gli aumenti contrattuali, in quella più estensiva porterà a rendere più efficienti le amministrazioni soprattutto per rendere più fluido e subordinato il rapporto con la burocrazia della UE. Mario Draghi sarà il pendolo che oscillerà tra questi due estremi; se non sarà calamitato su uno dei due versanti, potrà conseguire qualche successo nel breve termine, portare a termine quindi quanto meno il Recovery Plan e la campagna di vaccinazione, ma cadrà ancora una volta nella trappola delle ulteriori duplicazioni di apparati ed amministrazioni che renderanno ancora più inestricabile la matassa istituzionale. La speranza di un afflato nazionale che dia senso e sentimento alla riorganizzazione dipenderà purtroppo da un contesto internazionale che deciderà dei destini della UE e del ruolo egemonico, quantomeno delle sue modalità di esercizio, degli Stati Uniti in questa area, piuttosto che da un irrefrenabile impulso interno al paese; con tutti i costi e i condizionamenti che si dovranno pagare. La stessa unità di Italia del resto è scaturita da un contesto simile; stiamo proseguendo su quella falsariga, ma senza grandi diplomatici, senza politici accettabili e con impulsi sempre più flebili. Le stesse organizzazioni sindacali, uno dei “corpi intermedi” con i quali Draghi cerca di puntellare la propria collocazione, stanno rivelando una tale povertà culturale da rendere impossibile la creazione di un sostrato “propositivo” nei settori che ancora rappresentano. È sufficiente tenere conto della condizione inerme di fronte alle innumerevoli crisi aziendali aperte, della posizione piattamente acritica sulle dinamiche di fondo del Recovery Fund e sulla natura della UE, della incapacità di coniugare il conflitto sociale con una ipotesi di difesa dell’interesse nazionale per comprendere come il carattere interconfederale tenderà sempre più ad affievolirsi in una frammentazione di iniziative giustapposte. La carrellata recente di interviste è alquanto illuminante. L’unica predominante preoccupazione riguarda l’estensione e la regolazione degli ammortizzatori sociali. Per condurre dove, non si sa.

PS_non ho trattato gli argomenti dell’articolo nell’ottica delle relazioni transatlantiche e dell’egemonia USA almeno in Europa, semplicemente perché in Italia il problema non si pone in nessuna delle forze politiche significative

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?_di Hajnalka Vincze

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?

Portfolio – 28 gennaio 2021
Nota di notizie

Dietro le infinite lamentele sulla “perdita” del Regno Unito, in realtà molti si rallegrano, chi per un motivo, chi per un altro. I sostenitori dell’Europa federale ritengono che la strada sia chiara ora che il nemico giurato di qualsiasi idea di pooling (approfondimento dell’integrazione) è definitivamente fuori gioco. I campioni di un’Europa indipendente – che dipenderebbe meno dall’America – sorridono alla partenza del “cavallo di Troia” degli Stati Uniti, credendo che il loro momento sia finalmente arrivato: senza Londra, l’eterna torpediniera di qualsiasi iniziativa politica dell’Unione, l’Europa potrebbe anche diventare uno dei poli del potere nel mondo. Tale ragionamento non è del tutto infondato, ma non tiene conto dei malumori interni dei restanti Ventisette.

Sempre presente nelle teste

La Gran Bretagna ha sempre avuto una visione molto particolare della costruzione europea. Ha preferito stare lontano dal suo lancio; non solo, ha creato un’area di libero scambio che dovrebbe competere con esso e renderlo obsoleto sin dal suo inizio. Rendendosi conto del loro fallimento, gli inglesi cambiarono strategia: entrarono per meglio silurare, questa volta dall’interno, tutto ciò che prometteva di diventare più di un semplice mercato aperto. Che si trattasse di tariffe protettive, diritti sociali, autonomia strategica o politica industriale, Londra è stata un freno. Di conseguenza, le lotte più dure e frequenti l’hanno opposta alla Francia, paladina di un’Europa politica e indipendente. Quindici anni fa Jean-Claude Juncker, l’allora primo ministro lussemburghese, ha giustamente osservato, dopo una battaglia franco-britannica particolarmente dura nell’UE: “Qui si confrontano due filosofie. Ho sempre saputo che un giorno o l’altro sarebbe venuto a galla ”.

(Credito fotografico: Reuters)

Non è un caso che ciò sia avvenuto proprio in questo momento. Londra è stata rafforzata dall’adesione, nel 2004, del primo gruppo di paesi dell’Europa centrale e orientale. Nel dilemma “allargare o approfondire” che ha definito i dibattiti per tutti gli anni ’90, la Gran Bretagna spingeva per l’allargamento dell’UE più rapido e più ampio possibile nella speranza di abbattere l’inclinazione politica diluendo il progetto in un gigantesco supermercato. Di fronte a ciò, i francesi – e di tanto in tanto i tedeschi – cercavano di salvare, se necessario sotto forma di un’Europa a più velocità, l’essenza politico-strategica del progetto. Un tentativo coronato da scarso successo. Dopo l’ingresso dei nuovi Stati membri, seguaci della visione britannica, tutto suggeriva che lo scenario di un’Europa dei supermercati addormentata nell’inesistenza geopolitica sotto l’ala protettrice della NATO avrebbe prevalso per sempre.

È vero che lo spirito dei tempi ha lavorato a favore di Londra. Durante i quindici anni trascorsi dal crollo dell’ordine bipolare, il modello globalista-neoliberista controllato a distanza da Washington ha innestato una marcia in più, mentre la NATO, invece di scomparire con la Guerra Fredda, si è adattata, rinvigorita e ha persino effettuato una vera mutazione. In queste circostanze, Londra non ha avuto troppe difficoltà a promuovere, nelle parole dell’ambasciatore Usa, “la posizione comune anglo-americano all’interno dell’UE”. In vista del referendum sulla Brexit, il presidente Obama ha messo in guardia gli elettori britannici: la presenza di Londra è la garanzia che l’UE rimanga economicamente aperta e militarmente attaccata all’America. Sarà interessante osservare, dopo la Brexit, come si comporteranno i paesi membri che fino ad ora, su questi due temi, si nascondevano comodamente dietro Londra.

Minare, dall’esterno

Allo stesso modo, saranno intriganti da osservare gli sforzi che gli inglesi dispiegheranno, d’ora in poi dall’esterno, per indebolire qualsiasi dimensione politica e strategica dell’Unione. Un esempio molto divertente è il caos intorno al sistema di navigazione satellitare, Galileo (“GPS europeo”). Londra è sconvolta dalla perdita, a seguito della Brexit, del suo accesso automatico al “servizio pubblico regolamentato” (PRS) crittografato e ultra sicuro, controllato dai governi e dalle istituzioni dell’UE e in gran parte dedicato agli usi militari. La Gran Bretagna ha giurato il giorno dopo il referendum sulla Brexit che avrebbe messo in atto un proprio sistema simile, dicendo: “la sicurezza dei nostri soldati non può dipendere da un sistema esterno, che non dipende da esso”. Curioso argomento del Paese che, al lancio del programma Galileo, aveva lottato con le unghie e con i denti per impedire ogni uso militare. Con il pretesto del GPS e della NATO, non aveva trovato nulla di imbarazzante nell’essere, insieme a tutti gli altri europei, dipendente da un sistema sotto il controllo esclusivo americano.

Risultato della contesa: oggi l’Europa ha un proprio sistema di navigazione satellitare globale, mentre Londra può solo sperare in una costellazione regionale attaccata al GPS. Per una volta, l’Europa non ha ceduto ai tentativi britannici di sbrogliare. Perché Londra aveva chiesto, al di là dell’accesso diretto, un posto e una voce nel corpo di “governo” e controllo di Galileo. Esattamente come chiede un accesso privilegiato al Fondo europeo per la difesa (FES) destinato ai programmi europei di armamento, dal bilancio dell’UE. Questo gli avrebbe permesso di prendere due piccioni con una fava. Perché la Gran Bretagna ha sempre fatto di tutto per rendere le istituzioni della politica di difesa dell’UE più “flessibili”, cioè permeabili agli alleati della NATO che non sono membri dell’Unione. Da ora in poi, proverà a continuare lo stesso lavoro di affondamento, ma questa volta dall’altra parte dell’uscio.

Faccia a faccia franco-tedesco

Il successo dei tentativi britannici dipende dal fatto che i restanti Stati membri vi cedano o meno. Innanzitutto la Germania, caratterizzata da un’eterna ambiguità ma che generalmente si trova (sulla questione del grande mercato transatlantico di libero scambio o sul primato dell’Alleanza atlantica) piuttosto vicina agli inglesi. Charles Grant, il direttore del Centre for European Reform con sede a Londra, ha avvertito i parlamentari di Sua Maestà all’inizio degli anni 2010: la Gran Bretagna non può permettersi di essere passiva all’interno dell’UE, perché la sua emarginazione rischierebbe di avvicinare le posizioni di Berlino su queste questioni a quelle francesi. Non è un caso che oggi, a seguito della Brexit, la meccanica interna del motore franco-tedesco sia sotto i riflettori.

Con la partenza di Londra, Parigi e Berlino hanno perso un forte alleato all’interno dell’UE, ovviamente su argomenti diversi. Per la Francia, la Gran Bretagna è stata utile nella misura in cui – a differenza della maggior parte dei paesi membri, Germania inclusa – comprendeva l’importanza cruciale di costruire capacità militari (anche se Londra lo considerava piuttosto all’interno della struttura della NATO) e che era ferocemente desiderosa di preservare il carattere intergovernativo delle politiche estere, di sicurezza e di difesa europee. Per i tedeschi, gli inglesi sono stati un prezioso freno, sempre pronti a bloccare qualsiasi iniziativa francese che mirasse ad emarginare la NATO o mettere in discussione i principi del libero scambio deregolamentato. A seguito della Brexit, questo comodo scudo scompare su entrambi i lati; Francia e Germania si trovano ora faccia a faccia.

È sempre più difficile negare che, dietro i grandi discorsi europeisti, i due cerchino di posizionarsi nel modo più vantaggioso possibile l’uno sull’altro. Parigi vorrebbe correggere la sopraffazione economica tedesca proponendo meccanismi di solidarietà finanziaria europea, sempre più collettivizzanti. Berlino, da parte sua, si sta sforzando di neutralizzare le risorse diplomatiche e militari francesi (come il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o la superiorità nella tecnologia delle armi) spingendo, nell’UE, per una sempre maggiore integrazione in queste aree e sostenendo un passaggio delle decisioni a maggioranza qualificata. I due cercano di raccogliere intorno a loro quanti più alleati politici possibili, consapevoli delle rispettive debolezze.

La fine, ma la fine di cosa?

Chris Patten, ex commissario europeo per le relazioni esterne e rettore dell’Università di Oxford, ha prontamente ricordato un disegno della Chained Duck degli anni ’70 che mostrava un minuscolo Primo Ministro britannico, a letto, tra le braccia di una voluttuosa regina, Europa. Quest’ultimo, ovviamente seccato, gli disse: “Entra o esci, mio ​​caro Wilson. Ma smettila con questo ridicolo andirivieni ”. Con la Brexit, gli inglesi finalmente hanno obbedito e se ne sono andati, ma solo dopo più di quarant’anni. Inoltre, nel frattempo avevano in gran parte ridisegnato l’Europa striminzita. Come efficaci portatori dell’ideologia dominante degli ultimi decenni, sono riusciti a diluire il progetto al punto che, oggi, la stragrande maggioranza dei restanti Stati membri perseguirà la linea atlantista-neoliberista. O piuttosto lo avrebbero perseguito … se gli eventi non fossero stati di ostacolo.

Perché in questo periodo di cose ne stanno accadendo a livello internazionale. La pandemia del nuovo coronavirus ha inferto un colpo grave, persino fatale agli occhi di molti, a un dogma globalista-neoliberista che vacilla già da dieci anni. Chi meglio  nell’illustrarlo se non il prestigioso Financial Times di Londra, la Bibbia dei decisori europei, il cui giornale stesso nel suo editoriale dell’aprile 2020 ha sostenuto una rottura con gli orientamenti degli ultimi quattro decenni e ha chiesto un maggiore interventismo da parte dei governi, più ridistribuzione, più spesa statale a favore dei servizi pubblici. Sul fronte transatlantico, la presidenza di Donald Trump ha avuto un effetto rivelatore simile. Dietro i grandi consessi occidentali programmati a intervalli regolari, la realtà è sempre più evidente: alleanza o no, le relazioni sono principalmente determinate dai rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Ciò è generalmente vero anche per lo stato attuale delle relazioni internazionali. La riconfigurazione dei centri di gravità ha dissipato le illusioni sul trionfo universale, inevitabile, del modello liberale occidentale; ha riproposto il confronto tra grandi potenze. Ciò rivaluta, nell’Ue, “la dimensione politica” e “l’autonomia strategica”, le stesse caratteristiche che la concezione britannica avrebbe voluto scacciare una volta per tutte. È questa combinazione di sviluppi esterni (e non la Brexit) che probabilmente rimescolerà le carte in Europa. L’ex primo ministro britannico Harold Macmillan è stato intervistato da un giornalista alla fine degli anni ’50 su ciò che più influenza la politica del governo. La sua risposta: “Gli eventi, mio ​​caro ragazzo, gli eventi! “. Il dilemma dei 27 paesi dell’UE in questi giorni è se rispondere all’accelerazione degli eventi secondo il punto di vista dell’impasse britannico o preferire rilanciare il progetto dell’Europa politica. Ovviamente stanno facendo quello che sanno fare meglio: esitano.

Il testo completo, in ungherese, è disponibile sul sito Portfolio, cliccando qui .

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/591-le_brexit_camouflet_ou_cadeau_pour_leurope

I significati di una scelta_ di Giuseppe Germinario, Antonio de Martini, FF

Già dalle prime mosse Mario Draghi sta confermando la sua missione di “costruttore”. Con la nomina di Gabrielli a sottosegretario, di Curcio alla Protezione Civile, del generale Figliuolo a Commissario per l’emergenza Covid ha dato un bello scossone a tre degli apparati chiave così come si sono assestati in questi ultimi dieci anni. Ha concesso a man bassa posti di sottosegretario ed alcuni ministeri secondo le logiche da manuale Cencelli, ma ha mantenuto strettamente il controllo diretto o indiretto dei ministeri economici e della sicurezza; ha affidato alcuni ministeri chiave a politici di peso (Guerini e Giorgetti) dei due partiti più importanti, ma ne ha svuotate in parte le competenze di uno di essi. La defenestrazione di Arcuri e la mancata conferma di numerosi funzionari del governo precedente segnano probabilmente una svolta importante. Rappresentano l’inizio di un declino di un ceto manageriale e dirigenziale radicatosi progressivamente in quaranta anni e consolidatosi negli ultimi quindici. Una discesa che trascinerà con sè il partito che più ne è stato l’espressione e il fattore di coagulo e legittimazione; quel Partito Democratico ormai da anni in crisi di consenso, con una base elettorale stravolta rispetto alle origini, ma che rimane abbarbicato da più di venti anni e sostenuto dai centri di governo e di potere più stantii, con una funzione assertiva e un dinamismo talmente insufficiente da mettere a repentaglio la coesione interna del paese e l’utilità stessa della sua collocazione internazionale pur così remissiva ed accondiscendente. Devono essersene resi definitivamente conto anche a Washington e Londra soprattutto, ma anche più a malincuore a Berlino e Parigi. Non sarà solo il PD a pagare pegno. Man mano che saranno evidenti l’insulsaggine, i misfatti e la distruttività dell’azione del Governo Conte nella corrente emergenza sanitaria ed economica agli occhi della popolazione e nel ruolo internazionale, specie nel Mediterraneo, agli occhi dei centri di potere, l’acclamazione di Giuseppe Conte a salvatore del M5S rischierà di trasformarsi nella condanna definitiva all’estinzione del movimento durante una fase di competizione, simile per altro ad un abbraccio mortale, più che di occupazione di spazi complementari, con il suo alleato piddino. Un sodalizio che rischia di trasformarsi in un abbraccio mortale. Se questo schieramento sarà chiamato a pagare pegno nell’immediato, il futuro riserverà qualche sorpresa anche nel centrodestra, in particolare nella Lega. L’impegno dei tre commissari sarà probabilmente la prova generale per una riconfigurazione e un riordino dei poteri e della gestione dello Stato e soprattutto di una ridefinizione più chiara dei poteri dello stato centrale rispetto alle amministrazioni periferiche. L’intento sarà di porre fine alla surrettizia e logorante competizione sulle competenze tra Stato centrale e regioni e ad una definizione delle gerarchie più favorevole e funzionale allo Stato Centrale; scemerà con esso l’argomento con il quale si è alimentato il radicamento e la ragion d’essere della Lega e soprattutto potrà dissolversi l’equivoco di un partito proclamatosi nazionale ma con una classe dirigente in realtà ancora espressione di una parte geografica del paese. Tutto dipenderà dalla forza effettiva di Mario Draghi e dalle logiche geopolitiche che determineranno l’importanza e il ruolo dell’Italia nel contesto europeo e mediterraneo; quanto alla forza e alla consapevolezza dei centri interni al paese, tutto sembra muoversi ancora sotto traccia. Non è un buon segno. Ne vedremo comunque delle belle e soprattutto di drammatiche. Non sarà facile costruire o ricostruire sulle ceneri di questo sistema partitico i soggetti politici incaricati di garantire il “front-line”. Personaggi del calibro di Mario Draghi non devono e di solito non gradiscono rimanere troppo esposti per lungo tempo. Devono farlo in situazioni di emergenza; ma le emergenze per definizione vivono in tempi delimitati. Potrebbero quindi rimanerne prigionieri; non sarebbe la prima volta di una guerra lampo trasformatasi in guerra di posizione, se non in una disfatta_Giuseppe Germinario

SIGNIFICATI DI UNA SCELTA PRIMAVERILE, di Antonio de Martini
Mentre la macchina della disinformazione é occupata a “scaricare” il sig Domenico Arcuri sulle braccia dell’avvocato Conte e dei 5 stelle, ma io l’ho conosciuto a Invitalia nel 2005 come rappresentativo del giro “ Prodi& Co”,
vorrei fare un piccolo ragionamento sui significati del gesto di sostituire un borghese con un militare.
Il primo significato da dare a questo gesto é dimostrare che si vuole agire e liberarsi del malcontento generale provocato dalla pandemia e accentuato dalla “mala gestio” in specie della informazione al pubblico che non si é mai sentito rassicurato vedendo i propri leader rubare il ruolo ai rispettivi addetti stampa invece di contrastare coi fatti l’epidemia.
Gente che non rispetta il proprio ruolo, non può pretendere il rispetto altrui.
Il secondo significato é che Draghi ha dato dimostrazione di indipendenza decisionale rispetto al sistema dei partiti che lo ha nominato, prescindendo dai meriti o demeriti del sig Arcuri che altri giudicheranno.
Il terzo significato é stato il riconoscimento implicito che la sorgente della sovranità é la competenza e non il suffragio popolare.
Non conosco il generale Figliuolo, ma é incontestabile che sia stato scelto per la competenza che gli viene da studi rigorosi dove la logistica é materia di studio continuo ( Accademia, 2 anni; Scuola di applicazione 2anni; Scuola di guerra 3 anni) e dal ruolo ricoperto di ispettore logistico dell’Esercito: l’unica organizzazione in Italia a gestire oltre centomila uomini ( e numerosi ospedali) sparsi in una ventina di paesi.
Nel gesto e nella accettazione generale della decisione c’é anche qualche importante e sotteso significato politico e,segnatamente, l’inizio della fine della competenza regionale su un affare tanto serio quanto la salute dei cittadini.
La conquistata libertà di circolazione delle persone ( e merci) ha comportato libertà analoghe per bacilli, batteri, virus e contagi.
Che senso hanno ormai cambi di regolamenti sanitari ogni cento chilometri?Che senso ha una regione come il Molise, la Liguria, il Friuli o la Basilicata ?
La ripartizione regionale avrebbe avuto un senso se i confini avessero ricalcato le frontiere dei vecchi stati preunitari come ha fatto la Germania che si riunificò nello stesso periodo storico.
Gli attuali confini regionali possono al più avere contenuti folcloristici, ove esistenti, e gestire gli investimenti turistici, prima industria nazionale.
Le regioni andranno bene per festival della castagna secca e manutenzioni stradali ma gli standard mondiali e la diffusione delle seconde case – spesso site in altre regioni o stati- la pericolosa velocità dei contagi, chiedono dimensioni analoghe in termini di spazi, procedure e strutture.
Aspettare di giungere a settantamila morti perché si palesasse la presenza dello Stato, é peggio che un crimine: é un errore che farà saltare l’equilibrio sociale e politico della Nazione e se dicessi che mi dispiace non sarei sincero.
Il regionalismo e la politica politicante vanno verso le loro idi di marzo.
UN BRAVO FIGLIUOLO, di Antonio de Martini
Il presidente del Consiglio ha nominato a commissario straordinario per l’emergenza ( ormai permanenza ) Covid 19 , l’ispettore logistico dell’Esercito.
Ovviamente, il generale conosce perfettamente tutte le potenzialità dell’Esercito essendone il responsabile.
Ci voleva una delle menti più brillanti del paese per attivare al massimo livello le FFAA coinvolgendole nella pianificazione invece che nella sola servile esecuzione???
E nessuno mi leverà dalla testa l’idea che la nomina di Arcuri sia stata fortemente caldeggiata da qualcuno che poi ha raccomandato – per interposta persona si capisce- i fornitori che si sono ingrassati sulle spalle dei morti nostri e de li mortacci loro.
Punti interrogativi, di FF
“Mario Draghi è intervenuto in mattinata alla sessione Sicurezza e Difesa del Consiglio Ue, sottolineando l’importanza dell’autonomia strategica dell’Ue in un quadro di complementarietà con la Nato e di coordinamento con gli Usa” (ANSA).
Che significa? Nulla. Parlare di autonomia strategica della UE senza che vi sia alcuna strategia della UE è come pretendere di abitare in un palazzo che non esiste.
Quale sarebbe infatti il nemico dell’Europa se non quello scelto dall’America?
Quale sarebbe la sua politica estera?
Quale sarebbe la sua politica di difesa?
Chi comanderebbe?
Quale sarebbe la sua struttura logistica?
Quale sarebbe la sua forza anfibia?
Quale sarebbe la sua struttura di intelligence?
E l’opinione pubblica europea è forse disposta ad appoggiare una azione militare che potrebbe causare la morte di centinaia o migliaia di soldati europei?
Insomma, come potrebbe l’UE avere autonomia strategica se di fatto dipende del tutto dalla NATO, ossia dagli USA, anche solo per controllare i propri confini?
Peraltro, l’UE ora è priva dell’esercito britannico, in pratica l’unico esercito europeo in grado di svolgere delle “vere” missioni di combattimento (e la Gran Bretagna è pure l’unico Paese europeo che può trarre vantaggio dal sistema Echelon, controllato dagli USA, dalla Gran Bretagna, dal Canada, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda).
Di fatto i Paesi europei, tranne per quanto concerne l’impiego di pochi reparti speciali, possono tutt’al più svolgere delle missioni di peacekeeping “sotto l’ombrello” della NATO. La stessa Francia può avere una certa autonomia strategica in Africa, ma nulla di più.
Insomma, il Proconsole si sta rivelando sempre più non uno stratega ma un abile tecnocrate al servizio del grande capitale occidentale, sia per quanto concerne la scelta di ministri e sottosegretari (cui nessuno sano di mente affiderebbe la gestione di un vespasiano), sia per quanto concerne la geopolitica.
In altri termini, si conferma che questo governo deve limitarsi ad eseguire un disegno politico-strategico deciso, almeno nelle sue linee essenziali, dagli incappucciati della finanza, sia pure secondo un’ottica euro-atlantista. E per realizzare un programma politico-strategico certo occorre competenza, ma non intelligenza politica e strategica.
In definitiva, la strategia – sia politica che economica – non è “affare” che riguardi il nostro Paese.

Inascoltabile, di Vincenzo Cucinotta

C’è in questo mondo di politicanti e di media che volentieri li assecondano qualcosa che proprio non si può stare a sentire.
L’ultima indegnità che dobbiamo sopportarci da costoro è adesso il confronto tra il presente e i governi del primissimo dopoguerra.
Costoro dicono che essi stanno assieme nel governo Draghi in fieri come DC, liberali socialisti e comunisti stavano assieme nel governo guidato da De Gasperi.
Sarebbe lo stesso che io dicessi di essere come Claudia Schiffer perchè ho due occhi come lei, dite voi se non suona osceno questo confronto.
Draghi è venuto a commissionarli, possibile che ci sia chi non l’abbia ancora capito, per questo non credo, a differenza di persone che in genere la pensano similmente a me, che il problema sia Draghi, basti riflettere a cosa fosse il governo Conte.
Il primo governo Conte, quello gialloverde, costituiva un esperimento politico con caratteri interessanti in sé se non altro perchè permetteva di vedere quale svolta Salvini avesse impresso alla Lega, e nello stesso tempo permetteva di gettare luce su una realtà misteriosa come i 5S che nel frattempo erano diventati la forza politica di maggioranza relativa. Per quelli come me che vedevano nella falsa dicotomia destra-sinistra del ventennio che potremmo chiamare berlusconiano la pietosa menzogna coltivata per monopolizzare la politica da parte di due schieramenti che sui punti fondamentali camminavano invece gomito a gomito, si intravedeva una via per uscire da questa gabbia con questa inedita e a quel tempo imprevedibile alleanza.
La infausta svolta dell’agosto 2019 normalizza la politica italiana e rimette al centro del quadro politico italiano il PD che decide di allearsi con i 5S ma ancora una volta di rimessa.
Se voi ci pensate, a partire dalla discesa in campo di Berlusconi, il PD si è fatto concretamente veicolo passivo della UE, dei suoi paesi leader, e di tutta l’aggregato di potere sovranazionale che essa esprime. Per diventare appetibile agli elettori, il PD sfrutta abilmente un antiberlusconismo molto ostentato ma di fatto inconsistente.
Oggi, similmente, il PD prende ancora ordini da Bruxelles, e decide di cedere il ruolo di protagonista a quello stesso Conte che come dicevo altrove rappresenta la personificazione del trasformismo. Non è una scelta politica che può fruttare al PD, ma come si fa ad inventarsi una linea politica di cui si è scelto di fare a meno ormai da un quarto di secolo? Così, la strategia diventa quella di creare un super-PD inglobando nel suo corpaccione i 5S ormai allo sbando, in corso avanzato di balcanizzazione, e ciò che resta di LEU, sempre più inutile, soprattutto dopo la scissione di Renzi che ha tolto dal PD l’elemento più indigesto a quell’area.
Salvini è da una parte un politico sprovveduto per l’infausta svolta del Papeete, ma anche scalognato perchè è incappato nella pandemia. La pandemia ha colpito al cuore la Lega mettendone a nudo la sostanziale divisone interna e la provvisorietà di ogni segno di opposizione, vuoi verso la UE che verso i temi fondamentali, vuoi verso le misure anti-COVID sollevavano e che hanno valenza ben più ampia della contingente vicenda di tipo sanitario.
Incapaci di costruire un percorso di uscita dalla UE, incapaci di resistere alla narrazione mediatica della vicenda COVID, tutti i partiti sono stati messi a nudo nella loro funzione ormai marginale di copertura formale delle decisioni prese altrove e di strumenti ormai di convogliamento del consenso elettorale attraverso più o meno abili slogan, senza essere più portatori di reali alternative né politiche, né tanto meno ideologiche, uno strumento come tanti altri attraverso i quali un potere sempre più anonimo e oligarchico sta uccidendo ogni parvenza di democrazia nel nostro paese.
Chi oggi si allarma per Draghi, scambia insomma il segnale ormai visibile della crisi profonda e forse irreversibile della democrazia con la stessa crisi che data da ben più tempo e che lungo il 2020 si è assestata fermamente con la vicenda COVID. Dico irreversibile perchè quella crisi si basa su una scelta anch’essa ormai consolidatasi di superamento della costituzione, cioè della sua messa da parte ormai ridotta a un valore puramente simbolico. L’afasia del sistema politico italiano, aggravata dall’incapacità dell’organizzazione di nuove forze e di nuovi progetti politici, è la vera conferma che la democrazia è ormai in stato avanzato di coma.
Per capire come Draghi non sia il punto dirimente, basti riflettere sul fatto che egli è chiamato a sostituire Conte: davvero è questo passaggio che ci allarma, Conte quindi ci garantiva?
Tornando al tema iniziale, come si fa a confrontare una situazione di dichiarazione di morte del sistema politico italiano, con lo sforzo di lavorare assieme a un comune progetto partendo da ipotesi politiche in sé divergenti?
La situazione è esattamente opposta, allora il governo comune serviva a mettere da parte le differenze che costituivano la fonte dei problemi, oggi la fonte die problemi è la conformità totale, l’assenza di progetti e la pura e semplice funzione di gestione al servizio di poteri altri e lontani.
NB_tratto da facebook

Per una nuova integrazione economica franco-italiana, di Alessandro Aresu

Un punto centrale della collocazione internazionale dell’Italia, divisa ed assorbita dalla anglosfera, dall’influsso transalpino e da quello tedesco secondo una precisa scala gerarchica, potenzialmente disfunzionale. Il problema, soprattutto verso una potenza di dimensioni paragonabili con quella italiana, è ancora di più la qualità, la capacità e l’ambizione della nostra classe dirigente, nemmeno capace di selezionare decentemente i propri interlocutori d’oltr’Alpe, vedi l’affare Telecom_Giuseppe Germinario

Marcello De Cecco era un personaggio unico sia per la sua curiosità che per la diversità dei suoi interessi. È morto nel 20161. Economista e storico abruzzese, come il grande banchiere umanista Raffaele Mattioli, De Cecco ha saputo coniugare nella sua carriera apertura internazionale e divulgazione giornalistica. Attento osservatore degli squilibri nella zona euro e delle ambiguità dell’ondata di privatizzazioni italiane degli anni Novanta, De Cecco è anche all’origine dell’idea che qui analizzeremo e riprenderemo: l’integrazione economica franco-italiana.

Questo il titolo di un articolo ormai dimenticato del ricercatore italiano pubblicato su Le Monde nel 19932. L’articolo prende come punto di partenza il “terremoto” geopolitico e monetario dei primi anni 90. Alla fine della Guerra Fredda, De Cecco ha visto una tendenza neogolliana tra i leader tedeschi. La Germania si preparava ad “affrontare il mare aperto della politica internazionale” investendo massicciamente nelle sue regioni orientali. La priorità per Francia e Italia era capire il nuovo ruolo svolto dalla Germania. Secondo De Cecco, “un’Europa balcanizzata è perfetta per la nuova Germania”: il più alto livello di integrazione economica potrebbe essere raggiunto dall’ex Germania dell’Est formando un nodo strategico più ampio a livello dell’Europa centro-orientale, prima in ambito geoeconomico, poi in altre aree di integrazione. Il vecchio equilibrio integrazionista, fondata su una Germania divisa, era già obsoleta. L’unico modo per bilanciare il nuovo gigante, secondo De Cecco: “un’altra entità di dimensioni paragonabili alla Germania. Questa nuova entità può essere formata solo da una più profonda integrazione economica tra Italia e Francia. ” Perché ? “Da un punto di vista industriale, l’Italia è una Germania in scala ridotta. Ma, dove è debole, l’industria francese è forte. ”

La “nuova entità economica latina” non è germanofoba, ma indica un problema inevitabile che si presenta all’integrazione europea, quando questa è legata solo a una catena del valore geo-economica tedesca in crescita.

ALESSANDRO ARESU

Nel 1993, questa sostanziale parità in termini di punti di forza rendeva difficile il perseguimento, ma le integrazioni e le fusioni aziendali sembravano ancora possibili nei settori automobilistico, chimico, aeronautico e persino l’industria dell’acciaio. De Cecco ha anche ricordato il percorso già intrapreso nell’industria alimentare e nell’elettronica. Ha accusato i francesi di non avere la volontà politica di concretizzare i progetti industriali di cui sopra. E ha invitato gli “orgogliosi cugini transalpini” ad abbandonare gli stereotipi offensivi dei mafiosi e dei mangiatori di spaghetti italiani. Era quindi il momento di capire che una più profonda integrazione con una più ampia economia tedesca e con un centro di gravità allargato avrebbe portato a un’erosione della “individualità economica” della Francia. L’opzione italiana, invece, ha costituito la via ideale per la potenza francese, che ha saputo dispiegare anche la sua “capacità di costruzione e gestione delle infrastrutture” all’interno di uno spazio geopolitico. Su questo punto, il dono profetico di De Cecco ci riporta subito al nostro presente: il “ nuova entità economica latina Non è germanofobico ma indica un problema inevitabile che si presenta all’integrazione europea, quando questa è legata solo a una catena del valore geo-economica tedesca in crescita. De Cecco ha avanzato un argomento politico: “Non è possibile credere, anzi, che italiani e francesi si sottometteranno tranquillamente alla necessità di chiudere sempre più fabbriche nei due Paesi, che saranno, s «restano divisi, schiacciati dalla produttività della rinnovata industria tedesca, rafforzati dai bassi salari dei paesi dell’Est, a cui le aziende tedesche stanno già trasferendo la produzione. “L’integrazione franco-italiana potrebbe dialogare su un piano di parità con la Germania, potrebbe concentrarsi sul” collegamento ferroviario rapido Torino-Lione, alla gestione congiunta dei porti del Mediterraneo, che oggi hanno una concorrenza assurda, agli accordi tra le acciaierie di Taranto e Fos, le più moderne d’Europa, alla creazione di grandi holding franco-italiane in aeronautica, chimica, petrolifera e, soprattutto, nel settore automobilistico. Per questo De Cecco ha fatto appello alla “tradizionale capacità visionaria dei leader francesi” che “non può restare fissa sull’asse Parigi-Bonn”.

È proprio l’attualità delle questioni industriali sollevate da De Cecco che dovrebbe portarci a interrogarci sul nostro presente. Tra gli altri attori globali, i progetti industriali e geoeconomici sono ancora quelli di trent’anni fa? Leggendo questo articolo visionario, l’impressione di aver perso tempo è opprimente. Un’impressione diversa da quella che si può avere negli Stati Uniti, Cina, Giappone, Corea del Sud, Taiwan: luoghi che non hanno mai smesso di inventare il futuro. Non credo che De Cecco conoscesse nel 1993 il testo di Alexandre Kojève sull’impero latino, riapparso nel 19903, ma non posso escluderlo: in ogni caso si è avverata la sua profezia sullo scenario europeo di un allargamento della sfera economica tedesca e centro-orientale, mentre non è apparso alcuno “spazio latino”. . Non credo nemmeno che i “leader francesi visionari” – attori politici, industriali o finanziari – abbiano letto il testo di De Cecco mentre organizzavano le loro “campagne italiane”. Ma questa bottiglia in mare può permetterci di ottenere una fotografia di un momento importante per le nostre nazioni, in una svolta nella storia europea.

L’unione tra Francia e Italia rappresenta oggi circa il 26% del PIL dell’Unione, il 22,4% dei posti di lavoro e il 23,2% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il peso dell’Italia nell’economia europea è diminuito nell’ultimo decennio, quello della Francia è rimasto stabile, quello della Germania è aumentato. Il volume degli scambi tra Italia e Francia nel 2019 è stato di 86 miliardi di euro.

Ma per riportare in vita queste figure, torniamo alla nostra storia, e al grande Abruzzo della finanza italiana, Raffaele Mattioli, che in particolare ha contribuito a finanziare gli studi di Marcello De Cecco a Cambridge.4, classe 1939. Nel 1939 il giovane banchiere Enrico Cuccia sposò la figlia di Alberto Beneduce, ideatore dell’IRI, il cui nome era – in realtà – Idea Nuova Socialista. Mattioli offrì a Cuccia una mappa gigante (circa tre metri per due metri e mezzo) della Parigi del XVIII secolo, quando Michel Etienne Turgot lavorava come prevosto dei mercanti.5. Cuccia ha sempre tenuto il Piano di Parigi nel suo ufficio in Mediobanca, la banca di investimento del capitalismo italiano, che rappresentava anche un legame con il sistema francese, in particolare grazie alla grande amicizia tra lo stesso Cuccia e André Meyer, lo storico leader di Lazard negli Stati Uniti.

I legami instaurati tra istituzioni finanziarie come le banche rappresentano una delle caratteristiche a lungo termine del rapporto franco-italiano.

ALESSANDRO ARESU

Mediobanca è un hub finanziario: tra i partner francesi, oltre a Lazard, ci sono stati più recentemente player come Dassault, Groupama, Bolloré, la banca d’affari italiana che ha acquisito nel 2019 la francese Messier Maris. La storia delle banche italiane ha avuto diversi altri esempi. I legami che si instaurano tra le istituzioni finanziarie rappresentano una delle caratteristiche a lungo termine del rapporto franco-italiano. Possiamo ad esempio citare il finanziamento di missioni di interesse generale, che è sempre più importante nel nostro tempo. Nel 1816 la creazione della Caisse des Dépôts et Consignations fu opera del Conte Corvetto, ministro delle finanze francese nato a Genova. Il mondo italiano è stato quindi diviso e frammentato, rispetto alle opportunità offerte dalla Francia. La sua “sorellina” italiana, la Cassa Depositi e Prestiti, nasce nel 1850, prima dell’Unità d’Italia. Anche Roma si è rivolta a Parigi su questi temi negli ultimi tempi, quando ha cercato di integrare nel sistema italiano le lezioni del modello Bpifrance.

Oggi viviamo in un contesto diverso da quello di Cuccia e Lazard, e da quello di De Cecco. Viviamo all’ombra del conflitto tra Stati Uniti e Cina e vediamo nel capitalismo politico la progressiva espansione della sicurezza nazionale6. La Germania si è evoluta nella gestione di questa crisi, rispetto alla crisi precedente che ha indebolito tutti gli europei. Ma resta da dimostrare la capacità di realizzare progetti europei nel nostro continente. Dobbiamo raccogliere grandi sfide, come quelle che Emmanuel Macron ha esposto nella sua intervista con il Grande Continente . Quando si tratta di salute, digitalizzazione, sostenibilità, questo decennio porterà vincitori e vinti e cambierà le nostre società. Il fiume impetuoso dell’innovazione minaccia di mandare alla deriva gli europei, dopo un decennio di addormentarsi e perdere opportunità.

Borsa-Euronext, FCA-PSA, Fincantieri-STX, Essilor-Luxottica-Mediobanca-Unicredit-Generali, Tim-Vivendi-Mediaset, Crédit Agricole-Creval, Leonardo-Thales, Stm: questi sono, tra gli altri, industriali e a cui partecipano Francia e Italia.

L’Italia è la grande sconfitta nei trent’anni che ci separano da Maastricht e dal progetto De Cecco. È ovvio. Noi italiani dobbiamo riflettere sulla nostra debolezza. Il fenomeno delle multinazionali “tascabili”, che è comunque il nostro capitalismo medio, come descritto negli studi di Giuseppe Berta7e Dario Di Vico, devono affrontare disagi senza precedenti. La riluttanza finanziaria e organizzativa del motore essenziale del nostro sistema economico, le medie imprese con capacità internazionale, non è sostenibile nel medio termine. Inoltre, l’azionista Stato italiano si è ritirato da alcune aree (telecomunicazioni, autostrade) dove il settore privato non ha ottenuto buoni risultati. In questa fase lo Stato, attraverso strumenti finanziari e fondi sovrani, torna in prima linea. Alcuni imprenditori italiani si rivolgono alla Francia con una strategia di lunga data, a partire da Leonardo Del Vecchio, mentre è innegabile il coinvolgimento finanziario e industriale francese nel nostro Paese.

A mio avviso, è essenziale pensare in termini di dimensioni e scala: nel nostro mondo presente e in futuro, difficilmente possiamo fare nulla senza una scala rilevante.

ALESSANDRO ARESU

A mio parere, è essenziale pensare in termini di dimensioni e scala: nel nostro mondo presente e in futuro, difficilmente possiamo fare nulla senza una scala rilevante. Il sistema finanziario italiano non ha potuto trarre alcun reale beneficio dagli insegnamenti di Antoine Bernheim, nonostante quest’ultimo sia stato a capo di Generali da molti anni. È il suo sostegno ad Arnault e Bolloré che gli è valso giustamente il soprannome di “padrino del capitalismo francese”8. Tuttavia, noi italiani non avevamo un Thierry Breton nazionale per unificare i nostri servizi di sistema informativo. Alla fine degli anni ’90 Telecom Italia era di gran lunga la migliore azienda di telecomunicazioni in Europa. Un “complotto automobilistico” italiano lo ha seriamente indebolito modificando gli equilibri di potere. Ma le grandi società di telecomunicazioni europee devono affrontare gli stessi problemi di redditività se vogliono essere competitive in termini di frontiere tecnologiche, e queste domande riguardano anche i francesi.

L’Italia ha perso, ma la Francia non ha certo “vinto”. La pandemia ha solo confermato il fatto che i due paesi hanno difficoltà comuni. In assenza di un equilibrio di potere tra i due Paesi, negli ultimi anni è emersa una strategia offensiva, in quanto i francesi hanno esercitato maggiori pressioni sull’Italia, attraverso una serie di acquisizioni e operazioni in diversi settori industriali. . Ma questo non è stato fatto senza resistenza: tutti i paesi sono impegnati in una “corsa alla sicurezza nazionale”, che è e sarà rafforzata dalla pandemia. Nessuna strategia industriale su scala bilaterale o continentale può funzionare senza un tessuto di fiducia. Altrimenti prevarrà la resistenza all’integrazione ei mercati europei non avranno un governo industriale autonomo,

Inoltre, dovremo anche trattare tutti con la Germania dopo l’era Merkel , una situazione che non si era mai vista prima. Nello sviluppo della costruzione europea è secondo me impossibile che, in un futuro irrigidimento della posizione tedesca, la Francia lasci sola l’Italia ad affrontare il suo destino. Troppi legami uniscono i due paesi. I sentimenti degli italiani per la Francia oscillano tra complesso di inferiorità e fastidio. Si tratta di un problema reale, a cui è legata la convinzione degli italiani che l’opzione francese potrebbe essere messa in discussione da un improbabile ingresso dell’Italia nell’Anglosfera.. Sul piano geopolitico, la Francia ha spesso agito in sottile o aperto contrasto con l’Italia, senza trarne alcun reale vantaggio. Basti pensare alla guerra in Libia. La colpa è della Francia, la sconfitta è di entrambi. Sul nostro terreno di gioco nessuno ha i mezzi per comportarsi da “padrone”: siamo ridotti a fare appello agli Emirati sul terreno. Ma possiamo davvero continuare così? No, soprattutto perché le storiche divergenze tra le nostre aziende in campo energetico stanno affrontando un terremoto tecnologico e finanziario. Devono anche affrontare nuovi “campioni” in nuove arene.

Su quali basi possiamo ricostruire l ‘“integrazione economica franco-italiana”? Non tornerò qui nei dettagli di tutte le pratiche industriali e finanziarie aperte, ma le traccerò.

Primo punto: dobbiamo parlare francamente dei nostri contrasti, invece di tornare ai vecchi “file” o perdere tempo. Ce lo deve insegnare soprattutto la vicenda Fincantieri-STX e il susseguirsi di alti e bassi nel settore delle telecomunicazioni: non dobbiamo tardare a mettere sul tavolo i nostri interessi senza dare alla situazione il tempo di deteriorarsi. Altrimenti, continueremmo a riempire sempre di più le tasche degli avvocati. Una forma di sostegno economico indiretto, certo, ma che non è esattamente ciò di cui hanno bisogno le nostre economie.

Dobbiamo mostrare a una nuova generazione che la dimensione mediterranea non è una chimera. Come dice spesso il ministro Giuseppe Provenzano, siamo una generazione cresciuta cullata dalla “promessa” di un’unione tra il Mediterraneo e l’Africa che non ha prodotto alcun effetto reale.

ALESSANDRO ARESU

Secondo punto: i gruppi che saranno il risultato di una nuova unione franco-italiana non possono essere guidati solo da francesi. Certo, la Francia è un’economia più grande dell’Italia e ha un sistema istituzionale migliore. Non c’è bisogno di negarlo. L’Italia, invece, ha ancora dei punti di forza e non può essere “acquisita” dal sistema francese, in particolare perché in settori strategici è tecnicamente impossibile farlo senza un accordo. Altrimenti, le reazioni renderebbero le relazioni disfunzionali. Quando parlo di gruppi, intendo anche le aree che contano davvero: alta tecnologia, elettronica, ingegneria dei sistemi, difesa e sicurezza, infrastrutture, finanza.

Terzo punto: dobbiamo mostrare a una nuova generazione che la dimensione mediterranea non è una chimera . Come dice spesso il ministro Giuseppe Provenzano, siamo una generazione cresciuta cullata dalla “promessa” di un’unione tra il Mediterraneo e l’Africa che non ha prodotto alcun effetto reale. L’ opzione “latina” di De Cecco può avere senso solo se, in questi campi logistici, economici e geopolitici, la collaborazione italo-francese darà i suoi frutti. Una collaborazione che può essere svolta anche nel campo della finanza sostenibile, in un percorso già avviato dalla Francia con Finance in Common , che potrebbe essere ripreso dal G20 sotto la Presidenza italiana.

Quarto punto: dobbiamo anticipare il terremoto nella catena del valore tedesca, nei suoi collegamenti con la produzione italiana di componenti e robotica industriale, che è ancora un settore di eccellenza. Dobbiamo coordinare gli investimenti in nuove catene di approvvigionamento di elettricità e tecnologie all’avanguardia in relazione ai mercati europei e alle catene di approvvigionamento manifatturiere, anche attraverso relazioni più strette con università, politecnici e centri di ricerca. Ricerca. Non diciamo mai più che dobbiamo creare una DARPA o BARDA europea se non siamo in grado di farlo entro un anno, se non siamo in grado di riguadagnare la nostra ambizione,

Dal 2018 Francia e Italia discutono del Trattato del Quirinale. Tutti questi elementi possono far parte di un nuovo patto tra Italia e Francia, di cui dovremmo discutere il più rapidamente possibile, mentre siamo ancora di fronte alla tempesta del coronavirus e delle sue incognite. Dovremo essere pronti almeno per ottobre 2023, quando festeggeremo i trent’anni dalla pubblicazione dell’articolo di De Cecco.

FONTI
  1. Questo testo inedito riprende diversi studi sui rapporti economici e geopolitici tra Francia e Italia, pubblicati dal 2016 sulle riviste italiane Limes , Atlante Treccani , L’Espresso .
  2. Marcello De Cecco, “Per un’integrazione economica franco-italiana”, Le Monde , 2/10/1993. Sui progetti franco-italiani dei primi anni ’90 si legge la testimonianza di Paolo Savona, Come un incubo e come un sogno. Memorialia e moralia di mezzo secolo di storia , Rubbettino, 2018.
  3. Alexandre Kojève, L’empire latin (1945), in “Le regole del gioco”, I, 1990, 1
  4. Secondo la testimonianza di De Cecco in La figura e opera di Raffaele Mattioli , Ricciardi, 1999
  5. Cfr. L’opera di Giorgio La Malfa, Cuccia e il segreto di Mediobanca , Feltrinelli, 2014 o l’articolo di Fulvio Coltorti, “La Biblioteca storica di Mediobanca”, 8/10/2014, http: //www.archiviostoricomediobanca .mbres.it / documenti / FC_presentazione% 20della% 20Biblioteca% 20Mediobanca.pdf
  6. Alessandro Aresu, L’ Europa deve imparare il capitalismo politico , Le Grand Continent, 10 novembre 2020
  7. Giuseppe Berta, Che fine ha fatto il capitalismo italiano? , il Mulino, 2016
  8. Pierre de Gasquet, Antoine Bernheim: il padrino del capitalismo francese , Grasset, 2011.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/01/12/integration-economique-franco-italienne/?mc_cid=7aaa6f21c8&mc_eid=4c8205a2e9

Tre piani a confronto….e il bluff, di Giuseppe Germinario

Ad una rilettura il mio articolo del 23 dicembre scorso “tre piani a confronto…” http://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ mi era apparso eccessivamente livoroso. I contenuti li ho ritenuti validi, ma il tono troppo spietato per una partita tutto sommato ancora in buona parte da giocare. Colpa probabilmente della claustrofobia sedimentata in settimane di reclusione in una stanza d’ospedale.

Devo ricredermi! La realtà delle cose sta assumendo aspetti ancora più irrealistici e prosaici, mi si perdoni il gioco di parole.

Un giallo che sta assumendo i tratti multicolori di una farsa, elevando con ciò la compagine di governo, in particolare la triade Conte, Gualtieri, Di Maio e con un paio di rare eccezioni ridotte ormai al ruolo di mera testimonianza, la stessa riservata nel Conte I a Luciano Barra Caracciolo, al rango di giocatori delle tre carte.

In quell’articolo avevo sottolineato con forza che il piano di investimenti, il pezzo forte del PNNR (NGEU) italiano, sarebbe rifluito progressivamente in un recupero di investimenti in realtà già programmati e finanziati. Avevo specificato per altro che il documento prevedeva questa possibilità, ma di fatto avevo attribuito ai condizionamenti politici esterni, in particolare quelli dei ventriloqui della Commissione Europea, alla mancanza di ambizione e strategia del piano, al dissesto istituzionale e alla inadeguatezza dell’apparato tecnico-amministrativo centrale l’inesorabilità di quell’inerzia. Invito chi non lo avesse fatto, a leggerlo con una buona dose di pazienza.

Le fibrillazioni politiche interne allo schieramento politico che sostiene il governo hanno portato alla luce intanto uno degli aspetti cruciali di un piano mantenuto nella riservatezza e nel mistero, possibilmente sino al suo varo: i 4/5 di quel piano di investimenti sono già il recupero di opere già programmate e finanziate.

https://www.agi.it/estero/news/2020-12-31/discorso-fine-anno-angela-merkel-10867389/

Così recita il Ministro Gualtieri: “L’unico momento in cui la discussione si e’ accesa e’ stato quando il ministro Gualtieri ha ribadito che l’Italia non si puo’ permettere di puntare tutti i prestiti europei su progetti aggiuntivi perche’ questo farebbe schizzare il debito e rischierebbe di far saltare il percorso di rientro approvato in Parlamento. “

Quello che sarebbe stato l’esito di una inerzia delle cose, è in realtà una scelta politica ex ante del Governo.

Se si aggiunge il fatto che già dal 2023, non alla scadenza decennale del piano di azione, è già previsto un programma di rientro del deficit pubblico intorno al 2,5% medio annuo, di fatto una massa finanziaria all’incirca equivalente ai finanziamenti europei, il quadro diventa leggibile e trasparente, non ostante l’evasività mistificatoria dei nostri saltimbanchi; il Recovery Fund (NGEU-PNNR), almeno per l’Italia, si sta rivelando una mera partita di giro o poco più.

È l’evidenza che un accordo politico, magari di massima, con i ventriloqui della Commissione Europea c’è già, di fatto se non ancora formalizzato; un accordo frutto di una presa d’atto piuttosto che di una trattativa vera e propria.

Le fibrillazioni politiche non devono ingannare. I sussulti che scuotono il governo sono tutti interni a questa logica e se la tentazione di esasperare una strumentalizzazione a fini di bottega dovesse alla fine prevalere, gli efficaci strumenti di persuasione, trasformismo o di annichilimento non mancheranno di certo. Né del resto dalla parte dell’opposizione politica appaiono forze credibili, di una certa consistenza, capaci ed realmente intenzionate a sostenere uno scontro ed un confronto politico così arduo.

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I portatori di questa dinamica sono nel PD, le mosche nocchiere sono in Italia Viva, gli insulsi, gli inconsapevoli e gli opportunisti di basso rango nel M5S.

Forze che trovano lì, a Parigi, a Bruxelles, a Berlino, dire anche a Washington sarebbe forse una sopravalutazione, la propria legittimazione e la propria ragione d’esistenza.

Qualche beneficio d’inventario, con qualche buona volontà, lo si potrà pur concedere: il trasferimento possibile dalle spese ordinarie agli investimenti, sia pure sempre meno strategici, può rientrare nel ventaglio dei margini operativi; gli stessi investimenti già previsti, programmati e finanziati, senza il Recovery Fund rischierebbero di essere quantomeno dilazionate; la stessa consistenza effettiva dei piani di rientro del deficit dipendono molto dall’accondiscendenza politica verso i ventriloqui della C.E., dalle dinamiche geopolitiche ad essa legate e dai rischi politici interni al paese. Tutti fattori che potrebbero agire quantomeno nella funzione di moltiplicatore keynesiano del piano, almeno nell’immediato; non nella futura posizione strategica del paese.

Qualche beneficio d’inventario in meno, in verità uno spreco criminale alla luce del futuro che si sta profilando, si stanno rivelando la pletora di bonus elargiti allegramente e meschinamente nella fase iniziale di emergenza.

Ma ormai nelle dinamiche della UE le opzioni di politica economica dell’Italia sono strette non in una, bensì in due morse: quello del principio di austerità che deve regolare il rientro del deficit pubblico; quello della rimessa in discussione, per inadeguatezza del piano, dello stanziamento dei fondi di NGEU. Due ganasce che sottendono dinamiche geoeconomiche e geopolitiche interne alla UE e soprattutto esterne ad essa che vanno bel oltre le capacità di comprensione e di azione del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente; limiti che stanno portando questi ultimi ad un livello di connivenza e complicità a titolo sempre più gratuito.

Lo stellone, le competenze sempre più disperse e il genio italico, sia pure appannati, purtuttavia rimangono e covano sotto le ceneri; emergono qua e là, capaci di disegnare gioielli come l’ultima portaerei varata a Trieste. Sono strumenti però utili, tra i tanti possibili, a chi li sa e li vuole utilizzare.

Già in altre fasi storiche il genio e lo stellone italici hanno tratto il classico coniglio dal cappello nelle situazioni più complicate e disperate, a partire dal conseguimento stesso dell’Unità d’Italia e dalla fondazione della Repubblica. Lo hanno potuto fare nei momenti più traumatici e drammatici. Oggi la situazione è, almeno per il momento, diversa. Viviamo in una fase nella quale la rana, cioè noi, si trova immersa ancora in una pentola ravvivata a fuoco lento. Più sarà lenta la fase di ebollizione, meno la rana capirà in tempo utile o in extremis in quale gioco nefasto, ma inizialmente confortevole è andata a cacciarsi.

grazie Boris, di Giuseppe Masala

Accordo sulla Brexit fatto. Ora bisogna certamente lasciare il tempo di far leggere agli esperti le oltre 2000 pagine ma qualche considerazione preliminare può essere fatta sulla base di quanto letto sul Financial Times che è certamente un quotidiano britannico, ma altrettanto certamente era schierato con gli eurofili britannici.
Il punto dirimente per come la vedo io è che Londra ottiene una corte apposita che arbitri le controversie che si verificheranno in futuro. La Corte di Giustizia europea è tagliata fuori. Dunque la Gran Bretagna esce nettamente dal giogo europeo.
L’Europa si accontenta dell’uovo oggi lasciando perdere la gallina domani: niente dazi e contingentamento di merci, dunque non perde il ricco mercato britannico.
Dunque, uno a uno? Direi di no, la Eu ha accettato questo compromesso perchè nelle more del disastro economico in corso la perdita del mercato britannico sarebbe stato un danno devastante, in alcuni stati in particolare; Francia che ha uno dei suoi pochi segni positivi sulla bilancia commerciale proprio con la Gran Bretagna, Irlanda, che se perdesse il mercato inglese o muore di fame o osce dalla Ue, ma anche Italia e ovviamente Germania hanno molto da perdere, la Germania certo poteva resistere il colpo, ma all’Italia mancava solo questo per completare un disastro a livelli che è impossible anche immaginare la profondità. Bruxelles tutto sommato limita i danni immediati. Ma perde la speranza di tenere Londra come una sorta di protettorato a sovranità limitata.
In compenso i danni a lungo termine per la UE sono devastanti. Perde il primo esercito, la prima diplomazia, il primo mercato finanziario, la seconda economia della UE. Lascia inoltre a Londra la possibilità di maramaldeggiare diplomaticamente. E soprattutto è indicata la strada per l’uscita agli scontenti. Ora tutti sanno che si può e che la UE non è così forte da poter infliggere danni irreparabili né diplomatici, né economici. Grazie Boris!
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