CRIMEA, DONBASS E DNEPR: RADICI DELLA CRISI NEL CUORE DELL’EUROPA, di Marco Giuliani

CRIMEA, DONBASS E DNEPR: RADICI DELLA CRISI NEL CUORE DELL’EUROPA

Una crisi che nasce da lontano

Nel caso della Russia moderna e contemporanea, così come per l’Ucraina, non è affatto facile ricostruire un percorso storico-politico coerentemente legato al concetto di Stato in quanto entità sovrana caratterizzata da confini geografici predefiniti. Ciò è dovuto soprattutto ad antichi motivi etnici, culturali, linguistici e sociali. La ricerca storiografica, nel tempo, si è orientata infatti ad analizzare come, limitatamente dal punto di vista sociologico, scientifico ed eziologico il multiculturalismo delle aree comprese in particolare tra la parte orientale dell’ex impero zarista e la parte slava riferita alla vecchia Polonia e all’Austria-Ungheria, fosse divenuto oggetto di scontri, tensioni, rivalse e rivendicazioni territoriali. Nonostante le difficoltà di ricostruzione, resta forte motivo di interesse individuarne le cause principali.
Osserviamo che nel Settecento e nell’Ottocento, le secolari comunità ucrainofone, presenti per la quasi totalità presso alcune zone centro-meridionali situate accanto al fiume Dnepr, erano prevalentemente un popolo contadino circoscritto in relazione a una variabile linguistica in virtù della stragrande maggioranza russofona estesa verso Est. Questo vale soprattutto per la Crimea, allora abitata da coloni detti “grandi russi” e da comunità di origine tatara, e per le zone di Donetsk e Rostov sino a lambire Karkiv, che per convenzione, vengono oggi considerate parte integrante della regione del Donbass. Le sottili differenze di cui sopra, oltre alle cause descritte, erano ingigantite in primo luogo dal fatto che non fossero stati definiti confini fisici, e in secondo luogo dal fatto che la presenza russa riguardava i centri urbani e relegava indirettamente le comunità ucraine a una distinta condizione di ceto bracciantile. In un contesto così frammentato, si andava ad aggiungere la diversità del credo religioso: i russi, i polacchi e gli ucraini si differenziavano in quanto rispettivamente ortodossi, cattolici romani e uniati (l’uniatismo, o greco-ortodossia, è un sostantivo dispregiativo usato per definire gli osservanti cristiani che rispettano il culto della Chiesa di Roma ma si dedicano a pratiche religiose locali). Di conseguenza, durante il XIX secolo la distinzione si accentuerà anche per suddette cause; come è evidente, è stato ed è molto difficile ancora oggi quantificare o stilare ogni tipologia di schematizzazione su valori nazionali o squisitamente geopolitici.

1897: i primi censimenti

Il primo vero censimento della “fetta” paneuropea dell’Impero zarista risale al 1897, e fu effettuato su basi fiscali, ovvero su chi e quante tasse versava allo Stato. Ne risultò che i Russi rappresentavano il 44,3% della popolazione, gli Ucraini il 17,8, i Polacchi il 6,3 e i Bielorussi il 4,7. Tutto il restante era costituito da comunità Kazake, Tedesche, Lituane, Lettoni, Estoni, Rumene, Armene, Georgiane, Tatare e Uzbeke. In relazione a questa interconnessione di culture e appartenenze, appare evidente a prescindere che i Governatorati istituiti al tempo per dare una sorta di delimitazione alle varie province, non erano affatto sufficienti a selezionare geograficamente e politicamente le zone sottoposte alla giurisdizione imperiale. Rileviamo, inoltre, che in seguito il governo (esattamente nel 1914-15) diede la possibilità ai residenti delle aree più ramificate sotto l’aspetto linguistico di scegliere se registrarsi o meno secondo la definizione di “ucraini russofoni”.
Di fronte a una così complessa condizione di multietnia e plurilinguismo, un minimo di semplificazione ebbe luogo solo a margine della Rivoluzione del 1917, che, come sappiamo, si compì in pieno primo conflitto mondiale. Approfittando della forte instabilità determinata dalla Grande Guerra, le popolazioni del basso Don, quelle per intenderci comprese tra le province di Donetsk e Luhans’k, rivendicarono l’autonomia dal potere centrale e a febbraio del 1918 proclamarono unilateralmente la Repubblica Sovietica del Donec-Krivoj-Rog (in russo Донецко-Криворожская). Tuttavia, a solo un anno di distanza, il partito bolscevico, nel frattempo salito al potere, inglobò sine die la piccola repubblica in quella ucraina, più vasta, che nel 1922, assieme alle altre, avrebbe dato vita alla costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (U.R.S.S.).
La questione legata all’autonomismo delle comunità periferiche dell’ex impero si intrecciò inevitabilmente con l’aspetto socioeconomico; la modernizzazione degli apparati industriali e tecnologici, accelerata dalla NEP (Nuova Politica Economica), incentivò fortemente l’abbandono delle campagne da parte dei contadini, i quali invasero i centri urbani ponendo l’intero paese di fronte a svolte epocali. Così, centinaia di migliaia di ucraini diedero luogo a quella “russificazione” – del tutto spontanea – che segnò la fine della solidarietà di stirpe (o etnica) mantenuta sino a quel momento con i villaggi rurali limitrofi. Va sottolineato che alle soglie del Novecento i contadini impegnati nei campi ammontavano a un numero di circa 25 milioni su un totale di 70 milioni di abitanti. Nell’assimilazione di ampie comunità ucrainofone all’interno dell’amministrazione russa, intesa anche e soprattutto come possibilità di emancipazione lavorativa e sociale, intervennero dunque fattori esclusivamente asimmetrici rispetto a quelli considerati come “discriminanti culturali”. In pieno XX secolo, tollerare di “russificarsi” significò in modo implicito la piena accettazione della forza attrattiva esercitata dalla possibilità di nuove aspettative di vita, che si legavano via via anche alla condizione di burocratizzazione di cui era oggetto il gigante sovietico. Insieme allo sviluppo dei grandi poli industriali (enorme fu l’attività della costruzione di nuove ferrovie avviata dal ministro delle Finanze Sergej Vitte) marciava di pari passo l’istituzione di migliaia di uffici governativi, di apparati politico-amministrativi e di distretti militari; ciò significava lavoro, occupazione e reddito, ovvero altri elementi di assorbimento che conferivano alle comunità ucraine una progressiva e ulteriore “russificazione”, la quale divenne, in parte, anche linguistica.
Il Donbass e i suoi tesori

Il Donbass, in quanto polo industriale che attinge risorse dai suoi grandi giacimenti minerari, non nasce oggi, tantomeno nel Novecento. È in realtà da prima del Settecento che quest’area millenaria, compresa tra le coste del Mar Nero e gli Oblast di Luhans’k e Belgorod (in pratica, una linea parallela al Don che corre dalla Crimea e va a Nord), grazie anche agli investimenti di paesi stranieri, rappresenta un sito naturale di inestimabile valore che gli zar sfruttarono sino al tempo della grande esplosione demografica e operaia. Oltre a favorire l’esodo dalle campagne, i giacimenti del luogo richiamarono una certa abbondanza di manodopera per l’industria che comportò al tempo stesso la radicalizzazione delle tensioni sociali; queste, provocate dai bassi salari e dalle cattive condizioni di vita della classe operaia, presero sempre più corpo incentivando l’associazionismo dei lavoratori in funzione antigovernativa. Come si può evincere, le note differenze etnico-culturali tra le comunità russo-ucraine ebbero anche implicazioni politiche, che di fatto continuarono a impedire una perdurante stabilità di governo.
«Se lavorerete per il presente, il vostro lavoro resterà insignificante. Bisogna lavorare pensando al futuro». Nel citare questo sillogismo di Anton Pavlovic Cechov, è opportuno ricordare che la classe dirigente russa, nelle prime due decadi del Novecento, aveva tentato di avviare alcune riforme – di cui una relativa alla attribuzione delle terre ai contadini, i quali, come nuovi proprietari, andarono a ingrossare le già nutrite fila dei kulaki, i “signori della terra” – che lenissero il malcontento delle classi meno agiate. Non bastò, e gli scioperi e le proteste di piazza si moltiplicarono, così come l’allestimento dei gulag, dove vennero deportati gli oppositori politici del Cremlino.
Lo spartiacque costituito dal secondo, tragico, conflitto mondiale, diversificò ma non smorzò le tensioni che si trascinavano oramai da decenni. L’invasione nazifascista della Russia (denominata Unternehmen Barbarossa), avvenuta nel 1940, che ne determinò un’occupazione durata circa 3 anni, fu caratterizzata, tra gli altri eventi, dalla costituzione di un esercito paramilitare ucraino in funzione antirussa e dall’arruolamento spontaneo di almeno 250 mila volontari nella Wermacht e nelle Shutz-Staffel (le ben note SS), i quali parteciparono attivamente allo sterminio degli ebrei del luogo. Trattavasi di ultranazionalismo radicato che avrebbe, nel tempo, mantenuto le sue tristi affinità con alcuni movimenti politici locali abbastanza diffusi.

Acutizzazione delle tensioni

Come si diceva, tensioni mai sopite, in cui intervennero nuove discriminanti diacroniche; liberata l’Europa dalle potenze dell’Asse e superato il periodo di Guerra Fredda, le incomprensioni assunsero un contenuto più squisitamente economico e sociale. La dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenuta nel 1991, che sancì l’indipendenza delle repubbliche federatesi nel 1922, rese i rapporti tra Mosca e Kiev mutevoli e controversi, o quanto meno più complicati dal tempo della già menzionata “russificazione” delle aree orientali ucraine. Tutto il bacino degli Urali e le regioni distribuite a est – compreso evidentemente il Donbass – hanno dato e danno attualmente lavoro a decine di migliaia di cittadini con passaporto russo, di lingua e religione filorusse, e ciò ha comportato ulteriori motivi di scontro non solo identitari e sociali, ma, come detto, anche economici. Non va dimenticato neanche che nel referendum del 1991 il 20% degli ucraini, corrispondente a circa 8 milioni di elettori, si pronunciò a favore del mantenimento federativo con la Russia.
Col passare degli anni, la posizione geopolitica dell’Ucraina ha peggiorato questa condizione, specie in relazione all’attrattiva costituita dal mercato libero legato alla UE, che l’alternanza dei governi ha di volta in volta valutato, caldeggiato o meno in base alle congiunture storico-economiche; il paese si è infine letteralmente lacerato tra quanti propesero a favore dell’avvicinamento all’Europa e quanti sostennero l’indipendenza dall’Ucraina mantenendo rapporti strettissimi di lavoro, vicinanza e amicizia con Mosca. Un attrito che provocherà una profonda ferita nel cuore dell’Europa e per la quale si attende il tanto auspicato annuncio di una tregua. Magari con il contributo di paesi terzi che in questo momento sembra stiano affossando qualsiasi possibilità di dialogo.

MG

FONTI & BIBLIOGRAFIA

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A. Franco, Gli ucraini dell’impero zarista nell’Ottocento, Università degli Studi di Udine (a cura di), 2015 –
G.Giardina – G. Sabbatucci – V. Vidotto, L’età contemporanea, Roma/Bari, Laterza, 2000
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E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito e realtà, Torino, Einaudi, 1991 –
L. Hughes, Pietro il Grande, Torino, Einaudi, 2003
ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), Sez. Ricerca, Europa e Governance Globale, vedi notizie crisi Russia-Ucraina –
O. Pachlovsk a, L’antimito dell’Ucraina come sistema, in Miti antichi e moderni tra Italia e Ucraina, a cura di K. Konstantynenko – M. M. Ferraccioli – G. Giraudo, Padova, EVA, 2000

N. Werth, Storia della Russia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2000 –

CHI ANDRA’ALLA FIERA DELL’EST ? BOICOTTANO LA RUSSIA SOLO IN UNA TRENTINA E NON TUTTI SINCERI…, di Antonio de Martini

CHI ANDRA’ALLA FIERA DELL’EST ? BOICOTTANO LA RUSSIA SOLO IN UNA TRENTINA E NON TUTTI SINCERI…

Questo é il tabellone del voto dell’ONU che illustra con un + i paesi che hanno votato a favore della censura alla Russia; con un X gli astenuti e con il colore rosso i contrari. Il quadratino nero – se preferite, vuoto, contraddistingue i paesi che hanno marinato la votazione e mancano i paesi sospesi dal diritto di voto come il Venezuela.

Sembra tutto molto facile da capire, ma esistono una serie di paesi che dopo aver riconosciuto e deplorato l’aggressione russa, si sono defilati e si premurano a dichiarare che non adotteranno altre sanzioni che quelle morali già comminate.

Qualche altro, come la Serbia, ha dichiarato per bocca del suo presidente di aver votato sotto minaccia di sanzioni troppo letali per il suo paese. Altri – come L’India, il Pakistan e la Bosnia Erzegovina – sono oggetto di battaglia di influenze perché adottino una posizione o l’altra.

Chi ha riassunto in maniera analitica lo stato delle sanzioni , diviso tra sanzioni militari ed economiche e articolato anche per società che hanno deciso il ritiro dagli affari coi russi, é l’agenzia Reuter che non ha bisogno di presentazioni:

https://graphics.reuters.com/UKRAINE-CRISIS/SANCTIONS/byvrjenzmve/

In buona sostanza, si tratta di una trentina di paesi che l’Agenzia ha trifolato a diverse creando un data base interattivo molto bello, ma serve sopratutto a chi voglia sostituirsi ai boicottato per decidere dove rivolgersi per sostituirli.

I paesi che per ora hanno apertamente rifiutato di comminare sanzioni alla Russia sono: Cina, Messico, Georgia, Egitto, Serbia, Moldova, Kazakistan, UAE, Arabia Saudita,Sud Africa, Nicaragua, Bolivia, El Salvador e Argentina.

Gli altri , non compresi tra la trentina di ossequianti e gli apertamente ribelli, hanno deciso di tacere e far finta che nulla sia avvenuto.

Un uomo d’affari che ho incontrato, mi ha fatto questa considerazione: “Gran parte del gas che giunge in occidente, arriva tramite pipeline che transitano attraverso il territorio ucraino.

Zelenski potrebbe chiudere i rubinetti , ma preferisce lasciarli in funzione perché incassa fior di quattrini.

Comodo far la guerra a spese degli altri.” E poi mi ha girato la mappa delle basi USA che vengono rifornite di gas e petrolio proveniente dalla Russia. Ve la giro

Nella foto a fianco: Una mappatura delle basi NATO e USA in Europa alimentate in carburanti grazie alla rete proveniente dalla Russia. A questo punto dovremmo dire ” vai avanti tu che io ti seguo.”

https://corrieredellacollera.com/2022/05/01/chi-andraalla-fiera-dellest-boicottano-la-russia-solo-in-una-trentina-e-non-tutti-sinceri/

MA COSA E’ LA NEUTRALITÀ E CHE DIFFERENZA C’E’ CON I NON ALLINEATI ?_di Antonio de Martini

MOLTI CREDONO CHE NEUTRALITÀ SIGNIFICHI AMBIGUITÀ ATLANTICA. INVECE SIGNIFICA INDIPENDENZA DALL’IMPERIALISMO DI ENTRAMBI

Illustriamo con una serie di carte geografiche l’evoluzione del concetto di neutralità e quello di non allineamento. Partiamo dalla vigilia della seconda guerra mondiale e dal patto di Monaco che illuse molti con la frase famosa di Chamberlain ” peace in our time”. Voleva solo guadagnare un anno per mettere in linea gli “Spitfire.”

LE CARTINE SONO COPYRIGHT DI ANTONIO de MARTINI

Dalla carta dell’Europa di oggi, risultano chiari alcuni elementi chiave per capire le situazioni: Vi sono quattro paesi neutrali che formano quasi una corona protettiva attorno all’Italia e il ” buco ” NATO é rappresentato da paesi a cui é stata l’Italia a proporre l’entrata nella alleanza atlantica e nel suo dispositivo militare. Spagna e Portogallo – ex neutrali- si sono aggregati alla NATO al fine di migliorare la loro integrazione con il resto d’Europa, mentre i paesi ex appartenenti al patto di Varsavia hanno fatto altrettanto dopo il crollo dell’URSS, grazie al quale, il confine é passato dal fiume Elba ( Berlino) al Dniepr ( Kijv) con una progressione, in avvicinamento a Mosca, di 1347 km. senza colpo ferire. I neutrali del nord Europa sono sottoposti a pressioni per aderire alla NATO con ‘obbiettivo di chiudere l’uscita del Baltico ai russi, come questi vogliono chiudere agli USA il mar nero privandoli delle basi.

Per essere al riparo dalla famelicità altrui bisogna anzitutto avere una favorevole posizione geografica e politica. Spagna, Portogallo e Turchia si sono trovate in questa posizione. La catena delle Alpi, oltre a proteggere la Svizzera favorisce anche il nostro paese. I paesi scandinavi – che simpatizzarono con le potenze dell’INTESA, rimasero neutrali e la Finlandia, già appartenuta agli zar, fu oggetto di un tentativo russo e di uno di rivincita finlandese, entrambi non riusciti. L’est dei Balcani si schierò con la Germania e l’Ovest con gli inglesi anche se la Jugoslavia fu oggetto di due colpi di stato tra i contendenti e finì smembrata con un ” Regno di Croazia” affidato a un Savoia. Danimarca e Paesi Bassi finirono occupati dai tedeschi e l’Islanda dagli inglesi. Le Repubbliche baltiche dai russi prima e dai tedeschi poi. Le sorti della guerra furono comunque decise dall’entrata in guerra di russi e americani alleati dell’Intesa per forza maggiore, dopo un periodo di non allineamento.

Ora che dovremmo avere più chiare le idee grazie alle carte geopolitiche comparate, possiamo definire quali siano le caratteristiche che consentono di sottrarre i rispettivi popoli alle pressioni dell’una o dell’altra parte interessata ad acquisire e/o mantenere satelliti nella propria sfera di influenza.

Il paese deve essere armato e – come per l’approvvigionamento energetico- possibilmente non da un solo fornitore di armi o di Know How. L’ideale é rappresentato dalla Thailandia che partecipa regolarmente a manovre militari sia con gli USA che con la Cina e , da quest’anno, invia i propri cadetti alle scuole militari russe.

Oggi come oggi, la dimensione – se preferite la “massa critica” di una potenza militare che si rispetti é quella continentale e quindi, nel caso nostro, l’Europa. Ammucchiare alcune brigate e chiamarle esercito europeo sarebbe un’idiozia già provata con la brigata franco tedesca che il presidente Hollande, all’epoca, sciolse senza nemmeno informare i Partners tedeschi che il reggimento francese lasciava l caserma.

Vanno integrati i sistemi industriali, i criteri formativi e di addestramento, gli organici e le truppe vanno inquadrate da un corpo di ufficiali e sottufficiali poliglotti come avviene in Svizzera. Il problema della lingua é già risolto per le forze aeree che usano l’inglese. Sarebbe un paradosso, ma é pratico e utilissimo.

Torniamo alla neutralità e definiamola rispetto al ” non allineamento”. Durante gli anni della ” guerra fredda” alcuni paesi guidati da Nehru, Tito e Nasser, Nkrumah ( Ghana), tutti antimperialisti, in odio all’idea di doversi accodare ai vecchi padroni che avevano cambiato pelle, proclamarono a chiunque volesse ascoltare che essi non avrebbero preso posizione per l’uno o l’altro contendente e riuscirono ad adunare attorno a questa tesi una trentina di paesi ( Conferenza di Bandung nel 1955, a iniziativa di India, Pakistan, Birmania, Ceylon, Indonesia e Repubblica popolare cinese) diventati col tempo sessanta. Non tutti rigorosamente ” non allineati” ( vedi Cina) , ma certamente aspiranti alla pace e alla non ripetizione di esperienze coloniali.

Il New York Timesel 26 aprile 2022 ha coperto la notizia con un articolo su sei colonne che ” girano” dalla prima pagina.

Poiché la prospettiva che abbiamo é – come minimo – la ripresa della guerra fredda a livello planetario, sarebbe bene rievocare quella esperienza alla quale stanno già aderendo, forse inconsapevolmente, molti paesi, specie in chiave antimperialista.

Il movimento dei non allineati esiste tutt’ora, conta 120 paesi e 17 osservatori ed é presieduto dal presidente dell’Azerbaijan, ma ha perso la forza trainante di personalità come Sukarno o Nehru, ma i recenti avvenimenti stanno imprimendo maggior velocità ai paesi partecipanti e si notano prese di posizione non solo in allontanamento dagli Occidentali, ma anche dalla Russia ( Cuba, Serbia, Venezuela) come dagli USA ( Messico, Tanzania, Uganda).

L’arrivo della guerra in Europa sta creando una voglia di neutralità documentata dalle sei colonne del New York Times del 26 aprile u.s. e dal Washington Times del 27 u.s. Una voglia che manca ai nostri rappresentanti politici, ma non a noi. E questo spiega le pressioni al limite del ricatto che le due parti esercitano in questi giorni sui paesi giudicati meno decisi.

SEI COLONNE DEL NEW YORK TIMES DEL “26 APRILE 2022 DEDICATE AL FENOMENO DELLA CRESCENTE TENDENZA AL NON ALLINEAMENTO:

WASHINGTON TIMES el 27 aprile che esprime dubbi circa l’equilibrio di Biden ed esclude abbia carisma.

La domanda che il mondo intero si pone é se valga la pena di seguire su una strada tanto pericolosa un leader inconsistente e non equilibrato. Se valga la pena – a parte cedere un pò di ferraglia per averne in cambio dagli USA fondi agevolati per acquistarne di nuova- rischiare il nostro approvvigionamento energetico e un mercato di 150 milioni di persone con reddito piccolo ma crescente per non dispiacere a un presidente che non piace più nemmeno a chi lo ha eletto. Nell’articolo qui sotto troverete i numeri di chi si é astenuto: il 55% della popolazione mondiale.

IL VOLTO DELLA GUERRA CIVILE RUSSO- UCRAINA E LA SUA DURATA ed altro_di Antonio de Martini

QUANDO GLI ANGLOSASSONI PARLANO DI FOSSE COMUNI, CAMPI DI CONCENTRAMENTO E DISTRUZIONI DI CASE, SE NE INTENDONO. SANNO MENO DI NEUTRALITA’ E RISPETTO DELLE ALLEANZE.

Si parla spesso della guerra civile di Spagna del 1936 per invocare analogie con la situazione ucraina attuale. Si cercano parallelismi blasfemi tra i volontari che accorsero da ogni parte d’Europa e dalle Americhe in difesa della Repubblica spagnola ( il fior fiore dell’intellighenzia di ogni paese, tutti disinteressati, molti morti, nessun prigioniero, alcuni poi famosi come: André MalrauxJohn Dos PasosErnest HemingwayRandolfo PacciardiIljia EhrenburgMarta Gelhorn, ).

Nulla a che vedere coi sottufficiali istruttori inglesi di oggi, che, per salvare la pelle, come ogni onesto mercenario professionista reduce dalla Siria, dallo Yemen e dall’Afganistan é pronto per lo scambio di prigionieri e l’incasso del bonus.

La somiglianza tra i due conflitti si limita alla eterna tentazione degli Stati Maggiori di testare ” sul campo” l’efficacia tecnica di nuove armi – tipo il Javelin – il missile anticarro che si impenna per colpire i mezzi corazzati dall’alto – la zona meno protetta – dotato di una doppia carica esplosiva che scoppia in differenziata: la prima per neutralizzare la mini carica esplosiva posta dietro le piastre di protezione della torretta che svia la prima esplosione; la seconda carica cava giunge così a diretto contatto, e distrugge il carro.

Gran successo. Peccato che ne siano stati prodotti solo seimila annualmente.

In Spagna, ad esempio, i tedeschi testarono la tecnica di bombardamento in formazione che distrusse Guernica e i russi i primi carri armati sovietici classe T.

E’ all’addetto militare francese a Madrid – colonnello Henri Morel – si deve la prima relazione sugli effetti psicologici di un bombardamento su persone ( lui stesso) in ambienti non fortificati. Ammise, pur essendo un reduce di guerra, dopo un bombardamento aereo italiano, di essere rimasto oltre un’ora inebetito, benché incolume ( rapporto al 2eme bureau del 22 ottobre 1937 “lezioni tattiche della guerra di Spagna”).

Le mitragliatrici furono invece collaudate da Lord Kitchener nella campagna del Sudan contro il Mahdi ( morto mesi prima)del 1898. A Ondurmann, le perdite umane sudanesi furono enormi ( in un giorno, tra morti e feriti oltre ventimila popolani sommariamente armati che attaccavano con vecchie sciabole, falci e archibugi spinti dal fervore religioso) contro perdite irrisorie dello schieramento britannico: 46 di cui oltre la metà soldati e graduati egiziani . Ufficiali inglesi caduti: tre.

Il razzismo innato degli inglesi impedì loro di capire che la mitraglia avrebbe avuto effetto anche sui bianchi e offrì inconsapevolmente alla mitraglia una intera generazione di inglesi e francesi che ne venne sterminata pochi anni dopo sui campi della Marna, della Somme e di Verdun.

Più simili all’attuale, i conflitti immediatamente precedenti la guerra mondiale, come ad esempio il conflitto anglo-boero ( e , in parte la guerra italo-turca in Libia che vide il primo uso del bombardamento aereo con un tenente dei bersaglieri che tirò un paio di bombe a mano su un accampamento beduino).

In sud Africa, si inaugurarono, i campi di concentramento per donne e bambini dei boeri che continuavano la guerra ad oltranza. Gli bruciavano le fattorie e i familiari venivano lasciati morire di inedia e di fame e di malattie, al punto che una eroica donna inglese Emily Hobhouse condusse una feroce campagna contro il governatore locale Alfred Milner, accusandolo – dopo un giro di ispezioni grazie alle sue conoscenze altolocate – di aver istituzionalizzato questi trattamenti inumani, le fosse comuni ed altre forme di brutale inciviltà che oggi vengono rimproverati a Israele e ai russi, per piegare i coloni riottosi al volere di sua maestà e allo sfruttamento britannico delle miniere d’oro.

Alfred Milner, Alto Commissario e Governatore della Colonia del Capo dal 1897 promosse la guerra contro i Boeri per conquistare le due repubbliche governate dai coloni bianch di origine olandese dello Stato Libero di Orange e della Repubblica del Sud Africa del presidente Paul Kruger.

Gli appetiti inglesi su quelle terre nacquero nel 1867 con la scoperta della più grande vena d’oro mai trovata nel Transvaal.

La conquista condotta con mano ferma e senza scrupoli fruttò all’Inghilterrauna nuova perla perll’impero e a Milner il titolo di Visconte. Cecil Rodhes, l’uomo più ricco del mondo alla sua morte delegò a Milner la gestione delle sue immense ricchezze perché le usasse per salvaguardare l’impero. e la supremazia della razza bianca. L’ex presidente degli USA Bill Clinton é stato un borsista della Fondazione Rodhes.

I due si ritroveranno su opposte barricate anche in occasione del primo conflitto mondiale di cui Milner fu poi uno degli artefici, assieme a Georges Clemenceau, entrambi legati anche dalla comune corrisposta passione per Lady Violet Cecil, nuora di Lord Salisbury, il primo ministro.

Anche qui, ci fu una errata valutazione della cavalleria a causa della carica di Kimberly che portò alla luce per ragioni di propaganda due dei protagonisti ( i generali John French e Douglas Haig) che poi comandarono le truppe inglesi sul continente credendo di essere ancora alle prese con contadini boeri e che il cavallo fosse l’arma risolutiva per eccellenza. Contro questi idee incrostatesi in menti anguste, si levarono prevalentemente donne di carattere provenienti dalla buona società come la già citata Emily Hobhouse Charlotte Despard ( nome da sposata, in realtà la sorella del generale French), pacifista, sindacalista e comunista.

Assisi: un momento della manifestazione straordinaria ” marcia per la pace” organizzata in questi giorni ad Assisi. La marcia ricorda i ” fioretti di San Francesco” sulla perfetta letizia che iniziano spesso con ” Andando una volta santo Francesco da Perugia ad Assisi a tempo di verno ed il freddo grandissimo fortemente il crucciava…” Ora si marcia con meno letizia e senza comunicati sui media, ma la fame di pace affligge ugualmente un largo strato della popolazione italiana.

Le azzittarono col trucco inventato da Milner in Africa della ” guerra di difesa perché aggrediti”.E continuano ancora oggi che il testimone dei Sassoni é passato agli USA dove Lady Violet Cecil trasferì, dopo il 1945 la sua rivista “ National Interest“. In pratica la lotta tra imperialismo e pacifismo é stata essenzialmente una lotta tra menti femminili inglesi, di cuore e di carattere.

Il coraggio e l’audacia sul campo di battaglia – riservato ai maschi- non furono però più l’elemento decisivo delle battaglie con l’arrivo del nuovo secolo. Il primo conflitto mondiale – come il secondo- furono vinti dai paesi con maggiore capacità di produzione industriale protetta.

All’alba del nuovo secolo – il XXI – le armi decisive stanno rivelandosi l’elettronica e la comunicazione ( e il loro abbinamento). Ecco perché l’Ucraina sembra essere vittoriosa contro un colosso industrial-militare di vecchio tipo. Ecco perché chi sta collaudando di più i nuovi metodi ( incluso il cecchinaggio dei comandanti, impiegato per la prima volta contro lo sbarco ” di prova ” della brigata canadese a Dieppe nel 1942 dai tedeschi, che indusse gli USA a mettere sul retro degli elmetti – invece che sul davanti- le insegne di grado dei comandanti) sono gli anglosassoni e chi sta imparando di più, a caro prezzo, sono i russi, come avvenne nella campagna di Finlandia ( 1939) di cui Curzio Malapararte ci ha lasciato reportages interessanti e battute indimenticabili, come la differenza con l’Italia (“i finlandesi sono praticanti ma non credenti, gli italiani sono credenti, ma non praticanti” per sottolineare che l’Italia era non belligerante, e faceva solo chiacchiere e proclami).

IL NEGOZIATO DI ISTANBUL E IL FANTASMA DELLA NEUTRALITÀ

Fedeli alla vecchia tradizione USA che finiscono per provocare proprio i fenomeni che vogliono esorcizzare, gli americani, con l’annunzio della possibile adesione alla NATO di due stati tradizionalmente neutrali quali Svezia e Finlandia, hanno aperto l’ennesimo vaso di Pandora: quello della neutralità, su cui si sta dibattendo anche a Istanbul nei giri negoziali tra Ucraina e Russia, mediati dalla Turchia di Erdogan che, con questa mossa, si é differenziata dalla posizione degli altri partner NATO senza rompere con l’Alleanza Atlantica.

Autrice feconda, Micheline Calmy-Rey già ministro degli Esteri e presidente della Confederazione svizzera, nonché presidente del Consiglio d’Europa, offre con questo libro una visione inedita dell’idea di neutralità che chiama ” neutralità attiva” e consistente nella promozione attiva dell’idea e presi di pace invece che del pavido ed egoistico ripiegarsi su se stessi in cerca di una impossibile conservazione in un mondo ormai multipolare. Con una prefazione dell’ex Presidente francese Francois Hollande e contributi dei notissimi scrittori svizzeri Jean Ziegler e Roger Koppel, l’autrice propone all’Europa una funzione che gli burocrati di Bruxelles non hanno mai saputo ideare, benché sia in perfetta linea con l’ispirazione che ha creato l’istituzione, non nata per determinare il prezzo dei fagiolini e dei cavoletti …di Bruxelles.

Su 193 paesi del pianeta, gli stati neutrali sono una ventina e due tra questi sembrano sul punto di tradire la loro quasi secolare neutralità per aderire al blocco NATO nella vana ricerca di una sicurezza che non potranno comunque avere vista la vicinanza di confine con il presunto probabile avversario. Contenti loro….

Nel nostro caso, come Europei, abbiamo la scelta di onorare i più nobili motivi per cui l’Europa ha visto la luce ( mai più altre guerre sul nostro continente) o di obbedire alle pressanti richieste di una fazione USA in via di disfacimento dato che l’attuale presidente viene ormai visto come un ” one term President” privo di carisma, seguito e capacità di governo che a novembre gli elettori probabilmente non rinnoveranno.

Tornando al conflitto in corso, la strategia generale é mutuata dall’inquadramento fornito dall’ambasciatore Friederich Werner von der Schulemburg, per lunghi anni( dal 1934 fino alla guerra) ambasciatore a Mosca ed in seguito a capo del dipartimento 13 del Ministero degli Esteri tedesco che amministrava i territori conquistati a est.

Perfetto conoscitore del russo, era nato ed era stato allevato costì, sostenne – assieme al colonnello Claus von Stauffenberg, del quale condivise il destino dopo l’attentato a Hitler, che la Germania avrebbe potuto sconfiggere la Russia solo con l’aiuto dei russi trasformando la guerra in guerra civile e a tal uopo reclutò e portò in linea con la Wehrmacht oltre 250.000 uomini, appartenenti alle varie etnie su cui oggi anche gli USA intendono far leva, fino a che Hitler proibì il reclutamento di altri volontari russi. Speculando sul fatto che le ” altre etnie” non fossero da considerare russe il reclutamento continuò, ma in sordina fino a che i due, coi tremila complici antinazisti della “ Swarze Kapelle“, non finirono sulla forca.

Lo scontro sia ormai arenato in una sorta di replica tecnologica del primo conflitto mondiale: trincee, fango, fame e scontri ” corpo a corpo” tra persone che addirittura si conoscono, assumendo sempre più i contorni di una guerra civile. Una proxy war con a contrastare la Russia, un avatar di Joe Biden che non vuole concludere una trattativa perché non può e che non può vincere perché, fino a che la Russia avrà la superiorità aerea i rifornimenti più significativi ( artiglieria pesante, aerei da caccia) non avranno alcuna possibilità di giungere al fronte.

Resta intatta la possibilità che il parallelo con Hitler si spinga fino a segrete intese con possibili cospiratori ( Medvedev, Nebiulina ecc) , ma é inutile speculare sui segreti che non si cono c’erano che tra un secolo come sta avvenendo oggi per la Germania degli anni quaranta. Resta la carta dell’allargamento del conflitto ad altre etnie ( Georgia, Cabardinia, Moldova, Turkestan).

Si arriva così al capitolo più delicato della affidabilità degli USA come alleati. Su questo tema darò a giorni alle stampe un mio elaborato sulla fine ingloriosa del comando ABDA ( American , British, Dutch, Australian area) che fu il primo tentativo di creare una forza multilaterale per contrastare l’offensiva giapponese ( altro paese definito aggressore, mentre oggi, dopo ottanta anni, tutti gli storici riconoscono che gli USA li stavano strangolando limitando la loro possibilità di espansione e approvvigionamento petrolifero:

Nello scontro, contrariamente a quanto in promessa e in premessa, le indie olandesi non vennero difese e si lasciò distruggere quanto rimaneva della flotta olandese d’oltremare, dando la colpa al Maresciallo Archibald Wavel ( inglese) incaricato di una missione impossibile, non rifornito e al cui comando vennero sottratti mezzi USA che continuarono a rispondere direttamente a Washington per poi essere gli unici siuperstiti della sconfitta navale pi dolorosa del conflitto.

A questo ” tradimento” andrebbe aggiunta una lunga linea di stati e governanti coi quali gli USA hanno iniziato guerre per poi abbandonarli al loro destino ( Vietnam, Panama, Irak, eccetera)

Il tradimento più significativo é stato l’aver ” schiodato” l’Inghilterra dal Vicino Oriente, più con rudezza che con savoir faire:

Ancora un libro , ahimè in inglese, per illustrare in 380 pagine la storia di come gli USA scacciarono dai paesi arabi e dall’Iran ogni influenza britannica inviando come rappresentante personaggi come John Landis che ” consideravano come nemico principale, non la Germania, ma l’Inghilterra” a favore della quale dichiaravano di essere scesi in campo.

Prego il lettore di notare che tutte le fonti citate sono di origine atlantica e anglosassone, escludendo ogni fonte che potrebbe essere intesa come faziosa o parziale e interessata. Con queste premesse é ovvio che la guerra ucraina durerà molto. Quando scoppiò la guerra civile in Libano, previdi venti anni. Durò diciassette e mi scuso per l’approssimazione. Questa, rischia di durare altrettanto, a meno che non riesca l’intesa con i cospiratori interni alla Russia i cui nomi non conosco ma che é facile immaginare.

https://corrieredellacollera.com/2022/04/24/il-volto-della-guerra-civile-russo-ucraina-e-la-sua-durata/

CON NESSUNO DEI DUE NEMICI E SOPRATUTTO NON CON MATTARELLA, DRAGHI, DI MAIO & CO.

UN QUARTETTO DI GERONTI CI TRASCINA VERSO LA GUERRA MENTRE IL MONDO SCEGLIE LA NEUTRALITÀ

Ecco la prima pagina del NEW YORK TIMES di oggi 26 aprile 2022. Il quotidiano USA informa i suoi lettori che la neutralità guadagna spazio nel mondo: “Leaders of many countries refuse to take either side in the ucrainian fight.” Solo in Italia si cerca la guerra. Per distrarre la gente dall’idea di rivolta?

Gli storici della romanità narrano che quando giunse a Ravenna la notizia del sacco di Roma all’imperatore Romolo Augustolo, questi, all’annunzio ” Roma é perita!” scoppiasse in lacrime credendo trattarsi della sua gallina preferita cui aveva dato quel nome.

Gli storici della nostra era, racconteranno della ben diversa profondità di pensiero del nostro Presidente Sergio Mattarella che ci ha confidato di aver pensato immediatamente a ” Bella Ciao” all’annunzio dell’inizio della guerra tra Russia e USA, spacciata per conflitto tra Ucraina e Putin.

Dopo esserci doverosamente inchinati di fronte a tanto spessore di pensiero, affidiamoci all’Europa e al presidente del ” Comitato militare della Unione Europea” generale Claudio Graziano di cui favorisco una fotografia di circa sei anni fa. Ora, sicuramente non é migliorato.

Nella foto accanto: l’allora capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, oggi presidente del Comitato Militare della UE, mentre porge la mano cameratescamente a un manichino posto all’ingresso dello stand della Fiocchi. Più democratico lungimirante di così…

Non me la sento nemmeno di risparmiarvi la foto della ministra Elisabetta TRENTA del cui spirito improntato a criteri di assoluta democraticità non é parimenti lecito dubitare dopo che ha mostrato disponibilità assoluta a mettersi a disposizione delle nostre FFAA anima e corpo.

Nella foto a fianco: Elisabetta Trenta ministro della Difesa italiana gal giugno 2018 a settembre 2019, mentre da capitano in Irak si offre. All’obbiettivo si intende.

IL dibattito sull’opportunità di esaminare tutte le opzioni ferve un pò dappertutto come é agevole vedere nella foto del New York Times di oggi ( 26 aprile 2022) sopra e su ” Le Monde Diplomatique” di aprile 2022, sotto:

Ecco su quattro colonne l’articolo del prof Guillaume Lagane, ” aggregé d’histoire” che esamina la neutralità sotto ogni aspetto.

Prospettiva negata agli italiani che, come noto sanno che la parola d’ordine é una sola ” Vincere” ( è la parola d’ordine di una suprema volontà, come cantarono i nonni prima di piangere lacrime amare).

Mi scuso con i lettori più riflessivi, ma dopo aver constatato nel pubblico la massima disattenzione per questi temi riguardanti la vita e la morte della popolazione intera, non me la sento di spiegare troppo le varie posizioni del governo italiano su questo conflitto e il bullismo dei nostri dirigenti politici che andrebbero processati per non averci preparato ad eventuali conflitti dopo oltre ottanta anni di pace in Europa.

Non abbiamo il coraggio di difendere il nostro egoistico desiderio di sottrarre figli e amici al destino di chi é impreparato: essere il campo di battaglia e assistere impotenti come nella scorsa guerra allo scempio politico, economico e sociale dell’Italia.

Poco importa che si sia favorevoli o contrari. Siamo impreparati a tutto. Qualcuno dovrà pur pagare se negli ultimi trenta anni i pochi fondi a disposizione sono stati prima assorbiti dalla Marina e poi dall’aeronautica, lasciando l’esercito in stato di minorità, anche numerica, perfino rispetto alla polizia militare ( i CC) e privo di addestramento a livello gruppo tattico, di carri armati e artiglieria pesante. Sappiamo organizzare posti di blocco e siamo imbattibili nella raccolta rifiuti….

Putin ha avvertito con una serie di segnali precisi che ha capito il gioco: ha dato prima l’allarme nucleare ( segnale agli USA, non a noi che abbiamo poco o nulla di nucleare). Visto che Biden ha fatto il nesci, ha messo in stato di allarme la flotta del Pacifico (ovvia chiamata agli USA), altro segnale che i nostri hanno finto di non capire. Negli ultimi giorni, Lavrov ha evocato più direttamente lo spettro di ” una guerra con gli USA” ed ora “di una guerra nucleare”.

La Francia dispone di una trentina di bombe “A” di modesta dimensione e le elezioni di domenica mostrano che é spaccata a metà. Gli altri sono privi di armi nucleari. La guerra nucleare non ci riguarda. Riguarda Londra e gli USA.

E’ in corso una guerra limitata ( l’equivalente della “drole de guerre” del 1940 fino a Maggio) per avere – gli USA- basi nel mar nero. Se riescono, Putin potrebbe attaccare con armi nucleari direttamente gli USA.Non ora, ma a ottobre, in maniera da essere poi protetto anche dall’inverno russo.

Distrutte venti città di grande dimensione, gli USA sono una flotta ( e un Midwest) senza un paese. La Russia ha già ricostruito dal nulla Mosca ( 2 volte), Stalingrado, Leningrado e la Russia europea. Resta un immenso retroterra con decine di città da uno/due milioni di abitanti, alcune nemmeno segnate sulla carta geografica.

La direttiva nucleare presidenziale N 159 , firmata Carter, indica che gli obbiettivi principali sarebbero le infrastrutture.

L’autorizzazione recentemente chiesta dal Presidente Biden di poter lanciare i missili per primi (” first strike”: cosa fino a pochi mesi fa impensabile) significa che sanno di essere vulnerabili, a meno che il ” first strike” non miri all’Europa e dia loro abbastanza tempo per reagire.

In buon italiano significa che la Russia non ha interesse ad attaccare l’Europa, ma se decide di reagire potrebbe attaccare direttamente Londra o gli Stati Uniti. Questi, fin de non recevoir, cercano di coinvolgerci sperando che il primo campo di battaglia diventi il nostro continente.

La Cina lo ha capito. Il New York Times lo ha capito. Le Monde Diplomatique lo ha capito. E chi finge di non capire, é un beota o un traditore.

https://corrieredellacollera.com/2022/04/26/con-nessuno-dei-due-nemici-e-sopratutto-non-con-mattarella-draghi-di-maio-co/

“NON CE NE SIAMO DIMENTICATI”. Sul discorso del presidente Putin del 27 aprile 2022, di Roberto Buffagni

NON CE NE SIAMO DIMENTICATI”. Sul discorso del presidente Putin del 27 aprile 2022.

 

Il discorso del presidente Putin al “Consiglio dei legislatori” del 27 aprile1 segue immediatamente le dichiarazioni del Ministro della Difesa e del Segretario di Stato americani a Kiev2, che individuano come obiettivo strategico “rendere la Russia incapace di ripetere un’aggressione come quella all’Ucraina“; e la riunione della NATO a Ramstein, con le dichiarazioni del presidente Biden, secondo il quale ci troviamo in un frangente storico analogo al crollo dell’URSS3.

Le dichiarazioni ufficiali americane chiariscono che l’obiettivo strategico statunitense è la distruzione dell’integrità politico-territoriale della Russia, una frammentazione della Federazione russa sul modello jugoslavo analoga a quella che seguì il collasso dell’URSS. Infatti, solo così è possibile “rendere la Russia incapace di ripetere un’aggressione come quella all’Ucraina“. Finché la Russia resta politicamente coesa, essa resterà una grande potenza, che sarà SEMPRE in grado di muovere guerra ad altri paesi. Non lo sarebbe più soltanto quando fosse disgregata in entità politiche troppo piccole e deboli per designare autonomamente un nemico.

Ovviamente, su questa base è assolutamente impossibile ogni trattativa tra Ucraina e Russia, tra paesi occidentali e Russia. Le dichiarazioni ufficiali americane risultano infatti in una chiara minaccia esistenziale per la Russia.

Il discorso del Presidente Putin ne prende atto, e reagisce con fermezza, chiarendo che la Russia è disposta a opporvisi con tutti i mezzi a sua disposizione, e si richiama all’esperienza storica del suo paese:

Non abbiamo dimenticato i barbari piani dei nazisti per il popolo sovietico: scacciarlo. Ricordate, vero? Volevano costringere chi ne fosse in grado a lavorare come schiavi, a fare un lavoro servile, costretti in schiavitù. Chi venisse ritenuto superfluo, andava inviato oltre gli Urali o al Nord, per estinguervisi. Questo progetto è documentato, documentato storicamente. Noi non ce ne siamo dimenticati.

Ricordiamo anche come gli stati occidentali hanno incoraggiato terroristi e criminali nel Caucaso settentrionale nei primi anni ’90 e 2000, come hanno sfruttato i problemi del nostro passato, problemi reali, ingiustizie del passato nei confronti di interi popoli, compresi i popoli del Caucaso. Ma non lo hanno fatto per renderci migliori, nient’affatto. Hanno fatto tutto questo per riportare nel nostro presente i problemi del passato, per incoraggiare atteggiamenti separatisti nel nostro paese, e finalmente dividerlo e distruggerlo. Ecco perché hanno fatto tutto questo. Volevano ricacciarci nell’arretratezza. Molti hanno cercato di fare lo stesso con la Russia, in tutte le epoche.

[…] “Consentitemi di sottolinearlo ancora una volta: se qualcuno intende intervenire dall’esterno e creare una minaccia strategica per la Russia per noi inaccettabile, deve sapere che i nostri attacchi di rappresaglia saranno fulminei. Ne abbiamo gli strumenti, strumenti di cui nessun altro, oggi, può disporre. Non ci limiteremo a minacciare; li useremo, se necessario. E voglio che tutti lo sappiano: tutte le decisioni necessarie, su questo punto, sono già state prese.”

Da quanto sopra risulta che la Russia si dispone a combattere con tutte le sue forze per la propria sopravvivenza, e che è pronta a compiere gli stessi – spaventosi – sacrifici che l’hanno salvata dalla distruzione sia nella Seconda Guerra Mondiale (27 milioni di morti), sia nel più lontano passato, ad esempio contro l’invasione delle forze di coalizione europee guidate dalla Francia napoleonica.

Il 30 maggio 1962, alla Camera dei Lord, il Maresciallo Bernard Montgomery, Viscount El Alamein, disse: “Rule 1, on page 1 of the book of war, is: ‘Do not march on Moscow’.

L’Italia sta per partecipare a una guerra che si propone lo scopo di distruggere la Russia senza darsi neppure la pena di dibatterne in Parlamento. Per il bene dell’Italia, è necessario che tutti gli italiani protestino con la massima fermezza, in tutti i modi possibili e legali, contro questa decisione politica che coinvolge loro e i loro figli in una avventura bellica sciagurata.

2 “We want to see Russia weakened to the point where it can’t do things like invade Ukraine.” (Ministro della Difesa Austin) https://www.pbs.org/newshour/world/blinken-austin-return-from-visit-to-ukraine-say-russia-is-failing-in-war-efforts

GUERRA EUROPEA. PROSSIMA FERMATA: SARAJEVO_di Antonio de Martini

Lo stiamo anticipando da oltre un anno. Buona lettura, Giuseppe Germinario

COME SI FA A FAR MONTARE LA TENSIONE SPERANDO IN UNA NUOVA GUERRA: DUE STUPIDI E UN PRETESTO

Certo, serve un mascalzone come innesco, ma é presto trovato nell’ex diplomatico ( alla Di Maio) e ” professore” di Scienze politiche NEDZMA DZANANOVIC che ha dichiarato ” Questa crisi può essere l’occasione per la UE di liberarsi della influenza russa in Bosnia”.

C’é stata tensione in Bosnia il 6 aprile scorso , trentesimo anniversario dell’inizio della guerra e scontri – per ora verbali- tra le opposte fazioni.

La materia del contendere é risibile : il leader nazionalista serbo-croato Milorad Dodic ha però gettato benzina sul braciere minacciando la secessione.

A sinistra Milorad Dodic sopra Valentin Inzko.

Gli accordi di Dayton del 1995 – Clinton consule- hanno infatti diviso il paese in due entità federali , una

Repubblica Srpska e la Federazione Croato-bosniaca collegate da una amministrazione centrale, ma non da una comune memoria degli eventi. Lo scopo sarebbe quello di ” armonizzare” le tre comunità presenti sul territorio: I Croati ( Cattolici), i Bosniaci mussulmani e i Serbi, ortodossi.

Avevano convissuto sotto la guida del Maresciallo Tito ( Josip Broz) per mezzo secolo fino a che la segretaria di Stato USA Madeleine Allbright– nelle sue memorie dice che fu per vendicare il padre, diplomatico- non seminò zizzania fino allo scoppio del conflitto.

Il secondo stupido é, manco a dirlo, l’alto commissario internazionale della UE Valentin Inzko che per dipanare la matassa delle liti tra ex combattenti delle due parti, a luglio scorso, ha emanato un decreto ( in forza dei poteri discrezionali conferitigli dall’”accordo” di Dayton) che proibisce di negare l’olocausto di Szebrenica ( ottomila maschi morti é un crimine orrendo, ma chiamarlo olocausto può essere considerata una forzatura).

Il nuovo Alto rappresentante – Christian Schmidt– sta sottovalutando la possibilità che, in vista delle elezioni di ottobre, la minaccia secessionista serba crei un nuovo focolaio di guerra.

Ricordo , solo per inciso che in loco, a protezione della minoranza serba e dei numerosi monumenti della cristianità ortodossa ( che sono l’area costituente della nazionalità serba affermatasi nei secoli dopo la battaglia di Kosovo celebrata da D’Annunzio) giacciono di sentinella oltre duemila militari italiani e che, fino al 24 febbraio scorso, gli esperti sostenevano che anche in Ucraina non sarebbe successo niente.

Intanto, ammaestrati dall’esperienza ucraina, gli abitanti della Bosnia Erzegovina, quale che sia la loro religione, fanno la fila agli sportelli di cambio per trasformare i loro marchi ( moneta locale) in Euro e , se possono prendono la via dell’esilio preventivo.

https://corrieredellacollera.com/2022/04/21/guerra-europea-prossima-fermata-sarajevo/

 

Il partito Unico, di Michel Onfray

Ieri, mercoledì 20, Le Pen e Macron ci hanno deliziato per quasi tre ore del loro unico confronto diretto in vista delle elezioni presidenziali di domenica prossima. Un incontro finito più o meno alla pari, con Le Pen più in difficoltà iniziale e Macron nella fase finale, ma con qualche punzecchiatura efficace anche nel suo momento sfavorevole. Un duello il cui esito non riuscirà a ribaltare l’esito elettorale. Eppure lei ha avuto il tempo necessario a prepararsi e rimediare alla figuraccia di quattro anni fa. Marine Le Pen ha avuto almeno tre occasioni clamorose per affondare con durezza: sul ruolo mancato della Francia, quindi di Macron, come garante degli accordi di Minsk, il rispetto dei quali da parte del governo ucraino avrebbe certamente evitato l’attuale conflitto. Sul ruolo inesistente e controproducente della Unione Europea sulle due grandi crisi affrontate ultimamente, la crisi pandemica e la crisi ucraina e sul carattere messianico, autolesionistico e destabilizzante della sua politica di conversione energetica ed ecologica; sul ruolo della Francia come potenza mondiale piuttosto che prima donna europea senza specificare che tipo di rapporti intende instaurare con i propri vicini di casa. Solitamente l’assillo principale di ogni governo nazionale o classe dirigente che si rispetti. Nel dibattito, infatti, non a caso, è mancata una parola esplicita rispetto al convitato di pietra nello scacchiere europeo: gli Stati Uniti. Marine Le Pen, ancora una volta, ha rivelato il vizio d’origine che inficia le possibilità di successo di organizzazioni politiche radicate negli strati popolari, le quali rivendicano il diritto e la capacità di governare senza assumerne la postura e la autorevolezza: la capacità di dialogare, attrarre e conquistare parti essenziali di élites e classi dirigenti, indispensabili a far funzionare le cose e dare concretezza ai programmi di cambiamento e alle politiche alternative. Una confessione di sudditanza culturale e di subordinazione psicologica che si traduce in sterilità politica e nel ruolo di eterna oppositrice, così come egregiamente incarnata dalla Le Pen e non solo da essa, purtroppo. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Già il “partito unico” designato senza sparare un colpo a un regime dittatoriale, autoritario, tirannico. D’ora in poi è anche il segno del regime francese e questo poiché le varie consultazioni elettorali hanno sistematicamente portato alla validazione dello stesso programma da tre decenni: quello di Maastricht, di destra e di sinistra messe insieme.

Cinque anni fa era ancora possibile la scelta tra un emblematico maastrichtiano, Emmanuel Macron, e un affermato antimaastrichtiano, Marine Le Pen. Poiché quest’ultima ha affermato chiaramente di non toccare più l’euro, Schengen, i sistemi europei bancari, finanziari e giudiziari, Marine Le Pen la pensa più o meno come Emmanuel Macron. La vulgata mediatica può dire che lei è “estremamente giusta”, questa signora condivide con lui la stessa visione del mondo, il quadro , salvo, a margine, inezie su cui si eccitano gli antifascisti in pelle di pelle. l’ultimo degli studenti della Sorbona che sono più rumorosi del tema.

Tutti concordano sul fatto che i partiti politici siano ovviamente cambiati in mezzo secolo: il Partito socialista del Congresso di Épinay del 1974 propone, via Mitterrand, di rompere con il capitalismo: chi dirà che è ancora il progetto di Anne Hidalgo? Anche quella di Lionel Jospin o di François Hollande quando erano in affari? Se non quella di un François Mitterrand Presidente della Repubblica per due sette anni? Il pugno e la rosa sono scomparsi dal panorama politico francese molti anni fa.

Il Partito Comunista Francese stalinista, che fu collaborazionista con gli occupanti nazisti nell’ambito del patto tedesco-sovietico tra il 23 agosto 1939 e il 22 giugno 1941, che prese posizione contro la contraccezione, contro il divorzio, contro l’aborto, contro l’omosessualità negli anni ’50, contro il Manifesto del 121 all’epoca della guerra d’Algeria, o che, con Georges Marchais, rifiutò l’immigrazione perché procedeva dalla volontà dei datori di lavoro di impoverire i lavoratori, questo PCF n’ è di più. Da Maurice Thorez a Fabien Roussel, il cui responsabile della campagna Yann Brossat non nasconde la sua passione per l’ideologia sveglia. Lungi dalla costoletta innaffiata con vino rosso, l’acqua è passata sotto i ponti. La falce e il martello non hanno più posto tra i comunisti francesi.

La Lega Comunista Rivoluzionaria che, con Mitterrand, ha fornito molti attori del liberalismo maastrichtiano diventati devoti di Macron, non c’è più. Il progetto trotzkista di una rivoluzione proletaria internazionale viene accantonato. Il logo è cambiato. La falce del contadino e il martello dell’operaio lasciano il posto al megafono, che descrive chiaramente il progetto del Nuovo Partito Anticapitalista: un raduno di vocalist potenziati dal megafono. Il bolscevismo trotskista è fuori moda.

Il gollismo chiraquiano che espose nei suoi congressi un’immensa croce di Lorena e gigantesche foto del generale de Gaulle vendette la Francia firmando il Trattato di Maastricht che, nel 1992, gettò nella spazzatura la sovranità nazionale a favore di una nuova sovranità, quella di Jean Monnet Europa americana. Non più Croce di Lorena, non più ritratto del Generale, non più possibilità nemmeno di gollismo. Solo Valérie Pécresse rimane a dire durante la sua campagna che era tempo che una donna “gollista” (sic) arrivasse all’Eliseo. Pécresse gollista? Fammi ridere…

Allo stesso modo, Marine Le Pen non ha più molto a che fare con suo padre, di cui si possono leggere i programmi politici molto liberali degli anni ’70 e ’80 – Thatcher e Reagan erano i suoi modelli economici all’epoca. C’era nel padre una passione per il maresciallo Pétain e un odio per il generale de Gaulle che i due volumi delle sue Memorie confermano senza ambiguità.rispettivamente pubblicato nel 2018 e nel 2019, quindi era ieri. Con umorismo o ironia, cinismo o provocazione, Le Pen senior non ha mai smesso di giocare con l’Olocausto e la negazione dell’Olocausto – il dettaglio della Storia, l’Occupazione non così terribile, il “Crematorio Durafour”, recentemente la necessità di fare un “lotto” con Patrick Bruel, ecc. Questa passione maresciallista e vichy del padre non esiste più in Marine Le Pen che ha fatto dell’Olocausto il più grande crimine del XX secolo – si può immaginare che, per il suo capostipite, il crimine fondante sarebbe stato il gulag.

Ma se nessuno pensa più che il PS voglia rompere con il capitalismo, che il PCF sia contrario all’aborto e all’omosessualità, che i repubblicani difendano la nazione sovrana francese, la maggior parte crede, nonostante tutto ciò che ha detto per distinguersi dal padre, che Marine Le Pen è razzista, antisemita, xenofobo – perché non antibolscevico, sarebbe buono nello spirito! Basta confrontare le parole di Marine Le Pen con quelle di Charles Pasqua o Marie-France Garaud, Alexandre Sanguinetti e Pierre Juillet, tutti gollisti sfacciati, per concludere che il suo tropismo non è in alcun modo vichyst, maresciallista o petinista, ma neogollista .

Scrivo “neo-gollista” e non “gollista”, perché la sua recente svolta verso l’ Europa [1] la avvicina più a Chirac, il cinico attore di Maastricht, che al generale de Gaulle che passò la vita guidando i destini di una Francia sovrana nel mondo.

Un ottimo articolo di Thierry Breton [2] , che non è la mia tazza di tè politico liberale, ma che dice le cose giuste, mostra che Marine Le Pen non poteva portare a termine il suo programma rimanendo nell’Europa di Maastricht. Come Jacques Chirac ai suoi tempi, per elettoralismo, scelse di rimanere nel quadro di Maastricht, il che le avrebbe impedito di portare avanti la sua politica, tutta la sua politica, se per caso fosse stata eletta.

Ricordiamo l’avventura di Tsipras in Grecia: ecco cosa l’avrebbe aspettata se salisse al potere.

Bisogna dunque prendere in giro queste palinodie che saturano i media francesi tra le due torri e che oppongono il campo del Bene al campo del Male. La palma, nel campo dei buoni, va a Gérald Darmanin, ministro dell’Interno, comico nel tempo libero, che afferma, senza ridere: «Con Marine Le Pen forse moriranno i poveri» (sic) [3] . Serio ! Non sappiamo se è con il gas o con la ghigliottina…

Palme de l’hypocrisie a Lionel Jospin che, quattordici anni fa, nel programma Répliques de France-Culture , tornando al suo fallimento nel 2002 e alle manifestazioni che separavano le due torri con Chirac e Le Pen senior finalisti, affermò al microfono di Alain Finkielkraut che, in questa configurazione, “l’antifascismo era solo teatro” – ricordiamo che parlava allora del Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen… È lo stesso che, oggi, nella configurazione del RN di Marine Le Pen, vuole assolutamente lasciare la sua casa per recitare la scena dell’antifascismo in pelle di coniglio invitando a sua volta a votare Macron per bloccare, tralala, tralalère.

Sono innumerevoli le persone del Camp du Bien che, in processione, provenienti dallo sport o dalla cultura, dallo spettacolo o dalla televisione, dall’università o dalla politica, dal giornalismo o dalla strada, associano Marine Le Pen al fascismo, quindi, sia chiaro, a Lucien Rebatet o Robert Brasillach, rischiando o di banalizzare il fascismo di questi due, di cui, ricordiamo, il secondo ci invitava a non dimenticare i bambini ebrei deportati nei campi di sterminio nazisti, oppure a lavorare per l’impossibilità di utilizzare questa parola quando dovrebbe essere per qualcuno che se la merita – Vladimir Putin per esempio. Questa forma di negazione dell’Olocausto a cui stiamo assistendo mi ripugna.

Questo negazionismo è il cemento del Partito Unico che, in questi giorni, chiede un voto per Macron: Roussel del PCF & Hervé Morin dei Centristi, la CGT di Martinez & il MEDEF di Roux de Bézieux, Liberation of Joffrin, Médiapart of Plenel e il mondochi volete, lo Yannick Jadot degli Écolos e il Jean-Luc Mélenchon degli islamo-sinistra, il François Hollande del PS e il Nicolas Sarkozy dei repubblicani, ancora una volta amici porci, e con loro il loro seguito giustamente sconfitto, Anne Hidalgo e Valérie Pécresse, l’indescrivibile Jack Lang, i media del servizio pubblico ovviamente, Lionel Jospin ma anche Édouard Philippe, François Fillon & Jean-Marc Ayrault e Bernard Cazeneuve, quattro Primi Ministri di Maastricht, non parlo di Castex ovviamente , ministri di Mitterrand, Élisabeth Guigou, Marisol Touraine o, più sbalorditivo, Jean-Pierre Chevènement… Se fossero ancora vissuti, avremmo avuto anche Chirac & Giscard, ovviamente Mitterrand… In altre parole:tutti coloro che hanno messo la Francia nello stato in cui si trova oggi ululano al fascismo mentre il pastore gridava ai lupi! Hanno battuto la loro colpa sul petto degli altri.

Nonostante i loro deplorevoli punteggi, il PS non è morto e nemmeno LR poiché le loro idee maastrichtiane sono quelle di Macron: sono quindi al potere! Erano quelli di Sarkozy & Hollande, di Chirac & Mitterrand del resto. Contiamo quelli che vengono da rue de Solferino e dal diritto di andare al presepe macroniano per cinque anni, e per altri cinque anni la lista è lunga! Allungherà il tempo delle ricompense che verranno. Il Traditore è una grande figura della politica francese – Emmanuel Macron come ammiraglia.

Anche se venisse eletta Marine Le Pen, il sistema di Maastricht si rinnoverebbe. Domanda di tempo: un round, due o tre? C’è la domanda. Ma l’esito della lotta è noto. Non sono uno di quelli che pensa “Tutto tranne Macron”. Non ho niente contro quest’uomo che non lascerà traccia nella storia, ma ho contro il mondo che difende in cui regna il denaro – questa è la mia definizione di liberalismo. E se questo mondo deve essere difeso da Marine Le Pen, le mie armi scolpite nel legno politico degli anni ’90 del secolo scorso sono pronte.

Per me è: “Tutto tranne Maastricht”. Il resto è letteratura.

Non più del solito, e insieme a un quarto dei francesi , non voterò, perché la sera del primo turno si chiuderà la trappola su un popolo trasformato ancora una volta in un ripieno di tacchino.

Siamo sotto il governo di un Partito Unico e, per quanto possa sembrare paradossale, coronando il successo del sistema, i due finalisti difendono questa stessa ideologia maastrichtiana. Uno è il suo dichiarato vassallo, l’altro lo diventerebbe per non essersi chiaramente data i mezzi per sfuggire a questa vassalizzazione che la priva della sovranità – e quindi delle possibilità di agire… Eletta, Marine Le Pen non sconfiggerebbe l’Europa maastrichtiana, ne sarebbe disfatto.

Non possiamo liberarci di questo tipo di sistema trentennale imposto dal Partito Unico con solo scrutinio…

[1] Vedi il mio testo Le Front National est mort pubblicato il 2 aprile 2021, più di un anno fa, sul sito del Front Populaire.
https://michelonfray.com/interventions-hebdomadaires/le-front-national-est-mort?mode=video

[2] Le Figaro , 15/04/2022, “Il progetto di Madame de Pen richiede un Frexit”.

[3] Le Parisien , 14 aprile 2022.

https://frontpopulaire.fr/o/Content/co10014277/le-parti-unique?utm_source=frontpopulaire&utm_medium=newsletter&utm_campaign=nl1904fp&utm_content=parti+unique+michel+onfray+macron+le+pen

Ucraina, una realtà rimossa_con Max Bonelli

Poiché il Team di You Tube ha rimosso il video, l’unico link disponibile è quello di rumble. D’ora in poi si suggerisce di privilegiare tale accesso

La realtà della situazione in Ucraina fatica pesantemente ad emergere non ostante alcune crepe che qua e là cominciano ad emergere nel sistema mediatico nazionale. Una cappa opprimente comune a tutti i paesi europei, ma che in Italia sta raggiungendo i vertici della disinformazione più dozzinale. Negli Stati Uniti, come testimoniato anche dal filmato iniziale di questa conversazione, la situazione è in buona misura diversa e più favorevole. Merito soprattutto dello scontro politico aperto fra le compagini politiche e all’interno degli stessi centri decisori; grazie anche al fatto che quanto avviene in Europa e nell’Ucraina stessa non è solo la conseguenza, ma l’esito diretto di decisioni statunitensi prese sul campo con una catena di comando sempre più diretta. E le decisioni, per essere prese e per renderle efficaci, hanno bisogno di una relativa trasparenza nella fase di elaborazione. I paesi europei sono sempre più, con rare eccezioni, soggetti passivi di queste scelte. La mediocrità tragicamente banale del ceto politico e della classe dirigente italiani, a cominciare dai nostri due presidenti, ne sono l’emblema più disarmante e sconfortante. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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QUANDO CHI STA PERDENDO SI PORTA VIA IL PALLONE_ di Pierluigi Fagan

QUANDO CHI STA PERDENDO SI PORTA VIA IL PALLONE.

In un precedente post abbiamo usato una immagine simbolo del mondo come un pallone oggetto di giochi di contesa. Oggi continuiamo con la metafora del sogno di possederlo tutto questo pallone-mondo e laddove la realtà intralcia i sogni, si può arrivare a sottrarre l’oggetto stesso del contendere. Se non vincerò al gioco di quel pallone, mi porto via il pallone o lo buco, così nessun altro potrà giocarvi, fine dei giochi.

Ieri abbiamo assistito in mondovisione, forse per la prima volta che io ricordi, ad una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il nostro miglior uomo, nostro in quanto occidentali, ha arringato piuttosto arrabbiato il Mondo dicendo che se questa istituzione planetaria non è in grado di istruire un processo tipo Norimberga, se non è in grado di estromettere la Russia ed il suo fastidioso diritto di veto dal Consiglio di Sicurezza, allora tanto vale che l’ONU si sciolga ed ammetta la sua inutilità ed impotenza, lasciando il campo a qualche nuova forma ordinativa. Dopo settantasette anni, l’Assemblea dell’Umanità è stata arringata e sferzata da un ex comico ucraino che dopo aver invocato ripetutamente atti che porterebbero alla Terza guerra mondiale, dopo aver arringato e sgridato o parlamenti occidentali distribuendo via Zoom voti dei buoni e dei cattivi, dopo aver detto al parlamento degli ebrei israeliti di decidere da che parte stare nella grande battaglia finale del Bene contro il Male nella piana di Armageddon, arriva a dire al Mondo che deve sciogliere questa sua unica istituzione che ne riflette la globalità, visto che non riesce a decidere da che parte stare.

A fine marzo 2022 si contano 59 guerre attive di varia intensità nel mondo, ma solo la sua conta. Quella in Libia ha fatto pare 15.000 morti mal contati così come quella in Yemen, la ventennale in Afghanistan ha fatto 50.000 vittime civili, forse 200.000 in Iraq, quella in Siria ha fatto circa 500.000 morti, ma nessuno ha mai avuto la possibilità di andare all’ONU a lamentarsene.

Il corrispettivo di Zelensky nel sistema finanziario globale, il nostro miglioro uomo in quel ambito, quel Larry Fink CEO di BlackRock, ha serenamente sancito quello che già i più sapevano ovvero la fine della globalizzazione. Il denaro si traferirà sul digitale e la transizione energetica va spalmata ad anni se non decenni, nel mentre si torna al carbone o si sdogana in fretta il nucleare. I prezzi aumenteranno violentemente, ma molte produzioni prima disperse nelle catene del valore globale torneranno entro i confini dei sistemi di civiltà. L’Europa dell’est, ad esempio, potrebbe diventare il posto migliore in cui riportare produzioni appaltate in Asia, contando su poche regole e basso costo del lavoro. Ma se qualcuno in Africa o in Sud America si mostrerà buon amico del nuovo sistema occidentale, potrà meritare anche lui qualche delocalizzazione.

Nel frattempo, il sistema occidentale scopre improvvisamente che tutto ciò porta a doversi difendere dalla barbarie circondante e quale miglior difesa dell’attacco? Eccoci, quindi, tutti obbligati a riarmarci, siamo improvvisamente tutti in guerra. Tutti ora a studiare i missili ipersonici, bio-armi, cosmo-armi, psico-armi, info-armi e chissà cos’altro.

La guerra è una istituzione umana che, contrariamente a quanto alcuni ritengono, compare tardi nella nostra storia. La più antica prova di un massacro da scontro armato che abbiamo, data a soli 13.000 anni fa. Se ne trovano pochissimi altri esempi sino a che l’atmosfera territoriale in quel della Mesopotamia si scalda, più o meno a partire da 6000 anni fa. Lì si manifesta quella densità territoriale che in rapporto allo spazio e sue risorse, è il motivo per cui facciamo guerre ovvero pratica di violenza tra gruppi umani. Da allora, non abbiamo più smesso.

Finita quella ucraina scommetto sul Polo Nord, tanto lì non ci sono spettatori e ci si potrà darsele di santa ragione. Ci sono 412 miliardi di barili di petrolio e gas fossile, praticamente il 22% delle riserve globali, per un valore totale di 28.000 miliardi di dollari, più uranio, terre rare, oro, diamanti, zinco, nickel, carbone, grafite, palladio, ferro e le insidiose rotte della via della Seta del Sauron pechinese appoggiate dagli orchi russi.

Gli Stati Uniti debbono risolvere l’impossibile equazione del come mantenere un sostanziale controllo diretto ed indiretto sul Mondo onde preservare il loro comodo rapporto tra una esigua popolazione (4,5% del pianeta) ed una cospicua ricchezza (25% del Pil mondiale). Questo, nel mentre l’85% del mondo, cioè il non-Occidente, cresce in demografia e ricchezza, da decenni e per previsti decenni futuri. Il mondo si è molto densificato negli ultimi settanta anni, quindi, che si fa?

La guerra, appunto. Prima si rinserrano le fila del sistema occidentale, poi si rompe il consesso mondiale a vari livelli (la rottura delle c.d. organizzazioni multilaterali dall’ONU al WTO, continuerà nelle prossime settimane a mesi, potete giurarci), poi ci si trova nel più semplice formato “Civiltà vs Barbarie”, poi sarà quel che sarà.

La costruzione del blocco delle democrazie di mercato procede spedito a dimostrazione del fatto che tutto questo è stato a lungo prima pensato, poi preparato, ora eseguito con visione ed intenzione assai decisa. Catturata l’Europa, ora la NATO si rilancia in chiave globale. Alla riunione NATO del 6 aprile, si è messo in agenda la possibile disdetta dell’accordo del 1997 che istituì il Consiglio permanente congiunto Nato-Russia che vietava all’Alleanza di schierare ordigni nucleari nelle repubbliche ex Patto di Varsavia. Svezia e Finlandia stanno per rompere gli indugi per entrare operativamente nell’Alleanza portando la minaccia diretta a San Pietroburgo. Nel documento finale compaiono aggregati alle intenzioni nord atlantiche, gli AP4 (Asia-Pacifico-4 ovvero Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone) dopo che gli USA ed UK avevano già stretto l’alleanza militare diretta con Australia. Il Giappone, dopo lunga preparazione delle opinioni pubbliche che va avanti da qualche anno, sta valicando l’autoimposto limite al riarmo. Poi sarà l’aggiornamento dei Paesi a cui è concessa l’arma atomica. Il lungo post WWII è terminato, le potenze perdenti ora sono inglobate funzionalmente nel dominio a centro americano e così pioveranno miliardi per il riarmo di Germania e Giappone.

Tutto questo si sta svolgendo davanti ai nostri occhi attoniti. Villaggio globale, multiculturalismo, globalizzazione, soft power, governo mondiale, comunità di destino, cura della casa naturale comune planetaria ed una susseguente arruffata collezione di concetti che ancora un mese fa facevano sistema dogmatico di riferimento di ogni buon occidentale dal cuore d’oro, via. Ora il gioco diventa improvvisamente duro e quindi è il momento in cui i duri cominciano a giocare. Cominciando dal portarsi via il pallone perché o si fa parte della SuperLega delle democrazie di mercato di pelle bianca o non si gioca più. Si spara.

Non vi piace? Vabbe’, è previsto, almeno all’inizio un po’ di smarrimento è concesso. Ma vedrete che tra qualche mese, dopo bombardamenti psico-valoriali 7/24, finirete col schierarvi con Rampini. Basta con questa lagnosa autocoscienza critica occidentale, siamo la Civiltà guida ed un sordido mondo sempre più trafficato ci assedia. Tutti quindi a difendere le mura della città stante che, com’è noto, la miglior difesa è l’attacco. A livello di sistema-mondo, il motto ora è “la Russia fuori, la Cina sotto, nuovi alleati dentro”. Il regolamento di conti finale si sta preparando in gran fretta, per un Nuovo Secolo Americano questa è l’ultima chiamata e la risposta che vediamo approntarsi promette fuochi artificiali di grande effetto. Del resto senso comune dice che “non c’è due senza tre” e la prima impensabile WWIII, fa capolino all’orizzonte degli eventi che mai avremmo voluto vedere.

Punto di vista francese sulle elezioni francesi_da Front Populaire

Tutto conduce a un déjà vu. La novità di queste elezioni sembrava fosse Erich Zemmour. Troppo fragile il personaggio; troppo scolastico il programma; improponibile l’unilateralità di alcune soluzioni riguardanti l’immigrazione in un paese ormai con un quarto della popolazione d’origine nordafricana. Eppure l’organizzazione promotrice della sua candidatura è apparsa solida e ben radicata negli apparati istituzionali francesi. Il richiamo nostalgico ad un gaullismo di una Francia passata, piuttosto che un suo aggiornamento alla nuova realtà sociale ha fatto il resto. Da qui la conferma al ballottaggio dell’eterna oppositrice di comodo e di un presidente uscente frutto potente di un miracolo di mistificazione_Giuseppe Germinario

Front Populaire: Qual è l’elemento fondamentale da ricordare di queste elezioni?

Olivier Delorme: Ce ne sono diversi. Il primo è ovviamente il crollo dei due candidati in rappresentanza dei due partiti che hanno dominato la vita politica francese dal 1974 al 2017. Presentando il sindaco di Parigi e il presidente dell’Île-de-France in un Paese in cui le periferie sono in rivolta contro le metropoli della “felice globalizzazione” costituiva una provocazione quanto un suicidio. La nullità dei due candidati e il discredito di queste due forze che bloccarono la Francia in un vicolo cieco fecero il resto.

La seconda lezione è il livello molto basso di quella che comunemente viene chiamata “la sinistra” – un termine che non significa più nulla nel regime dell’Unione Europea dove è possibile un’unica politica, di destra e conforme al dogma tedesco. Queste sinistre sono più o meno al livello delle elezioni presidenziali del 1969 (31,14% contro il 31,64% del 2022), con un egemonico Jean-Luc Mélenchon (21,95%) al posto del comunista Jacques Duclos (21,27%) e atomizzate “altre sinistre ” (9,87% nel 1969, 9,68% nel 2022). Ma il PCF dell’epoca era una forza coerente, erede di una cultura e di una controsocietà profondamente radicata nella realtà francese.

Il voto di Mélenchon è un’aggregazione gassosa e instabile dei resti del “Midi rouge”, degli anticapitalisti “tradizionali”, comunitarismi e giovani borghesi dei centri cittadini intrisi di wokismo, scrittura inclusiva e tutte le sciocchezze dello pseudomodernismo, per a cui si sono aggiunti gli elettori socialisti, comunisti ed ecologisti che, secondo i sondaggi, all’ultimo momento hanno scelto di “votare utile” e di cercare di far arrivare al secondo turno il candidato “di sinistra” meglio piazzato – che avrebbe avuto il conseguenza principale dell’offrire una trionfante rielezione a Macron. Il tutto era intriso di completo irrealismo poiché i francesi sono profondamente attaccati alla Quinta Repubblica (anche se è stata sfigurata da revisioni europee e di convenienza), e poiché il programma dell’Unione popolare è incompatibile con le regole dell’Unione europea. Il colmo dell’incoerenza è stato raggiunto quando il candidato ha dichiarato che non voleva impegnarsi in nessuna resa dei conti con l’UE, ma che avrebbe inviato collaboratori che conoscevano bene il funzionamento… per negoziare il diritto di applicare il suo programma. Come Tsipras e Varoufakis. La “sinistra” francese è in realtà un papero a cui l’Ue ha tagliato la testa, ma che continua a correre.

La terza lezione è che Marine Le Pen ha una base elettorale stabile e relativamente omogenea a livello nazionale, con un’area di forza al Nord e al Grand Est e aree di debolezza nell’Ile-de-France, nelle grandi metropoli , l’Ovest, la Savoia, il Sud del Massiccio Centrale e l’estremo Sud-Ovest. Ha l’elettorato più popolare ed è al primo posto nelle categorie di età intermedia: la Francia dei dipendenti. Non ha subito la concorrenza di Éric Zemmour poiché, tra il 2017 e il 2022, ha ottenuto quasi 458.000 voti (il numero degli elettori è aumentato di 456.452). Quest’ultimo ottiene il meglio anche nelle città e nei quartieri della borghesia conservatrice.

FP: Macron sembra sorvolare le elezioni ed è stato dichiarato vincitore contro qualsiasi candidato. Come si spiega questo paradosso dopo un caotico mandato di cinque anni?

OD: Questa è la quarta grande lezione di queste elezioni: Macron non solo aumenta il punteggio percentuale del 2017, ma ottiene più di un milione di voti. In cinque anni ha cementato un elettorato liberale (da sempre una minoranza in Francia), i cattolici zombie dell’Occidente (per usare l’espressione di Emmanuel Todd), la borghesia delle grandi città (vincitrice della globalizzazione e attaccata all’inseguimento dello smantellamento dello stato sociale conseguente alla crisi del 1929 e alla seconda guerra mondiale), pensionati che si rifiutano di vedere cosa è successo ai loro omologhi greci sotto il governo della Troika – e che costituisce il programma di Macron.

Come quelli che qui sono stati giudicati eccessi di Trump e che in realtà erano messaggi inviati al suo elettorato, i continui insulti rivolti dall’attuale Presidente della Repubblica o dai suoi ministri ai francesi modesti hanno la stessa funzione – come le mani strappate e gli occhi cavati fuori durante le manifestazioni dei Gilet Gialli. Mirano a rassicurare il suo elettorato che non si indebolirà, che si farà di tutto per arricchirlo e mettere a tacere i perdenti della globalizzazione.

Questo terzo della popolazione ha in realtà aspirazioni totalitarie: mettere a tacere ed eliminare ogni opposizione attraverso la propaganda che regna nei mass media agli ordini, e se necessario attraverso la schlague e la censura. Qualunque cosa sia, questa opposizione non è combattuta nel merito, dal dibattito democratico. È screditato per quello che dovrebbe essere: fascista o assimilato per Le Pen o Zemmour; di sinistra per Mélenchon; antirepubblicani per tutti. Il metodo, di essenza totalitaria, mira ad eliminare l’avversario dal campo del dibattito ed è stato perfettamente illustrato dal rifiuto di Emmanuel Macron di confrontarsi prima del primo turno con gli altri candidati.

Detto questo, va messo in prospettiva il successo del presidente uscente, in parte dovuto al crollo del candidato LR. Mentre Macron ha ottenuto poco più di un milione di voti rispetto al 2017, François Fillon ha raccolto più di 7 milioni quell’anno, quando Valérie Pécresse non ha raccolto nemmeno 1,7 milioni. Il prelievo di voti di LR da parte di Macron al primo turno lo mette in testa, ma le sue riserve per il secondo turno si sono sciolte altrettanto. Perché è dubbio che la corrente Ciotti, che deve aver costituito una parte significativa dell’elettorato residuo del candidato LR, voti in massa per Macron.

FP: Nel 2017 la questione “europea” è stata al centro dei dibattiti. Era praticamente assente dalle elezioni del 2022. Come lo analizzi?

FARE:O i candidati sono europeisti e non vogliono che l’argomento venga discusso democraticamente poiché applicano il “metodo Monnet”. Si tratta, accumulando fatti tecnici compiuti di cui il cittadino non sa distinguere né la logica né il fine, avanzare verso il federalismo, senza dirlo soprattutto perché i francesi non lo vogliono. Macron ha anche segnato sufficientemente questo territorio perché il suo elettorato sappia che accelererà la marcia forzata verso questa Europa federale e americana. In questo senso, la vera decadenza consistente nel far sventolare due volte la bandiera europea dall’inizio dell’anno sotto l’Arco di Trionfo – questo luogo, soprattutto, simbolo delle lotte per l’indipendenza della Francia – è un segno rivolto a questo elettorato, paragonabile agli insulti rivolti alla Francia della gente comune.

O i candidati ignorano che la camicia di forza dell’euro e dei trattati europei rende impossibile qualsiasi “altra politica” e ritengono che non ci sia nulla da discutere.

Oppure, tatticamente, pensano che se parliamo apertamente di lasciare l’euro o l’Unione, perdiamo automaticamente le elezioni. Il che a mio avviso è un errore quando vediamo, ad esempio nei risultati dell’ultimo Eurobarometro, che l’attaccamento all’UE è in minoranza in Francia e, per quasi tutte le questioni, il più debole tra gli Stati membri, appena avanti o solo dietro la Grecia. Ciò è tanto più sfortunato, in un momento in cui, grazie alla guerra in Ucraina, la Commissione europea, compiendo un vero e proprio colpo di stato, sta usurpando poteri – in termini di divieto di diffusione dei media o fornitura di armi a un belligerante – che nessuno gli ha conferito.

FP: Dei 12 candidati in lizza, l’unico a porre davvero la domanda sulla nostra adesione all’Unione europea è stato Nicolas Dupont-Aignan. Ha guadagnato il 2,1%. Il sovranismo è destinato a essere impercettibile?

OD: Non significa niente e non è serio. Nicolas Dupont-Aignan ha detto tutto e il contrario di lasciare l’UE. Non è credibile. E non è il fatto di firmare ad un angolo del tavolo, in piena campagna elettorale, l’impegno a organizzare un referendum sull’uscita per ottenere l’appoggio di Generation Frexit, a sua volta frutto di una scissione dell’UPR di François Asselineau, che può rendere udibile questo discorso.

Se vogliamo diventare credibili, dobbiamo lavorare a monte, riunendo coloro che, al di là dell’arco politico, concordano sul presupposto per un’uscita per ristabilire la Repubblica e la democrazia. Dobbiamo smettere di fingere di essere noi quelli dietro cui dobbiamo schierarci. Dobbiamo costruire un programma per il legislatore e spiegare senza sosta a tutti perché i mali di cui soffrono derivano in larga maggioranza dall’abdicazione volontaria dei mezzi di azione sulla realtà da parte di politici che ora si limitano a soddisfare le ingiunzioni ideologiche di un non eletto tecnocrazia. La questione del tribuno che dovrà incarnare e portare questa parola può sorgere solo dopo che si è svolto un lavoro intellettuale e politico che non è mai stato svolto. In caso contrario, il sovranismo resterà gruppale.

Fronte Popolare è un primo passo perché è un luogo che permette l’incontro e il confronto tra le diverse correnti e personalità che rivendicano la sovranità. Ma dobbiamo andare ben oltre per costruire un programma di governo che tenga conto di tutte le dimensioni di un’uscita dall’euro e dall’UE, e riportando tutto ciò che ci divide al momento in cui, una volta compiuta l’uscita, la restaurazione della democrazia consentire ancora una volta alle persone di fare scelte reali tra politiche veramente diverse.

FP: Marine Le Pen è passata dall’eurocritica alla strategia dell’“altra Europa” che ha bisogno di essere “cambiata dall’interno”. Si può ancora chiamare sovranista?

OD: Marine Le Pen ha smesso di parlare di lasciare l’euro dal 2017. Il suo progetto prevede ora di sostituire gradualmente l’attuale UE con un’Alleanza europea delle nazioni. Quando ? Come ? Inoltre, molte delle misure che propone sono contrarie al quadro europeo così com’è e che non verrà modificato. Che si tratti della politica industriale, dell’aiuto nazionale che intende concedere agli agricoltori francesi, del rifiuto della privatizzazione del FES e delle dighe idrauliche, della priorità nazionale per gli appalti pubblici, delle misure che mettono fine alla gestione finanziaria dell’ospedale pubblico, molte proposte nel suo programma lo testimoniano al desiderio di riprendere il controllo delle leve abbandonate alla tecnocrazia di Bruxelles. Suppongono anche una rottura con i metodi della ” nuova gestione pubblica “.imposti dall’UE con l’entusiastica collaborazione di una tecnocrazia nazionale divenuta ultraliberale, metodi che fanno prevalere le logiche finanziarie sulle esigenze di un servizio pubblico efficiente.

Alcune di queste misure sono contrarie ai trattati europei, altre agli indirizzi di massima per le politiche economiche (BEPG) emanati da Bruxelles.

Marine Le Pen ha anche espresso il desiderio che la Francia non sia più l’unico Stato dell’Unione, insieme all’Italia, a pagare gli altri. Infatti, tra i grandi contributori netti [1]dell’Unione, solo questi due Stati versano l’intero contributo dovuto, mentre Germania e Paesi Bassi – che tuttavia accumulano eccedenze commerciali grazie alla sottovalutazione dell’euro rispetto ai fondamentali della loro economia – ma anche Austria, Danimarca e Svezia, hanno ottenuto cospicui sconti. Al contrario, il modo disastroso con cui Macron conduce qualsiasi trattativa europea pone un onere sempre più pesante sull’economia e sul contribuente francese. Marine Le Pen ha ribadito più volte la sua determinazione a porre fine a questo stato di cose, a ottenere uno sconto di cinque miliardi per la Francia e a destinare i soldi così recuperati dal pozzo senza fondo della tecnocrazia di Bruxelles.

Quale strategia adotterà per imporre questa politica? Seguirà l’esempio salutare del generale de Gaulle e la crisi della “sedia vuota” per fermare gli eccessi sovranazionali permanenti della Commissione e della Corte di giustizia?

Il programma di Marine Le Pen prevede anche di interrompere la cooperazione industriale con la Germania, che danneggia la nostra sovranità tecnologica e i nostri interessi industriali. Anche in questo caso, è uno dei molteplici tradimenti di Macron ad essere in discussione. L’attuale presidente infatti non ha mai smesso di spingere Dassault a realizzare i trasferimenti tecnologici che i tedeschi chiedono costantemente in numero sempre crescente, per ottenere il successo politico: la costruzione di un “europeo”. Non importa che questo successo della sua preziosa persona sia ottenuto a spese degli interessi della nostra industria della difesa!

Perché in realtà le esigenze francesi e tedesche in termini di aerei da combattimento sono divergenti e la Francia è perfettamente in grado di produrre questo aereo da sola. Ma il fanatico europeista Macron vuole un “aereo europeo” e i tedeschi – forse – finiranno per acconsentire a costruirlo solo se ottengono ciò che consentirà loro di mettersi al passo con l’industria aeronautica francese. Come per il bilancio europeo, la strategia di Macron è sempre la stessa: regalare tutto e fare della Francia il tacchino della farsa per apparire come l’europeo modello.

Quindi sì, porre fine alla svendita permanente del nostro strumento industriale e della nostra capacità di innovazione è indiscutibilmente una questione di politica sovranista. Lo stesso vale per la riforma della Costituzione che dovrebbe stabilire la superiorità delle sue disposizioni su qualsiasi norma internazionale.

L’enfasi sul nostro ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è anche una garanzia che questo seggio non sarà abbandonato all’Unione europea, poiché i funzionari tedeschi sono sempre più esigenti e poiché i macronisti lo evocano con parole sempre meno coperte.

Infine, l’uscita dall’organizzazione militare integrata della NATO auspicata da Marine Le Pen, come il discorso equilibrato della candidata sulla guerra in Ucraina, indicano che sembra determinata a rompere con l’allineamento servile con Washington in cui sono rimasti con noi gli ultimi tre presidenti .

Certamente, quindi, Marine Le Pen non è una candidata determinata a liberarci in modo rapido e radicale dalle costrizioni europee che ci stanno soffocando. La sua visione contrasta tuttavia con il tradimento permanente degli interessi nazionali a vantaggio di quelli della Germania o degli Stati Uniti incarnati da Macron. E si può pensare che se rimane fedele nell’azione ai principi del suo programma, è l’inizio di un processo di conflitto con l’UE e di riconquista di elementi importanti della nostra sovranità che si mette in moto. Questo è anche il motivo per cui Bruxelles è preoccupata per la sua possibile vittoria.

[1] Coloro che pagano al bilancio europeo più di quanto ricevono.

https://frontpopulaire.fr/o/Content/co8101581/olivier-delorme-s-il-est-elu-macron-accelerera-la-marche-forcee-vers-l-euro

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