GLI ERRORI STORICI E STRATEGICI DELL’OCCIDENTE di Gordon Hahn

Traduciamo e pubblichiamo questa approfondita analisi storica e strategica degli errori commessi dall’Occidente che hanno condotto alla guerra in Ucraina. Buona lettura. Roberto Buffagni

 

GLI ERRORI STORICI E STRATEGICI DELL’OCCIDENTE

di Gordon Hahn[1]

17 settembre 2023

https://gordonhahn.com/2023/09/17/the-wests-historical-and-strategic-miscalculations/

 

La guerra in Ucraina è in buona parte il risultato di gravi errori di calcolo strategico-storici e storico-strategici commessi dell’Occidente alla fine della Guerra Fredda. I primi errori, strategico-storici, sono implicati da una filosofia della storia escatologicamente progressista –  progressista, cioè definita in termini puramente occidentali, non a caso conformi agli interessi dell’Occidente. Il secondo tipo di errori, quelli storico-strategici, derivano da una serie di ipotesi, generate dal primo tipo di errori, sul tipo di strategia di cui l’Occidente avrebbe avuto bisogno per assicurarsi di essere “dalla parte giusta della storia”. Nel contesto di questi errori di calcolo, l’Occidente ha anche commesso una serie di valutazioni errate sulla Russia, contribuendo a produrre il dilemma di sicurezza russo-occidentale che si sta riproducendo oggi nei campi, nei villaggi e nelle città dell’Ucraina.

 

GLI ERRORI DI CALCOLO STRATEGICO- STORICI DELL’OCCIDENTE

 

(1) L’errata filosofia della storia occidentale. Il primo errore storico-strategico successivo alla Guerra Fredda si radica nella filosofia della storia escatologica e occidentalocentrica dell’Occidente. Invece di vedere lo sviluppo della storia umana come circolare, l’Occidente lo vede lineare e progressivo. Il senso – radicato nell’escatologia cristiana dell’Anticristo, dell’apocalisse, della seconda venuta di Cristo, della salvezza dell’umanità e dell’avvento del Regno Celeste alla fine dei tempi – è che la Storia si dirige verso una particolare conclusione o esito. La storia, in questa visione, non è una serie di cicli ripetuti di ascesa e caduta, costruzione e distruzione, guerra e pace. Il punto finale della storia si sta decidendo in una lotta crepuscolare tra il bene e il male, in cui il primo vincerà. Non volendo essere perdenti in questa lotta, e non essendo meno incentrati su se stessi e orientati sui propri interessi degli altri, gli occidentali immaginano naturalmente una fine della Storia in cui il modello occidentale, essendo dalla parte giusta della Storia, alla fine trionferà. Le forze che si oppongono a questa conclusione della storia sono naturalmente “dalla parte sbagliata della Storia” e “malvagie”. Non ci può essere alcuna giustificazione per le loro azioni se violano le regole della “democrazia” nelle loro nazioni, e la legge dell’espansione della democrazia in tutto il mondo – la diffusione della “buona novella” e del Verbo dei valori democratici universali a livello globale, con l’arrivo dell’inevitabile, unica pace possibile: la pace democratica.

 

(2) La teleologia occidentale della fine della Storia nella pace democratica. Il secondo errore storico-strategico è stato quello di riempire il quadro storico-filosofico con contenuti che stabiliscono che non è tanto l’Occidente in sé a guidare la storia, ma i suoi elementi di civiltà: le libertà individuali, il governo repubblicano o, dove possibile, persino democratico, e le economie di libero mercato o il capitalismo. Francis Fukuyama in “La fine della storia e l’ultimo uomo” ha esposto questo argomento. Dopo la guerra fredda e il crollo dell’impero comunista sovietico, il repubblicanesimo capitalista era l’ultima ideologia o modello che restasse in piedi. Negli anni Quaranta, le “democrazie” occidentali (le democrazie sono poche, tutti gli Stati occidentali sono repubbliche) avevano apparentemente condotto la lotta per sconfiggere il fascismo in Germania, Italia, Giappone e, come spesso si dimentica, nell’Europa orientale. Hanno poi contenuto e superato l’altra ideologia che le sfidava, il comunismo, portandolo alla disillusione nei confronti di se stesso e provocando, in larga misura, alla sua dissoluzione. Ciò ha confermato l’escatologia dell’Occidente riguardo alla direzione e alla fine della Storia.

 

L’umanità era entrata nella fase finale della storia, che avrebbe portato a un mondo di Stati repubblicani, capitalisti e di libero mercato. Poiché, secondo la “teoria della pace democratica”, le repubbliche non si fanno guerra tra loro, il nuovo mondo di Stati repubblicani si sarebbe presto trasformato in un regno celeste di pace eterna e prosperità per tutti. L’eccitazione, in alcune comunità o sottoculture occidentali – ad esempio, nei circoli neocon – era palpabile. C’era una nuova energia ansiosa e un’impazienza intollerante verso qualsiasi resistenza oggettiva o soggettiva. Questa analisi teleologica lasciava da parte il bagaglio di centinaia di storie nazionali, di centinaia di memorie nazionali, di centinaia di culture nazionali, delle numerose religioni e civiltà che hanno generato e, di conseguenza, delle centinaia di questioni internazionali, interculturali e interconfessionali da risolvere. Inoltre, l’analisi aveva enormi implicazioni strategiche per il completamento della marcia del repubblicanesimo nel mondo.

 

GLI ERRORI STORICO- STRATEGICI DELL’OCCIDENTE

 

(1) Salvare la storia con la promozione della democrazia e l’espansione della NATO. L’origine religiosa della fede degli occidentali in una fine capitalista e repubblicana della storia non preclude necessariamente l’attività umana per accelerare lo sviluppo storico. Come alcune tradizioni cristiane ritengono che la purificazione dell’umanità e la grazia sulla terra possano contribuire ad avvicinare la salvezza finale, o come alcuni comunisti hanno revisionato il marxismo per giustificare la possibilità di un avvento del comunismo in Stati prevalentemente agricoli, soprattutto per mezzo di forze rivoluzionarie organizzate e guidate da un partito affiatato di rivoluzionari professionisti in grado di “telescopare” o contrarre il corso dello sviluppo storico tra la “fase democratica capitalista e borghese” e la rivoluzione socialista, così anche gli umanisti che credono nell’inevitabile avanzamento delle libere repubbliche in tutto il mondo si sforzano di accelerare l’avvento di una comunità globale repubblicana e della pace democratica. Ciò si è riflesso nella vasta espansione degli sforzi di promozione della democrazia dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, volti a spingere le società meno mature verso la transizione democratica. A volte, le famigerate rivoluzioni colorate sono state soltanto alimentate, piuttosto che direttamente organizzate, ma il risultato è stato lo stesso: l’incorporazione degli aspiranti, e di alcuni dei non aspiranti di ogni specifico Stato, nel sistema occidentale, al fine di liberarli e salvarli dalla guerra, dalla povertà e dall’autoritarismo. Alcuni, come i russi e i cinesi, erano costernati per la curiosa correlazione tra vicinanza politica e geografica degli “Stati obiettivo” dell’Occidente, da un lato, e i propri alleati e vicini, dall’altro. Due corollari di questo proselitismo sono stati l’espansione della Comunità Europea per espandere le economie dominate dal mercato nei mondi post-sovietici e post-comunisti e – cosa più sconcertante per Mosca e Pechino – l’espansione del blocco militare più potente della storia mondiale, la NATO. Quest’ultimo corollario espansionistico è stato venduto come l’allargamento di un’alleanza puramente difensiva, in perfetta sintonia con l’imminente pace democratica. I membri della NATO vivrebbero in una zona di sicurezza e in una comunità di democrazie, e gli altri desidererebbero, naturalmente, unirsi alla pace.

 

(2) Trasformare l’Ucraina da Stato cuscinetto a dilemma di sicurezza. La sconvolgente portata della tracotanza politica e dell’errore storico di questa strategia della NATO, in particolare nel momento in cui è diventata sempre più stridente ed egoistica, è stata visibile a tutti i più esperti pensatori strategici dell’Occidente: George Kennan, John Mearsheimer, Michael Mandelbaum, tra gli altri (e compreso il sottoscritto). Altri, come Zbigniew Brzezinski, hanno visto la luce sul letto di morte.

Questi uomini navigati e ragionevoli hanno notato e avvertito fin dall’inizio che una simile politica avrebbe spinto Mosca nelle braccia di Pechino, creando un baluardo di potenza strategico anti-occidentale. È in questo errore di calcolo, di gravità storica, che l’odierno conflitto ucraino trova la sua genesi, poiché la “politica della porta aperta” della NATO ha sollevato la questione della copertura totale del confine russo da parte dei membri dell’alleanza. Tentando di far entrare l’Ucraina nella NATO – ufficialmente dal vertice di Budapest del 2008, ufficiosamente quasi di certo dal 1991 – l’alleanza si è privata di uno Stato cuscinetto tra Russia e Occidente che avrebbe in gran parte prevenuto e precluso il conflitto con la Russia, soprattutto se una strategia di buffer-building invece che di alliance-building fosse stata applicata anche al Baltico, alla Bielorussia e alla Moldavia. Fin dall’inizio, l’espansione della NATO ha screditato la democrazia e gli occidentalisti russi, e ha resuscitato la tradizionale norma di vigilanza sulla sicurezza della Russia nei confronti dell’Occidente.  I nuovi membri della NATO nutrivano forti rancori storici e animosità culturali e religiose nei confronti della Russia, e la Russia aveva una sensibilità storicamente radicata nei confronti dei suoi vicini occidentali, a causa di un modello secolare di interferenze politiche, sovversioni e interventi, animosità culturali e religiose, interventi militari e invasioni provenienti dall’Occidente, dall’Occidente e per l’Occidente.

 

L’Ucraina è stata una questione particolarmente problematica, visti gli elementi storici, culturali, religiosi ed etno-nazionali comuni tra Russia e Ucraina. Le identità nazionali ucraine e russe sono inestricabilmente intrecciate da esperienze storiche comuni e da legami politici, in parte comuni, in parte meno. Insistendo sul suo diritto di espandersi in Ucraina, la NATO ha trasformato il segno neutro sotto il quale esisteva l’Ucraina post-sovietica in un segno negativo per Mosca. Da potenziale Stato cuscinetto per l’Occidente (e per la Russia), l’Ucraina è diventata un oggetto del desiderio e di contesa tra l’Occidente e una Mosca già in uno stato di maggiore vigilanza a seguito di diverse ondate di espansione della NATO, anche ai confini con gli Stati baltici. In breve, l’Occidente ha sostituito un cuscinetto di sicurezza con un dilemma di sicurezza e un’alta probabilità di conflitto con la Russia.

 

Forse ancora più importante è il fatto che, a causa della storia spesso comune dei due Paesi, l’Ucraina era uno Stato diviso, diviso lungo linee etniche, linguistiche, identitarie, geografiche, storico-politiche e socioeconomiche. Gli sforzi della NATO per espandersi in Ucraina hanno aggravato le tensioni tra l’Ucraina occidentale e quella sud-orientale, dove queste divisioni erano pronte a esplodere, come un soldato che calpesta una mina. La rivolta di Maidan, sostenuta dall’Occidente, è stata la violenta scintilla che ha fatto esplodere questa polveriera.

 

(3) Ridimensionare la guerra convenzionale, mentre si spinge la Russia verso la guerra convenzionale in Ucraina. Allo stesso tempo, mentre l’ultima fase della presunzione storica di una pace democratica e altri fattori hanno contribuito a produrre un nuovo approccio “non convenzionale” alle dottrine militari e di sicurezza nazionale occidentali, il rivoluzionarismo cromatico dell’Occidente e l’espansionismo di NATO e UE hanno spinto la Russia verso la guerra convenzionale in Ucraina. Ma l’imminenza della pace democratica sembrava significare, almeno in Occidente, che il rischio di guerra era diminuito, e che le guerre convenzionali del tipo visto in Europa erano finite, così provando e anticipando l’avvento della pace democratica. Le vere grandi potenze erano ormai unanimi sulla superiorità dei sistemi politico-economici capitalistici e repubblicani; insieme avevano adottato i valori universali. Con una Russia indecisa, la debolezza post-Guerra Fredda, gli accordi di controllo degli armamenti dell’era della perestrojka, e la “politica assicurativa” dell’espansione della NATO erano garanzie affidabili che i timori di una minaccia russa all’Europa fossero limitati se non inesistenti. La guerra e le forze armate convenzionali potevano ancora emergere nel Terzo Mondo, ma per decenni non avrebbero rappresentato una minaccia, per le potenti macchine militari occidentali. Fuori dell’Occidente, la democrazia garantiva la pace con il Giappone e l’India, e la Cina era creduta in procinto di compiere una “transizione alla democrazia” di tipo sovietico, di cui Piazza Tienanmen era stata un presagio. Senza la minaccia di una guerra convenzionale di grandi dimensioni, le spese per la difesa e l’intelligence potevano essere ridotte, o almeno gli aumenti di bilancio potevano essere rallentati.

 

Nello stesso momento in cui i timori di una guerra convenzionale sono diminuiti, è emersa una nuova minaccia non convenzionale per la sicurezza, rappresentata dal terrorismo jihadista e dalle controinsurrezioni. La principale minaccia non convenzionale proveniva dal “Terzo Mondo”. Per questo motivo, una parte significativa delle spese per la difesa e l’intelligence è stata dirottata verso il “controterrorismo”, il nation-building e le esigenze di ingegneria sociale interna. Questo spostamento è stato particolarmente forte dopo il 2000, quando l’11 settembre ha scatenato la guerra contro il terrorismo jihadista, la guerriglia e l’insurrezione. Ma nel frattempo, le successive ondate di espansione della NATO e il conseguente ritorno all’autoritarismo più tradizionale della Russia e alla sua cultura di vigilanza sulla sicurezza stavano intensificando le tensioni con l’Occidente, facendo crescere le spese militari russe e aumentando la preoccupazione generale dello Stato riguardo alla percezione della crescita convenzionale dell’Occidente, dai Balcani al Caucaso, dalla Siria all’Ucraina, e alla necessità di una maggiore attenzione dello Stato e della società alla sicurezza nazionale. Dopo le rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina a metà degli anni Duemila e la guerra ossetiana Georgia-Russia dell’agosto 2008, la Russia ha intrapreso un grande sforzo di riforma e modernizzazione militare.

 

GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELL’OCCIDENTE NEI CONFRONTI DELLA RUSSIA E IL NUOVO CALCOLO RUSSO

 

L’errore di lettura strategica dell’Occidente è stato forse ancora più evidente quando si è trattato di sviluppare le relazioni con la Russia post-sovietica. Errori storici e strategici hanno portato a un atteggiamento accondiscendente nei confronti della Russia, a una sottovalutazione dello status di grande potenza storicamente persistente della Russia, a una sopravvalutazione del permanere della debolezza russa post-sovietica, a una tendenza a ignorare gli interessi nazionali e il senso dell’onore della Russia, e a un completo fraintendimento della determinazione –  della Russia, e non solo di Putin – a contrastare l’emergere di una minaccia militare ai suoi confini. Le grandi potenze non permettono questo tipo di dinamica, e la Russia è determinata a preservare il suo status di grande potenza per ragioni di storia, sicurezza, tradizione e onore. Numerosi studiosi occidentali hanno osservato che se l’Ucraina si unisse al campo occidentale e le facesse perdere il punto d’appoggio nel Mar Nero che le conferisce la flotta basata in Crimea, la Russia farebbe molta fatica a mantenere lo status di grande potenza.

 

Il già citato ritorno della cultura russa di vigilanza sulla sicurezza e il suo rifiuto della democratizzazione provocata dal rivoluzionarismo di promozione della democrazia e dalla militarizzazione della democrazia con l’espansione della NATO sono direttamente collegati anche all’ interpretazione occidentale completamente errata del crollo sovietico e della Russia post-sovietica in generale.  L’Occidente ha interpretato erroneamente la caduta del regime comunista sovietico come una rivoluzione dal basso o come una “transizione democratica”.  Non si trattava di nessuna delle due cose. Nel primo caso, le élite politiche sono state inclini a credere nel mito di una “rivoluzione popolare” dal basso, su ampia base sociale, perché questa era la teleologia politica dettata dal modello “fine della storia”. Nel frattempo, gli accademici inserirono il caso russo nella teoria popolare all’epoca: la teoria della transizione. In realtà, la trasformazione del regime sovietico/russo fu principalmente una rivoluzione dall’alto, con elementi secondari di una nascente rivoluzione dal basso e di “patti di transizione” o negoziati tra regime e opposizione verso una trasformazione democratica, ma questi ultimi elementi furono abortiti quasi immediatamente dopo il fallito colpo di Stato dell’agosto 1991 (cfr. Gordon M. Hahn, Russia’s Revolution From Above: Reform, Transition, and Revolution in the Fall of the Soviet Communist Regime, 1985-2000 (Transaction Publishers, 2002, Routledge, 2017).

 

Ciò significa che, piuttosto che un’ampia massa di rivoluzionari repubblicani che insorgono per cambiare il regime e prendere il potere, come in una rivoluzione dal basso, o a condividere il potere e rimanere politicamente vigili dopo una transizione negoziata dall’ancien regime, la rivoluzione è stata guidata dall’alto, all’interno dello Stato, da attori del Partito-Stato che avevano un’adesione limitata, se non addirittura una limitata comprensione, di che cosa siano governo repubblicano ed economia di mercato. Questi attori hanno dominato la leadership e l’apparato statale nella “nuova” Russia dopo il 1991. Il fatto che una parte della leadership e della burocrazia russa e una parte della società avessero un’adesione al modello repubblicano-capitalista rendeva possibile una trasformazione completa verso il regime repubblicano di mercato, che però restava un compito estremamente difficile. Ma poiché l’Occidente presupponeva che la rivoluzione avesse una base sociale più ampia di quanto fosse in realtà, non sentiva l’urgenza di fornire alla Russia un’assistenza economica che allora era, invece, assolutamente critica. L’assistenza arrivò, ma troppo poco e troppo tardi. Peggio ancora, l’Occidente iniziò a discutere e poi ad attuare l’espansione della NATO, delegittimando le forze filo-occidentali, filo-repubblicane e filo-libero mercato. La rivoluzione filo-repubblicana russa dall’alto è stata quindi messa a dura prova, con le rivoluzioni colorate e le successive ondate di espansione della NATO e dell’UE in arrivo (Hahn, Russia’s Revolution from Above, capitolo 11). All’inizio degli anni Duemila, quindi, la rivoluzione filorepubblicana russa dall’alto era morta.

 

Gli occidentali erano consapevoli, anche se forse sottovalutavano, il fatto che la rivoluzione era zavorrata dal complesso e sfaccettato fardello dell’eredità comunista sovietica: una politica totalitaria, un’economia ipercentralizzata e un’ideologia, una cultura e una politica anti-occidentali, anti-capitaliste e anti-libertarie. Ma non hanno visto arrivare la rinascita del passato tradizionalista pre-sovietico della Russia, tuttora utilizzabile. Questo sviluppo è stato il risultato diretto delle tensioni a cui l’espansione della NATO sottopose la debole base sociale e democratica della rivoluzione russa dall’alto. Con l’affievolirsi dell’influenza dei repubblicani russi, l’élite politica e intellettuale russa ha iniziato a cercare un nuovo percorso nel passato del Paese. La cultura, il pensiero, la storia e la politica russa pre-sovietica erano l’ovvia alternativa a una revanche comunista in risposta all’invasione occidentale annunciata dall’espansione della NATO e dell’UE. Nel Rinascimento religioso russo e nell’Età d’Argento durante il crepuscolo imperiale alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, la cultura e i discorsi russi riflettevano non solo le idee che alimentarono l’ondata rivoluzionaria e la presa del potere comunista: comunismo proletario, socialismo agrario, utopismo rivoluzionario e internazionalismo comunista. Altrettanto influenti furono le idee dell’universalismo e del comunitarismo ortodosso, del messianismo russo, dell’anarchia slavofila e del “comunitarismo” agrario, del panslavismo, del liberalismo cristiano, del liberalismo occidentale, del sentimento antiborghese: in sintesi, varie forme di conservatorismo non occidentale e/o utopico. La politica, sotto l’autocrazia della Russia imperiale, era autoritaria, ma liberale per gli standard sovietici, e concedeva, occasionalmente, ulteriori liberalizzazioni. Per gli standard odierni costituisce un autoritarismo temperato, a volte morbido a volte meno, ma non era totalitaria, e quindi risponde al desiderio dei russi di libertà significative rispetto dell’esperienza sovietica. Allo stesso tempo, coincide con la sfiducia dei russi nei confronti dell’Occidente e con lo status di grande potenza del loro Paese.

 

Con il discredito del comunismo e del socialismo alla fine dell’era sovietica e quello del capitalismo e del repubblicanesimo nella depressione dei selvaggi anni ’90, sono stati questi conservatorismi russi pre-sovietici a emergere dal sedimento della memoria nazionale, scoperto dopo la liberalizzazione della perestrojka di Mikhail Gorbaciov e la debole democrazia di Boris Eltsin, che però ha permesso un discorso pubblico molto libero sul passato, il presente e il futuro della Russia. L’autoritarismo morbido con un notevole sostegno popolare e il ritorno dell’anticapitalismo o almeno dei sentimenti antiborghesi, l’universalismo e il comunitarismo russo ortodosso, il neo-eurasismo semi-universalista, il nazionalismo russo di Stato (non etnico) e la preferenza per la solidarietà nazionale rispetto al pluralismo politico sono tornati alla ribalta nella cultura russa – politica, economica e strategica. L’alternativa russa tradizionalista non è stata capita, perché l’Occidente l’ha ignorata o non l’ha mai presa sul serio. Dopotutto, la fine della storia prevista dai pensatori occidentali anticipava un futuro che si allontanava da queste tradizioni.

 

Inoltre, la recente rinascita russa ha visto il ritorno di una visione semi-messianica, neo-eurasiana, in cui la Russia è vista come una forza principale, se non la principale, in una grande alternativa eurasiatico-centrica all’Occidente, in cui Russia e Cina dovrebbero radunare il “Resto” contro l’Occidente, allo scopo di: difendere la religione contro il secolarismo; i valori tradizionali della famiglia contro il femminismo radicale, il genderismo, il transgenderismo e il transumanesimo; il comunitarismo contro l’individualismo, e il nazionalismo e la civiltà contro il globalismo. Ogni civiltà, in questa visione, è libera di determinare il tipo di sistema politico ed economico in cui vivere. Così, l’India e varie democrazie africane e latinoamericane si stanno integrando con diverse organizzazioni internazionali dell’alternativa sino-russa, dai BRICS all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, all’Unione Economica Eurasiatica e alla One Belt One Road. Il nuovo messianismo russo emergente – che ha anche radici nell’escatologia e nella teleologia di ispirazione cristiana – ritiene che la Santa Russia abbia una missione speciale, negli affari mondiali. Tale missione, al momento, si limita a quella incarnata dalla strategia neo-eurasianista, attualmente parte del partenariato sino-russo previsto da Mosca.

 

In termini di affari militari e di sicurezza, la Russia sta ancora una volta andando per la sua strada. Nonostante le guerre cecene e l’ascesa dell’Emirato del Caucaso, entrambi legati ad Al Qa`ida e poi all’ISIS, i russi non hanno mai ricevuto il promemoria sull’abbandono della guerra convenzionale, e di certo non l’hanno ricevuto i militari russi. Certo, nei depressi anni ’90 i leader civili russi sono stati costretti a tagliare i bilanci della difesa, e il jihadismo nel Caucaso ha richiesto di dirottare gli scarsi finanziamenti verso l’antiterrorismo e la contro-insurrezione. Ma questo è avvenuto solo ai margini e per necessità, a differenza che in Occidente, dove le nuove dottrine sono state accolte con entusiasmo e si sono radicate nella sua peculiare filosofia della fine della storia.

 

CONCLUSIONE

 

Tornando al 2022, vediamo che l’Occidente ha condotto, anzi trascinato l’Ucraina in una catastrofe. Con l’adesione alla NATO e all’Occidente in senso lato che le è stata prospettata per due decenni, Washington e Bruxelles hanno impegnato l’Ucraina nel tipo di ingegneria sociale che oggi spesso infligge alle proprie popolazioni, ma su una scala molto più grande. I governi sono stati rovesciati, la politica e l’economia sono state ridisegnate, l’ultranazionalismo, il neofascismo e, cosa più pericolosa, l’antirussismo sono stati non solo tollerati, ma per molti versi incoraggiati dall’Occidente in Ucraina. L’Occidente ha creato in provetta una “anti-Russia”, secondo la terminologia di Putin, ai confini della Russia, mentre ha alimentato i timori per la sicurezza in Russia soprattutto attraverso un’espansione della NATO che per l’Ucraina è rimasta temporaneamente in sospeso, ma che è risultata fin troppo reale per la Russia, con la sua memoria storica di otto secoli di interferenze, interventi e invasioni occidentali. La Russia non ha mai effettuato una transizione su larga scala da un’economia manifatturiera a una virtuale come quella occidentale. Questo, e il fatto che la Russia abbia conservato il know-how e la capacità bellica convenzionale si manifesta nella guerra provocata dal messianismo repubblicano e dalla teleologia storica dell’Occidente.

 

I numerosi errori di calcolo dell’Occidente hanno spinto l’orso russo nell’abbraccio del panda cinese. Gran parte del Resto del mondo è pronta ad abbracciare l’orso in risposta all’egemonia occidentale, alle rivoluzioni colorate, all’espansione della NATO ora anche in Asia, alle richieste dell’Occidente di sanzioni per la guerra in Ucraina, alle pesanti pressioni di FMI e Banca Mondiale. In Ucraina, il nuovo messianismo conservatore neo-eurasiatico della Russia sta cercando di proteggere le sue retrovie in Occidente, mentre si rivolge verso est. Nella sua arroganza, l’Occidente non solo ha “perso la Russia”, ma sta per perdere anche l’Ucraina e forse molto altro. I suoi calcoli sbagliati hanno creato un nuovo mondo, ma non l’utopia repubblicana del mercato che aveva immaginato profilarsi all’orizzonte tre decenni fa. Trascurando la permanenza del conflitto nella Storia, l’Occidente ha fatto rivivere sia il conflitto che la Storia, e lo ha fatto in modi che potrebbe rimpiangere.

[1] Gordon M. Hahn, Ph.D., è un analista esperto di Corr Analytics, www.canalyt.com .

 

Il dottor Hahn è l’autore del nuovo libro: Russian Tselostnost’: Wholeness in Russian Thought, Culture, History, and Politics (Europe Books, 2022). È autore di cinque libri precedenti: The Russian Dilemma: Security, Vigilance, and Relations with the West from Ivan III to Putin (McFarland, 2021); Ukraine Over the Edge: Russia, the West, and the New Cold War (McFarland, 2018); The Caucasus Emirate Mujahedin: Global Jihadism in Russia’s North Caucasus and Beyond (McFarland, 2014), Russia’s Islamic Threat (Yale University Press, 2007) e Russia’s Revolution From Above: Reform, Transition and Revolution in the Fall of the Soviet Communist Regime, 1985-2000 (Transaction, 2002).

Inoltre, il dottor Hahn ha pubblicato numerosi rapporti di think tank, articoli accademici, analisi e commenti su media in lingua inglese e russa. Ha insegnato presso le università: Boston, American, Stanford, San Jose State e San Francisco State e come borsista Fulbright presso l’Università statale di San Pietroburgo, in Russia. È stato inoltre senior associate e visiting fellow presso il Center for Strategic and International Studies, il Kennan Institute di Washington DC e la Hoover Institution.

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Dal dilemma strategico al disastro strategico (II^ parte), di Gordon Hahn_a cura di Giuseppe Angiuli

Dal dilemma strategico al disastro strategico (II^ parte)

 di Gordon Hahn

Qui la 1a parte

 (https://gordonhahn.com/2023/09/19/from-strategic-dilemma-to-strategic-disaster-parts-1-2-full/

Traduzione a cura di Giuseppe Angiuli)

 La II^ rovina dell’Ucraina.

 

La grande “rovina” cosacca, che come le stesse eredità cosacche è stata fatta propria dagli ucraini moderni per il fatto di essere avvenuta nelle terre cosacche, fu un periodo di guerra civile, anarchia, caos e devastazione alimentato dagli interventi delle potenze straniere. Per molti versi, assomiglia alla “Smuta” o Tempo dei Problemi della Russia di sette-otto decenni prima, che combinava caos, conflitti interni e interventi stranieri, soprattutto polacchi. La grande “rovina ucraina” o cosacca del XVII secolo, che durò dalla morte dell’hetman cosacco Bodgan Khmelnitskiy nel 1657 fino all’ascesa del successivo grande hetman, Ivan Mazepa, nel 1687. Khmelnitskiy portò i cosacchi dominanti di Zaporozhian a firmare il Trattato di Pereslavl del 1654, che portò molte terre cosacche sotto la sovranità russa. Ma il caos e la distruzione vennero cuciti attraverso macchinazioni politiche, violenti raid e attacchi su larga scala da parte della Polonia-Lituania, dell’Impero Ottomano e del Khanato dei Tartari di Crimea, occasionalmente sostenuti dalla Svezia per contestare la sovranità russa e cosacca. In particolare, la guerra polacco-russa (1654-1667), scatenata dal trattato di Pereslavl, generò gran parte dei conflitti e delle dislocazioni della Rovina. Altre guerre infuriarono in quella che oggi è l’Ucraina: la guerra ucraino-polacca (1666-1671), la guerra ucraino-moscovita (1665-1676) e la guerra polacco-turca (1672-1676), con vari gruppi cosacchi che si univano e cambiavano spesso schieramento.

 

Allo stesso tempo, la protezione e la presenza della Russia, combinata con la pressione di altri “Altri“, in particolare gli odiati polacchi, formarono un contraltare con il quale un’identità cosacca iniziò a consolidarsi in una più ampia fascia della popolazione su entrambe le sponde del Dniepr. Il tentativo russo di sottomettere e organizzare i cosacchi, che avevano dichiarato la loro fedeltà allo zar, violò le tradizioni cosacche di decentramento, libertà anarchica, mancanza di uno Stato di diritto, con conseguenti conflitti interni e violenza. Il malcontento e i disaccordi interni sul dominio russo alimentarono ulteriori conflitti tra coloro che lo sostenevano e coloro che vi si opponevano. Ulteriori tensioni interne furono alimentate dal conflitto tra i nobili non cattolici e la classe ufficiale cosacca o “starshina” per le nuove terre senza proprietari confiscate alla Polonia, che costituivano circa il 50% del territorio cosacco. La lotta per queste terre divideva i contadini poveri dai cosacchi ricchi e possidenti.

 

Ma la cosa più inquietante fu la lotta tra Russia e Polonia per il controllo dei territori cosacchi, con la Polonia che lottava per controllare la riva “destra” o occidentale dell’Ucraina e la Russia che di solito controllava la riva “sinistra” o orientale. Ciò costrinse hetmen, starshina e “società” cosacche a dividersi tra queste e altre forze esterne, portando a lotte di potere interne, a continui spostamenti di fedeltà che misero cosacchi contro cosacchi e cosacchi contro elementi esterni. Le conseguenze della “rovina” comportarono: la divisione delle terre cosacche (ucraine) tra Russia, Polonia-Lituania e Turchia ottomana, la riva destra controllata dai polacchi, la perdita da parte dell’Ucraina di più della metà dei suoi abitanti, molti dei quali si trasferirono sulla riva sinistra controllata dalla Russia, e la devastazione di massa degli insediamenti cosacchi. Solo alla fine del regno di Caterina la Grande, quando i cosacchi della riva sinistra persero la limitata autonomia di cui avevano goduto con il Trattato di Pereslavl, l’intera riva sinistra del territorio cosacco e gran parte delle terre della riva destra furono stabilizzate e integrate nel sistema imperiale russo.

 

In definitiva, la grande “rovina” del XVII secolo potrebbe benissimo impallidire, in termini di significato, di fronte all’attuale periodo di difficoltà che l’Ucraina ha iniziato a vivere sotto l’Operazione Militare Speciale russa. L’Ucraina, naturalmente, non è il primo Paese in questa parte del mondo a cadere vittima dell’apparentemente eterna contesa tra Russia e Occidente. Quando l’abilità nel governare fallisce da una o da entrambe le parti della cortina di ferro che divide Est e Ovest, i piccoli Paesi situati a cavallo tra Est e Ovest subiscono le conseguenze più perniciose. È il caso dell’odierna espansione della NATO in tutta l’Europa orientale fino ai confini della Russia e della risposta militare russa che ne è conseguita. Nessun Paese nell’era post-Guerra Fredda ha vissuto una catastrofe simile a quella che si sta verificando in Ucraina con la sua seconda “rovina”.

 

Per quanto riguarda il bilancio umano dell’escalation della guerra, possiamo ipotizzare almeno 120.000 morti e 220.000 feriti da parte ucraina. Questa stima è forse bassa. La maggior parte delle stime occidentali indicano un numero troppo basso di perdite ucraine e un numero troppo alto di vittime russe. Le stime occidentali e ucraine sulle perdite ucraine sono così assurdamente basse che non vale nemmeno la pena di citarle. D’altra parte, una fonte in grado di valutare le immagini satellitari dei cimiteri in almeno sette regioni dell’Ucraina e l’aumento delle loro dimensioni giunge a stimare 350.000-400.000 vittime di soldati ucraini. Inoltre, poiché in via generale il rapporto tra morti e feriti in ogni guerra è solitamente di 1 a 5 o di 1 a 7, una stima ragionevole del totale delle vittime (cioè tra morti e feriti) da parte ucraina è di circa 2 milioni. Tuttavia, a queste conclusioni si perviene utilizzando dei mezzi di calcolo piuttosto approssimativi. Ad esempio, la popolazione delle regioni occidentali dell’Ucraina è stata coinvolta in misura molto minore nella composizione degli equipaggi dell’esercito e dunque giustapporre lo stesso numero di nuove tombe realizzate nelle zone orientali del Paese ed utilizzarlo anche per i cimiteri della parte occidentale è fuorviante. E allora, volendo ridurre questa stima a 200.000 morti (piuttosto che a 350.000-400.000) e ipotizzando un rapporto tra morti e feriti di 1 a 3, talvolta ritenuto appropriato, potremmo stimare le perdite delle forze ucraine a 800.000 (https://telegra.ph/INTEL-EXCLUSIVE-08-02). Questo è il tetto-limite più elevato di quello che ritengo essere una possibile stima del numero di ucraini uccisi e feriti (se escludiamo dal computo le vittime ucraine tra i civili di entrambe le parti e tra coloro che combattono dalla parte dei separatisti). Tuttavia, se si leggono le stime del Ministero della Difesa russo sulle perdite ucraine giornaliere, si noterà che esse ammontavano a una media approssimativa di circa 600 al giorno fino alla controffensiva di quest’estate ovvero ai primi 15 mesi di guerra. Ciò significa un numero di 18.000 vittime al mese per i 15 mesi precedenti la controffensiva di quest’estate, per un totale, da febbraio 2022 a maggio 2023, di 270.000 soldati ucraini uccisi e feriti. Le cifre per la controffensiva di quest’estate sono state circa il 20% più alte, con il Ministero della Difesa russo che ha stimato circa 66.000 vittime da giugno ad agosto. Ciò significa un totale di circa 336.000 militari ucraini uccisi e feriti, secondo le fonti ufficiali russe. Tuttavia, sarebbe ragionevole sospettare che le cifre russe siano “ottimistiche”, sovrastimate e quindi elevate. Pertanto, proporrei una stima approssimativa di circa 300.000 vittime tra le forze ucraine tra il 24 febbraio 2022 e il 31 agosto 2023. D’altra parte, anche le fonti ucraine riferiscono di perdite impressionanti, suggerendo un quadro più cupo di quello che ho appena dipinto. Ad esempio, la stampa ucraina riferisce che forse l’80-90% delle forze di terra reclutate nell’autunno del 2022 sono già state perse (https://strana.news/news/445536-itohi-571-dnja-vojny-v-ukraine.html). In breve, potremmo verosimilmente avere avuto a tutt’oggi già mezzo milione di vittime militari ucraine.

 

Inoltre, in Ucraina ci sono state, molto approssimativamente, circa 50.000 vittime civili. L’organismo OHCHR delle Nazioni Unite ha registrato, dal 24 febbraio 2022 al 27 agosto 2023, 26.717 vittime civili nel Paese, di cui 9.511 morti e 17.206 feriti. Quasi un quarto di queste vittime si è registrato nel territorio controllato dalla Russia. L’OHCHR delle Nazioni Unite rileva, tuttavia, che il numero effettivo di vittime è probabilmente molto più alto (www.ohchr.org/en/news/2023/08/ukraine-civilian-casualty-update-28-august-2023). Questo porta la stima complessiva delle vittime ucraine a circa 350.000 al 1° settembre 2023. Non escludo che possano essere sostanzialmente più alte, ma se i russi riportano le cifre che ho fornito qui, sembra improbabile che siano più alte del 50% o del 100%, ma nessuno potrebbe essere in grado di confermarlo con certezza.

Non ritengo plausibile che le cifre delle vittime ucraine per il periodo qui preso in considerazione possano essere significativamente inferiori a queste. Con l’accelerazione del numero delle perdite ucraine nel mese di settembre, possiamo prevedere che, se tutto il resto rimane approssimativamente come sta andando, l’Ucraina raggiungerà 1 milione di vittime entro il tardo autunno del 2024. Le mie stime, che sembreranno elevate a coloro che si basano su fonti ucraine e occidentali, sono ulteriormente rafforzate dalle notizie di agosto – in quella che probabilmente è la coda della controffensiva – secondo cui Kiev sta costruendo un nuovo cimitero militare che ospiterà altri 400.000 caduti di guerra (https://www.youtube.com/watch?v=bs8-2xAZto0&t=26s&ab_channel=MilitarySummary). Le dimensioni dei cimiteri già esistenti sono enormi e in crescita (https://www.youtube.com/watch?v=6owz8zD6fHs&ab_channel=%D0%90%D0%BB%D0%B5%D0%BA%D1%81%D0%9C%D0%BE%D1%82%D0%BE%D1%80%D0%BD%D1%8B%D0%B9%D0%A5%D0%B0%D1%80%D1%8C%D0%BA%D0%BE%D0%B2).

Le perdite russe saranno probabilmente circa un terzo di quelle ucraine.

 

Le vittime della guerra sono determinate da un ciclo di escalation alimentato sia dalla NATO che da Mosca. Ogni escalation da una parte incontra regolarmente un’escalation dall’altra, danneggiando non solo le risorse umane e materiali di entrambe le parti, ma portando ad un’ulteriore escalation che determina una ulteriore carneficina degli ucraini, delle loro terre e di ogni tipo di infrastruttura. Ad esempio, quando gli Stati Uniti hanno deciso di inviare munizioni a grappolo all’Ucraina, che ha iniziato a farle cantare, ponendo la Russia in una situazione “peggiore“, la Russia ha annunciato che avrebbe usato e infatti ha iniziato a usare a sua volta le munizioni a grappolo, ponendo anche le forze ucraine in una condizione peggiore. Un così alto numero di vittime di questa portata lascerà una grande ferita nella vita ucraina, e basti paragonare la cicatrice lasciata negli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam, che ha visto relativamente meno vittime – circa 210.000 – distribuite nell’arco di quindici anni e non di un anno e mezzo.

 

La popolazione ucraina sta subendo un altro logoramento: quello dell’esodo di coloro che fuggono dalla guerra, dalla mobilitazione militare, dal collasso economico e da uno Stato corrotto e predatore. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che al 28 agosto 2023, dall’inizio dell'”operazione militare speciale” (SVO) della Russia nel febbraio 2022, 6.203.030 ucraini sono fuggiti dall’Ucraina (https://data2.unhcr.org/en/documents/details/103134).

Questa cifra significa che la popolazione ucraina è scesa da 42 a 36 milioni dall’inizio dell’SVO. Ma questo vale solo per la popolazione ucraina nel territorio controllato da Kiev nel periodo 1991-2014. La perdita della Crimea e della maggior parte degli Oblast di Donetsk e Luhansk nel 2014 e di gran parte degli Oblast di Zaporozhe e Kherson a causa dell’annessione o dell’occupazione russa dall’inizio dell’SVO riduce la popolazione ucraina di altri 4 milioni, il che significa che ora è di circa 32 milioni. Altri stimano che la popolazione all’interno dei confini ucraini del 1991 al 1° gennaio 2023 era di soli 37,6 milioni di persone, 32,6 milioni all’interno dei confini del 2022 (meno la Crimea) e 31,1 milioni nei territori attualmente controllati dal governo ucraino (meno la Crimea e la maggior parte degli Oblast di Donetsk, Luhansk, Zaporozhe e Kherson) (www.wilsoncenter.org/blog-post/ukraines-demography-second-year-full-fledged-war, vedi anche https://t.me/stranaua/120211). Se si aggiungono i morti di guerra e la popolazione sotto il controllo di Kiev, la popolazione del Paese scende a meno di 31 milioni.

 

Questo quadro si aggrava se si tiene anche conto degli squilibri socioeconomici causati da una massa di rifugiati interni (persone sfollate dalle loro case) di 5.088.000 persone a causa della guerra conteggiati a tutto il 23 maggio 2023 (https://data2.unhcr.org/en/documents/details/103134). Inoltre, secondo l’UNHCR, circa 17,6 milioni di persone in Ucraina necessitano di un urgente sostegno umanitario, compresi i 5 milioni di sfollati interni (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23).

 

Quindi, se fissiamo la popolazione attualmente sotto il controllo del governo di Kiev a 31 milioni, l’Ucraina ha perso più del 20% della sua popolazione dall’inizio della guerra e attualmente più del 15% della popolazione rimanente è costituita da rifugiati interni e più della metà della popolazione ha bisogno di un urgente sostegno umanitario.

Il quadro demografico è ulteriormente oscurato dal calo dei tassi di natalità causato dagli sconvolgimenti della guerra. Sebbene i tassi di natalità ucraini fossero già in calo a partire dalla rivolta di Piazza Maidan, del 7% all’anno dal 2013, nei primi sei mesi del 2023 sono nati in Ucraina solo 96.755 bambini, il che rappresenta un calo del 28% rispetto al periodo corrispondente del 2021 (135.079 bambini) e ancora meno rispetto al periodo corrispondente dello scorso anno (https://t.me/rezident_ua/19018). Se la guerra continuerà fino al 2024, è possibile che tutte queste perdite – che già costituiscono una catastrofe – vengano raddoppiate, soprattutto se le forze russe inizieranno ad avanzare più rapidamente verso est, minacciando più direttamente altre regioni come Charkiv, Sumy, Chernigov e Mikolaev.

 

In termini fisici non umani, le perdite dell’Ucraina sono altrettanto sconcertanti. Per quanto riguarda il territorio, l’Ucraina ha perso l’11% del suo territorio dall’inizio della guerra, un’area equivalente al Massachusetts, al New Hampshire e al Connecticut, secondo il Belfer Center della Harvard Kennedy School. Includendo in tale computo la Crimea, l’Ucraina ha perso circa il 17,5% del suo territorio, un’area di circa 41.000 miglia quadrate (106.000 km quadrati) dalla rivolta di Maidan (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23). Inoltre, queste regioni – che comprendono l’industria carbonifera ucraina, gran parte della costa, i porti e le località turistiche – fornivano una quota preponderante del PIL dell’Ucraina. Inoltre, villaggi e città in alcune parti del territorio controllato dall’Ucraina sono stati pesantemente bombardati fino a trasformarsi in dei paesaggi lunari. La distruzione totale delle infrastrutture è stata stimata dalle Nazioni Unite in 100 miliardi (https://news.un.org/en/story/2022/03/1114022). Sebbene si tratti probabilmente di una sovrastima, anche se la cifra fosse la metà, alla fine dell’estate 2023 l’Ucraina avrà subito danni e distruzioni alle infrastrutture per 800 miliardi di dollari. Un altro modo per valutare l’entità dei danni infrastrutturali generali del Paese è la misura dell’assistenza alla ricostruzione. La Banca Mondiale ha stimato l’entità dei danni a marzo 2023 o per il primo anno di guerra e ha concluso che Kiev avrebbe avuto bisogno di 411 miliardi di dollari di assistenza per la ricostruzione se la guerra fosse finita allora (www.worldbank.org/en/news/press-release/2023/03/23/updated-ukraine-recovery-a).

Da allora la guerra si è prolungata di altri sei mesi, quindi possiamo fare una stima approssimativa di 615 miliardi di dollari di aiuti che sarebbero necessari se la guerra finisse entro ottobre. Entro marzo 2024 la somma sarà di circa 1.000 miliardi di dollari. Ciò solleva la questione di quanti di questi arriveranno e in quanto tempo, sollevando l’ulteriore questione di un grave disastro umanitario e di un’ulteriore emigrazione dal Paese.

 

Il PIL del Paese in dollari correnti è diminuito tra il 2021 e il 2022 di circa il 15% – da 198 a 161 miliardi di dollari (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD?locations=UA). Pertanto, il PIL dell’Ucraina in dollari del 2015 si è contratto del 30% nel 2022 (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG?locations=UA). Tuttavia, il FMI sostiene che quest’anno la crescita sarà dell’1%-3% (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23). Ciononostante, una fonte conclude che l’Ucraina avrà bisogno di 50 miliardi di dollari di sostegno finanziario nel 2024 (https://t.me/rezident_ua/19017). Anche se il PIL crescesse del 3% fino a raggiungere i 166 miliardi di dollari, con un deficit di bilancio previsto per il 2024 di 40 miliardi di dollari – che è anche l’importo speso per le forze armate quest’anno e che dovrà essere coperto in buona parte dai dollari delle tasse occidentali e dagli euro – il suo rapporto bilancio/PIL si aggira su un catastrofico 25%. Tutto questo mentre l’Ucraina sta beneficiando di una moratoria sui pagamenti fino a metà giugno su 20 miliardi di dollari di debito concordata con gli obbligazionisti internazionali come MFS Investment Management, BlackRock e Fidelity Investments (www.wsj.com/world/europe/ukraine-hunts-for-cash-as-fighting-drains-coffers-a6443e9c).

 

In termini emotivi, psicologici e sociologici, la catastrofe potrebbe essere ancora più sconvolgente. La sindrome da stress post-bellico e i traumi saranno una pesante tassa a carico dell’intera società. Michael Vlahos cita una cifra di 50.000 ucraini che hanno perso uno o più arti, vicina alla cifra di 67.000 amputati patita dalla Germania per tutta la Prima Guerra Mondiale (https://compactmag.com/article/the-ukrainian-army-is-breaking). Olha Rudneva, responsabile del Centro Superhumans per la riabilitazione dei mutilati militari ucraini, stima che 20.000 ucraini abbiano subito almeno un’amputazione dall’inizio della guerra. Ma prima della guerra, in Ucraina c’erano solo cinque persone con una formazione professionale nel campo della riabilitazione di persone con amputazioni alle braccia o alle mani (www.aol.com/upward-20-000-ukrainian-amputees-060957047.html).

 

Infine, la “democrazia” che sopravviveva in Ucraina prima della guerra è ora completamente scomparsa. Solo i partiti politici approvati da Zelenskiy possono operare, le elezioni sono state cancellate “fino alla fine della guerra“, tutti i media sono pesantemente censurati e l’affiliata locale della Chiesa ortodossa russa sta subendo una dura repressione, le sue chiese e i suoi monasteri sono stati acquisiti dallo Stato e alcuni dei suoi sacerdoti orfani sono stati arrestati e processati, compreso il metropolita della Chiesa. Zelenskiy sta abbandonando il suo partito politico, pieno di corruzione e di scandali pubblici, e ha annunciato che costruirà un nuovo partito e una nuova classe dirigente basata su coloro che hanno servito in guerra. Questo, insieme alla radicalizzazione che la guerra tende naturalmente a portare con sè, rafforzerà la già troppo forte componente ultranazionalista e neofascista della politica ucraina. Le divisioni sociali saranno aggravate dai vergognosi privilegi e profitti dell’élite ucraina maturati durante la guerra. I “ricchi e famosi” sono visti sui social media mentre festeggiano sulle spiagge esotiche in ogni angolo del mondo, laddove invece i giovani privi di protezioni all’interno del Governo vengono brutalmente sequestrati nelle strade da reclutatori-mobilitatori per essere inviati al fronte. La guerra ha ampliato la corruzione in modo esponenziale, poiché il regime di Zelenskiy permette a criminali e funzionari corrotti di accumulare enormi profitti illegali, funzionali a lubrificare gli ingranaggi della macchina bellica e delle funzioni sociali della macchina statale. L’ulteriore corruzione, criminalizzazione e fascistizzazione del paese più corrotto e neofascista d’Europa renderà in futuro quasi impossibile la rinascita anche di una debole democrazia.

 

Conclusione.

Sei settimane prima dell’inizio dell’attuale guerra NATO-Russia in Ucraina, avevo proposto le misure che Putin avrebbe potuto adottare come parte di una campagna di diplomazia coercitiva intensificata (https://gordonhahn.com/2022/01/10/putins-military-technical-and-other-options-if-strategic-stability-and-ukraine-talks-fail/). Se fossero state adottate e se l’Occidente avesse accettato negoziati seri sull’architettura di sicurezza dell’Europa e su un’Ucraina neutrale al suo interno, come zona cuscinetto neutrale tra la Russia e la NATO, le cose sarebbero potute andare diversamente. La guerra avrebbe potuto essere evitata e tutte le misure russe adottate prima della guerra avrebbero potuto essere ritirate dopo la conclusione e l’attuazione degli accordi. Quelle effettivamente adottate dall’inizio della guerra e quelle attuate nell’ambito della guerra da entrambe le parti in conflitto difficilmente saranno revocate a breve, sicuramente non in questo decennio. La sicurezza degli Stati Uniti e della NATO è stata rafforzata rifiutando di negoziare con Mosca prima dell’invasione di Putin o impedendo a Kiev di portare avanti il processo di Istanbul iniziato un mese dopo l’invasione? La risposta, come ho cercato di dimostrare sopra, è chiaramente “no“.

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Troppo di non molto, di Aurelien_a cura di Roberto Negri

Troppo di non molto

Vincere la giornata perdendo la guerra.

 

AURELIEN

13 SET 2023

Vi ricordo che le versioni spagnole dei miei saggi sono ora disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta pubblicando anche alcune traduzioni italiane e Italia e il Mondo ha recentemente pubblicato una mia intervista, in inglese e in italiano. Grazie a tutti i traduttori.

 

Negli ultimi saggi ho avuto modo di parlare del disastroso declino delle capacità del governo, delle istituzioni e del settore privato nel mondo occidentale. Anche altri sono intervenuti, come John Michael Greer e Yves Smith di Naked Capitalism, che non solo ha creato un forum di discussione sul tema ma ha anche fornito alcuni importanti contributi. Questo saggio, tuttavia, non è un ennesimo sfogo o geremiade contro questa indubbia incompetenza dilagante, ma piuttosto un tentativo di comprendere e spiegare una delle sue caratteristiche più sconcertanti: perché i politici in Occidente oggi sono così incapaci di fare i politici?

Cosa intendo con “incapaci”? Considerando per il momento la politica come un’attività puramente tecnica, sembra ovvio che chi entra in politica dovrebbe avere o pianificare di acquisire una serie di competenze di base come in qualsiasi altro ambito. Da un falegname ci si aspetta che sappia segare con precisione il legno, da un commercialista che sia a suo agio con le cifre, da un attore che sappia entrare nella psicologia di diversi personaggi. Lo stesso vale per i politici. Cosa ci aspettiamo da loro?

Innanzitutto, un ragionevole livello di intelligenza innata e una ragionevole capacità di pensare, scrivere e parlare in modo coerente e comprendere concetti. Non intendo nulla di particolarmente eccezionale: per cominciare, il livello di intelligenza media di un diplomato sarebbe sufficiente. Ma la politica comporta anche altre abilità: fra queste, la capacità di comprendere e parlare di molti argomenti diversi, di affrontare in modo efficace dibattiti e interviste, di rivolgersi agli elettori per conquistare il loro voto, di stringere alleanze e  capire come trattare con gli avversari, di vedere i flussi sotterranei del potere e di capire e saper reagire ai cambiamenti delle tendenze politiche. Quando si è al potere è necessario avere un’idea di ciò che si vuole fare e almeno un’idea di massima su come farlo. Inoltre, i politici devono avere una solida  struttura fisica e psicologica per far fronte agli impegni di lavoro e sopportare infinite critiche, alcune delle quali personali, senza esserne influenzati.

Niente di tutto questo è tremendamente ambizioso o impegnativo, eppure ciò che mi colpisce, avendo osservato la politica dalla prima linea per circa mezzo secolo, è il modo in cui negli ultimi decenni queste competenze di base sono decadute nei Paesi occidentali. C’è una lunga lista di potenziali esempi, ma permettetemi di citarne solo alcuni fra i più evidenti. In quasi tutti i Paesi occidentali, i partiti politici sembrano non sapere più come farsi votare. Grandi percentuali dell’elettorato non votano, e quelli che lo fanno votano con riluttanza per la meno ripugnante fra le possibili alternative. L’idea di avere politiche e visioni che vadano oltre le slide di Powerpoint e gli slogan, o che siano destinate a essere realmente attuate, sembra completamente assente. (Emmanuel Macron è stato eletto due volte sulla base di un programma sintetizzabile in “non essere Marine Le Pen”). Allo stesso modo, pochi governi dei Paesi occidentali sembrano avere idea di come gestire i propri parlamenti, far approvare le leggi o persino convincere l’opinione pubblica e i media non allineati alle visioni della classe dirigente. E anche a livello individuale i politici si presentano ormai come creature vulnerabili che compiangono sé stesse per il fatto di essere perseguitate dai loro avversari. Ma “cattivo” o “incompetente” non sono critiche personali, piuttosto giudizi tecnici, non diversi da quelli sul lavoro di un idraulico o di un avvocato.

 

Non è sempre stato così. Certo, i politici sono sempre stati impopolari (“politico” era un insulto già ai tempi di Shakespeare) e non c’è mai stata un’età dell’oro in cui i politici erano in genere onesti e competenti e avevano a cuore gli interessi della nazione. Tuttavia. Tuttavia cinquant’anni fa, ad esempio, le campagne elettorali erano condotte in gran parte attraverso incontri pubblici, e a volte migliaia di persone si presentavano per ascoltare un personaggio popolare, applaudire o contestare. Alcuni politici e i loro programmi erano veramente popolari e suscitavano un entusiasmo reale, non finto. E quando venivano eletti cercavano di mantenere l eloro promesse.

Nel 1951, il governo conservatore di Winston Churchill fu eletto anche sulla base della promessa di costruire 300.000 alloggi popolari all’anno. Non si trattava di una cifra calcolata da un gruppo di lavoro, né di una promessa vana che sarebbe stata dimenticata dopo le elezioni. Si trattava di una promessa che fu sostanzialmente mantenuta, sotto la guida di Harold Macmillan, il Ministro per gli Alloggi (immaginate, un Ministro per gli Alloggi!). Le Municipalità locali, spesso utilizzando la propria manodopera, ne costruirono due terzi. Oggi, nonostante la consapevolezza della necessità di risolvere la disperata carenza di alloggi che affligge la Gran Bretagna, il numero di nuove case popolari costruite ogni anno è nell’ordine delle migliaia. Ma in passato mantenere tali promesse era considerato normale: era l’epoca della ricostruzione del sistema ferroviario, della costruzione delle prime autostrade e di molte nuove università. Lo stesso accadde in Europa, dove la ripresa dalla guerra avvenne rapidamente, in gran parte grazie alle risorse e alle capacità locali che erano sopravvissute ai combattimenti. E poi c’è stata la modernizzazione. Si racconta che all’inizio degli anni ’60 De Gaulle e il suo primo ministro Georges Pompidou stessero sorvolando Parigi in elicottero, osservando i caotici ingorghi che l’era dell’automobile aveva portato. “Dobbiamo fare qualcosa per questo caos”, disse De Gaulle. Nel giro di pochi anni fu aperta la prima linea di metropolitana ad alta velocità (RER) e la circonvallazione intorno a Parigi, già iniziata, fu rapidamente completata. Poco dopo arrivò la crisi petrolifera e il governo francese decise, più o meno da un giorno all’altro, di espandere massicciamente l’industria nucleare del Paese: il responsabile dell’industria energetica (allora di proprietà statale) fu convocato e gli fu ordinato di provvedere. Nel giro di pochi anni i reattori cominciarono ad entrare in funzione. Poco dopo, il governo decise di introdurre il Minitel, un antesignano di Internet, semplicemente regalando una macchina a tutti coloro che ne volevano una. Fu un successo strepitoso e permise ai francesi, ad esempio, di acquistare i biglietti ferroviari on line un decennio prima che ciò fosse possibile nella maggior parte degli altri Paesi.

 

Ma forse pensate che tutto questo sia un po’ banale e limitato alla politica interna. Che dire dei grandi affari di Stato, gli Esteri e la Sicurezza, per esempio? I governi erano ugualmente attivi in questo campo? Ecco un esempio molto significativo. Sia la Gran Bretagna che la Francia uscirono dalla Seconda guerra mondiale con la consapevolezza che, se non fosse stato per i loro imperi, eserciti, materie prime e profondità strategica le cose sarebbero probabilmente finite molto peggio di come sono andate. Il primo pensiero fu quindi quello di mantenere i loro imperi coloniali per conservare lo status di Grandi Potenze e, nel caso della Gran Bretagna, una sorta di parità con gli Stati Uniti. Ma divenne rapidamente chiaro che mantenere gli Imperi avrebbe rappresentato un onere finanziario troppo gravoso per essere sostenibile e, dopo la disfatta di Suez, il loro valore strategico divenne molto più aleatorio. In pochi anni il governo britannico cambiò completamente rotta e la maggior parte dei possedimenti inglesi divenne rapidamente indipendente. In poco più di un decennio non rimase praticamente nulla e l’intero focus strategico si spostò sull’Europa e sull’Atlantico. La transizione francese fu ancora più rapida: salito al potere, De Gaulle non solo uscì dalla palude della guerra d’Algeria ma decise che l’onere di mantenere le altre colonie superava gli eventuali benefici: tutte divennero indipendenti in un paio d’anni.

Ma questo non è dovuto alla sola presenza in quegli anni di veri e propri giganti, anche se lo erano. Fino a una generazione fa, la maggior parte dei leader occidentali mostrava ancora un ragionevole grado di competenza politica. Prendiamo ad esempio il 1991. In quell’anno, Washington fu in grado di aggregare una forte coalizione internazionale per la guerra in Kuwait, con una diplomazia capace e intelligente e con obiettivi politici definiti. (Più tardi, nello stesso anno, durante i negoziati per l’Unione politica di Maastricht, i britannici, isolati su molte questioni e sotto la non brillante guida di John Major, raggiunsero comunque molti dei loro obiettivi. Questo in parte perché Major aveva davanti a sé un manuale di istruzioni con il testo di ogni clausola che doveva essere concordata, un commento sugli obiettivi britannici e, se necessario, una controproposta. Secondo persone che hanno partecipato a quei negoziati nessun altro leader nazionale ha avuto questo livello di supporto, e del resto i britannici sono stati uno dei pochi Stati in quel contesto ad aver definito degli obiettivi politici, anche se non li hanno raggiunti tutti. Il paragone con la Brexit è quasi troppo doloroso per essere evocato.

Nel raccontare questi episodi si tende a soffermarsi sulle competenze tecniche, sui livelli di istruzione e qualificazione, sul reclutamento di specialisti, sull’organizzazione del governo e così via, tutti aspetti senz’altro importanti. Ma mentre un Paese può funzionare con una burocrazia decente e un settore privato capace, per raggiungere davvero degli obiettivi occorre una classe politica in grado innanzitutto di definirli e perseguirli. Questi obiettivi non devono necessariamente essere decisi esclusivamente dalla classe politica: possono anche essere ampiamente condivisi dalle élite nazionali, come ad esempio avviene in molti Paesi asiatici. Ma è essenziale che i politici in carica definiscano e perseguano tali obiettivi, se si vuole che il Paese vada avanti. Chiunque abbia lavorato in una struttura di Governo vi dirà quanto sia esasperante trovarsi di fronte a leader politici che non sanno cosa vogliono, o non riescono ad articolarlo.

Vorrei ora analizzare brevemente alcune delle possibili spiegazioni di questa situazione – paragonabile all’impossibilità di trovare un falegname che sappia segare in linea retta – prima di passare a parlare dell’influenza catastrofica che essa ha avuto sulla gestione della crisi ucraina da parte dell’Occidente attraverso un paio di altri esempi significativi.

I politici sono ovviamente il riflesso della società da cui provengono e del serbatoio di talenti disponibili. I cambiamenti nella società implicano quindi  inevitabilmente che coloro che entrano in politica portino con sé l’impronta di questi cambiamenti, i problemi e le debolezze, come ad esempio il deterioramento degli standard educativi. È certamente vero che l’atmosfera frivola e frenetica della cultura popolare occidentale di oggi è molto diversa dal mondo serio e rigoroso in cui Macmillan o De Gaulle facevano politica. Dall’altra parte, le ricerche dimostrano che nella maggior parte dei Paesi occidentali la classe politica è più privilegiata e più acculturata che mai. I suoi membri provengono generalmente da famiglie con un reddito più elevato, hanno ricevuto un’istruzione lunga e costosa presso istituzioni prestigiose e beneficiano di estese reti di relazione familiari e professionali. Sono quindi mediamente più istruiti e preparati dei loro predecessori di cinquant’anni fa: non hanno scuse. Pensiamo a un caso come quello di Ernest Bevin, uno dei più grandi segretari agli Esteri britannici e l’uomo che più di ogni altro è stato artefice della nascita della NATO, che è nato in povertà, non ha avuto alcuna istruzione formale e ha fatto carriera nel movimento sindacale. Eppure ha impressionato tutti, compresi i diplomatici di Oxbridge, per la sua innata intelligenza e la sua straordinaria capacità di lavoro, oltre che per la cura per il suo staff.

Un altro fattore è costituito dalle caratteristiche connaturate della attuale classe politica. Un rapido esame delle principali figure politiche fino al 1990 circa mostra un’ampia varietà di background, istruzione ed esperienze di vita. In tutti i principali parlamenti occidentali, fino a pochi anni or sono, erano presenti politici che avevano iniziato la loro vita come lavoratori manuali. Oggi non ce ne sono più. Il declino dei partiti politici di massa, soprattutto a sinistra, ha prosciugato il serbatoio di coloro che sono cresciuti in condizioni difficili, spesso attraverso scioperi e picchetti e i feroci contrasti interna dei sindacati, e le cui convinzioni sono state formate in modo preponderante dall’esperienza. (La profonda avversione di Bevin per il comunismo, ad esempio, non era una astratta posizione di principio ma il risultato delle sue esperienze sindacali e dell’antagonismo di classe contro gli intellettuali che dominavano il Partito Comunista in Gran Bretagna: del resto, non era nemmeno un ammiratore tout court degli Stati Uniti o dell’Impero). Ma i politici provenivano anche da carriere borghesi standard: avvocati, insegnanti e conferenzieri, medici, militari, piccoli imprenditori, persino contabili. Ma la loro caratteristica comune era quella di aver esercitato una professione prima di entrare in politica, scelta che in ogni caso tendevano a compiere non prima della mezza età. Molti erano stati attivi anche nella politica locale, dove non si potevano certo evitare le questioni quotidiane.

Al contrario la classe politica di oggi, sotto la bandiera del “professionismo”, è diventata sempre più dilettante nella sua capacità di fare cose che contino davvero, in parte a causa della limitatezza del proprio background ed esperienza. Un aspirante politico al giorno d’oggi inizia con una laurea in una materia teorica presso un’università prestigiosa (“relazioni internazionali”, magari) e si dedica alla politica studentesca, creando contatti e preparandosi per il futuro. Dopodiché, un master in Diritto dei diritti umani, per esempio, e un paio di stage prestigiosi e un indirizzario sempre più ampio. E poi un lavoro di base in un think-tank o in un gruppo di pressione, un periodo come assistente parlamentare in patria o a Bruxelles, un lavoro nell’apparato del partito, un lavoro nell’ufficio di un ministro, un lavoro di gestione in un think-tank e poi, forse, molto precocemente, la possibilità di essere eletti. Esperienza totale in tutto ciò che non sia puro carrierismo: praticamente zero.

Ma ci sono altre due caratteristiche dei sistemi politici odierni, collegate tra loro, che a mio avviso hanno maggiore importanza, anche se sono meno evidenti. Una (conseguenza di questo tipo di “professionismo”) è che oggi le carriere politiche si fanno quasi esclusivamente all’interno dell’apparato del partito politico cui si appartiene. Un corollario ovvio, anche se perverso, è che i vostri nemici sono in primo luogo membri del vostro stesso partito piuttosto che di partiti avversari. La depoliticizzazione della politica e il restringimento dello spettro di idee politiche accettabili che hanno caratterizzato l’ultima generazione fanno sì che le differenze autentiche con gli altri partiti politici siano spesso di poco conto e possano diventare davvero importanti solo quando ci sono le elezioni e quando è necessario trovare qualche argomento plausibile per cui l’elettorato non dovrebbe votare per un altro partito.

Ma la carriera non si fa battendo l’opposizione nel paese o in uno scontro parlamentare, bensì legandosi a persone importanti, individuando e aderendo alla tendenza che si pensa possa prevalere nei dibattiti interni al partito, attenendosi scrupolosamente alla linea del partito in ogni occasione ed essendo pronti a tradire i propri amici e alleati, per non dire le proprie convinzioni, quando è opportuno farlo. Ora, la politica è sempre stata un po’ così e la maggior parte dei politici, anche se non tutti, hanno avuto una vena carrieristica. Ma negli ultimi anni la politica è sempre più diventata solo carrierismo. Come è prevedibile in una società liberale, la politica è egoriferita al singolo, alla sua carriera, prospettive e futuro dopo aver lasciato la politica. Il quale può anche prendere parte a una lotta tra fazioni per il controllo del partito, ma l’idea che il partito stesso possa avere degli interessi, o che qualche gruppo esterno al partito possa avere una qualche importanza, gli risulta completamente estranea. È questo, più di ogni altra cosa, a spiegare perché oggi la politica interna ai partiti è così feroce e perché i politici usano così spesso i social media per attaccare i propri teorici alleati piuttosto che i loro avversari.

Se tutto questo vi ricorda vagamente la politica in uno Stato monopartitico, forse è perché è proprio così. In uno stato del genere, la politica funziona esattamente in questo modo: aspre lotte interne tra fazioni, scarso interesse per le opinioni di chi è al di fuori del partito e continui tentativi di scalarne le gerarchie alla ricerca di più potere e dei vantaggi che ne derivano. Una delle ragioni del catastrofico collasso della Bosnia nel 1992, fra le altre, consiste nel fatto che nessuno dei partiti politici presentatisi alle elezioni che l’Occidente ha imposto al neonato Stato aveva una reale esperienza di politica democratica, del logorante processo di discussione, dibattito, costruzione di coalizioni e convincimento dell’opinione pubblica. Il vecchio Partito Comunista Jugoslavo non funzionava così. Così, da un lato i politici in cerca di voti hanno giocato l’unica carta che avevano a disposizione, l’etnia, e dall’altro, quando si è trattato di costituire un parlamento, non avevano assolutamente idea di come farlo funzionare. All’epoca pensavamo di avere qualcosa da insegnare loro. Ora non è più così evidente.

E naturalmente in uno Stato monopartitico esiste una nomenklatura che identifica non solo coloro che detengono il potere politico e governativo, ma anche coloro che hanno influenza sui media, i think tank, l’industria e persino le professioni, e che si muoveranno facilmente in questi ambienti. Abbiamo visto questo sistema insinuarsi lentamente anche nei Paesi occidentali. Al giorno d’oggi un ministro del Governo ed ex consulente manageriale potrebbe essere sposato con un noto giornalista politico, avere un fratello con una posizione di rilievo nel settore privato che finanzia varie ONG, una sorella che dirige un influente think-tank e che sta cercando di entrare in politica, essere il migliore amico di un diplomatico di alto livello ritiratosi per lavorare in una banca, che è sposato con il direttore di un’azienda di servizi privatizzata, il cui fratello è un alto funzionario della Banca d’Inghilterra… la rete è potenzialmente infinita. (Se pensate che stia esagerando, leggete alcuni dei commenti su Naked Capitalism del columnist Colonel Smithers e alcuni dei loro reportage sulle relazioni incestuose della nomenklatura negli Stati Uniti. E non fatemi parlare della Francia ….).

L’ultimo elemento, riflesso della precedente, è il trionfo assoluto dell’immagine sulla sostanza. Se i partiti non si preoccupano più di avere una base di massa, se si affrontano le elezioni parlamentari solo assumendo consulenti per diffamare l’opposizione, se l’unico obiettivo personale è salire nella gerarchia del partito, allora è inevitabile che l’immagine sia tutto. Ciò che si dice è più importante di ciò che si fa, soprattutto se si è interiorizzata l’idea che il governo non può in ogni caso fare molto, e si cerca piuttosto il consenso dei propri pari, dentro e fuori dal partito. (Questo tipo di politica è iniziato negli anni Novanta e nel Regno Unito è associato soprattutto al governo Blair, in particolare negli ultimi anni. A quell’epoca si era già sviluppata una nomenklatura e le decisioni del governo venivano prese sempre più spesso in riunioni informali, alle quali partecipavano persone che non erano state elette e che non avevano le necessarie qualifiche professionali. C’era un numero crescente di “consiglieri”, essenzialmente apprendisti politici, cui non era richiesta alcuna qualità personale se non l’ambizione e l’assoluta fedeltà al loro sponsor e protettore. L’avanzamento di carriera non derivava dalla competenza o dall’onestà ma dal sapere, per dirla nel gergo dell’epoca, “cosa vuole Tony”. All’epoca di quel disastro che fu il governo di Boris Johnson era difficile dire chi fosse influente e responsabile di qualcosa nel governo, ammesso che qualcuno lo fosse.

È stato sotto l’azione del chief spin doctor di Blair, Alastair Campbell, che l’enfasi si è spostata decisamente dalla politica all’apparenza. Il governo divenne ossessionato dall’immagine e dal controllo della percezione pubblica, e garantire una copertura positiva nei media divenne un obiettivo importante in sé, se non il più importante. Come in uno Stato monopartitico, il controllo di ciò che era ammesso nel discorso pubblico era l’unica cosa che contava davvero e, per un certo periodo, l’opposizione Tory si trovò in uno stato di tale disgregazione che vincere le elezioni era comunque facile. L’espressione che riassume questo approccio (che Campbell l’abbia coniata o meno) è “win the day “, letteralmente “vincere la giornata”: in sostanza, l’idea che alla fine di ogni giornata ciò che contava davvero era che i media riflettessero la linea del governo su una determinata questione. E tale linea poteva avere solo un rapporto incidentale con la realtà. Le statistiche ufficiali, ad esempio, erano in definitiva ciò che il governo sosteneva che fossero, purché i media vi credessero.

Penso che sia già ovvio che la trasformazione della vita politica occidentale in un passatempo amatoriale, carrieristico, ripiegato su sé stesso, elitario, guidato dall’ego e ossessionato dall’immagine non avrebbe avuto un esito felice. E infatti non lo ha avuto. Voglio quindi esaminare brevemente due casi, e poi l’Ucraina, per vedere come tutto questo si è tradotto nella vita reale.

Forse ricorderete il malcontento in Francia all’inizio dell’anno per le modifiche volte a far lavorare più a lungo i francesi per avere pensioni più basse. Non mi occupo qui del merito della questione (dubbia, e questo era uno dei problemi politici), ma della gestione politica, da parte di un governo senza maggioranza, di una politica profondamente impopolare. La prima reazione di qualsiasi politico saggio sarebbe stata quella di dire: “Non fatelo”. Dopotutto, i dati ufficiali evidenziavano che verso i sessant’anni di età una frazione significativa della popolazione attiva francese già era economicamente inattiva perché disoccupata (i giovani costano meno) o invalida dal lavoro. In effetti, con la nuova età pensionabile fissata a 64 anni, la classe operaia francese media si troverebbe già in cattive condizioni di salute e in molti casi defunta. Un bel risparmio. Inoltre, l’argomento dell’equilibrio finanziario evocato dal governo era difficilmente conciliabile con la spesa senza limiti per combattere il Covid, per non parlare dei miliardi inviati in Ucraina.

Quindi chiunque con un briciolo di sensibilità politica avrebbe detto a Macron: se non vuoi ritirare questa sciocca proposta, rendila più presentabile. Ad esempio, un’età pensionabile generalizzata di 64 anni significava che l’operaio che aveva lasciato la scuola a 16 anni avrebbe lavorato forse dieci anni in più rispetto al giornalista o al banchiere che avrebbero studiato fino a venticinque anni. Perché non utilizzare invece un sistema a punti, in modo che quando si è lavorato per un certo periodo di tempo si possa andare automaticamente in pensione? D’altronde, questa idea si ritrova in altre parti del sistema francese. La posizione del governo, al contrario, è stata di assoluta rigidità.

Il che equivale a dire che il vero problema era l’ego di Macron e il suo desiderio di imporsi platealmente su questi francesi recalcitranti e, appunto, “vincere la giornata”. Il tema, alla fine, non era importante: ciò che contava era la prospettiva dell’eroica vittoria sul popolo francese. A questo ha contribuito il fatto che si trattava di un argomento che Macron poteva effettivamente comprendere e su cui (a differenza del Covid o dell’Ucraina) aveva il potere di influire. Tuttavia, anche se alla fine Macron ha fatto approvare la legge con una procedura costituzionale concepita per affrontare emergenze eccezionali, ciò ha allontanato ancora di più l’elettorato dal sistema politico e il suo partito probabilmente subirà danni enormi in termini di consenso nelle elezioni 2027. E per quale motivo? A che pro, si sarebbe chiesto qualsiasi politico esperto della vecchia scuola?

Si è scritto molto sulla Brexit, ma, a parte le argomentazioni astratte, voglio focalizzarmi su quella che ritengo essere la questione chiave: la pura incompetenza. Da Primo Ministro con una maggioranza risicata David Cameron si è concentrato esclusivamente, come il presidente di un qualsiasi Politburo, sulla propria sopravvivenza e posizione nel partito.  Una piccola ma rumorosa fazione anti-Bruxelles stava creando problemi, quindi perché non lanciare loro l’osso di un referendum che il governo sapeva avrebbe vinto? Questo avrebbe risolto il problema. (In realtà non l’avrebbe fatto, poiché queste persone erano dei veri fanatici che non si sarebbero mai arresi: e questo è la prima valutazione politica totalmente errata). A differenza dell’accurata gestione del referendum europeo del 1975 da parte di Jim Callaghan, Cameron non ha fatto alcun tentativo di definire e attuare una strategia, né di contattare i governi europei per rassicurarli su ciò che stava accadendo. L’arroganza e l’incompetenza hanno impedito al governo di condurre una campagna credibile per il Remain, cercando solo di spaventare e costringere la popolazione a votare a favore: il tipico comportamento di un governo che non sa più come vincere le elezioni se non con gli insulti. Il risultato è stato il più grande disastro politico evitabile dei tempi moderni, anche se quello che è seguito è stato anche peggiore. Cameron, fedele allo spirito egoriferito e ripiegato su sé stesso della politica contemporanea, non ha avuto esitazioni quando i risultati sono stati resi noti: è scappato, e ora pare stia facendo fortuna consigliando altri. La povera vecchia satira sta rimanendo senza lavoro ultimamente.

Theresa May ha ereditato una situazione disperata ma non impossibile. Tutto sommato, qualsiasi politico della vecchia scuola avrebbe saputo cosa fare. Un’attenta valutazione della situazione, colloqui con tutti i partiti, nodi legali da risolvere, discussioni con i partner europei, dibattiti in parlamento… avrebbero potuto passare anni e portare a un cambio di governo o a un consolidamento della maggioranza.  E anche se, alla fine, la Brexit fosse risultata inevitabile, un governo competente si sarebbe preparato adeguatamente. Un principio basilare di qualsiasi negoziato è che non si iniziano mai i colloqui senza obiettivi chiari, senza una buona conoscenza di ciò che vuole la controparte e senza un quadro di massima su ciò che si è disposti a scambiare con cosa. Ma la Brexit è stato il primo vero esempio del nuovo stile della politica occidentale. Tutto ciò che contava per la May era la sua posizione all’interno del partito (inizialmente era contraria alla Brexit) e il preservare tale posizione uscendo dall’UE il più rapidamente possibile, anche se non c’era stata alcuna preparazione preliminare e il governo non aveva obiettivi oltre all’uscita. La sua attenzione era interamente concentrata sul fronte interno: mantenere i media dalla sua parte, “vincere la giornata”, tenere unito il partito e concedere qualsiasi promessa o compromesso necessario per mantenere la sua posizione. Dopo il disastroso fallimento di un’elezione generale indetta appositamente per rafforzare la sua posizione all’interno del partito si è ritrovata ostaggio di un gruppo di fondamentalisti protestanti irlandesi, ai quali ha prestato molta più attenzione di quanta ne abbia riservata ai suoi “partner” negoziali a Bruxelles. Al contrario, sembra che sia stato fatto ben poco per definire una strategia, e i britannici sono passati da una crisi all’altra, battuti in ogni fase da una Commissione che aveva un mandato chiaro e lo ha rispettato. Quando Johnson ha preso il potere, il trionfo della “nuova” politica è stato completo: nulla contava se non “vincere la giornata”. Non importava quante bugie fossero state dette, quanti problemi fossero stati nascosti, quanta fantasia fosse stata messa in campo: la vita reale passava in secondo piano e i futuri problemi che si accumulavano avrebbero potuto essere risolti, beh, in futuro. Il sistema britannico, un tempo solido, era ormai l’ombra di sé stesso, ma anche il sistema migliore è impotente quando i politici sono ossessionati da questioni interne e mediatiche e si chiedono non “cosa vogliamo”, ma “come apparirà”.

A questo punto dovrebbe risultare chiaro come l’Ucraina sia semplicemente l’epitome di questo fenomeno, solo su scala molto più ampia. La “politica” occidentale è gestita da una nomenklatura ormai internazionale, che guarda a sé stessa con orgoglio e approvazione ma è limitata nella sua libertà individuale di espressione e azione come lo era il Comitato Centrale del Partito Comunista Rumeno. I leader nazionali non sono preoccupati dalla crisi in sé, che a malapena comprendono, ma dalla gestione della loro immagine all’interno del proprio Paese e del proprio partito politico, per non parlare del confronto con i colleghi internazionali. Nessuno può permettersi di apparire meno determinato, meno impegnato nei confronti dell’Ucraina, meno antirusso del proprio vicino o del proprio avversario politico. Come la Stasi di un tempo, i media e i social media di oggi esaminano ogni dichiarazione, e persino ogni silenzio, su ogni questione alla ricerca di segni di deviazionismo ideologico. Non sorprende quindi che la nomenklatura passi così tanto tempo a negoziare con sé stessa ciò che potrebbe accettare come esito della crisi: ciò che conta non è ciò che i russi accetteranno, ma ciò che è accettabile per i media, per il proprio partito politico e per i colleghi internazionali, e in ultima analisi per il proprio ego.  Incontrandosi e parlandosi incessantemente, assicurandosi continuamente che la guerra è quasi vinta e Putin sta per cadere, non c’è il tempo o la voglia di cercare di scoprire cosa pensano realmente i russi. Perché dovrebbe essere importante, dopo tutto?

Inoltre, questi leader nazionali sono generalmente impopolari presso i loro elettori, o sono arrivati al potere di recente per inerzia, sostituendo leader che lo erano diventati. Non hanno la minima idea di come gestire l’opinione pubblica se non con minacce e spacconate, il che spiega forse la loro estrema sensibilità alle critiche o addirittura al pensiero indipendente. Abili nel manovrare all’interno del loro partito e abituati a un’attenzione mediatica su tutte le questioni importanti, non riescono a gestire la necessità di convincere gli altri con prove e argomentazioni razionali, poiché non hanno mai dovuto apprendere questa abilità. Ricorrono a minacciare le nazioni non occidentali perché non hanno più le capacità di persuaderle e, in effetti, nella maggior parte dei casi non sanno più cosa stanno facendo o perché, se non che è la stessa cosa che fanno tutti gli altri. Non hanno una visione strategica e nemmeno obiettivi razionali a medio termine, ma solo una serie di totem simbolici: sono come un gruppo di pellegrini che si dirigono alla cieca verso una meta favolosa, tenendosi per mano, sperando in un miracolo.

Queste persone hanno perso il contatto con la realtà anni fa. L’unica cosa che conta è produrre un’informazione d’impatto, vera o meno non importa, che domini la copertura mediatica dell’oggi. Se la storia di domani contraddice quella di oggi, non importa: la gente avrà già dimenticato. Forse ricordate le ridicole storie di un paio di mesi fa sui soldati russi che usavano le pale in combattimento. È stata una notizia divertente per un giorno o poco più, ma ovviamente non è mai stato pensata per essere presa sul serio, né tanto meno per essere verificata. È servita a “vincere la giornata”, dopodiché ha potuto essere gettata. L’incriminazione di Vladimir Putin da parte della Corte penale internazionale ha avuto un grande effetto propagandistico, che era l’unico scopo che si prefiggeva. Le storie di avanzate e ritirate, di vittime russe e di equipaggiamenti distrutti non sono destinate a essere prese alla lettera: sono semplicemente espedienti per vincere la guerra propagandistica di giornata. (E questa guerra non è con i russi, cosa che potrebbe essere almeno comprensibile, ma con l’opinione pubblica occidentale). Questa scuola politica vive di una forma di magia: le cose annunciate accadranno automaticamente, senza che sia necessario fare nulla. Alla fine, questa riduzione delle tasse produrrà X mila nuovi posti di lavoro, Y mila medici saranno assunti nell’arco di X anni, quindi cosa c’è di male nel dire che il Paese Z fornirà all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno per sempre? Dopo tutto, nessuno prende sul serio questo tipo di promesse, giusto?

E questo ci porta al lento, angosciante inizio della consapevolezza che alla fine sarà necessaria una qualche forma di accordo politico, e al modo surreale, dilettantesco e completamente incentrato sul fronte interno con cui se ne sta discutendo ora. È difficile sfuggire all’idea che la Brexit possa essere un buon indicatore della confusione, dell’ignoranza, dell’arroganza e della disunione con cui l’Occidente potrebbe cercare di affrontare la fine della crisi ucraina. Ma questo è un argomento per un altro articolo. Nel frattempo, l’epitaffio di questa scuola politica potrebbe essere: non importa quante volte si vince la giornata se si finisce per perdere la guerra.

https://aurelien2022.substack.com/p/too-much-of-not-a-lot?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=137000435&utm_campaign=email-post-title&isFreemail=true&r=9fiuo&utm_medium=email

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IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI. Intervista a Luigi Longo

IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI.

Intervista a Luigi Longo

Su questo link la raccolta delle interviste

 

Premessa

 

Non risponderò alle singole domande, che per comodità del lettore riporto in premessa, ma risponderò complessivamente perché c’è un filo rosso che le collega: il conflitto per l’egemonia mondiale tra un mondo monocentrico sostenuto dagli Usa come unico coordinatore egemonico (il polo occidentale) e un mondo multicentrico rappresentato dalla Cina e dalla Russia che è per la condivisione del dominio tra le potenze egemoni storicamente date (il polo orientale). La cesura mondiale, imposta con la guerra che gli Usa hanno dichiarato alla Russia via Ucraina-Nato-UE, ha comportato una accelerazione della costruzione del polo asiatico allargato nella fase multicentrica. Quindi il conflitto è tra un mondo a somiglianza e immagine degli Usa e tra un mondo dialogante tra le diverse potenze egemoni. La visione statunitense porta direttamente alla fase policentrica (la guerra), mentre quella cinese e russa comporta l’affermarsi della fase multicentrica che può evitare la guerra (forse l’ultima della storia umana, considerata la capacità distruttiva delle armi nucleari sulla vita della Terra) (Manlio Dinucci, La guerra. E’ in gioco la nostra vita).

 

Ecco le domande: 1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina? 2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura? 3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché? 4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

La risposta complessiva.

 

Gli agenti strategici statunitensi (perché sono loro che coordinano la guerra alla Russia e non un generico Occidente) credo abbiano commesso l’errore fondamentale, temuto da Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, di aver favorito la svolta decisiva alla costruzione del polo asiatico allargato [attraverso gli strumenti quali l’associazione interstatale dei BRICS, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), l’Unione Economica Eurasiatica (UEE), l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), la RIC (Russia, India, Cina)], intorno alle consolidate potenze Cina e Russia, in grado di sfidare il polo occidentale, ad egemonia Usa, per la realizzazione di un mondo multicentrico. Diventa difficile, ora, per gli strateghi statunitensi, uscire da una situazione di impasse sia interna (crisi e declino strutturale di una nazione-potenza) sia esterna (relazioni con la Cina e la Russia improntate nella logica imperiale del divide et impera). Sullo sfondo ci possono essere anche alcuni loro errori di valutazione: a) il tentativo di frammentazione della Russia; b) la confusione tra economia reale ed economia finanziaria con la conseguenza di imporre sanzioni poco efficaci; sembrerebbe però un errore troppo madornale; a me pare piuttosto che si tratti di un colpo assestato dagli egemoni alla serva Europa per tenerla stretta al guinzaglio del comando, soprattutto nella fase multicentrica; c) il tentativo di ri-presa del controllo sul mar Nero importante per la Russia, per lo sbocco nel Mediterraneo.

L’Ucraina di fatto è già nella Nato, la Russia è circondata da basi Nato (ricordo l’importanza delle basi come controllo del territorio e come modello di sviluppo incastrato nelle strategie statunitensi; gli esempi delle città Nato in Italia sono eloquenti!). Quindi, il velamento dell’adesione ucraina alla Nato è funzionale sia agli Usa nel non dichiarare guerra direttamente alla Russia per equilibri/squilibri interni ed esterni (la fase multicentrica è lunga e spero che non si passi alla fase policentrica), sia alla Russia per tutelare la via del mar Nero e la popolazione delle regioni del Donbass e della Novorussia (Crimea inclusa) che rappresentano i territori (storicamente russi) più sviluppati dell’Ucraina. Ai russi non interessa la parte occidentale dell’Ucraina, sono interessati alla parte orientale meridionale del fiume Dnieper: lo hanno detto dal primo momento.

L’Ucraina, a mio parere, non esisterà più come nazione. La parte occidentale, dove vivono i veri ucraini, sarà trasformata in un territorio-enclave così come è accaduto al popolo palestinese.

Negli Usa non ci sono agenti strategici che propongono una nuova visione di sviluppo della società da portare avanti nel conflitto del mondo multicentrico; mancano, per dirla con Fedor M. Dostoevskij (Delitto e castigo), gli uomini straordinari, gli agenti strategici straordinari, in grado di dire una parola nuova. Ci sono agenti strategici, espressione di blocchi di potere, che lottano tra di loro senza una visione nazionale e gli interessi di parte prevalgono sull’interesse generale del Paese. Gli Usa non sono più un compatto insieme perché il conflitto tra i decisori è insanabile a causa della profonda crisi interna che tocca in maniera strutturale tutte le sfere della società.

Riporto una mia riflessione già sviluppata in altri scritti e, cioè, che la crisi della potenza egemone di coordinamento mondiale è una crisi di declino irreversibile che riguarda tutto l’Occidente, non fosse altro per il modello di sviluppo sociale imposto con il consenso e la coercizione. Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente: non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle armi moderne, la sua stessa esistenza), ma le teorie scientifiche, i processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di comportamento americani penetrano, per il bene come per il male, tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente non appaia (Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti). Quindi, non è solo la crisi degli Usa ma è una crisi di civiltà dell’Occidente che si evidenzia con maggiore decisione nella fase multicentrica (una crisi d’epoca, di passaggio verso nuovi equilibri mondiali e nuovi modelli economici e sociali); una crisi che evidenzia il nichilismo occidentale della ricerca del post-umano (intelligenza artificiale, rivoluzione digitale, robotizzazione, recisioni delle radici umane e naturali, eccetera) e non riesce ad esprimere una nuova idea di sviluppo economico e sociale tendente al benessere individuale e sociale. Quale società sarà quella dove il popolo, sempre più plebe, vivrà la sua realtà virtuale tramite la rivoluzione informatica/digitale e le elites vivranno la realtà reale trasformando città e territori e costruendo nuovi paesaggi dove i flussi e il godimento della natura saranno sempre controllati e selezionati? Si va verso un nuovo paradigma sociale che porta dritto nel profondo nichilismo a meno che non si crei la possibilità di frenare questa discesa nel baratro sociale. Il morto afferra il vivo e lo fa prigioniero (Karl Marx).

La cosiddetta civiltà, qui mi riferisco sia all’Occidente sia all’Oriente, ha bisogno di ben altro progresso, di ben altra scienza: vanno ripensati sia la sua produzione sia i suoi obiettivi, tenendo presente la non neutralità della scienza. Abbiamo raschiato il fondo facendo passare per scienza la produzione dei falsi vaccini per combattere la malattia da covid-19 scaturita da un virus Sars-Cov-2 di origine artificiale usato per una guerra batteriologica, prevalentemente statunitense. Abbiamo bisogno di un progresso che aiuti a costruire sensatezza individuale e sociale affrontando i bisogni fondamentali della produzione e riproduzione della vita, innervato con il rispetto delle leggi della natura (di cui non sappiamo molto!).

Come l’Occidente affronta la fine del vecchio nomos e la costruzione del nuovo nomos (Carl Schmitt, Terra e mare)? Come si porrà il nuovo nomos occidentale in rapporto al nuovo nomos orientale che si inizia a intravedere nel costruendo polo asiatico allargato? Riusciranno i due ordini a rimanere nella fase multicentrica della storia mondiale con rispetto reciproco, basando il confronto sul riconoscimento della diversità storica e territoriale (Francois Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti; Luce Irigaray, Tra oriente e occidente. Dalla singolarità alla comunità; Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza) proponendo un nuovo modello di organizzazione di produzione e riproduzione della vita sessuata dei popoli?

Il “continente” Europa può svolgere un ruolo fondamentale (considerato il declino irreversibile dell’egemonia statunitense) nel creare un nuovo ordine, a patto però che crei la rottura con un progetto-percorso di de-americanizzazione (è poco studiata l’americanizzazione del territorio europeo), così come gli Stati Uniti imposero, con la dottrina Monroe, la de-europizzazione del continente America? Occorre, per dirla con Costanzo Preve, “un radicale riorientamento gestaltico” che faccia uscire l’Europa dalla servitù volontaria statunitense e pensare ad un’altra Europa come soggetto politico di nazioni autodeterminate e libere (con una propria idea di sviluppo e di organizzazione sociale, i cui territori facciano da crocevia di interscambio tra Occidente e Oriente), che aiuti gli Usa ad uscire da una logica di padroni del mondo. Una rottura forte e qualitativa che può essere realizzata mettendo in discussione il modello egemonico degli Usa a partire dalla liberazione dei territori europei dalle basi Usa e Usa-Nato che interferiscono nelle scelte di sviluppo imponendo il proprio modello di sviluppo e le proprie linee strategiche per le esigenze di potenza mondiale (l’Europa è piena di basi, di cui 140 in Italia; di 481 bombe nucleari, di cui 70 in Italia, di soldati, eccetera, cfr Redazione de “Il Messaggero”, Bombe atomiche dove sono in Italia? Oltre 70 testate nucleari in due basi, utilizzabili da Jet dell’aeronautica (ma degli Usa); Comidad, Il militarismo è un catalizzatore del crimine, www.comidad.org, 7/9/2023). E’ ideologia, nell’accezione negativa del termine, parlare di territori europei liberi quando sono occupati da basi statunitensi direttamente e indirettamente (Usa-Nato).

Bisogna uscire dalla Nato quale strumento che ha incorporato l’Unione Europea (che è stata un progetto Usa ideato negli anni trenta del secolo scorso e realizzato nel secondo dopoguerra con l’affermazione del dominio occidentale da parte degli Usa) per la realizzazione delle scelte strategiche statunitensi nel conflitto con le potenze mondiali Cina e Russia: la guerra alla Russia e tutte le scelte politiche formalmente europee lo stanno a dimostrare!

Costanzo Preve fa riflettere quando afferma che << […] l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un corpo di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare ed a rischiare una guerra mondiale in Georgia ed in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche dell’umanesimo rinascimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, eccetera? Pura ipocrisia >> (Costanzo Preve e Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale).

Fin qui ho parlato di una rivoluzione dentro il capitale (inteso come rapporto sociale) che riguarda sia l’Occidente sia l’Oriente. Occorre invece pensare e progettare una rivoluzione fuori dal capitale, ma questa è un’altra grande e fondamentale questione.

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A Flavio Piero Cuniberto

Il 23 agosto abbiamo posto ad Aurelien quattro domande[1]. Le abbiamo riproposte, identiche, ad alcuni amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Nella voce “dossier” sulla barra orizzontale abbiamo creato una apposita raccolta delle interviste.

Oggi risponde Flavio Piero Cuniberto, che insegna Estetica all’Università di Perugia[2]. Lo ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità.

 Buona lettura. Roberto Buffagni, Giuseppe Germinario

 

 

INTERVISTA A FLAVIO PIERO CUNIBERTO

 

1)  Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

 

Nel valutare la situazione «sul campo» preferisco lasciare la risposta ad analisti più professionali (analisti di cose militari, anzitutto). Da un punto di vista più generale mi richiamerei a quella che è la mia visione complessiva del conflitto: una sorta di «teorema», che i fatti concreti non hanno finora confutato, e hanno piuttosto rafforzato. E’ l’idea che, nel «teatro» ucraino, e malgrado le dichiarazioni incendiarie, la NATO non abbia finora premuto sull’acceleratore e non intenda farlo: sia allo scopo di evitare uno scontro diretto e una possibile escalation nucleare, sia perché il timone strategico – ecco il teorema – resta comunque ben fermo sull’obiettivo numero uno della crisi ucraina: spezzare una volta per tutte le linee di comunicazione (politico-diplomatiche, commerciali, energetiche) tra lo «spazio» russo e lo «spazio» europeo, e per parlare più concretamente, tra lo «spazio» russo e lo «spazio» tedesco o mitteleuropeo. Vedere nell’indebolimento delle economie europee, a cominciare da quella tedesca e da quella italiana in seconda battuta, un semplice «effetto collaterale» delle sanzioni, del sabotaggio di Nordstream ecc., è probabilmente un grosso errore di interpretazione. La poderosa macchina industriale tedesca – proiettata ostinatamente verso l’export, cioè verso un accumulo di ricchezza reale, non fondata sulla speculazione finanziaria – era da molti anni un vero incubo per la strategia globale di Washington, sempre più convinta – nell’era-Merkel – di avere nella Germania un alleato sì, ma poco affidabile e sempre pronto a spiccare il volo verso una politica di potenza «in proprio». A trasformarsi da potenza geoeconomica in una vera potenza geopolitica. La partnership con Mosca avrebbe spianato la strada in questa direzione. Bisognava dunque (per Washington e Londra) «stroncare» il canale Mosca-Berlino. L’enfasi con cui gli organi di informazione – ad ogni livello – hanno indicato nella sconfitta militare di Mosca e nella liquidazione del regime «putiniano» (o addirittura nella disintegrazione territoriale della Confederazione Russa) l’obiettivo essenziale del sostegno all’Ucraina, è servita a mantenere in sordina, lontano dai riflettori (fino a un certo punto) quello che è l’obiettivo reale – e non, come dicevo, un semplice effetto collaterale – della strategia americana: reale ma non dichiarabile, perché non si può chiamare alle armi i principali alleati dichiarando in conferenza stampa che lo scopo della mobilitazione è di tagliare gli attributi agli alleati. Va da sé che un ostinato «lavoro ai fianchi» del potenziale militare russo è comunque un esercizio utilissimo, forse anche a distogliere l’attenzione del Cremlino da altri possibili «teatri» di guerra.

Se le cose stanno così – e sono convinto che stiano così – il fatto che la situazione militare in Ucraina sia stagnante e volga al peggio per la NATO non impedisce di ritenere che l’obiettivo N,1 della strategia sia stato raggiunto. E’ difficile pensare infatti che i rapporti russo-tedeschi, a questo punto, non siano compromessi anche a medio-lungo termine. Che poi il raggiungimento di questo obiettivo – tramite una sfiancante guerra di posizione in Ucraina – abbia comportato enormi perdite umane, un autentico protratto massacro, è cosa che agli strateghi di Washington non potrebbe importare di meno. Quella che vedo, insomma, è una miscela di finte dichiarazioni (come nel volley, per distrarre l’attenzione) e di infinito cinismo. Ad maiorem gloriam dell’impero USA in difficoltà.

 

 

 

 

 

2)  Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

 

Se è valido il «teorema» di cui sopra, non credo che si possa parlare di veri e propri «errori», almeno da parte della strategia americana. Diverso è il caso dell’Europa occidentale non anglofona, il cui passivo allineamento alla strategia USA sembra, in effetti, un clamoroso errore. Ma chi sono i decisori in Europa (in Germania e in Italia, anzitutto) ?  A decidere è una classe politica che è ormai la longa manus di Washington. Parlerei di un esteso, anzi mostruoso, «collaborazionismo», dove gli infiniti fiancheggiatori europei della strategia americana mirano a un tornaconto personale o «di classe», e non «di sistema». Se anche la Germania, fino a ieri in ascesa, è un paese in declino, si tratta di un suicidio assistito che manifesta una irreversibile crisi di identità.

 

 

 

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

 

È la crisi di identità a cui accennavo. Sono abbastanza informato sul caso tedesco, e qui vedo davvero gli estremi di uno psicodramma, dove l’intero paese, finalmente riunificato, sembra rinunciare a un’identità forte, anche sul piano culturale, come se avesse ormai alzato bandiera bianca di fronte agli irresistibili modelli (soprattutto culturali) d’Oltreoceano.  Non mancano, in Germania, alcune voci più lucide, sia nel comparto «sovranista» dell’AfD che nel comparto post-comunista della Linke (mi riferisco per esempio agli interventi di recenti di Oskar Lafontaine, peraltro anziano e fuori dai giochi). E tuttavia l’occupazione dei «gangli» vitali da parte degli apparati atlantisti (e qui penso anche all’occupazione delle coscienze, alla subordinazione anche inconsapevole della mentalità collettiva ai paradigmi egemonici d’Oltreatlantico) ha raggiunto un livello tale da lasciare poco spazio a un cambio di rotta. Ben difficilmente le voci di cui parlavo – e anche gli ambienti del dissenso, comprese le organizzazioni imprenditoriali, raggiungeranno la massa critica necessaria per rovesciare l’attuale ordine delle cose. Il deep state tedesco è, paurosamente infiltrato e probabilmente eterodiretto. Un eventuale rovesciamento potrebbe verificarsi, credo, solo nel caso di una implosione totale del sistema egemonico americano: in questo senso la crisi sarebbe «reversibile», ma solo per effetto di uno scenario globale drasticamente mutato, cioè per meriti esterni.

Quanto all’America, si sta giocando l’egemonia, e dunque staremo a vedere. Insomma: non parlerei di una «crisi dell’Occidente» tout court, ma distinguerei il ruolo americano da quello europeo-continentale, dove la crisi assume, a mio parere, una fisionomia più lampante.

 

 

4)  Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente ‘reazionario’, può attecchire in una moderna società industriale?

 

Di questo ritorno alle radici tradizionali, in Russia e in Cina, si parla da tempo, ma credo che sia molto difficile valutarne l’effettiva entità. René Guénon sosteneva che l’Estremo Oriente si sarebbe modernizzato solo allo scopo di battere l’Occidente sul suo terreno: ossia nella forma e non nella sostanza, che sarebbe rimasta tradizionale. Per quanto suggestivo, il parere di Guènon non è però infallibile. La spaventosa determinazione con cui la Cina, in particolare, mira al primato tecnologico –  a cominciare dal settore dell’AI, e «sfornando» anno dopo anno milioni di nuovi ingegneri – non sembra compensata da un adeguato «recupero» tradizionale, se non forse come fenomeno «di nicchia», o coltivato negli ambienti molto chiusi delle società segrete (di cui mi sembrerebbe ingenuo postulare la scomparsa). Potrebbe essere un movimento decisivo anche se elitario, o proprio perché elitario: ci si augura che sia così, che una superiore millenarias saggezza governi, anche nascostamente, la transizione dall’arroganza unipolare a un sistema multipolare. Ma non me la sento di trasformare l’auspicio in una previsione.

Quanto alla Russia, le cose non stanno molto diversamente. Il ritorno alla Russia cristiana dopo l’89 non ha coinvolto le masse. Lo stesso Dugin, alfiere del neo-tradizionalismo russo, ha su questo punto una posizione molto ambigua, favorevole a una specie di «Internazionale delle tradizioni» in cui l’elemento cristiano-ortodosso è posto sullo stesso piano delle tradizioni non-cristiane (e per quanto possa sembrare paradossale, l’idea stessa di una «internazionale neotradizionale» è, in fondo, un’idea massonica, cioè squisitamente occidentale). E d’altronde non è affatto chiaro quale sia il peso reale di Dugin «alla corte dello Zar».

 

 

[1] https://italiaeilmondo.com/2023/08/23/il-disadattamento-delle-elites-occidentali-intervista-ad-aurelien-_-a-cura-di-roberto-buffagni/

[2] Flavio Cuniberto (1956) insegna Estetica all’Università di Perugia. Ha studiato a Torino, Monaco, Berlino e Freiburg i.B. I suoi interessi spaziano dalla filosofia e dalla letteratura tedesca moderna e contemporanea (Friedrich & Schlegel e l’assoluto letterario, Rosenberg Sellier 1990; La foresta incantata. Patologia della Germania moderna, Quodlibet 2010; Germanie. Taccuini di Viaggio, Morlacchi 2011) alla tradizione platonica e neoplatonica nei suoi intrecci con l’ebraismo e l’islam (Jakob Boehme, Brescia 2000; Il Cedro e la Palma. Note di metafisica, Medusa 2008), alla questione della modernità e del suo rapporto col paradigma premoderno (Il Vortice Estetico. Elementi di Estetica generale, Morlacchi 2015). È tra i promotori del progetto Laby, Laboratorio per la Biologia delle immagini. Con Neri Pozza ha pubblicato Madonna povertà (2016), Paesaggi del Regno (2017).

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A TEODORO KLITSCHE de la GRANGE

IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A TEODORO KLITSCHE de la GRANGE

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Teodoro Klitsche de la Grange[2], che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. 

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

DOMANDE

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

RISPOSTE

Premesso che, come i lettori di “Italia e il mondo” sanno, la “nebbia della guerra” nel conflitto russo-ucraino è particolarmente fitta – anche se rozza – e pertanto ha, quanto meno, l’effetto di disorientare i giudizi; tenuto conto di tale – fondamentale limite – provo a rispondere:

Al primo quesito: sembra che sia stato di sottovalutare il nemico. Ma non è certo, dato che lo “scopo” politico potrebbe anche (per gli USA) essere di impelagare la Russia in una guerra lunga. Obiettivo, per ora, conseguito.

Quanto al secondo quesito (e in parte al primo), l’errore più evidente (dell’epoca contemporanea) è valutare fatti politici, come per eccellenza è la guerra, con “categorie” e criteri economici. Se è vero che contiene (una parte) di vero il detto “c’est l’argent qui fait la guerre” è vero (per l’altra, prevalente, parte) che se fossero PIL, cambi, spread, ecc. ecc,. e così la sproporzione economica a determinare la vittoria in guerra, non si capirebbe l’esito –  opposto – di tanti conflitti. Già oltre quarant’anni fa Luttwak ironizzava sui rapporti redatti dal pentagono sulla guerra in Vietnam, dove l’impegno militare era commisurato dal numero di proiettili e missili sparati, dal peso delle bombe, ecc. ecc.: con criteri e parametri assai simili a quelli di manager che misurano la produttività in base alla quantità di “pezzi” che escono dalla fabbrica. E dalle vendite dei medesimi.

Circostanze importanti, ma non decisive in politica e in campo militare. Qui essenziale è fiaccare la volontà di combattere del nemico, seguendo la prima definizione della guerra nel “Von Kriege”. Il che spiega come popoli del Terzo mondo, poverissimi, abbiano sconfitto gli eserciti delle grandi potenze, colmi di ogni ben di Dio. Napoleone, che di queste cose s’intendeva, sosteneva che il morale sta al materiale come 3 sta ad 1. Sarebbe bene che se ne ricordassero.

E ovviamente questo non è il solo ambito – ma è il principale – che distorce i giudizi delle élites.

Ma è sicuro che tale errore coinvolge sia le élite che la cultura in cui sono vissute e prosperate (loro): che è quello della “fine della Storia” durato poco più di un decennio, ma che dopo ha continuato a far danni. Secondo la quale i quattro cavalieri dell’Apocalisse erano andati in pensione. Ma negli ultimi anni almeno due: peste e guerra hanno ripreso servizio, anche in Europa, infrangendo i sogni delle anime belle (quanto ingenue o ipocrite).

Il terzo quesito: la crisi è una conseguenza della fuga dalla realtà; della credenza di poter cambiare il reale in conformità ai propri sogni e favole mentre, come scriveva Machiavelli, così si trova “più presto la ruina” propria.

Sul quarto: non mi intendo di Russia e Cina da poter azzardare giudizi. Posso all’uopo ricordare anche qui quello di Machiavelli: che per rigenerare una repubblica occorre “ritornare” al principio

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A Jacques Sapir

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Jacques Sapir[2], che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Anche per il testo di Sapir pubblicheremo le versioni in inglese e francese

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

INTERVISTA A JACQUES SAPIR

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Questi errori sono di vario tipo. Innanzitutto, ci sono errori di natura “tecnica”, legati a un’incomprensione dei dati o della loro natura. Ad esempio, l’affermazione spesso ripetuta che il PIL della Russia fosse più o meno uguale a quello dell’Italia o della Spagna derivava da una mancanza di comprensione – comune a politici e giornalisti – delle statistiche e del loro utilizzo. Quando si confrontano due economie, è importante utilizzare il PIL calcolato in termini di parità di potere d’acquisto (PPA), perché altri metodi sono altamente distorcenti. Questo ha portato a una sottostima del PIL russo (che in realtà oggi è più alto di quello tedesco) e quindi a un grave errore di valutazione sulla capacità della Russia di far fronte sia alla guerra che alle sanzioni occidentali. Allo stesso modo, sono stati commessi errori “tecnici” sulla capacità dell’industria russa di produrre un gran numero di armi e munizioni. Questi errori si basano su una mancanza di conoscenza della Russia o sul fatto che i decisori (e i giornalisti) non hanno ascoltato chi ha una reale conoscenza della Russia. Questo primo livello di errore deriva dal desiderio di non sapere, sia che si tratti dell’argomento (la guerra in Ucraina, la Russia, l’Ucraina, ecc.) sia che si tratti del modo in cui vengono raccolti i dati. Si tratta quindi di un errore importante, perché rivela una forma di “pigrizia” intellettuale da parte dei decisori, una “pigrizia” che può avere molte cause (dalla pigrizia vera e propria a forme di saturazione delle capacità cognitive, soprattutto nel caso di informazioni presentate in forme “tecniche”).

Poi ci sono gli errori che derivano dal filtro ideologico presente nel comportamento di tutti gli attori e i decisori. Questo è un punto importante. Nessuno può liberarsi completamente dalle proprie rappresentazioni ideologiche. Credere di poter arrivare a una rappresentazione non ideologizzata è un errore (e un’impossibilità dal punto di vista dell’analisi cognitiva). Ma si può sapere che le proprie rappresentazioni sono potenzialmente distorte e ascoltare (o consultare) altre rappresentazioni che portano un’ideologia diversa. Non che queste “altre rappresentazioni” siano necessariamente più “corrette” delle proprie. Tuttavia, il confronto tra rappresentazioni diverse può essere un segnale di allarme sulla validità e sulla rilevanza operativa delle proprie rappresentazioni.

Il discorso diplomatico e politico dei russi dall’inizio degli anni 2000 (dalla crisi del Kosovo) avrebbe dovuto essere ascoltato. Dopo tutto, questo discorso è variato molto poco nel tempo e mostra una forte continuità discorsiva. Ciò non implica, ovviamente, che sia totalmente accurato, ma suggerisce che si basa su fatti reali, su “moli di stabilità”, la cui rappresentazione non cambia e che quindi vanno tenuti in considerazione.

Procedere in questo modo avrebbe senza dubbio dato un’idea più precisa delle intenzioni dei leader russi e dei punti che, per loro, costituivano “linee rosse”, il cui superamento avrebbe necessariamente comportato una risposta su larga scala. Se questo non è stato fatto, le ragioni possono anche essere diverse. Può darsi che i decisori occidentali si siano rinserrati in un dibattito troppo chiuso a rappresentazioni diverse dalle proprie. Le ragioni sono molteplici, tra cui il modo in cui i decisori non accettano il pluralismo ideologico tra i loro consulenti, la preminenza di rappresentazioni ideologiche non più “discutibili” e, infine, una “cultura della comunicazione” che porta i decisori a dipendere sempre più da “comunicatori” che a loro volta provengono da circoli chiusi, favorendo il conformismo ideologico (sia nella formazione che nella pratica professionale). La profonda endogamia che esiste in molti Paesi tra il mondo dei decisori politici e quello dei giornalisti ha esacerbato questo fenomeno.

Le cause fondamentali di questi errori si possono riassumere in una mancanza di curiosità, ma anche in un sistema istituzionale chiuso. L’aspetto interessante è che nel febbraio-marzo 2022 questo tipo di disfunzionalità del sistema decisionale è stata attribuito ai leader russi, senza che i decisori occidentali si interrogassero sulla possibilità di essere essi stessi vittime di questo tipo di disfunzione.

Infine, un terzo tipo di errore può essere attribuito a una resistenza politica e psicologica a considerare che il mondo è profondamente cambiato tra gli anni ’90 e il 2022. Alla fine degli anni ’90, il dominio degli Stati Uniti era accettato e, nel complesso, i Paesi occidentali esercitavano una forma di supremazia, sia politica che economica o militare. Ma il mondo è profondamente cambiato negli ultimi vent’anni.

Le relazioni economiche internazionali sono state segnate dall’emergere della Cina, che ha soppiantato gli Stati Uniti dal punto di vista industriale e commerciale, ma anche dall’emergere globale dell’Asia, che ha gradualmente soppiantato l’Europa. Allo stesso tempo, aree che si pensava fossero definitivamente emarginate dagli Stati Uniti e dall’Europa, come l’America Latina e il Medio Oriente, e in misura minore l’Africa, hanno iniziato a emanciparsi. Il vertice dei BRICS tenutosi a Johannesburg alla fine di agosto 2023 ne è stata una dimostrazione lampante.

Questo cambiamento è fondamentale, perché pone fine a un periodo di dominio sul mondo esercitato da quella che può essere definita la zona “nord-atlantica”, che durava almeno dall’inizio del XIX secolo. Per i decisori occidentali rappresenta una duplice sfida: politica (come pensare il posto del proprio Paese nell’equilibrio di potere internazionale) e psicologica (come pensare se stessi quando si passa da una posizione di centralità a una di perifericità). Nel complesso, tuttavia, i responsabili delle decisioni nei Paesi occidentali sono stati poco preparati ad affrontare questa duplice sfida. In alcuni casi, si trattava di persone relativamente giovani con un’esperienza limitata. In altri casi, le condizioni della loro formazione, sia essa intesa in senso universitario o politico, non li avevano preparati ad affrontare una sfida di tale importanza. Di fronte a grandi cambiamenti, che vanno ben oltre le loro possibilità e creano dissonanze cognitive, questi decisori optano per strategie di negazione (questi cambiamenti non esistono, o sono solo temporanei…) o per la riproduzione del comportamento passato. Così, nella migliore delle ipotesi, sono pronti a impegnarsi in una “Guerra Fredda 2.0”, riproducendo il comportamento dei loro predecessori dal 1948 al 1952, ma in una situazione che ora è radicalmente diversa.

Le cause degli errori commessi dai leader “occidentali” sono probabilmente numerose quanto gli errori stessi. Tutte si sommano a una grande crisi decisionale.

 

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Questi errori sono, ovviamente, in primo luogo errori della classe dirigente. Ma la loro portata, la loro varietà e la loro sistematicità sono davvero impressionanti. Un moderno Amleto esclamerebbe senza dubbio: “c’è del marcio nei Paesi occidentali“.

Dopodiché, i problemi sono molti. Il primo è la tendenza delle élite al potere ad auto-replicarsi. Non si tratta di una novità assoluta. Le classi dirigenti hanno sempre avuto la tendenza a operare nel vuoto. Ma dagli anni Cinquanta agli anni Novanta sono diventate più aperte all’ingresso di persone che non avevano legami precedenti con esse. Dagli anni Duemila, tendono a chiudersi in se stesse e, naturalmente, a produrre una cultura specifica. Questo è vero in Francia, Regno Unito e Germania, ma probabilmente di meno nei Paesi scandinavi. Oggi possiamo parlare di una cultura (o più precisamente di una sottocultura) delle élite che è ampiamente distinta dalla cultura (o dalle sottoculture) delle classi lavoratrici in termini di rappresentazioni e comportamenti, ma non necessariamente in termini di rapporti con le istituzioni.

Questa subcultura “d’élite” è stata certamente uno dei fondamenti degli errori commessi, in quanto caratterizzata da un’arroganza autocompiaciuta, da un disprezzo per tutto ciò che non si esprime nel suo linguaggio particolare, da una difficoltà o addirittura da un’impossibilità di fare marcia indietro e di mettere in discussione i suoi “valori”, e infine da una forma abbastanza sistematica di ipocrisia. Questa sottocultura d’élite ha facilitato la riproduzione e la perpetuazione delle strutture che abbiamo menzionato e che sono state all’origine di questi errori, come la fiducia in un discorso semplificato, l’assenza di qualsiasi critica alle proprie rappresentazioni (che si suppone siano “le migliori”) e forme di routine intellettuale che non hanno preparato queste élite al potere per le sfide del periodo. Da questo punto di vista, non è sbagliato parlare dei molti errori commessi dalle classi dirigenti occidentali come di una bancarotta sia pratica che intellettuale.

Ma questo significa che le subculture “popolari” sono state interamente preservate dai difetti e dalle mancanze della subcultura d’élite? In questo caso, sarebbe senza dubbio necessario specificare la diagnosi paese per paese. Se prendiamo il caso degli Stati Uniti, l’eccezionalismo americano, il suo disinteresse per tutto ciò che è esterno, ha senza dubbio giocato un ruolo importante nella non contestazione di alcune affermazioni della subcultura d’élite, e questo ha facilitato per un certo periodo l’opera nefasta dei circoli neoconservatori nelle classi dirigenti.

Per i Paesi europei, invece, questo è molto più difficile da dimostrare. Infatti, la necessità di mantenere una propaganda piuttosto rozza sull’Ucraina, nei media tradizionali, dimostra chiaramente che le sottoculture popolari sono rimaste relativamente resistenti al discorso delle classi dirigenti. Anche in questo caso, dobbiamo affinare i nostri risultati. L’immagine del “russo cattivo” o della presenza di un minaccioso “imperialismo russo” è certamente più presente nelle popolazioni dei Paesi del Nord Europa o di alcuni Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Va notato, tuttavia, che una parte della classe dirigente ungherese ha un discorso piuttosto diverso, che può essere descritto come “realistico” (nel senso che questo termine ha nella politica internazionale), e che questo discorso sembra in gran parte in sintonia con le idee trasmesse tra la popolazione. La stessa cosa sembra accadere in Austria. In Francia, Germania e Italia, nonostante la diversità delle culture, possiamo comunque osservare una certa resistenza delle sottoculture popolari nei confronti della sottocultura d’élite. Il caso della Francia è piuttosto caratteristico a questo proposito. La sottocultura popolare è stata profondamente influenzata dalla macchina di rappresentazione americana di Hollywood. Così, la visione del contributo sovietico (e quindi russo), estremamente positiva alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta e Sessanta, è stata gradualmente ribaltata. Tuttavia, la sottocultura popolare francese non si lascia convincere spontaneamente dagli stereotipi del “russo cattivo” o dell'”aggressore russo”. Diversi sondaggi di opinione mostrano che esiste ancora una base “filorussa” nella popolazione. Mostrano anche che, spontaneamente, le classi lavoratrici hanno una visione più realistica, anche se necessariamente sommaria, degli attuali sviluppi geopolitici.

 

L’incapacità della sottocultura d’élite di influenzare e plasmare pienamente le sottoculture popolari si riflette oggi nel fatto che gli strati intermedi tra i vertici delle classi dominanti e le classi popolari, quelli che potremmo definire la “cultura piccolo-borghese”, sono diventati un obiettivo strategico nella “guerra culturale” condotta dalle classi dominanti. Queste classi, sapendo che la “piccola borghesia culturale” dipende in modo particolare dai media (sia quelli tradizionali, sia quelli radiotelevisivi, sia i social network), hanno intrapreso una lotta feroce per escludere da questi media qualsiasi opinione divergente su questi punti. Ma la ferocia di questa lotta ha portato al discredito della stampa tradizionale. La “piccola borghesia culturale” tende ormai a cercare informazioni, e quindi rappresentazioni, sempre più sui social network. Da qui un cambiamento nella lotta. Le classi dominanti cercano ora di imbavagliare questi social network, per legittimare l’introduzione di forme indirette o dirette di censura.

 

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

È infatti evidente che la guerra in Ucraina manifesta una crisi dell'”Occidente collettivo”, come lo chiamano i russi. Questo “Occidente collettivo” si sta dimostrando incapace di permettere all’Ucraina di “vincere” e, oltre a ciò, incapace di arrestare le trasformazioni di un mondo che sfugge sempre più al suo controllo.

Questo processo sembra irreversibile. Non sappiamo se la Russia otterrà una “piccola” vittoria (mantenendo le conquiste fatte dal 2014) o una “grande” vittoria (estendendo le conquiste e soddisfacendo le sue principali richieste). Ma sembrano esserci pochi dubbi su una “vittoria” russa. Più in generale, è difficile vedere come l'”Occidente collettivo” possa tornare alla posizione in cui si trovava nel 2010, o anche prima. La vera domanda non è quindi se questi sviluppi siano reversibili, ma se l'”Occidente collettivo” continuerà a perdere terreno, economicamente, politicamente, militarmente e, naturalmente, culturalmente, o se sarà in grado di stabilizzare la propria posizione nei prossimi cinque-dieci anni.

Per stabilizzare la sua posizione, l'”Occidente collettivo” deve fare due cose: stabilizzare la sua situazione economica e porre fine al processo di deindustrializzazione che sta subendo da quasi quarant’anni, e cambiare atteggiamento nei confronti del resto del mondo, per dimostrare che è consapevole della sua perdita di egemonia e che è finalmente pronto a discutere su un piano di parità, senza volersi sempre ergere a maestro. Ma questi due obiettivi solleveranno contraddizioni all’interno dello stesso “Occidente collettivo”.

Sul tema della deindustrializzazione esiste un conflitto interno tra gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea. Gli Stati Uniti sono convinti che la loro reindustrializzazione debba avvenire a spese dell’Europa, ovvero che debbano cannibalizzare l’industria europea. Lo stanno facendo, avendo costretto i Paesi dell’Unione Europea a imitarli in una quasi rottura con la Russia per questioni energetiche. L’accesso all’energia a basso costo che la Russia vendeva era di particolare importanza per lo sviluppo economico e industriale dell’Unione Europea. Si tratta di un gioco a somma zero tra gli Stati Uniti e l’UE. Tuttavia, l’attuale strategia statunitense è in contraddizione con la stabilizzazione economica dell'”Occidente collettivo”. Qualunque cosa gli Stati Uniti possano guadagnare da questa strategia sarà più che compensata dalle perdite in Europa. È vero che gli Stati Uniti diventeranno il leader indiscusso del “campo occidentale”, ma quest’ultimo continuerà a indebolirsi e gli Stati Uniti saranno il padrone di un gruppo che continuerà a declinare e a perdere importanza economica. Si noti che questa strategia è l’opposto di quella perseguita dagli Stati Uniti dal 1948 al 1960, all’inizio della “prima” guerra fredda. A quel tempo, gli Stati Uniti accettarono di cedere parte della loro crescita all’Europa occidentale, che era in fase di ricostruzione. Se guardiamo alle due “grandi” crisi della Guerra Fredda 1.0, la Guerra di Corea e la Crisi dei Missili di Cuba, il “mondo occidentale”, come veniva chiamato all’epoca, era molto più forte nel 1962 che nel 1950. L’attuale strategia americana contraddice quindi l’obiettivo di stabilizzazione economica a lungo termine dell'”Occidente collettivo”.

Sul secondo punto, il problema è più ideologico. Accettare di trattare il resto del mondo da pari a pari, smettere di cercare continuamente di dare lezioni, significa fare i conti con la nostra ex egemonia, ma anche con un universalismo volgare. Per quanto riguarda la vecchia egemonia, tutti mi capiranno. Quello che chiamo universalismo volgare, e che può sorprendere chi si dichiara universalista, riguarda la convinzione, che considero falsa, che esista un solo modo per raggiungere gli universali dei Diritti dell’Uomo (e quindi delle donne) e del Cittadino, lo sviluppo per tutti o una gestione più razionale delle risorse che porti alla neutralità carbone. La realtà è che esistono diversi approcci, diverse traiettorie possibili, che possono portare a questi risultati. Non possiamo trarre dall’esperienza storica delle nostre particolari traiettorie la conclusione che queste siano le uniche possibili. Dobbiamo quindi permettere ad altre nazioni, ad altri popoli, di sperimentare, di scoprire attraverso processi storici per prova ed errore, quali traiettorie sono più adatte alle loro culture. Il vero universalismo è un universalismo di obiettivi, non delle traiettorie. Possiamo pretendere il rispetto della nostra cultura solo rispettando quella degli altri, anche se la consideriamo, a volte a ragione, oppressiva, arretrata e a volte assolutamente crudele. Dobbiamo ricordare che tutti i tentativi di far progredire e avanzare verso gli universali di cui sopra, mediante cannoni, bombe o napalm, sono stati dei sanguinosi fallimenti e hanno provocato, di fatto, la regressione delle società.

 

Tuttavia, è possibile misurare ciò che comporta il semplice obiettivo di stabilizzare la posizione dell'”Occidente collettivo”, che è l’unico obiettivo realistico, in termini di rivoluzione culturale e politica delle élite al potere. Ecco perché ritengo che questo obiettivo non sarà raggiunto e che, come “blocco”, questo “Occidente collettivo” non ha più un futuro.

 

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Il ritorno della Cina e della Russia ai loro “valori tradizionali” è più un elemento del discorso odierno che una realtà. In realtà, il comunismo sovietico e cinese è rimasto impregnato di questi “valori”. La retorica dei leader comunisti bolscevichi e cinesi non deve essere presa alla lettera, quando affermano di aver operato una rottura radicale con il loro passato. In queste due rivoluzioni, gli elementi di continuità sono importanti almeno quanto quelli di rottura. La società staliniana rimase in gran parte nel quadro dei valori ortodossi, anche quando la Chiesa fu perseguitata: la riverenza per un discorso concepito come una religione, il ruolo dei ritratti dei leader a immagine di antiche icone, il puritanesimo sociale, eccetera eccetera. Il bolscevismo fu la forma che l’ideologia modernizzatrice assunse in Russia. Questo spiega perché gran parte dell’intellighenzia tecnica si sia schierata a favore del nuovo regime, nel 1918-1920. Allo stesso modo, l’essenza del confucianesimo è sempre stata presente nella Cina popolare, anche quando il confucianesimo era ufficialmente osteggiato (la breve campagna “Pi Lin, Pi Kong”).

La fine del quadro “sovietico” in Russia, e la graduale evoluzione del sistema nella Cina popolare hanno portato a una graduale riabilitazione delle forme classiche di questi “valori tradizionali”. Ma questi Paesi guardano ancora con una certa simpatia al loro recente passato, che si tratti del ruolo di Stalin in Russia o di quello di Mao in Cina. In realtà, per questi Paesi è più corretto parlare di evoluzione nella sintesi tra i valori tradizionali e la forma particolare assunta dalla modernità, piuttosto che parlare di un ritorno alle antiche tradizioni culturali. Le popolazioni cinesi e russe si sono profondamente evolute nell’ultimo secolo, nel rapporto con i figli, nel ruolo della donna, nell’equilibrio tra valori collettivi e individuali, e continueranno a evolversi. Ma questa evoluzione non sarà (e non è stata) un’imitazione delle società occidentali. È l’esempio ideale di quelle che ho definito traiettorie diverse ma alla ricerca di un obiettivo finale comune.

[1] https://italiaeilmondo.com/2023/08/23/il-disadattamento-delle-elites-occidentali-intervista-ad-aurelien-_-a-cura-di-roberto-buffagni/

[2] https://fr.wikipedia.org/wiki/Jacques_Sapir

IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A ROBERTO NEGRI

Abbiamo posto giorni fa ad Aurelien quattro domande alle quali l’analista ci ha rapidamente e compiutamente risposto. Abbiamo pubblicato il 23 agosto qui la sua replica.

Su suggerimento di alcuni lettori abbiamo esteso ad altri autori ed analisti l’invito a rispondere alle medesime. Proseguiamo con la pubblicazione del punto di vista di Roberto Negri. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 RISPONDE ROBERTO NEGRI

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Prima del – lungo – elenco di motivazioni, credo vada ricordato il loro sottofondo ideologico comune, l’eccezionalismo americano e la visione quasi messianica del ruolo degli Stati Uniti come elemento ordinatore e di governo del mondo, che anche in élite migliori di quelle attuali implica il rischio di ignorare il potenziale, e tanto più le motivazioni e la determinazione degli antagonisti. Su questo substrato si innestano una serie di circostanze ed eventi, fra cui un trentennio di dominio pressoché incontrastato; alcune prove di forza vinte facilmente contro avversari strutturalmente inferiori; il plauso servile degli alleati anche di fronte a operazioni sorrette da motivazioni smaccatamente artefatte e una conseguente convinzione di totale impunità che vediamo replicata anche oggi; una classe dirigente mediocre e incompetente, formata e perpetuata per cooptazione, eterodiretta da conglomerati economici, interessata soprattutto alla propria autoconservazione; un impoverimento culturale che non si limita alla sfera politica ed economica ma tocca anche quella militare e informativa, cosa in qualche misura inevitabile quando le verità scomode possono stroncare una carriera. In un quadro di questa natura non solo la sottovalutazione del potenziale economico, militare e industriale della Russia è una conseguenza quasi logica, ma soprattutto anche i margini per eventuali correzioni di rotta sono di fatto molto limitati.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

A mio modo di vedere, nel contesto che stiamo esaminando ogni errore tecnico è innanzitutto, e forse principalmente, un errore culturale latu sensu (vedi le considerazioni della risposta precedente). Non imputerei peraltro questa inadeguatezza alla sola classe dirigente, e non solo perché, con tutti i limiti che le democrazie del dopoguerra stanno evidenziando, i decisori formali sono pur sempre eletti dal popolo. Ad oggi, ad esempio, è senza dubbio vero che gran parte della popolazione mostra nei confronti della guerra in Ucraina un orientamento che spazia dal tiepido al francamente contrario; ma pensare che solo per gli Stati Uniti lo stile di vita occidentale non sia negoziabile è a mio avviso un errore, e questo rende possibile che, poste di fronte alle conseguenze concrete di una sconfitta strategica del blocco occidentale e in particolare alla fine del dominio postcoloniale su interi continenti e dei vantaggi economici da questo derivanti, le opinioni pubbliche occidentali si schierino alla fine al fianco di qualsiasi classe dirigente si proponga di arrestare o quanto meno rallentare questa evoluzione, che – mi pare valga la pena ricordarlo – non prevede alcun ritorno al business as usual. Insomma, ho l’impressione che la vita delle scelte strategiche di questa élite, magari con volti diversi e con minore rozzezza, sia ancora lontana dall’essere al termine.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Oltre all’assenza della volontà politica e della lucidità necessarie a prendere atto del fatto che il nostro modello di sviluppo illimitato non è più sostenibile né accettabile per chi finora ne ha pagato il costo, non credo che oggi il mondo occidentale disponga delle risorse culturali e intellettuali per invertire un processo che peraltro, anche in presenza di tali risorse, credo si sarebbe probabilmente comunque prodotto pur se in tempi e con connotati differenti. Quelle che ancora sopravvivono sono silenziose per scelta, costrizione o obliterazione da un dibattito pubblico la cui ragione sociale, spogliata dai fronzoli, sembra essere la distruzione di tutto quanto, pur fra errori e macchie a volte indelebili, ha dato un senso e un valore alla nostra storia, e di conseguenza anche delle risorse necessarie a invertire la rotta. Non fosse per la straordinaria mediocrità degli attori in gioco verrebbe quasi la tentazione di interpretare quanto sta accadendo ad ogni livello – economico, politico, culturale – come un cosciente cupio dissolvi dettato dalla consapevolezza di avere esaurito la nostra parabola, ma la realtà ci restituisce piuttosto l’immagine del proverbiale cavaliere che “andava combattendo, ed era morto”.

 4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Innanzitutto trovo significativo il fatto che Cina (che credo non abbia mai veramente abbandonato il proprio retaggio culturale) e Russia sembrano avere imboccato anche sotto questo aspetto una direzione diametralmente opposta alla nostra, che siamo al contrario apparentemente impegnati a distruggere qualsiasi pensiero non in linea con lo Zeitgeist imposto dall’agenda modernista. Senza dubbio, nel caso di questi due paesi, le rispettive tradizioni rappresentano un elemento ordinatore, identitario e di coesione, tanto più utile e funzionale di fronte a tempi che non saranno privi di difficoltà per nessuno, oltre che un presidio e un elemento di difesa contro le derive culturali di un Occidente che entrambi vedono come irrimediabilmente corrotto e fonte di possibile corruzione. Per rispondere invece alla domanda, anche senza necessariamente inclinare per l’antimodernismo del Pasolini di Difendi, conserva, prega bisogna innanzitutto chiedersi se la tradizione abbia ancora qualcosa da dire nel mondo contemporaneo che si sta profilando. Non dispongo degli strumenti filosofici per azzardare una risposta che sia qualcosa di più e di diverso da una posizione  personale; la mia, a maggior ragione in un mondo e un tempo che identificano erroneamente la modernità come progresso tout court, propende senz’altro per il si, se non altro come richiamo e punto di riferimento a un “altrove” culturale ed esistenziale che – non casualmente – si tenta quotidianamente di cancellare.

Il disadattamento delle élites occidentali. Intervista a Pierluigi Fagan

Abbiamo posto giorni fa ad Aurelien quattro domande alle quali l’analista ci ha rapidamente e compiutamente risposto. Abbiamo pubblicato il 23 agosto qui la sua replica.

Su suggerimento di alcuni lettori abbiamo esteso ad altri autori ed analisti l’invito a rispondere alle medesime. Proseguiamo con la pubblicazione del punto di vista di Pierluigi Fagan. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 PIERLUIGI FAGAN

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

  • Nella categoria “occidentali” distinguerei americani (anglosfera a traino) ed europei. Non credo di possa dire che questi secondi hanno deciso alcunché, forse si è persa memoria dei primi giorni di conflitto. Gli europei non davano proprio l’idea sapessero cosa stava succedendo e cosa sarebbero stati costretti a fare pur poi rivendicandola come propria volontà. La natura stessa delle decisioni che hanno fatto finta esser frutto della loro volontà, dice di quanto in effetti non lo fosse affatto vedi vari suicidi energetici. Quanto agli americani, il decisore ha tenuto conto certo di aspetti militari, tanto quanto politici ed economici; tuttavia, l’ordinatore dell’impianto di decisione è stato geopolitico, ovvero strategico. Sul fatto che si sia rivelato fallace ho però un diverso giudizio da quello contenuto implicitamente nella domanda. Gli americani avevano almeno quattro obiettivi come ho scritto dai primi giorni del conflitto: 1) coinvolgere la Russia in una lunga e defatigante guerra sul modello appreso con la Guerra fredda vs URSS. Il motivo ed obiettivo era vario, si poteva sperare (da parte loro) una implosione nel medio-lungo termine o quantomeno depotenziare l’unico vero competitor militare che hanno per via dell’ultima arma, l’arsenale nucleare. Si pensi all’intervento russo verso la fine del conflitto siriano. Ciò in vista di futuri, possibili, conflitti tra cui quello diretto e decisivo nelle regioni artiche dove, tra l’altro, i russi hanno un vantaggio forte, ad oggi. È più probabile che il vero obiettivo di questo primo punto fosse il secondo aspetto qui declinato ovvero sgonfiare un po’ o un po’ tanto il principale competitor militare impegnandolo un una lunga e costosa guerra, in quanto il primo confligge con la semplice numerica delle possibili truppe russe ed ucraine impiegabili nel medio-lungo periodo; 2) lo metto per secondo punto ma secondo me, in termini strategici era il primo ovvero la veloce annessione egemonica dell’intera UE. È il più importante perché se l’ottica è stata geopolitica, il gioco geopolitico dei prossimi trenta anni è Occidente (o G7 allargato) vs Resto del mondo. Se ti devi preparare a quel gioco, è congruo sia creare massa al tuo comando, sia evitare che gli europei vagheggiassero un ruolo speculativo nel nuovo assetto multipolare come già stavano facendo. Questo obiettivo è stato pienamente raggiunto, in poco tempo, senza se e senza ma, contro ogni evidente interesse obiettivo di Germania, Francia, Italia. Inoltre, hanno ben mosso le pedine euro-orientali e scandinave accerchiando ogni velleità euro-occidentale, il che peserà anche nei destini futuri della stessa UE e dell’euro. Questo punto è quello che mi fa dubitare più di ogni altro sul giudizio di fallimento che date nella domanda; 3) il terzo punto era iniziare, vertendo sullo sdegno per l’invasione russa, il gioco di ripartire il mondo tra stati per bene e stati canaglia o come dicono loro tra “democrazie” ed “autocrazie”. Questa ultima è una partizione debole sul piano strategico, lì dove certi consiglieri hanno esagerato nel credere il mondo dei valori e delle idee così importante fuori della propaganda occidentale e pure con ampie contraddizioni come sappiamo relativamente a vari rapporti scabrosi che gli stessi americani hanno in giro per il mondo. Ha avuto o potrebbe avere una funzione ideologica per il pubblico interno occidentale, proprio per i prossimi conflitti, tra cui quello con la Cina che sappiamo essere il principale e decisivo. Tuttavia, sembra anche ci abbiano davvero creduto visto che il concetto era già stato lanciato in campagna elettorale da Biden ed hanno comunque portato al voto l’ONU su due risoluzioni cercando di imporre inutilmente il format “o con noi o contro di noi”, una ri-bipolarizzazione per giocare al gioco che conoscono meglio; 4) infine, molti ragionano di geopolitica dimenticandosi che è strutturalmente collegata alla politica interna. Gli Stati Uniti sono stati in una qualche guerra per quasi tutta la loro storia, oltreché per eredità antropologica barbarica (T. Veblen), perché il loro ordinamento ha fisiologico bisogno di farla. Il sistema militar-industrial/commerciale-tecnologico-congressuale, sa che la guerra è la fonte principale sia di sfide tecniche le cui soluzioni hanno poi vaste ricadute, sia di fondi. Fondi che l’americano medio è renitente a concedere. Biden promise alle elezioni il ritiro dall’Afghanistan (per altro promesso anche da Trump a cui poi hanno spiegato come vanno le cose nel mondo reale) anche perché l’americano medio, ignaro di questa vocazione necessaria ad una qualche guerra, non vede di buon’occhio tali impegni. Impegni, nonostante la grande spesa storica, che crescono nel tempo come l’apparente ritardo nelle armi ipersoniche e gli aggiornamenti del complesso atomico. La violazione del principio sacro alla sovranità da parte di Putin, è stato uno splendido motivo (coltivato) per ridare all’America il suo conflitto ed esuberare nel finanziamento all’industria che poi sviluppa il ciclo. Sapendo che il punto regge e non regge nella mentalità media americana, Biden darà l’impressione di volerlo sospendere, tempo di fare le elezioni. Quindi il 2) e 4) sono stati perseguiti, il 3) è agli inizi e vedremo come continueranno a giocarselo anche se ormai il tema si è trasferito in Oriente, sul 1) vedremo come finisce, quando e se finirà.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

 

  • Non vedo quindi errori strategici, forse qualcuno d’inciampo tattico, dal punto di vista americano. Il terzo punto prima espresso, in particolare, mostra una decisa mancanza di realismo in termini di conoscenza del mondo e sue profonde dinamiche. Errori del genere, solitamente, provengono dall’area ideologica che veste il conflitto di valori e temi morali, cose che notoriamente non hanno nulla a che fare con la geopolitica e la strategia. Ma è tipico della scuola liberale di “relazioni internazionali” che in US è più rilevante del realismo in genere e dell’approccio geopolitico. Vedremo come e se finirà o continuerà, un trattato di pace lo vedo impossibile, la guerra congelata sarà collegata alle elezioni americane. Se vincerà Biden, poi riprenderà. Se fosse davvero fino all’ultimo ucraino, potrebbe durare qualche anno sempre che i russi accettino questo tipo di gioco. Mi permetto di aggiungere un altro aspetto. Gli americani non hanno poi così tante strategie possibili, la loro contrazione è fisiologica ed irrimediabile, la loro capacità di adattarsi positivamente a questo destino, che ben gestito sarebbe poi tutt’altro che funesto dato che hanno parecchi fondamentali positivi, sembra molto scarsa. Non se ne vede traccia in nessun aspetto della cultura americana, anche quella “alta”. Dovrebbero al contempo cambiare modo di vivere e di pensare nei grandi numeri e data l’indisponibilità delle loro élite tanto repubblicane che democratiche, non mi pare possibile. È ormai un sistema che s’è solidificato negli ultimi settanta anni, molto complesso cambiarlo stante che nessuno ne mostra la volontà, neanche teorica. Quanto agli europei, non mi sembrano in grado neanche di porsi davanti l’argomento, élite ed opinioni pubbliche con gli intellettuali in mezzo. La crescente anzianità media congiura a retrocedere il tema futuro ad argomento con poco pathos.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

  • Be’ il tema è un po’ troppo vasto per una risposta ad una domanda in questo formato. La crisi è ontologica, teoricamente affrontabile ma in pratica pare di no. I perché li rimandiamo perché dovremmo dettagliare “crisi” di cosa, da quando, in quale prospettiva ed anche per chi, gli Stati Uniti sono una cosa, lo stato-nazionale di taglia europea un’altra. L’Ue poi, non ne parliamo proprio. Propriamente è un argomento di categoria “storica” quindi assai complesso, irriducibile a poche battute.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

  • Mah, Russia e Cina amalgamano modernità e tradizione, siamo noi ad aver schematicamente assunto modelli semplificati basati solo sulla storia europea dando di modernità un certo concetto e di tradizione anche. Segnalo però che la Cina non ha mai, di fatto, abbandonato il confucianesimo, ci sono passi del libretto rosso di Mao che sono copia-incolla da Confucio propriamente detto (che attenzione, non è -sic et simpliciter- il “confucianesimo”), semmai ne ha sottomesso provvisoriamente parte del complesso ideologico al maoismo. È stato quindi molto semplice togliere alcuni eccessi di Mao per far risplendere l’antico impianto, direi che non credo sia proprio possibile avere una immagine di mondo in Cina che non risenta profondamente del confucianesimo. La cultura cinese è intrisa di vari tipi confuciani tanto quanto la nostra di platonici, magari a loro insaputa. Il problema è conoscere il confucianesimo che al suo interno è tanto plurale quanto lo è la tradizione di pensiero europea (o quasi). La categoria “reazionario” è europea ed applicare etichette europee a culture non europee non è sempre possibile. Per la Russia il discorso è differente ma poi neanche così tanto, tuttavia trattare problemi “storico-culturali” di questo tipo e di altri mondi, qui, non è possibile. La revisione delle posture e delle ideologie europee per adattarsi ai nuovi tempi comporta ben altre complessità che non essere un po’ meno “moderni” ed un po’ più “tradizionali”.

Il 2023 visto da uno storico del Medioevo, di Gabriel Martinez-Gros

Il 2023 visto da uno storico del Medioevo
Lo sguardo di Ibn Khaldun su Prigozhin e le periferie francesi
13 agosto 2023: qual è il legame, se non la coincidenza, tra la rivolta di Prigozhin in Russia e le nostre rivolte di periferia? In realtà, si tratta di fenomeni ampiamente simili, anche se con una notevole differenza. Ciò che hanno in comune è che tutto nel mondo deriva oggi dal progresso della “sedentarizzazione”, per usare le parole del grande pensatore arabo Ibn Khaldun (1332-1406)…

In termini moderni, la nostra “sedentarizzazione” è dovuta ai progressi fulminei, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, dell’urbanizzazione, dell’iscrizione a scuola e del controllo universale della fertilità delle coppie.

Tuttavia, questi sviluppi positivi stanno contribuendo a disarmare e dissociare la grande maggioranza delle società, in Russia come negli Stati Uniti, in Francia come in India e in Cina, in Brasile come in Turchia e in Iran. È questo movimento che crea, al contrario, una divisione “tribale” nelle parti meno disarmate e meno dissociate del territorio e della popolazione – le periferie, le prigioni, i cartelli della droga, questo o quel gruppo etnico periferico, come i curdi in Turchia o gli arabi del Darfur in Sudan… Prigojine viene da lì, e così i nostri rivoltosi…

Con la scomparsa della solidarietà, la grande maggioranza dei “sedentari”, che vivono sotto la benevola tutela dello Stato, sta perdendo il senso dell’autorità. Le nostre società mirano ormai solo alla realizzazione individuale, per la quale ogni autorità è un ostacolo. Per due secoli, le idee di nazione e di progresso hanno sostenuto le nostre repubbliche nella loro ricerca di prosperità e felicità. Oggi stanno scomparendo e nulla le sostituisce.

D’altra parte, è sbagliato lamentarsi della perdita di autorità ai margini delle nostre società. Le nostre istituzioni stanno crollando in spregio alle tribù che si stanno formando al loro interno – le nostre scuole, i municipi, i centri media e le stazioni di polizia stanno bruciando. Ma le tribù hanno il culto del leader brutale. Prima di trovare il suo padrone in Putin, Prigozhin era l’eroe radicale di una Russia marginale, come i boss della droga nelle nostre periferie o i leader dei grandi cartelli in America Latina.

Ma c’è una differenza fondamentale tra la Russia di Prigozhin e la Francia delle rivolte. Prigozhin, messo in minoranza, non ha un bastione etnico o ideologico su cui appoggiarsi. Era russo, come i suoi nemici capi dell’esercito, e non aveva un’ideologia diversa dalla loro, cioè il nazionalismo russo. Non esiste una “frattura tribale” duratura tra lui e i suoi avversari. Ecco perché le sue truppe lo hanno abbandonato nel giro di poche ore, praticamente, sembra, senza che i suoi avversari abbiano sparato un colpo. La fermezza di Putin ha prevalso facilmente. È lui il leader.

D’altra parte, i nostri rivoltosi hanno un rifugio: le differenze etniche (Nord Africa, Africa) e ideologiche (Islam o colore della pelle), che sono più una questione di ideologia che di “realtà”. Alcuni sottolineano il ruolo dell’Islam, della jihad, negli eventi delle ultime settimane. Molti dei rivoltosi dicono “Pardieu” – wa-llah – ad ogni occasione, che è diventato parte del linguaggio dei “quartieri”. È anche innegabile che l’Islam abbia storicamente dato ai suoi credenti un permesso di usare la violenza contro gli infedeli molto maggiore rispetto al cristianesimo o al buddismo, anche se oggi questa aggressione è usata solo marginalmente.

D’altra parte, il sentimento di differenza, di estraneità, di “separatismo”, per usare l’espressione di Emmanuel Macron, sta conquistando le minoranze, se non lo ha già fatto. Il Paese che sta bruciando non è del tutto, o per niente, il loro. Questa secessione di fatto può durare decenni e offre alle autorità violente di queste nuove tribù una possibilità di successo e di conquista, poiché la dissoluzione delle solidarietà e il disarmo delle maggioranze indeboliscono lo Stato.

Da questo punto di vista, ci troviamo in una situazione molto più grave e pericolosa della Russia.

Ibn Khaldûn (1332 – 1406)

Un penseur pour notre temps

Buste en bronze grandeur nature d'Ibn Khaldoun, Musée national arabo-américain, Michigan. Commandé par le Centre communautaire tunisien et créé par Patrick Morelli d’Albany, NY, en 2009, ce buste s’inspire de la statue d’Ibn Khaldoun érigée sur l’avenue Habib Bourguiba à Tunis (voir agrandissement).

Ibn Khaldun (o Ibn Khaldûn) è probabilmente l’unico grande pensatore storico non europeo, e innegabilmente il più grande storico del Medioevo. Nella sua opera principale, Il libro degli esempi, racconta la storia universale basandosi sugli scritti dei suoi predecessori, sulle osservazioni fatte durante i suoi numerosi viaggi e sulla propria esperienza di amministrazione e politica. L’introduzione, intitolata Muqaddima (Prolegomeni), espone la sua visione di come nascono e come muoiono gli imperi.

Ibn Khaldun proveniva da una grande famiglia andalusa di origine yemenita, cacciata dalla Spagna a causa della riconquista cristiana. Quando nacque a Tunisi nel 1332, i Marinidi dominavano il Marocco, mentre i Valois erano succeduti al trono in Francia. Pochi anni dopo, il Maghreb fu colpito dalla Grande Peste, così come la cristianità medievale.

Dopo una vita attiva come consigliere o ministro dei sovrani musulmani del Maghreb, Ibn Khaldun si ritirò all’età di 45 anni al Cairo, dove scrisse le sue opere e insegnò. Non potendo restare fermo, passò da Damasco nel 1401, poco prima che la città fosse assediata da Tamerlano. Il vecchio saggio riuscì a convincere il temibile conquistatore a risparmiare le vite degli abitanti.

Gabriel Martinez-Gros

Statue d'Ibn Khaldoun devant la cathédrale Saint-Vincent-de-Paul de Tunis.

Un pensatore della peste
Ibn Khaldûn (1332-1406) stupì la gente del suo tempo. Tanta insistenza sui meccanismi naturali del potere e così poca sui decreti insondabili di Dio potevano scioccare un lettore del XIV secolo. Ma Ibn Khaldun ci sorprende ancora di più di quanto abbia sorpreso i suoi primi lettori. Per una semplice ragione: non viviamo, per dirla in termini odierni, nello stesso “regime di storicità”.

Le Caire au XVe siècle, Chronique de Nuremberg. Agrandissement : Saint Louis visitant les victimes de la peste dans la plaine de Carthage, 1822, Abbeville, musée Boucher-de-Perthes.

Nonostante le nostre battute d’arresto collettive, tutti noi teniamo presente una storia “progressista”, nata dalla Rivoluzione industriale e dalla sua contemporanea Rivoluzione francese, e restiamo fermamente convinti che il mondo con noi, e dopo di noi, continuerà a progredire.

Ibn Khaldun nacque in un mondo che era stato generalmente stagnante per secoli, ma che fu improvvisamente colpito dalla peggiore catastrofe della storia – a parte lo sterminio delle popolazioni americane per shock microbico nel XVI e XVII secolo – ovvero la peste nera, le cui scosse mortali lo avrebbero seguito fino alla morte, avvenuta al Cairo all’inizio del XV secolo.

Aveva 16 anni, nel 1348, quando la peste raggiunse la sua città natale, Tunisi, uccidendo suo padre e due terzi dei suoi padroni. La popolazione del mondo mediterraneo diminuì di almeno un quarto prima della fine della sua vita, circa sessant’anni dopo. Ibn Khaldûn invecchiava e declinava con l’intera umanità. I villaggi scomparvero, le strade si persero e metà del Cairo fu abbandonata alla natura.

Le devastazioni della peste
Ecco cosa scrisse Ibn Khaldûn a proposito di questo flagello: “E così fu fino alla peste nera, che si abbatté sulla civiltà sia in Oriente che in Occidente a metà del nostro ottavo secolo (XIV secolo dell’era cristiana). Essa ha rosicchiato le nazioni, ha spazzato via una generazione e ha seppellito i benefici della civiltà fino a farne sparire ogni traccia. Colpì gli Stati nel momento della loro decadenza (…) e la terra civilizzata si ridusse con il numero degli uomini. Rovinò capitali ed edifici, cancellò strade e segni, svuotò accampamenti e villaggi, indebolì Stati e tribù. Le fondamenta del mondo furono cambiate (…) come se la voce dell’esistenza chiamasse il mondo a diventare più scuro e stentato, e come se si affrettasse a obbedire. Dio è l’erede della terra e di coloro che la abitano”.

Il giovane sopravvisse e naturalmente riprese la posizione che la sua famiglia aveva ricoperto per tanto tempo. I Banu Khaldûn erano nobili di origine yemenita, stabilitisi ad al-Andalus dopo la conquista araba, intorno al 740. Come spiegherebbe la sua teoria, essi svolsero inizialmente un ruolo guerriero, prima di sottomettersi al potere dei califfi omayyadi e poi dei governanti berberi che occuparono al-Andalus tra l’XI e il XIII secolo.

Abu Hafs Umar al-Murtada, calife almohade de 1248 à 1266, enluminure castillane du XIIIe siècle. Agrandissement : Vue d'ensemble de la Medersa Bou Inania de Fès, architecture mérinide du XIVe siècle.

Per generazioni, i suoi antenati erano stati finanzieri, avvocati, giudici e professori. Nel 1246, con l’avvicinarsi della riconquista cristiana, i Banu Khaldûn, radicati a Siviglia da cinque secoli, lasciarono la città per Tunisi, dove Ibn Khaldûn nacque nel 1332.

Nel Maghreb, le élite andaluse in esilio monopolizzarono le posizioni amministrative e intellettuali. All’età di 18 anni, Ibn Khaldûn fu chiamato alla sua corte dal sovrano marocchino, il più potente del Nord Africa. Per 25 anni servì i sovrani di Fez, Tlemcen, Costantino e Bougie nelle posizioni più alte.

Poi, improvvisamente, nel 1375 – all’età di 43 anni – si ritirò nella solitudine di una piccola fortezza araba sugli altipiani dell’attuale Algeria occidentale, dove nel giro di pochi mesi scrisse l’introduzione teorica, la Muqaddima, alla sua Storia universale – fonte della sua fama fino ad oggi. Nel resoconto della sua vita che ci ha lasciato, descrive il turbinio di pensieri che lo assalirono nel suo ritiro e che, dice, gli fecero capire tutto.

Grottes d'Ibn Khaldoun situées dans la commune de Frenda dans la wilaya de Tiaret en Algérie. Agrandissement : Vue panoramique des grottes de Taoughazout.

Governare è creare ricchezza
Che cosa ha capito, dunque? Innanzitutto che è inutile cercare di amministrare il Maghreb, che non può più essere amministrato. La popolazione di questi territori, tradizionalmente scarsa, è scesa con la peste a un livello così basso che è impossibile pagare le tasse, alimentare le città e sostenere la crescita di attività ad alto valore aggiunto, per così dire. Egli comprende quindi che lo Stato dipende dal numero di persone, e soprattutto dalla loro concentrazione, che è proprio ciò che l’autorità pubblica ha il compito di incoraggiare.

Les ombres de l'Est, illustration d'après des observations lors d'un voyage en 1853 et 1854, en Égypte, Palestine, Syrie, Turquie, Catherine Tobin, Londres, British Library. Agrandissement : Campement de bédouins, entre 1841 et 1851, Yale, centre d'art britannique.

Le società agricole, sia che pratichino l’agricoltura che l’allevamento, ignorano praticamente la crescita economica. Queste società, senza crescita né risparmio, consumano immediatamente tutto ciò che producono. Ibn Khaldûn le chiamava “beduini”. La peste ha fatto sì che la maggior parte del Maghreb tornasse a questo “beduinismo”, sia tra i nomadi arabi che tra i contadini cablè.

Per creare ricchezza, invece, occorre una popolazione in grado di pagare le tasse, i cui proventi si concentrano nella capitale, dove questa mobilitazione di risorse attira le competenze e le fa fiorire. L’espansione della domanda e la divisione del lavoro hanno dato vita a nuovi mestieri e a nuove raffinatezze. Nel mondo beduino, ognuno lavorava con i propri attrezzi di legno. Nei villaggi comparvero i falegnami, nelle grandi città i carpentieri e nelle città gli ebanisti.

L’aumento di produttività che ne è derivato ha arricchito sia le città sia le campagne che le hanno alimentate. Ne beneficiano tutti, anche coloro che inizialmente sono svantaggiati dal pagamento delle tasse, che possono apparire come un investimento il cui rendimento differito è superiore alla posta in gioco. Ibn Khaldûn definisce queste grandi popolazioni “sedentarie”, grazie alla protezione offerta dallo Stato e ai risparmi che esso consente al di là della pura sussistenza.

Bédouins au puits, Adolf Schreyer, XIXe siècle. Agrandissement : Eugène Delacroix, Chevaux à la fontaine, 1862, Philadelphia Museum of Art.

Tutto andrebbe bene se questo processo di “sedentarizzazione” fosse volontario. Ma non lo è. Le tasse sono l’erede della razzia delle prime guerre neolitiche, il tributo che il conquistatore esige dal conquistato. Essa umilia. I popoli liberi si rifiutano di pagarla e la loro resistenza frena il processo di sedentarizzazione, il progresso.

È qui che Ibn Khaldûn si separa dai filosofi dell’Illuminismo, ai quali il suo pensiero è talvolta così vicino. Per i filosofi, una volta che l’individuo si era deciso ad associarsi con i suoi simili per vivere meglio, non c’erano ostacoli all’unione di persone e forze. Le comunità crescono naturalmente dal villaggio alla piccola città, e dal villaggio alla capitale.

Joseph Heicke, Campement de bédouins, 1846, collection particulière. Agrandissement : Abraham Hermanjat, Campement de bédouins au crépuscule, XIXe siècle, Nyon, Fondation Abraham Hermanjat.

Questa è una visione sbagliata, dice Ibn Khaldûn. Le comunità naturali e “tribali” si fondano sul valore decisivo della solidarietà. In assenza di uno Stato, che queste società ignorano, la solidarietà è essenziale per garantire la sicurezza fisica, la cooperazione nel lavoro e il sostegno a vedove e orfani. Ma questa solidarietà spontanea, radicale e indiscussa si estende solo a un piccolo clan di poche decine o poche centinaia di individui.

Se una fortunata casualità demografica estende il gruppo oltre queste dimensioni – quelle della “tribù neolitica”, per dirla con Claude Lévi-Strauss – esso si divide per preservare la forza della solidarietà di ciascun clan. La crescita demografica della tribù, raramente osservata sul lungo periodo, non ha mai portato a un assembramento di popolazioni che autorizzasse la città, l’ascesa dello Stato e l’economia sedentaria.

Eugène Delacroix, Exercices militaires des Marocains, 1847, Montpellier, musée Fabre. Agrandissement : Les Derniers Rebelles, scène d'histoire marocaine, Benjamin-Constant, vers 1880, Paris, musée d'Orsay.

Disarmare

Lo Stato è un processo completamente diverso: non nasce dalla solidarietà, ma dalla coercizione. Può raccogliere le tasse da cui dipende la sua esistenza solo disarmando i suoi sudditi. È questo disarmo che caratterizza la sedentarizzazione. Implica la sottomissione delle popolazioni, a volte con la forza, ma più spesso con la pacificazione, la convinzione, l’educazione, l’insegnamento del rispetto della legge e persino l’infusione di un po’ di codardia nelle anime.

Secondo la metafora preferita di Ibn Khaldûn, i sedentari si affidano allo Stato come le donne e i bambini al capofamiglia. In cambio, godono dei piaceri della civiltà, della raffinatezza dei modi, dei costumi, degli oggetti e dei pensieri.

Ma disarmando le sue popolazioni, lo Stato le mette a rischio, e mette a rischio se stesso. È come se l’innesto dello Stato e della tassazione, essenziali per la prosperità, richiedesse l’abbassamento delle difese immunitarie della società. Numerosa, prospera e disarmata, la popolazione sedentaria forma un’oasi di ricchezza indifesa, circondata e vessata dall’avidità delle tribù beduine circostanti. Per difendere la sua mandria produttiva, lo Stato non può far altro che ricorrere ad alcune di queste tribù.

Moulay Abd-er-Rahman, sultan du Maroc, sortant de son palais de Meknes, entouré de sa garde et de ses principaux officiers, Eugène Delacroix, 1845, musée des Augustins de Toulouse. Agrandissement : Portrait équestre du sultan du Maroc, Eugène Delacroix, 1862, Zurich, Fondation et Collection Emil G. Bührle.

La naturale aggressività delle società primitive, le solidarietà claniche che la civiltà sedentaria fa scomparire nel proprio popolo trasformandole in lavoro, risparmio e pensiero, sono chiamate ad assumere le funzioni di violenza dello Stato – polizia ed esercito – e a specializzarsi in esse, come altri nella lavorazione del legno o del tessile.

Se non che queste funzioni danno accesso al potere e che questi beduini se ne impadroniranno inevitabilmente nel tempo. Sia che la società sedentaria acquisisca volontariamente la violenza beduina, sia che ceda all’invasione di tribù riunite dal richiamo del saccheggio, o di una causa religiosa eterodossa che la città ha rifiutato, il punto essenziale si può riassumere in poche parole: lo Stato è costituito dalla congiunzione del lavoro di una vita sedentaria produttiva e prospera e di una sovranità violenta, che difende il popolo sedentario come un padrone difende il suo gregge.

Una volta al potere, i governanti violenti paradossalmente proteggono l’ordine e la pace, perché la pace favorisce la prosperità, aumenta le entrate fiscali e quindi il potere e il godimento di chi governa.

Ma il processo non si ferma qui. I beduini vittoriosi, che avevano il controllo dello Stato e che erano stati costretti a uno stile di vita sedentario, ne hanno presto risentito. Lo Stato da loro controllato forniva sicurezza, giustizia e sostegno ai poveri, alle vedove e agli orfani molto meglio di quanto la tribù diseredata fosse stata in grado di fare. Tutto ciò che prima veniva fatto dalla solidarietà dei clan ora viene fatto dallo Stato, con maggiore efficienza.

La solidarietà diventa inutile e cade come un organo morto. Secondo Ibn Khaldûn, ci vogliono da tre a quattro generazioni, o da 100 a 120 anni, perché non rimanga nulla della coesione iniziale della tribù dominante e perché questa si dissolva nel bagno sedentario delle popolazioni sottomesse, lasciando il posto ad altri violenti ai vertici dello Stato.

Vue du Caire, Charles-Théodore Frère, XIXe siècle, Bagnères-de-Bigorre, musée Salies. Agrandissement : Vue sur le tombeau des califes avec les pyramides de Gizeh au loin, Hermann David Salomon Corrodi, XIXe siècle.

Il potere è straniero

Ciò che è più nuovo nel pensiero di Ibn Khaldun è l’intimo legame tra Stato e società, tra politica ed economia o demografia, che non è apparso in Occidente fino all’Illuminismo, o più probabilmente fino alle grandi costruzioni storiche del XIX secolo. Lo cercheremmo invano in Machiavelli, che a volte è stato paragonato a Ibn Khaldun.

Ma se lo confrontiamo con i pensatori dell’Illuminismo o della modernità europea, Ibn Khaldun si distingue per la dicotomia che scorge nel cuore dello Stato. Coloro che governano provengono dal violento mondo beduino. Sono pochi, uniti e coraggiosi. Quelli che governano sono infinitamente più numerosi, attivi, produttivi, individualisti – “isolati”, dice Ibn Khaldûn – disarmati e pusillanimi.

Alcuni usano la forza, altri il lavoro, i risparmi e la memoria. Naturalmente, i beduini hanno trionfato una volta che sono riusciti a raccogliere una massa critica di violenza – bastava appena l’1-2% delle popolazioni sedentarie. Questo è ciò che hanno fatto i Macedoni di Alessandro contro l’Impero persiano, i Germani che hanno invaso l’Impero romano nel V secolo, gli Arabi che hanno conquistato l’Iran e il Mediterraneo orientale nel VII secolo e i Mongoli che hanno sommerso la Cina e il mondo islamico orientale nel XIII secolo.

Per definizione, quindi, gli imperi sono fondati e governati da popoli estranei alla grande maggioranza delle popolazioni sedentarie. I governanti, nelle loro origini e in linea di principio, non parlano la lingua dei loro sudditi. Si trattava di lingue mongole o manciù in Cina, illiriche o germaniche negli ultimi secoli dell’Impero Romano, arabe e musulmane in un Oriente ancora cristiano agli albori dell’Islam, poi turche quando la lingua araba e la religione musulmana divennero la lingua maggioritaria dopo il XII-XIII secolo.

Voyages de François Bernier, docteur en Medecine de la Faculté de Montpellier. Contenant la description des Etats du Grand Mogol.Où il est traité des Richesses, des Forces, de la Justice, & des causes, Paul Marret, Amsterdam 1710.

In qualità di medico degli imperatori musulmani Mughal dell’India nel XVII secolo, François Bernier descrisse la casta dominante dei Mughal – appena 200.000-300.000 amministratori e soldati turchi, persiani o afghani per 150 milioni di indiani – come “stranieri, musulmani e bianchi di pelle”. Il primo termine, “stranieri”, sarebbe stato sufficiente. I Moghul erano musulmani perché gli indiani non lo erano, e di pelle bianca perché gli indiani non lo erano. Senza saperlo, Bernier ritorna alla teoria di Ibn Khaldun: il potere è beduino, la società dei sudditi è sedentaria.

Ma il coraggio si erode quando entra in contatto con una società sedentaria. Per Ibn Khaldûn, la storia è entropia: si riduce alla dissoluzione e alla scomparsa dell’identità beduina dominante nel magma sedentario, nell’arco di tre o quattro generazioni. I pronipoti dei conquistatori adottano i costumi dei loro sudditi, esaltano la memoria dei loro antenati guerrieri in lunghi poemi, sfoggiano cavalli pregiati e armi lucenti, ma non sono in grado di combattere per mancanza di coraggio e solidarietà.

American Progress, allégorie de la Destinée manifeste, John Gast, 1872, Los Angeles, Autry Museum of the American West. Agrandissement : L'histoire des plus grandes nations, de l'aube de l'histoire au XXe siècle, 1900, Edward Sylvester Ellis, Charles Horne, Université de Californie.

E l’Occidente?

Perché questo sistema, che senza dubbio ha governato per duemila anni la maggior parte delle popolazioni più dense e produttive del mondo, ci sembra così strano? Perché l’Occidente lo ha ignorato dalla caduta dell’Impero romano. La tassazione statale è scomparsa per quasi otto secoli, fino alla Guerra dei Cento Anni. La società si è “deconcentrata”, ruralizzando attorno a castelli e monasteri.

A partire dal XIV secolo, tuttavia, con l’inizio dello Stato moderno e il notevole aumento della tassazione nel XVII e XVIII secolo, in particolare in Francia, l’Occidente assunse una forma coerente con la teoria. Le capitali si gonfiarono, gli eserciti divennero professionali e i mercenari stranieri abbondarono.

Ma l’Occidente si salvò dalla teoria di Ibn Khaldun grazie alla sua invenzione produttiva: a partire dalla fine del XVIII secolo, la “rivoluzione industriale” – in realtà il più grande sconvolgimento scientifico, tecnico, agricolo, sanitario e medico della storia dell’umanità – creò ricchezza senza ricorrere in modo determinante alla tassazione. Di conseguenza, il disarmo dei popoli non è più necessario. Al contrario, la crescita della ricchezza e l’armamento dei popoli, con la nascita degli Stati nazionali, vanno di pari passo. Libertà e prosperità vanno di pari passo. Ibn Khaldun lo avrebbe ritenuto impossibile.

Le travail en usine vers la fin du XIXe siècle, Adolph von Menzel, 1875, Berlin, Alte Nationalgalerie. Agrandissement : Vue intérieure de la Galerie des Machines, Exposition universelle internationale de Paris 1889.

Abbiamo perso una chiara consapevolezza di questo: la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti e la Rivoluzione francese, che proclamavano la libertà e puntavano alla democrazia, hanno potuto farlo perché il mondo cominciava ad essere travolto da un movimento di progresso demografico, economico e materiale, che sollevava lo Stato dalla necessità di esercitare la tirannia sui suoi sudditi, che ora erano diventati cittadini.

La felicità è un’idea nuova in Europa”, disse Saint-Just dal palco della Convenzione. Ma è grazie alla scienza, a Newton, Jenner, Monge… e a Lavoisier, che fu giustiziato dal Tribunale rivoluzionario. Se non riusciamo a compiere progressi economici, la realtà della democrazia ci sfuggirà.

Già oggi una crescita anemica, e di conseguenza diseguale nella maggior parte dei vecchi Paesi sviluppati, non irriga più gran parte dei territori, dalle “periferie” alle “periferie rurali”. Popoli distinti, che non chiamiamo ancora “beduini” e “sedentari”, stanno forse emergendo. La nozione stessa di progresso è ora messa in discussione, in un momento in cui è indubbiamente più necessaria che mai. Speriamo di avere ancora la forza di mettere in dubbio una delle più potenti teorie della storia e della vita in società mai concepite da una mente umana.

https://www.herodote.net/Un_penseur_pour_notre_temps-synthese-3163-482.php

https://www.herodote.net/Le_regard_d_Ibn_Khaldoun_sur_Prigojine_et_les_banlieues_francaises-article-2908.php

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