L’uomo è responsabile dei cicli climatici alternativi in Africa da 60.000 anni a questa parte?_di Bernard Lugan

L’Africa si sta riscaldando, è un fatto oggettivo e innegabile, ma non è la prima volta. L’attuale episodio di riscaldamento, che è chiaramente dimostrato, è iniziato 5000 anni fa e fa parte di un’alternanza di cicli che coprono un periodo di 60.000 anni.
La recente cronologia climatica africana mostra che 60.000 anni fa è iniziato un periodo freddo e arido a nord dell’equatore, con un picco tra 18.000 e 15.000 anni fa (Leroux, 2000). Questo fu il periodo dell’iperarido sahariano. Al culmine della fase di massima aridità, tra 18.000 e 15.000 anni fa, il deserto e le formazioni dunali si estendevano molto a sud. Le foreste erano quasi del tutto scomparse, essendo confinate in aree di rifugio vicino all’equatore, al riparo (in particolare grazie ai rilievi) dai venti forti e secchi provenienti da nord e da sud. L’Africa ha quindi subito un nuovo cambiamento climatico associato a una fase calda e umida, un fenomeno iniziato tra il 10.000 a.C. e il 7.000 a.C., a seconda delle regioni. Durante la fase più umida di questa sequenza, il Sahara, costellato di laghi e paludi, riceveva abbondanti piogge da fonti mediterranee e tropicali. Questo era il dominio degli allevatori. Più a sud, la riconquista della vegetazione portò la foresta a diffondersi nuovamente, superando di gran lunga l’estensione attuale. Seguì una nuova, breve sequenza di aridità, una sorta di breve periodo intermedio tra due fasi umide, della durata di circa un millennio tra il 6000 e il 4500 a.C., a seconda delle regioni. Dal 5000/4500 a.C. al 2500 a.C., seguì un nuovo periodo umido, molto meno pronunciato del precedente. Si tratta del grande periodo pastorale sahariano-saheliano.
Tuttavia, questo periodo umido fu solo una parentesi in un processo di inaridimento continuo che non è cessato fino ad oggi, nonostante le oscillazioni umide costituiscano delle remissioni in un’evoluzione dalla semi-aridità all’aridità assoluta. Tra il 2500 e il 2000-1500 a.C., il Sahara settentrionale conobbe un’accelerazione della siccità, con il risultato che la maggior parte dei gruppi umani se ne andò. È così che le popolazioni nere sembrano aver abbandonato definitivamente le zone del Tassili, dell’Hoggar e dell’Acacus in cui vivevano. Da quel momento in poi, queste regioni sembrano essere state popolate solo da gruppi proto-berberi e dagli antenati degli odierni Harratin, gli ultimi sopravvissuti della precedente popolazione nera. Nella parte meridionale, a partire dal 2000 a.C., gli uomini si ritirarono verso il fiume Niger, Più a sud, la savana, che durante il precedente periodo climatico si era spostata verso nord e aveva quindi colonizzato la parte meridionale del Sahara, si ritirò per rioccupare la “sua” zona precedente. Ancora più a sud, nella zona della foresta, a partire dal 1500 a.C., iniziò ad affermarsi il clima attuale. Intorno al 1000 a.C., e fino a circa l’800 a.C., un nuovo cambiamento climatico permise un breve e limitato ritorno delle piogge. Seguì un’accelerazione dell’aridità all’interno di un ciclo che iniziò, come abbiamo visto, circa cinque millenni fa e continua tuttora, intervallato da remissioni e siccità.
Nel periodo moderno, i principali picchi di aridità di cui siamo a conoscenza si sono verificati nel XVII secolo, con punte massime tra il 1730 e il 1750, mentre il XX secolo ha visto quattro grandi siccità tra il 1909-1913, il 1940-1944, il 1969-1973 e il 1983-1985 (Retaille, 1984; Ozer et alii, 2010; Maley e Vernet, 2013). Poi, durante gli anni Sessanta, un periodo “caldo” e quindi umido, un breve aumento delle precipitazioni ha fatto sì che la zona saheliana si spostasse verso nord, causando l’arretramento del deserto. Nel decennio successivo, e soprattutto a partire dal 1972, le precipitazioni sono nuovamente diminuite e, di conseguenza, il deserto si sta espandendo a scapito del Sahel, che sta nuovamente scivolando verso sud, con isoiete medie che scendono di 100-150 chilometri verso le zone sudanesi.
Questo spiega le più recenti siccità (Carré et alii, 2018), le cui conseguenze sono naturalmente aggravate dalla pressione demografica. Il pascolo eccessivo, la delimitazione, la distruzione delle foreste di tamerici trasformate in legna da ardere per alimentare i forni dei fornai per sfamare una popolazione con una demografia suicida, l’abbandono delle tradizionali rotazioni triennali, tutto questo porta ovviamente all’esaurimento del suolo, un fenomeno che oggi sta accelerando. Ma l’attuale massacro dell’ambiente africano da parte dell’uomo, un fenomeno molto contemporaneo, non è di per sé la causa del riscaldamento dell’Africa, che fa parte di una tendenza a lungo termine indipendente dall’attività umana.
  Bibliographie
– Carré, M et alii., (2018) « Modern drought conditions in Western Sahel unprecedented in the past
1600 years ». En ligne.
– Dalibard, M., (2011) Changements climatologiques en zone intertropicale africaine durant les derniers
165.000 ans. Thèse de paléontologie climatique, Université Claude Bernard, Lyon 1.
– Leroux, M., (1994) « Interprétation météorologique des changements climatiques observés en Afrique
depuis 18 000 ans. ». Geo-Eco-Trop, 1994,16, (1-4), pp. 207-258.
– Leroux, M., (2000) La dynamique du temps et du climat. Paris.
– Lugan, B., (2020) Histoire de l’Afrique des origines à nos jours. Paris.
– Maley, J et Vernet, R., (2013) « Peuples et évolutions climatiques en Afrique nord-tropicale, de la fin
du Néolithique à l’aube de l’époque moderne ». Afriques, débats, méthodes et terrains d’histoire, vol 4.
– Ozer, P et alii., (2010) « Désertification au Sahel : historique et perspectives ». BSGLg, 2010, 54, pp 69-
84.
– Retaille, D., (1984) La sécheresse et les sécheresses au Sahel, L’Information géographique, 1984, 48, pp
137 à 144.
– Tardy, Y et Probst, J-L., (1992) « Sécheresses, crises climatiques et oscillations téléconnectées du climat
depuis cent ans ». Sécheresse, 1992 ; 3 : 25-36.
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IL CLIMA IN VALLE D’AOSTA, di Augusta Vittoria Cerutti

L’emergenzialismo è una modalità di governo. Nei momenti di aperta conflittualità e di profonda trasformazione diventa la modalità di governo di élites spesso in crisi di autorevolezza e credibilità. Il tema delle variazioni climatiche, nella loro versione attribuita a cause prevalentemente o esclusivamente antropiche, sarà uno dei motivi conduttori necessari ad alimentare il clima emergenzialista in attesa e propedeutici ad emergenze politiche estreme, queste sì legate alle dinamiche sociali. Il sistema mediatico eserciterà, come d’abitudine, la funzione di strillone. L’emergenzialismo climatico vive di un paradosso: riconosce il dramma di una situazione sfuggita di mano e attribuisce allo stesso tempo all’uomo la facoltà di onnipotenza che gli permetterebbe di risolvere tali crisi. Le implicazioni sono enormi e contraddittorie:
  • da una parte si esorcizza l’intervento dell’uomo, dall’altra se ne omette le possibilità pragmatiche di adattamento, intervento e trasformazione dell’ambiente, dall’altra ancora si stigmatizza sterilmente nelle sue caratteristiche distruttive il suo intervento
  • si confonde l’aspetto climatico con quello ecologico ed ambientale
  • si tende a generalizzare temi che andrebbero trattati pragmaticamente e localmente secondo le diverse realtà e variazioni sulla superficie terrestre
  • si trasforma il tema delle trasformazioni climatiche ed ambientali, di per sé politico, in una strumentalizzazione rozza del confronto geopolitico e politico-sociale e in una criminalizzazione dell’avversario politico e di eventuali untori colti all’occasione
  • paradossalmente, d’altro canto, tende a nascondere la natura politica e geopolitica della gestione delle risorse ambientali, come quella delle acque
  • riporta in auge, in contrapposizione al produttivismo positivista, in termini allarmistici, il tema malthusiano dell’inesorabile ed imminente esaurimento delle risorse terrestri che prescinde dalle potenzialità dello sviluppo scientifico e tecnologico e dalla necessità di una gestione equilibrata delle fasi di transizione.

L’articolo qui sotto, ripreso significativamente da una sede istituzionale, vuole essere un ennesimo contributo di riflessione. Giuseppe Germinario

IL CLIMA IN VALLE D’AOSTA
di Augusta Vittoria Cerutti

L’allarme del IPCC

Quattro millenni fa il ghiacciaio del Ruitor non esisteva e al suo posto vi era un lago poi trasformatosi in torbiera ed ora ricoperto dalla coltre glaciale. Ogni tanto, però parti di quella torba vengono trascinati dai movimenti del ghiacciaio fino alla fronte. Essa fornisce un prezioso materiale di studio per conoscere il passato delle nostre montagne.Da alcuni anni a questa parte le variazioni climatiche sono diventate oggetto di preoccupato interesse da parte dei mas-media e dell’ opinione pubblica. Grande impatto ha avuto la diffusione di modelli computerizzati di simulazione climatica proposti dall’Intergovemental Panel on Climate Change (IPCC), ente creato dall’ONU nel 1988 per studiare l’attuale cambiamento climatico. Allarma il fatto che per la prima volta nella storia del Pianeta, nel corso del XX secolo l’uomo, a causa dell’industrializzazione, dei trasporti e dei riscaldamenti è giunto a produrre un inquinamento atmosferico tale da modificare la composizione chimica dell’aria.
Nell’atmosfera vengono immessi grandi quantità di gas provenienti dalla combustione di carbone e petrolio utilizzati per produrre energia. Questi gas, fra cui vi è l’anidride carbonica (CO2), hanno il potere di intercettare il calore oscuro irradiato dalla superficie terrestre dopo il tramonto del sole; per questa loro proprietà simile all’effetto dei vetri di una serra, vengono detti “gas serra”. Essi, ostacolando il raffreddamento notturno che dovrebbe equilibrare la temperatura atmosferica, provocano un progressivo aumento di calore. Gli scienziati dell’IPCC attribuiscono a questo meccanismo la causa essenziale dell’attuale fase di riscaldamento e per il futuro prevedono un continuo aggravarsi della situazione, dato l’attuale trend di sviluppo tecnologico e demografico. L’aumento esponenziale della CO2 porterebbe ad una sempre maggiore intensità dell’effetto serra con un conseguente progressivo riscaldamento climatico accompagnato da apocalittici sconvolgimenti degli attuali equilibri idrologici ed ecologici .
L’effetto serra è certamente una realtà ma è noto che fra i gas presenti nell’aria il maggior responsabile è il vapor acqueo che si produce spontaneamente in natura; l’incremento dell’anidride carbonica dovuta alle attività umane certamente altera un equilibrio pre-esistente, ma in quale misura? Nel mondo scientifico il dibattito su questo interrogativo è assai vivace; molti sono gli esperti che ritengono non corretto basare unicamente sull’incremento dell’anidride carbonica le simulazioni computerizzate della futura evoluzione dell’ambiente (NOTA 1).
L’inquinamento prodotto dall’uomo è certamente un grave danno ecologico con effetti pesantemente nocivi su tutti gli organismi viventi e come tale deve essere combattuto con il massimo impegno. Ma il riscaldamento climatico globale molto probabilmente ha origini diverse.
Meteorologia e Climatologia sono due scienze complementari ma la prima richiede un approccio mentale analitico, la seconda sintetico. La Meteorologia analizza il “tempo che fa” ossia i fenomeni atmosferici attualmente in atto; la Climatologia riflette sulla interazione che in lunghi periodi si instaura fra i diversi fenomeni atmosferici e come questa interazione si rifletta sull’ambiente influenzando gli aspetti del paesaggio e le attività delle popolazioni.
Le cause delle variazioni climatiche per ora sfuggono all’indagine scientifica; molti fatti però tendono a collegarle alla circolazione atmosferica generale che sarebbe responsabile del movimento delle grandi masse d’aria, le une più calde, le altre più fredde, posizionate in diverse zone del Pianeta.

Clima e ghiacciai

La Climatologia non dispone di strumenti capaci di registrare l’interagire dei diversi elementi atmosferici in lunghi tempi ma il clima proprio di ciascuna regione geografica si evidenzia nella natura e nell’aspetto del manto vegetale spontaneo e nel comportamento dei ghiacciai.
La valle d’Aosta è un vero e proprio museo di climi grazie al suo territorio grandemente esteso in altitudine ed ha attualmente più di 200 ghiacciai che si espandono su una superficie di circa 135 chilometri quadrati. Studiando nei vari periodi lo spostamento in altitudine dei limiti climatici dei grandi insiemi vegetali (i coltivi, i boschi e i pascoli) e l’evoluzione degli apparati glaciali possiamo agevolmente ricostruire la storia del clima e di conseguenza anche quella dell’ambiente e delle attività umane che in esso hanno avuto vita.
Da una ventina di anni a questa parte i ghiacciai valdostani sono entrati in una accentuata fase di contrazione, come pressoché tutti quelli delle Alpi e delle altre catene montuose del mondo. È la conseguenza del riscaldamento globale.
Le variazioni glaciali sono strettamente legate a quelle del clima in quanto il ghiaccio di ghiacciaio altro non è che neve trasformata. Nelle zone più alte, ove la temperatura è pressoché sempre sotto lo zero, si formano i bacini di alimentazione; qui la neve che si accumula di anno in anno si trasforma lentamente in ghiaccio a causa della progressiva compressione. La massa glaciale a poco a poco scivola verso valle alimentando i bacini ablatori, vale a dire le parti degli apparati che, essendo poste a quote inferiori a quella del limite climatico delle nevi perenni, sono sedi di processi di fusione.
Quando il clima è freddo e nevoso il limite climatico delle nevi perenni è relativamente basso, nei bacini di alimentazione si raccoglie molta neve e si forma più ghiaccio di quanto ne fonda nei bacini ablatori: i ghiacciai entrano allora in fase di espansione aumentando di lunghezza e di volume. Se invece il clima si riscalda o le nevicate si fanno meno copiose, il limite delle nevi si innalza provocando contemporaneamente una minore produzione di ghiaccio e un più intenso processo di fusione; di conseguenza i ghiacciai entrano in fase di contrazione lineare e volumetrica. È appunto quanto sta accadendo in questi due ultimi decenni .
Il monitoraggio dei ghiacciai effettuato dai primi decenni del XX° secolo dal Comitato Glaciologico Italiano e dal 2002, per quelli valdostani dalla Cabina di Regia dei ghiacciai della Fondazione Montagna Sicura, evidenzia dati preoccupanti: negli ultimi venti anni le lingue vallive dei ghiacciai più grandi si sono raccorciate di diverse centinaia di metri e ancora più grave è la riduzione volumetrica degli apparati messa in luce da bilanci di massa fortemente negativi i quali indicano che la quantità di neve accumulata nella stagione fredda è molto inferiore alla quantità di ghiaccio che fonde in quella calda.
Il comportamento dei ghiacciai quindi conferma il riscaldamento climatico globale.
In base ai dati dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale si constata che negli ultimi centocinquanta anni la temperatura media sulla Terra è cresciuta di circa 0,7 °C; nella zona alpina l’aumento è alquanto maggiore giungendo a circa 1 °C (NOTA 2). Sono valori piuttosto modesti ma le conseguenze si prospettano preoccupanti soprattutto se si accertasse che l’attuale riscaldamento è conseguenza dell’attività umana e che di conseguenza il suo trend sarebbe destinato non soltanto a proseguire nel futuro ma addirittura ad ingigantirsi.
Qualcuno considera addirittura l’attuale accentuato ritiro dei ghiacciai come un sintomo di esser giunti al punto di non ritorno!
Uno studio serio e sistematico delle variazioni glaciali e delle variazioni climatiche ci porta a considerazioni assai meno allarmistiche.
Prima di tutto i vent’anni di osservazioni su cui si basano i modelli computerizzati dell’IPCC sono assolutamente troppo pochi per ritenere di aver colto i fattori di fenomeni tanto complessi quali sono le variazioni climatiche le quali si svolgono sempre in periodi di tempo plurisecolari.
Se – come richiesto dalla climatologia – prendiamo in considerazione l’intero XX secolo, ci troviamo immediatamente di fronte a fasi di espansione glaciale, che, ovviamente si effettuarono in concomitanza di periodi caratterizzati da un clima fresco e nevoso, chiaramente documentato dai dati dell’osservatorio meteorologico del Gran San Bernardo e da quelli di molti altri sparsi in tutto il mondo (vedi tabella nella pagina precedente).

Eppure fin dai primi decenni del ‘900 l’industrializzazione dell’Euro-pa Occidentale era notevolmente sviluppata e si basava prevalentemente sull’uso di grandi quantità di carbon fossile. Le emissioni di CO2 fin da allora erano considerevoli eppure i ghiacciai alpini una prima volta fra il 1910 e il 1923 e una seconda fra il 1960 e il 1985, (quindi nella immediata vigilia dell’attuale episodio di riscaldamento) aumentarono grandemente di volume e allungarono le lingue vallive di diverse centinaia di metri.
Questi due periodi freschi e nevosi verificatisi in piena era industriale ci pongono di fronte a un interrogativo di base: in quale misura i processi climatici possono essere influenzati dall’azione umana?

Ottomila anni di variazioni climatiche in Valle d’Aosta

Il ghiacciaio di Pré-de-Bard durante la Piccola età glaciale, al culmine della sua espansione storica, Rigorosi studi di climatologia storica la giovane disciplina che Emanuel Le Roi Ladurie definì “Le nouvel domaine de Clio”, ci portano a riconoscere nel corso degli ultimi 8000 anni, numerose variazioni climatiche, tutte di durata plurisecolare (NOTA 3).
Le specifiche ricerche si valgono di studi sui sedimenti marini e continentali, sulle oscillazioni del livello marino, sulle variazioni lineari e volumetriche dei grandi ghiacciai, sui pollini fossili; sui cerchi di accrescimento di alberi plurisecolari. Le più avanzate metodologie permettono di correlare gli isotopi dell’ossigeno presenti nei sedimenti o nel ghiaccio antico dei grandi ghiacciai, con le condizioni termiche del momento in cui è avvenuta la sedimentazione o si è formato il ghiaccio. Nello stesso modo, la dendrocronologia, mediante lo studio dei rapporti fra gli isotopi dell’ossigeno, del carbonio, e dell’azoto che costituiscono la sostanza legnosa di tronchi millenari, può valutare la temperatura che caratterizzava il periodo in cui andavano formandosi i singoli cerchi di accrescimento. Il radiocarbonio permette oggi di datare i resti organici per cui con la collaborazione di tutte queste ricerche è stato possibile, ormai da qualche decennio conoscere con ragionevole sicurezza le caratteristiche cronologiche del clima negli ultimi 8000 anni, malgrado che solo dalla fine del XVIII secolo si disponga di misure strumentali di temperature e di precipitazioni.
D’altra parte sul territorio valdostano e in tante altre parti del mondo sono rimaste testimonianze che mal si accordano con l’ambiente climatico attuale come il ritrovamento di antichi ceppi di conifere centinaia di metri più in alto dell’attuale limite climatico del bosco.
L’archeologia scopre che l’Aosta romana fra il I e il V secolo d.C. era una città popolosa, dalla vita elegante e raffinata. Ma – ci chiediamo – donde poteva venire il reddito capace di sostenere l’alto tenore di vita che l’archeologia ci attesta?
Nei duemila anni di storia valdostana si alternano momenti fulgidi e momenti oscuri; i primi si accompagnano regolarmente a intensi traffici attraverso gli alti valichi, i secondi al languire di questa attività (NOTA 4). È ovvio però chiedersi come potessero fiorire i traffici transalpini se solo fra fine giugno e il principio di ottobre i valichi del Piccolo San Bernardo (2180 m) e del Gran San Bernardo (2470 m) fossero stati allora liberi dalla neve come accade oggi. È noto infatti che le carovane someggiate non possono transitare su strade innevate ma gli attuali tre mesi estivi sono un periodo di attività annuale troppo breve per spiegare la grandiosità dell’Aosta romana e di quella medioevale, la “pulcelle” dei Conti e Duchi di Savoia fra il XII e il XVI secolo. Qualche cosa di fondamentale deve essere cambiato nel lungo arco di tempo della nostra storia (NOTA 5).
Oggi sappiamo che è cambiato il clima, che più volte si sono verificate variazioni climatiche di durata plurisecolare, tali da mutare l’ambiente e influenzare profondamente la vita e l’attività delle popolazioni.
Si è accertato che trattasi di variazioni di temperatura e di piovosità che possono apparire minimi: da uno a quattro gradi centigradi delle temperature medie annue e di un 20% o 30% della quantità di precipitazioni. Ma se le precipitazioni annue per qualche decina di anni da una media di 700 mm si riducono a 500 mm, mettono in crisi l’agricoltura, mentre ne aumentano il rendimento se si accrescono a 900 mm. Una nevosità più o meno abbondante sui valichi determina un periodo più o meno lungo di fruizione delle alte vie transalpine con conseguenze economiche e sociali di grande importanza. Una variazione di temperatura di due gradi centigradi, se si protrae per qualche decennio, sposta di circa 300 metri di altitudine i limiti climatici delle colture, dei boschi dei pascoli e delle nevi perenni. Una variazione “fredda” di quella entità può privare di risorse alimentari le popolazioni che vivono sul limite climatico delle colture mentre, al contrario una variazione “calda” può migliorare grandemente il loro ambiente di vita.

La cronologia del clima europeo e le testimonianze sul territorio valdostano

Il ghiacciaio di Pré de Bard in fase di contrazione, ripreso nel 2004 dallo stesso punto di vista utilizzato dall’artista del secolo XIX.Fra il 5000 e il 1400 a.C. il nostro clima era caratterizzato da una temperatura di almeno 4 °C superiore all’attuale.
Questo periodo, il più caldo degli ultimi 8.000 anni, viene designato con il termine scientifico di optimum climatico assoluto del Post-glaciale.
In montagna, i limiti climatici del bosco, del pascolo, delle nevi persistenti, con temperature annue di almeno 4°C superiori alle attuali si innalzano di quasi 700 metri. Nella nostra regione in quel lontano periodo il bosco saliva almeno fino ai 2600 metri di altitudine, il pascolo si portava attorno ai 3200 metri sul livello del mare e il limite delle nevi persistenti addirittura a 3600-3700. Il grande ghiacciaio del Ruitor che domina la conca di La Thuile, allora non esisteva perché la quota massima delle creste rocciose che delimitano il suo circo è inferiore a quella che in quel lontano periodo aveva il limite delle nevi perenni e pertanto l’innevamento del territorio doveva essere solo stagionale. Il bacino però era occupato da un lago in cui vegetavano piante palustri che con il tempo si trasformarono in torba. Alcuni millenni più tardi, nel 1500 a.C. si instaurò un clima freddo; l’innevamento del circo divenne perenne e si formò il grande ghiacciaio che ricoprì la torbiera. Dal 1975 parte di questa torba viene spinta a valle dal movimento del ghiacciaio dando così modo ai ricercatori di raccoglierne campioni e di studiarli. La datazione al radiocarbonio, fatta per conto del Politecnico di Torino, ha rilevato un’età assoluta di 6.500 anni per gli strati più antichi; di 3500 per quelli più recenti, confermando in pieno il quadro climatico che emerge da indagini fatte in altri luoghi e con altre metodologie (NOTA 6). Questo periodo corrisponde alle età umane del Neolitico e dell’eneolitico.
Nella torba del Ruitor, che sappiamo essersi originata ad una quota largamente superiore ai 2500 metri, vi è una alta percentuale di pollini fossili di varie conifere ma anche di latifoglie fra cui il tiglio. La loro presenza indica che presso quel lago, attualmente coperto dal ghiacciaio, fino a 3500 anni fa giungeva il bosco. È evidente che la montagna offriva allora un ambiente assai più accogliente di quello che conosciamo oggi. Si spiega così come l’uomo neolitico abbia potuto risalire la valli alpine con grande facilità, insediarsi in alta quota, frequentare gli alti valichi dello spartiacque (NOTA 7) e formare quelle comunità culturali fra i due opposti versanti delle Alpi sempre meglio documentate dai reperti che vengono alla luce (NOTA 8).
In territorio valdostano sono da ascrivere a questo periodo numerosi ritrovamenti. Molti siti archeologici sono collocati ad altitudini superiori ai 1000 metri, disseminati nei territori comunali di Saint-Pierre, Saint-Nicolas, Arvier, Villeneuve, Quart, Nus, Monjovet, Challant-Saint-Victor, la Magdaleine, Champorcher e altri ancora. Il più importante di questi siti è la necropoli di Saint-Martin-de-Corléans, alla periferia occidentale di Aosta, un insieme di monumenti megalitici fra i più insigni d’Italia. La datazione assoluta al radiocarbonio rivela per i livelli più antichi un’età che risale al 3070 a.C. (=5020 B.P.) (NOTA 9). La sua grande somiglianza con la necropoli coeva di Saint-Leonard, presso Sion è ritenuta una importante testimonianza della comunanza culturale, in età neolitica, fra le genti degli opposti versanti delle Alpi Pennine e quindi della fruizione per lunghi periodi annuali del valico del Gran San Bernardo.
Fra il 1400 e il 300 a.C. il clima diventa molto freddo.
La torbiera del Ruitor viene ricoperta dal ghiacciaio già nel 1500 a.C. e nei secoli seguenti il peggioramento climatico si fa sempre più grave culminando fra il 900 e il 300 a.C. Ne sono particolarmente colpite le popolazioni dell’Europa Orientale che vivono in un ambiente a clima continentale non mitigato dagli influssi dell’Oceano Atlantico o del Mare Mediterraneo. Proprio in quel periodo (Età del Ferro) hanno luogo le migrazioni dei popoli indoeuropei provenienti dalla pianura Sarmatica. Fra gli altri migranti vi sono i Celti che fra il 900 e il 300 a.C. si diffondono in tutta l’Europa Occidentale. La celtizzazione della Valle d’Aosta avviene probabilmente dopo il V sec. a.C.

Dal 300 a.C. il clima prende a migliorare: è l’Optimum dell’età Romana che si protrarrà per ben sette secoli.
Il primo ad approfittare della nuova situazione fu Annibale che nel 218 a.C., quando ancora i romani ritenevano inaccessibili la Alpi, le valicò con un esercito di più di 25.000 uomini.
Dopo l’impresa del Cartaginese Roma comprese che la Catena Alpina non poteva più essere considerate una barriera difensiva; la sicurezza del suo territorio doveva essere tutelata dal controllo dei paesi transalpini che avrebbero dovuto fungere da antemurali. Nella concezione dei Romani, grazie al nuovo Optimum climatico che assicurava la transitabilità dei passi alpini quasi per tutto l’anno, le Alpi si trasformarono da barriera in cerniera, furono dotate di grandi vie di comunicazione e per quasi cinquecento anni, sotto il controllo della Città Eterna esplicarono la funzione di trait d’union fra il Mediterraneo e l’ Europa Centro-settentrionale.

A servizio e a guardia dei traffici transalpini, nel 25 a.C. venne fondata la città di Augusta Praetoria sul crocevia fra la Strada consolare delle Gallie già da tempo costruita per raggiungere la città di Ludgudum (Lione) attraverso l’Alpis Graia (valico del Piccolo, San Bernardo) e la via che si dirigeva verso l’Europa centro-settentrionale attraverso il Summus Poenninum (valico del Gran San Bernardo). Grazie alla propizia situazione climatica che favoriva il flusso dei traffici, l’importanza che Aosta assunse nei secoli dell’Impero Romano divenne assai maggiore di quella che essa ha attualmente. I viaggiatori che risalivano la Strada consolare delle Galli venivano accolti nella vivace e ricca città dai signorili archi della triplice Porta Pretoria, suo centro degli affari e cuore economico e politico era il mercato, il grandioso Foro giunto quasi intatto fino a noi; nel tessuto urbano il ricco Complesso termale, il monumentale Teatro che pare potesse accogliere più di 5000 spettatori, l’ampio Anfiteatro offrivano il modo di coltivare gli interessi culturali e il tempo libero.

Fra il 400 e il 750 d.C. si registra un notevole raffreddamento del clima.
La transitabilità dei passi alpini divenne assai precaria, legata alla sola stagione estiva.
I popoli dell’Europa orientale e settentrionale a causa della variazione climatica fredda, videro diminuire drasticamente la produzione agraria delle loro terre e molte tribù furono costrette a migrare verso le regioni Mediterranee meno colpite dai rigori del clima grazie alla loro posizione geografica.
Sono le invasioni barbariche, quelle tumultuose migrazioni dei popoli germanici che nell’alto medioevo travolsero la potenza dell’Impero Romano.
La valle d’Aosta conobbe nel 489 l’incursione dei Burgundi, qualche anno dopo fu la volta degli Ostrogoti, poi dei Longobardi. Nel 575 la regione valdostana entrò a far parte del regno dei Franchi e da allora restò nella loro area politico-culturale.

Dopo il 750 il clima migliora rapidamente e si instaura l’Optimum dell’età feudale.
L’innevamento dei valichi alpini ritorna assai breve e si apre il periodo d’oro dei traffici fra le Repubbliche Marinare delle coste mediterranee e i grandi centri delle Fiere transalpine (Ginevra, Lione, Borgogna, Fiandre, Champagne).
È il periodo del Sacro Romano Impero e della organizzazione feudale dell’Europa. Sulle Alpi, prendono vita numerosi stati di valico istituiti a controllo e a servizio delle vie transalpine, arterie vitali della grande unità politica. Fra di essi vi è quello dei Conti di Savoia il cui fulcro fu per secoli la Valle d’Aosta con i passi del Piccolo e del Grande San Bernardo.
Il limite climatico delle colture cerealicole si spinge fino all’altitudine di 2300 m. Lo conferma la presenza di settori attrezzati per la trebbiatura del grano in fienili di dimore dell’alta valle di Ayas e di Valgrisenche poste a quell’altitudine, ora diventate stagionali ma costruite nei tempi in cui lassù si poteva abitare tutto l’anno.
Riguardo allo stato dei ghiacciai l’Abbé Henry, noto ricercatore tanto in campo storico quanto in campo naturalistico, scrive in una sua relazione (NOTA 10); “Entre le 1300 e le 1600 les glaciers devaient être très petits et réduits à leur minimum… Sa découle d’un grand nombre de documents tels que les Reconnaissances de l’époque ou le mot glacies est introuvable. Une autre preuve que les glaciers étaient alors très petits et très recules c’est que les passages par les cols élevés de montagne étaient alors très faciles et très fréquentés: on allai communément, on faisait passer vaches et mulets de Prarayé à Evolène par le Col Collon (3130 m), de Zermatt à Evoléne par le Col d’Hérens (3480 m); de Valtournenche à Zermatt par le Col de Saint-Théodule (3380 m).
Il Colle del Teodulo – oggi centro di uno dei più prestigiosi comprensori sciistici – nel Basso Medioevo fu a tutti gli effetti un itinerario “ Europeo” sulla via transalpina che univa il porto di Genova con quello di Amsterda. Tutte le carte geografiche del ‘500 e del ‘600, comprese quelle del grande cartografo olandese Mercatore, rappresentano il “Mons Silvius” – tale era il suo nome in latino – e il villaggio di Ayas, suo principale centro di servizi. In quelle redatte nei paesi d’oltralpe compare la dizione: “Krëmertal”, ovvero “Valle dei mercanti” posta fra i toponimi di Ayas e del valico del Teodulo.
Il controllo delle strade che dalla valle della Dora salivano al colle del Teodulo, era esercitato dagli Challant, la più prestigiosa famiglia nobiliare valdostana che proprio da quel traffico traeva la sua ricchezza e la sua rinomanza a livello europeo.
In questo periodo caldo dai traffici assai vivaci, prese origine la millenaria fiera di Sant’Orso che tutt’ora si celebra il 31 gennaio nel cuore dell’inverno, una stagione che pare ben poco propizia ad un gran concorso di gente, soprattutto in passato quando non esistevano i mezzi spazzaneve. Il più antico documento che riguarda questa rassegna risale al 1305 ma pare che allora essa già fosse secolare, era esclusivamente dedicata agli attrezzi agricoli e si svolgeva nei tre giorni che precedevano la festa di Sant’Orso e nei tre che la seguivano. Questa grande fiera invernaleè una testimonianza della mitezza che doveva caratterizzare la stagione fredda durante gli otto secoli dell’Optimum climatico del basso medioevo.

Fra il 1550 e il 1850 ha luogo la più grave crisi climatica del tempi storici denominata dagli specialisti il Pessimum climatico della Piccola Età Glaciale.
Essa provocò un abbassamento di almeno 500 metri dei limiti climatici delle colture, del bosco, del pascolo e delle nevi persistenti determinando un lungo innevamento annuo dei valichi e addirittura la glacializzazione dei più elevati e insieme la perdita di una grande quantità di terre coltivabili. Venendo a mancare contemporaneamente i proventi legati ai traffici transalpini e quelli delle più elevate terre agricole, il periodo della Piccola età glaciale fu per le valli alpine un‘epoca di estrema povertà.
In valle d’Aosta il contraccolpo fu durissimo: da ganglio dei traffici europei la Regione si trasformò in cellula chiusa in se stessa; le attività economiche si ridussero ad una agricoltura volta esclusivamente all’autosussi-stenza e tanto misera che viene definita dagli studiosi francesi “de acharnement”; la popolazione, poverissima e denutrita, venne falcidiata dalla peste e da malattie endemiche, molte delle quali riconducibili alla malnutrizione e alle grandi fatiche che in tali condizioni ambientali i lavori agricoli richiedevano.
Le condizioni del clima determinarono, nel corso della Piccola età Glaciale, la più imponente crescita volumetrica, areale e lineare dei ghiacciai verificatasi negli ultimi due millenni. Ne sono testimoni sul terreno, gli apparati morenici formati da questa gigantesca espansione; lo studio di questi ultimi ha permesso di ricostruire i profili delle aree che vennero glacializzate in quei freddissimi trecento anni. In base a queste indagini i tecnici dell’Assessorato al Territorio, Ambiente ed Opere pubbliche, stimano che nei primi decenni del XIX° secolo i ghiacciai valdostani si estendessero su circa 330 kmq, vale a dire su più del 10% del territorio regionale.

Dopo la metà del secolo XIX inizia il riscaldamento climatico tuttora in corso.
La fine della piccola età glaciale è segnata da una improvvisa forte diminuzione delle precipitazioni e da un sensibil innalzamento delle temperature: all’osservatorio meteorologico del Gran San Bernardo nei vent’anni successivi al 1856 le precipitazioni annue risultano meno di 1600 mm e l’altezza della neve caduta di 870 cm nei confronti di medie di lungo periodo assai più elevate; le temperature medie annue che fino al 1860 erano state attorno ai -1,9 °C si innalzano bruscamente a -1,5 °C.
Questo stato di cose causa una sensibile riduzione di volume dei ghiacciai ed un considerevole raccorciamento delle lingue vallive. Fra il 1862 e il 1882 il ghiacciaio del Lys al Monte Rosa perde ben 950 metri di lunghezza (NOTA 11); la Brenva, fra il 1846 e il 1878, circa 1000 m­etri (NOTA 12), il Pré de Bard fra il 1856 e il 1882, 750 metri (NOTA 13) e nello stesso periodo il Lex Blanche, circa 800 (NOTA 14).
Si tratta di una situazione, molto simile a quella che stiamo vivendo in questi anni, che perdurò quasi un ventennio. Da allora, come mostra la tabella conclusiva, si alternarono fasi di clima fresco favorevoli al glacialismo e fasi di clima più caldo avverse ad esso.
Esaminando il comportamento dei ghiacciai valdostani dagli inizi del XIX° secolo quando culminava la massima espansione storica, al 2005, data dell’ultimo volo aerofotogrammetrico, si constata che questo lungo arco di tempo è stato ritmato da undici fasi, caratterizzate alternativamente da contrazioni ed espansioni degli apparati glaciali.
Nessuna delle espansioni però raggiunse la misura di quelle verificatesi durante la Piccola età Glaciale; quasi tutte quelle posteriori al 1860 hanno prodotto volumi di ghiaccio dalla massa inferiore a quella perduta nella precedente contrazione per cui gli apparati hanno subìto attraverso il tempo una notevole riduzione planimetrica, areale e volumetrica. Dall’indagine svolta dei tecnici della Cabina di regia dei ghiacciai sui fotogrammi del volo aerofotogrammetrico 2005 risulta che l’attuale estensione dei ghiacciai valdostani è pari a 135 kmq, il che corrisponde al 40% dell’estensione massima che l’area glacializzata aveva assunto nella Piccola età Glaciale. Bisogna tenere presente che circa il 20% di questa copertura venne asportata dalla fusione avvenuta fra il 1860 e il 1882, quando in Italia l’industrializzazione era appena agli inizi e pertanto la variazione calda di quei decenni non era certo imputabile all’opera dell’uomo.
La fase di clima “caldo” che stiamo vivendo non è una novità dell’ultimo ventennio; si tratta di processo modulare in atto dalla seconda metà del 1800 e simile a quelli che hanno avuto luogo nei secoli dell’optimum dell’età feudale o in quelli dell’età romana. Pare quindi logico pensare che, pur in presenza di alterazioni di origine antropica, l’attuale riscaldamento globale faccia parte dell’alternanza ciclica di fasi calde e fasi fredde che da sempre caratterizza la storia del clima.

Note:

1 C. Allègre, Le droit au doute scientifique, Le Monde, Paris, 27 ottobre 2006;
S. Pinna, Il Clima divulgato: una realtà virtuale imposta come dato di fatto, Ambiente, Società, Territorio. Rivista A.I.I.G. Roma, agosto 2007, pag. 3-8.

2 L’istituto Federale Svizzero di Meteorologia e Climatologia segnala che, all’Osservatorio del Gran San Bernardo, entrato in funzione nel 1818 e quindi con una serie di dati ultracentenaria, la temperatura media annua dall’inizio delle osservazioni al 1970 risulta di –1,5°C. La media del trentennio “standar” (OMM) 1971-2000 è di –0,5°C.

3 Segnaliamo alcuni dei più noti studi di climatologia storica:
– E. Le Roy Ladurie, Histoire du climat depuis l’an mil, Paris, 1967;
– M. Pinna, La storia del clima: variazioni climatiche e rapporto clima-uomo, Soc. Geografica Italiana, 1984;
– M. Pinna, Variazioni climatiche, Angeli, Milano 1996;
– P. Acot, Storia del Clima, Roma, 2004;
– L.Bonardi, Che tempo faceva?, Milano, 2004.

4 L. Colliard, Precis d’histoire valdôtaine, Aosta, 1980.

5 P. Guichonnet, Les bases géographiques de l’histoire de la Vallée d’Aoste, Atti del congresso internazionale “La valle d’Aosta e l’arco alpino nella politica del mondo antico”, Aosta, 1988, pag. 20-46.

6 E. Armand, G. Charrier, L. Peretti, G. Piovano, Ricerche sull’evoluzione del clima e dell’ambiente durante il quaternario nel settore delle Api Occidentali Italiane. La formazione di torbiera presso la fronte attuale del ghiacciaio del Ruitor: suo significato per la ricostruzione degli ambienti naturali nell’Olocene medio e superiore. Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, serie II, n. 23 (1975), pag. 7-25.

7 K. Spindler, L’uomo dei ghiacci, Milano, 1999.

8 M.R. Sauter, L’occupation des Alpes par les populations préhistoriques, in Histoire et civilisation des Alpes. T.1, Toulouse-Lausanne, 1980, pag. 61-94.

9 F. Mezzena, La Valle d’Aosta nella preistoria e nella protostoria, in Archeologia in Valle d’Aosta: dal Neolitico alla caduta dell’Impero Romano, catalogo della mostra, Aosta, 1981, pag. 15-60.

10 Abbé Henry, Le glacier de Prarayé ou de Tsa de Tsa, Roma, 1934.

11 U. Monterin, Le variazioni secolari del clima del Gran San Bernardo e le oscillazione del ghiacciaio del Lys al Monte Rosa, in Raccolta di scritti di U. Monterin, Boll. Vol.II, Aosta, 1987, pag 199.

12 G. Marengo, Monografia del ghiacciaio della Brenva, in Boll. C.A.I. n 45, 1881.

13 F. Sacco, op. cit., 1919, pag 95.

14 F. Sacco, op. cit., 1919, pag 33.

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RISCALDAMENTO DELL’INTERO SISTEMA SOLARE (The Imprecator),

Per decenni, gli ecologisti urbani, soprannominati ecolos piaghe, ci hanno molestato con i gas serra, “GHG”, che accusano come la causa principale del riscaldamento globale nell’atmosfera terrestre.

 

 

 Questi gas serra, dicono, sono prodotti dalle fabbriche, quindi dall’industria, dalle automobili e principalmente dai motori diesel, dal riscaldamento urbano e domestico e dall’eccesso di attività umane e di esseri umani. Quindi bisogna ridurre con urgenza l’attività industriale, fermare del tutto i veicoli a scoppio e sostituirli con quelli elettrici, fermare le nascite, riscaldare meno con un tetto che hanno arbitrariamente fissato a 19°C, senza tener conto di anziani, malati e portatori di handicap che, non potendo riscaldarsi durante il movimento, hanno bisogno di 20-24°C.

La nostra élite politica supremamente intelligente ha risolto immediatamente il problema con il maglione a collo alto e abbiamo potuto ammirare i tre pupazzi Macron, Borne e Le Maire sfoggiare in maglioni a collo alto nel bel mezzo del caldo periodo di ottobre e inizio novembre. Ma dopo aver fatto una bella risata ai francesi, hanno trovato un’altra soluzione altrettanto geniale, se i vecchi, i malati e gli handicappati soffrono il freddo, basterebbe sopprimerli e buona liberazione. La cosa divertente è che i due “zelanti intellettuali” che hanno dato questo consiglio ai politici sono Alain Minc e Jacques Attali, due vecchietti: Attali avrà ottant’anni nel 2023 e Minc lo seguirà presto.

Esistono diversi gas serra, di cui il vapore acqueo è il più abbondante, seguito dal metano; ma è la terza, la CO2 che hanno ritenuto colpevole, senza alcuna prova scientifica. Infatti la temperatura ha iniziato a salire a partire dal 1900 ed è aumentata di 1,6 gradi tra il 1900 e il 2000. Aumenterà ancora della stessa quantità, più o meno, tra il 2000 e il 2100. rispetto al picco termico di 5°C di il Medioevo che provocò siccità, ma anche migliori raccolti di cereali e frutta, riducendo così le carestie. C’è stato un raddoppio della popolazione europea. Tuttavia, il contenuto di CO2 dell’aria era molto più basso di oggi e non c’erano industrie, automobili o aerei e le barche erano a vela. D’altra parte c’era il metano a causa degli armenti di bovini e ovini.

Le popolazioni erano fondamentalmente rurali, compresa la nobiltà, e gli abitanti delle città avevano famiglie contadine. Tutti sapevano che il clima sulla terra è naturalmente instabile, e non esisteva ancora un IPCC la cui missione fosse quella di creare paura ad ogni minima variazione, paura che permettesse la tassazione e prendesse misure di privazione della libertà.

Ma soprattutto tutti sapevano che non è l’atmosfera a scaldare il clima, ma il sole . In Provenza le notti sono state tra 0° e -2°C per una decina di giorni, e le giornate tra 20 e 24°C con cielo azzurro e soleggiato. Il sole sorge alle 8:00 e il picco di calore viene raggiunto intorno alle 14:00. C’è quindi un aumento della temperatura dell’atmosfera di 24° in 6 ore, ovvero 4° all’ora e la CO2 non c’entra, il sole è l’unica causa di questo aumento di temperatura. Questo non spiega il lentissimo ma costante aumento della temperatura del globo.

L’INTERO SISTEMA SOLARE SI RISCALDA!

Tutto cambierà nella percezione del clima con la recente scoperta fatta dagli astronomi:

Tutti i pianeti del sistema solare si stanno riscaldando come la Terra!
Questo esclude definitivamente la CO2 come una delle principali cause del riscaldamento globale.

A meno che non corrano il rischio di ridicolizzarsi in modo permanente, i più ostinati e ostinati caldeggianti verdi avranno difficoltà a trovare fabbriche su Venere e inondazioni di auto diesel su Nettuno, o sovrappopolazione su Marte!

All’inizio c’è un grosso file in inglese; finisce con il riscaldamento globale del sistema solare e dei suoi pianeti.

Inizia mostrando che la temperatura globale da 600 milioni di anni non ha smesso di salire e scendere (la linea blu) mentre il contenuto di CO2 dell’atmosfera (la linea nera) è costantemente diminuito, a parte un rimbalzo tra -250 milioni e oggi.
E l’umanità non c’entra niente.

Quindi, mostra come, negli ultimi 12.000 anni, l’umanità si sia sviluppata nell’Olocene, un periodo geologico interglaciale, che è succeduto all’era glaciale del Pleistocene e che è stato caratterizzato da un aumento delle temperature e dal livello del mare.

E infine, questa è la spiegazione del riscaldamento del sistema solare.

IL SOLE È IL MOTORE DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Il Sole è il principale motore del cambiamento climatico.

Ora abbiamo prove del recente riscaldamento su altri pianeti!
Se la Terra si è riscaldata negli ultimi 100 anni, anche Giove, Nettuno, Marte e Plutone si sono riscaldati.

Giove

Giove è il pianeta più grande del sistema solare. La sua caratteristica più distintiva è la Grande Macchia Rossa, un’enorme tempesta che infuria da oltre 300 anni. Una nuova tempesta, chiamata Red Spot Jr, si è recentemente formata dalla fusione di tre tempeste di forma ovale tra il 1998 e il 2000. Le ultime immagini del telescopio spaziale Hubble suggeriscono che Giove sia nel bel mezzo di uno spostamento globale che potrebbe modificare le temperature fino a 10 gradi Fahrenheit in diverse parti del globo. Il nuovo temporale si è alzato in quota sopra le nuvole circostanti, segnalando un aumento della temperatura. Vedi Space.com

Nettuno

Nettuno è il pianeta più lontano dal Sole (il piccolo Plutone è stato declassato a pianeta nano) e orbita attorno al Sole a una distanza 30 volte maggiore di quella della Terra. Le curve mostrano l’aumento della temperatura

La figura (a) mostra la luce visibile corretta, dal 1950 al 2006; (b) mostra le anomalie della temperatura terrestre; (c) mostra l’irraggiamento solare totale come variazione percentuale per anno; (d) mostra l’emissione ultravioletta dal Sole.
Tutti i dati sono stati corretti per gli effetti delle stagioni di Nettuno, le variazioni nella sua orbita, l’inclinazione assiale apparente vista dalla Terra, la distanza variabile tra Nettuno e la Terra e i cambiamenti nell’atmosfera vicino al Lowell Observatory.

Ci sono anche forti prove del riscaldamento globale su Tritone, il più grande satellite di Nettuno, che si è riscaldato considerevolmente da quando la sonda Voyager lo ha visitato nel 1988. La tendenza al riscaldamento sta facendo sì che la superficie ghiacciata di Tritone si trasformi in azoto gassoso, che rende la sua atmosfera più densa.

Marzo

Uno studio recente mostra che Marte si sta riscaldando quattro volte più velocemente della Terra. Marte si sta riscaldando a causa della maggiore attività del Sole, che aumenta le tempeste di sabbia. Secondo gli autori dello studio, guidati dalla scienziata planetaria della NASA Lori Fenton, la polvere fa sì che l’atmosfera assorba più calore, provocando un feedback positivo. Le temperature dell’aria sulla superficie di Marte sono aumentate di 0,65 ° C (1,17 F) tra il 1970 e il 1990. Notano che il ghiaccio residuo sul polo sud di Marte si è costantemente ritirato nel corso degli ultimi quattro anni. Le immagini di Marte scattate dallo spettrometro termico della missione Viking della NASA alla fine degli anni ’70 sono state confrontate con immagini simili raccolte più di 20 anni dopo dal Global Surveyor.

Ghiaccio polare di Marte (si stanno sciogliendo, come quelli dell’artico sulla Terra)

Plutone

Secondo gli astronomi, anche il pianeta Plutone, che si sta allontanando dal Sole, sta subendo un riscaldamento. La pressione nell’atmosfera di Plutone è triplicata negli ultimi 14 anni, indicando l’aumento delle temperature anche quando il pianeta si allontana dal Sole.

IL CONSENSO SCIENTIFICO NON È MAI STATO UNA CERTEZZA

È prevedibile che gli ecologisti caldisti si uniranno alla maggioranza degli scienziati che sostengono che questa spiegazione è necessariamente errata “poiché esiste un consenso sul riscaldamento dovuto all’attività industriale e alla sua produzione di gas serra”.

Ricordiamo loro che da quando i Greci furono unanimi nel porre la Terra al centro dell’universo, il numero di errori consensuali da parte degli scienziati è stato considerevole. Vedi questo articolo che ne fa un inventario: https://www.matierevolution.fr/spip.php?article4866 .

Alcuni durano da secoli; come la certezza che l’isteria fosse una malattia femminile dovuta allo spostamento dell’utero nel corpo della donna che veniva curato con l’asportazione del clitoride. Cessa solo nell’Ottocento con il progresso della medicina. O, più di recente, la certezza che il Covid fosse stato trasmesso all’uomo dai pipistrelli, poi dalle squame dei pangolini, durata un anno quando già a marzo 2020 molti indizi dimostravano che il Covid-19 era un virus migliorato dal guadagno di- tecniche funzionali, fin dalla prima SARS.

E stiamo ancora aspettando che il ruolo della CO2 nel riscaldamento dell’atmosfera sia dimostrato scientificamente, non solo da un atto di fede da parte degli ecologisti e degli scienziati che li seguono.

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Tutti i danni ambientali dell’Unione Europea, di Davide Gionco

Tutti i danni ambientali dell’Unione Europea

di Davide Gionco

Le ipocrisie ambientali dell’Unione Europea

In Europa siamo tutti ecologisti, da Ursula Von der Leyen e Greta Thunberg in giù.
Ce lo dicono tv e giornali: siamo tutti ecologisti, le politiche ambientali davanti ogni cosa.
E’ giusto: abbiamo un solo pianeta in cui vivere e non possiamo permetterci di rovinarlo, per rispetto delle generazioni future.
Ma i politici “europei”, supportati dal coro unico dei mezzi di informazione, però, ci dicono un’altra cosa.
Ambiente significa unicamente fare politiche e informazione per contrastare il cambiamento climatico causato dalle emissioni di CO2. Ogni disastro naturale serve a giustificare questo assioma, che si tratti di siccità, di piogge eccessive, di temperature troppo elevate.
TV e giornali ci martellano in tal senso ogni giorno.

Altri motivi di danneggiamento dell’ambiente, come la gestione delle scorie nucleari, l’immissione in ambiente di sostanze chimiche cancerogene (come i famigerati PFAS, sostanze perfluoroalchiliche), l’uso eccessivo di additivi artificiali nell’industria alimentare, la dispersione delle microplastiche nelle acque, al punto che sono entrate a far parte della catena alimentare, fino agli esseri umani… Tutti questi veri problemi ambientali è come se non esistessero nella narrativa del potere politico e mediatico.
Per loro essere ambientalisti significa unicamente ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera.

Non intendo entrare nel dibattito sulla fondatezza o meno delle teorie per cui l’aumento di temperatura del pianeta Terra sia causato dalle emissioni di CO2 e che l’aumento della temperatura sarà certamente causa di cambiamenti gravissimi per il genere umano.
Chiediamoci invece se siano dei motivi scientifici a portare i politici di non occuparsi di tutti gli altri problemi ambientali, ma solo delle emissioni di gas serra.
Quali sono i problemi ambientali più gravi che affliggono l’umanità, misurati in termini di rischi per la salute e la stessa vita delle persone?
Davvero siamo sicuri che la questione più importante sia il cambiamento climatico?

Ciascuno si informi e sia delle risposte su base scientifica, senza accodarsi alla narrativa a senso unico dei mezzi di informazione.

 

Il modello economico europeo è incompatibile con l’ambiente

Ma diamo per assunto che il cambiamento climatico sia il problema prioritario.
Davvero l’Europa porta avanti delle politiche in favore dell’ambiente, al di là dei proclami ufficiali?

Il problema di fondo dell’Unione Europea è l’assoluta inconciliabilità fra il modello economico adottato e le politiche ambientali.
L’Unione Europea è fondata prima di tutto su 3 principi neoliberisti:
1) Il libero commercio senza barriere
2) La competitività
3) Il settore pubblico che non interviene nell’economia

Il libero commercio senza frontiere mette in concorrenza i produttori sulla base dei prezzi dei prodotti commercializzati. Siccome produrre merci riducendo l’impatto ambientale costa di più che produrre merci senza preoccuparsi delle conseguenze ambientali, l’eliminazione delle barriere doganali favorisce le imprese che producono in paesi nei quali esistono meno controlli ambientali e le imprese che meno di altre si curano di rispettare l’ambiente.
Questo avviene a livello c0ntinentale, dove non a caso molti siti produttivi sono stati delocalizzati dai paesi in cui si usa energia più pulita e vi sono maggiori controlli ambientali ai paesi dell’Europa dell’Est, dove si usa energia a maggiori emissioni di CO2 (carbone) e dove i controlli ambientali sono più blandi.
Ovviamente il fenomeno è ancora più marcato a livello mondiale, con l’adesione di tutti i paesi dell’Unione Europea ai trattati di libero scambio come il WTO, tramite i quali si sono aperte le porte a prodotti provenienti da paesi di quasi tutto il mondo, nei quali i controlli ambientali sono sostanzialmente inesistenti.
Si pensi non solo all’impatto ambientale dei paesi dell’Est Asiatico come la Cina o l’India, ma anche alle condizioni in cui le imprese europee si procurano le materie prime nei paesi del Terzo Mondo, senza il minimo rispetto dell’ambiente, della salute umana, dello sfruttamento del lavoro minorile, eccetera.

Nel mondo del libero commercio e della competizione globale prevale sempre chi è più “economicamente più efficiente” ovvero chi riesce più di altri a non farsi carico delle ricadute ambientali delle attività economiche.
L’Europa avrebbe potuto creare un grande mercato interno continentale con le stesse regole di rispetto dell’ambiente uguali per tutti, nel quale chiunque avesse voluto produrre doveva prima di tutto rispettare queste regole e nel quale chiunque avesse voluto importare merci dall’esterno avrebbe dovuto imporre ai propri fornitori il rispeto di tali regole.
Un mercato ricco di 500 milioni di consumatori, con un prodotto interno lordo pari al 20% di quello mondiale, avrebbe avuto la forza di imporre questi standard a livello mondiale o comunque di preservare l’ambiente quantomeno sul territorio europeo.

Invece si è preferito dare spazio. all’unico dogma che conta, quello del libero mercato senza regole, quello della competizione fra imprese ad ogni costo, senza riguardi per le conseguenze ambientali.
Dietro a tutta la retorica sul cambiamento climatico la realtà è che l’Europa è fra i principali devastatori dell’ambiente a livello mondiale, in quanto si occupa solo, a parole, della riduzione delle emissioni di CO2, mentre nel contempo porta avanti politiche economiche che generano inquinamento nella stessa Europa, ma soprattutto  in altre aree del pianeta.

I principi del libero mercato e della competitività non sono per nulla compatibili con il rispetto dell’ambiente, se guardiamo oltre la propaganda martellante dei mezzi di informazione.

 

L’ipocrisia europea sulle emissioni di gas a effetto serra

Dando per assunto, sulla base della narrativa mediatica e non della scienza, che il problema principale da affrontare sia la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, proviamo a valutare l’efficacia delle politiche europee per la riduzione delle emissioni di CO2.

Attualmente le emissioni annuali di gas serra (CO2 equivalente) a livello mondiale sono dell’ordine di 35 miliardi di tonnellate, mentre l’insieme dei paesi dell’Unione Europea emette circa 1 miliardo di tonnellate l’anno- Ovvero le emissioni europee contano il 2,8% delle emissioni annue globali.
Quando Ursula Von der Leyen annuncia nel 2021 il piano europeo “Fit for 55” che prevede la riduzione del 55% delle emissioni europee di CO2 entro il 2030 non ci dice che questo sforzo consentirebbe di ridurre le emissioni globali dell’1,6% in 9 anni, a patto che tutti gli altri paesi del mondo nel contempo mantengano invariate le proprie emissioni di gas ad effetto serra.
Con ogni evidenza la riduzione mondiale dell’1,6% risulterà sostanzialmente irrilevante sull’eventuale effetto serra globale, mentre la riduzione del 55% delle emissioni europee  in soli 7 anni, causerà certamente una gravissima crisi economica in Europa.
Questo perché, pur realizzando impianti per la produzione di energia da fonti rinnovaili e mettendo in atto interventi di risparmio energetico, è del tutto irrealistico riuscire a ridurre le emissioni di CO2 addirittura del 7,9% all’anno, senza avere avuto il tempo di quadruplicare (come minimo) il numero di lavoratori nel settore (ingegneri, operai specializzati, ecc.). Di conseguenza una tale riduzione delle emissioni potrà essere conseguita solamente riducendo in modo molto rilevate le attività produttive e mantenendo gli edifici al freddo in inverno.
E questo significherà disoccupazione e impoverimento.
Tutto questo per conseguire una misera riduzione a livello mondiale del solo 1,6% delle emissioni di CO2, senza alcun effetto rilevante sul cambiamento climatico.

Ovviamente, in un regime di libero commercio, i concorrenti extraeuropei delle nostre imprese continueranno a produrre emettendo CO2. Anzi, lo faranno di più, perché i cittadini europei saranno obbligati ad importare da fuori Europa ciò che in Europa, per le restrizioni ambientali, non potrà più essere prodotto.
L’Unione Europea avrebbe potuto ottenere molto di più esigendo dai fornitori internazionali del mercato europeo degli standard ambientali più adeguati. Ma non lo ha fatto, per non andare contro i principi fondanti del libero mercato e della competitività ad ogni costo.

 

L’ipocrisia europea nell’attuale crisi energetica

Nel rispetto dei soliti principi neoliberisti l’UE ha privatizzato e liberalizzato il mercato europeo dell’energia, istituendo la borsa del gas naturale TTF di Amsterdam e la borsa dell’energia elettrica EER di Lipsia.
Le regole di quotazione dei prezzi sono state scritte in modo da favorire i massimi guadagni agli speculatori. Ci riferiamo alla regola dei
prezzi marginali ed alla possibilità di scambiare in borsa quote virtuali di energia ovvero energia non realmente posseduta da chi la vende, che hanno fatto salire di 10 volte la quantità di energia quotata, con quantità pari a 10-15 volte le quantità reali di energia disponibile presso i produttori.

Queste regole tipiche della speculazione finanziaria hanno esasperato le conseguenze di situazioni “negative” per il mercato dell’energia.
La prima situazione negativa è stato proprio il piano europeo “Fit for 55”, che per limitare le emissioni di CO2 ha previsto la vendita all’asta delle quote di emissioni di CO2 consentite (il 45% restante).
Essendo concretamente impossibile ridurre di così tanto le emissioni di CO2 in soli 6 anni, gli investitori hanno anticipato gli effetti del razionamento delle quote di emissioni di CO2, che porteranno ad un aumento dei combustibili fossili.
Questa è stata la principale ragione degli aumenti dell’energia che già si erano registrati lo scorso autunno 2021.
La seconda situazione negativa sono state le sanzioni imposte alla Russia, conseguenti del conflitto in Ucraina.
L’obiettivo irrealistico di affrancarsi nel giro di pochi mesi dal fabbisogno di gas naturale russo, che rappresentava fino ad un anno fa circa il 40% del fabbisogno europeo, essendo noto, a chi conosce i dati reali, che tutti gli altri paesi produttori di gas naturale al mondo sono in grado, con le infrastrutture disponibili attualmente e nei prossimi 3-4- anni,  di sostituire la fornitura di gas russo. Quindi questo significa a priori la decisione di ridurre la disponibilità di gas in Europa, portando a razionamenti certi (tagli alle attività produttive, famiglie al freddo) e far salire i prezzi del gas alle stelle, in quanto si tratta di un bene primario a cui imprese e famiglie non possono rinunciare tanto facilmente.

Una conseguenza di queste decisioni è che ora molte auto che viaggiavano a gas metano, meno inquinante, ora inquinano di più viaggiando a benzina, che costa meno del gas.

Una seconda conseguenza deriva dal legame fra il prezzo dell’energia elettrica al prezzo del gas.
L’Unione Europea ha deciso che ci debba essere un unico mercato non solo del gas (borsa TTF di Amsterdam), ma anche dell’energia elettrica (borsa EER di Lipsia), con le regole per le quali il prezzo dell’energia elettrica viene determinato dalla fonte produttiva più costosa in circolazione, che attualmente è la produzione di energia elettrica mediante combustione di gas naturale. Sul mercato dell’energia elettrica non si fa più distinzione fra energia da fonti rinnovabili ed energia da fonti fossili. Tutta l’energia viene venduta allo stesso prezzo.
In una logica di politiche ambientali, invece, dovrebbe essere favorita la vendita di energia da fonti rinnovabili rispetto a quella prodotta da fonti fossili.
La conseguenza di queste dinamiche è che attualmente molti paesi si stanno orientando, sia per la carenza di gas che per questioni di prezzo, a produrre energia elettrica bruciando petrolio o carbone, emettendo molta più anidride carbonica di quanta se ne emetterebbe usando il gas naturale e senza incentivare lo sviluppo delle fonti rinnovabili.

Una terza conseguenza derivante dalle sanzioni alla Russia è che i russi sono obbligati a bruciare il gas metano preveniente dai loro giacimenti, dato che non può più essere venduto in Europa e date che, per motivi tecnici, è molto complesso “chiudere i rubinetti” del gas estratto dai giacimenti.
Per questo motivo, in passato, i contratti fra ENI e Gazprom prevedevano la fornitura di un flusso costante di gas per 20-30 anni e procedure obbligatorie di stoccaggio in Italia, il che consentiva nel contempo di minimizzare i costi per entrambe le parti e assicurare rifornimenti certi di energia per imprese e famiglie italiane.
Oggi, purtroppo, le esigenze della finanza europea e della geopolitica americana hanno prevalso sulle esigenze tecniche, portando Gazprom a bruciare il gaz metano che non viene venduto in Europa.
Il risultato di tutto questo è che vengono aumentate le emissioni di CO2 in Europa per la combustione di petrolio e di carbone in sostituzione del gas, mentre restano le emissioni di CO2 causate dalla combustione del gas russo che non può essere venduto dopo essere stato estratto.
Se a livello italiano siamo governati da incapaci, a livello europeo siamo governati da geni dell’inefficienza.
E ringraziamo che i russi brucino il gas naturale invenduto, perché se lo emettessero direttamente in atmosfera l’effetto serra del gas metano sarebbe di 25 volte superiore a quello della stessa CO2. Bruciando il gas l’effetto serra potenziale viene per fortuna ridotto di 24 volte.

Le attuali politiche europee stanno quindi caricando su cittadini e imprese europei tutti i costi derivanti dall’ideologia della riduzione delle emissioni di CO2 ad ogni costo e tutti i costi di scelte geopolitiche, pur se ufficialmente dipendenti dalla guerra in Ucraina, molto mal ponderate nelle loro conseguenze.

Personalmente mi chiedo come sarebbe andata a finire se i 1200 miliardi di euro di extracosti energetici che l’Unione Europea ha già dovuto subire negli ultimi 12 mesi fossero stati messi, come piano di accordi commerciali, sul tavolo delle trattative di pace fra Russia ed Ucraina. Probabilmente sarebbero stati un argomento sufficientemente convincente per mettere a tacere le armi, trovare una soluzione pacifica ed evitare decine di migliaia di morti.


L’insostenibilità del “meno stato più mercato”

Il terzo principio neoliberista fondante dell’Unione Europea , sopra citato, prevede la riduzione dell’intervento dello stato nell’economia, se non come strumento per tassare sempre di più cittadini e imprese, e per favorire lo strapotere delle multinazionali con regole truccate.
Per questo obiettivo l’Unione Europea continua, fin dalla sua costituzione nel 1992, a comprimere i bilanci degli stati, imponendo rigore di bilancio e tagli agli investimenti pubblici.
In questo modo molti paesi, soprattutto quelli meno ricchi e più indebitati, non hanno la possibilità di fare investimenti pubblici e strategici per ridurre l’impatto ambientale.
Il primo investimento da fare sarebbero i controlli sulle attività produttive inquinanti.
Ma i controlli costano. Meno spesa pubblica = più attività inquinanti.

Oltre a questo, per le stesse ragioni, lo Stato non ha i soldi per realizzare, ad esempio, impianti solari o interventi di risparmio energetico negli edifici pubblici.

Lo stato non hanno neppure la possibilità di intervenire sul mercato dell’energia, razionalizzando e rendendolo più funzionale alla sostenibilità ambientale, evitando i fenomeni illustrati nei paragrafi precedenti.
E’ del tutto evidente che per poter rendere disponibile per un grande paese come l’Italia energia da fonti rinnovabili per tutti serva un soggetto che sia in grado di fare investimenti al di là delle dinamiche dei mercati, in grado di realizzare interventi strategici a beneficio di tutti e dell’ambiente e che abbia tutto l’interesse a ridurre i consumi complessivi di energia, non avendo da guadagnarci sulla vendita, cosa che non succede per gli operatori privati che lucrano sulla vendita di energia.
Ad esempio interventi come l’adeguamento della rete elettrica, oggi strutturatsa con “grossi cavi” (mi scusino i colleghi ingegneri elettrici, ma è per rendere il concetto elettrotecnico facilmente comprensibile) in prossimità delle poche centrli di produzione e con “piccoli cavi” in prossimità degli utilizzatori. Per poter immettere in rete e redistribuire l’energia prodotta sugli edifici dagli impianti fotovoltaici serve installare dei nuovi cavi “più grossi” in prossimità degli utilizzatori-produttori, in modo che l’energia non si disperda per effetto Joule.
E serve realizzare delle “smart grid”, sistemi intelligenti che consentano di coordinare prevalentemente il consumo di energia elettrica nelle ore in cui il sole ci consente di produrne di più, dato che l’energia elettrica è difficile da immagazzinare in grandi quantità.
Tutto questo in Italia non lo si è ancora fatto, proprio perché lo Stato non dispone della libertà finanziaria per farlo (oltre alla mancanza di volontà politica, per incompetenza di chi ci governa).

Tutto questo, che sarebbe logico nell’ottica di politiche ambientali, è irreliazzabile restando nelle regole dell’Unione Europea e restando nella politica di mercato.

 

L’irreformabilità dell’Unione Europea
A questo punto gli amici ecologisti, sostenitori dell’Unione Europea, perché convinti che i problemi ambientali sono globali e non possono essere risolti su scala nazionale, mi diranno di essere d’accordo con le considerazioni sopra espresse, per cui l’unica cosa fa fare è perseguire una vera riforma dell’Unione Europea in chiave ambientalista, liberandola dalle logiche di mercato.

A questi amici io rispondo con un’altra domanda:
In quale modo noi potremmo oggi determinare una totale riscrittura dei trattati europei mettendo d’accordo 27 paesi, senza che nessuno ponga il veto, compresi quelli che lucrano dall’attuale situazione di speculazione finanziaria selvaggia sul mercato dell’energia, compresi quelli che lucrano sulla combustione del carbone e compresi quelli che lucrano sulle importazioni di merci dai paesi più inquinanti del mondo?
E mai ci dovessimo riuscire, quanti anni ci vorrebbero per convincere 450 milioni di cittadini europei?
Ma soprattutto per convicere i loro governanti, sempre attenti agli interessi delle lobbies economiche e molto poco a quelli dei cittadini.

E chiedo ancora:
In quale modo potremmo noi concretamente sfiduciare la Ursula Von der Leyen di turno nel caso in cui portasse avanti politiche che si dimostrino opposte agli interessi ambientali?
Abbiamo forse la possibilità concreta di votare la caduta della Commissione Europea persostituirla con un’altra di altra linea politica?

Oppure è più realistico pensare riformare questo sistema politico-economico iniziando, dal basso, a boicottare sistematicamente le attività economiche inquinanti e a favorire le attività economiche non inquinanti?

L’attuale Unione Europea, al di là dei proclami di facciata, è di fatto una vera e propria calamità per le questioni ambientali, in quanto gli unici veri obiettivi perseguiti sono gli interessi finanziari dei mercati, scaricando sui cittadini i costi e i danni causati dalle conseguenze ambientali delle loro attività.
E sono una calamità tutti coloro che sostengono questa istituzione sovranazionale.
Non è possibile coniungare ambientalismo ed ecologia.
Se ci dicono di volerlo fare, ci stanno solo ingannando, per darsi una facciata più credibile mentre perseguono obiettivi ben di altro tipo.

Abbiamo la possibilità di costruire una società diversa, a misura d’uomo e di ambiente, ma solo a patto di rifiutare in blocco meccanismi del mercato libero, della competitività e della non ingerenza dello stato nell’economia. E, quindi, l’Unione Europea.

DURATE ED EMERGENZE, di Pierluigi Fagan

DURATE ED EMERGENZE. Anni fa, nelle mie ricerche sul passaggio dal Paleolitico al Mesolitico, mi imbattei in due ipotesi sul cambiamento climatico ed ecologico, una in Cina, l’altra in India. Quella relativa alla Cina, sosteneva che nel tempo antico, diciamo 10.000 anni fa circa, in Cina arrivavano i monsoni e quindi il clima era tropicale. C’era un aspetto di riflesso culturale interessante. Come alcuni di voi avrà notato, nell’immaginario cinese che sopravvive nel folklore, ci sono draghi e tartarughe. Ebbene, data la permanenza sostanziale della civiltà cinese in un ben preciso areale, questa sarebbe una permanenza di immaginario proprio dei tempi in cui in effetti c’era abbondanza di varani e testuggini quali si trovano proprio in regioni tropicali. Qualcosa, ad un certo punto, cambiò il regime periodico di venti umidi che chiamiamo “monsoni” e con ciò cambiò profondamente le ecologie locali, ma il bestiario dei tempi antichi, rimase nell’immaginario tramandato.
La seconda storia riguarda il fiume Indo che oggi attraversa il Pakistan. Se prendete una cartina fisica della regione, noterete l’arzigogolato corso dell’Indo a partire dalla sua fonte tibetana. Nei tempi antichi, pare ci fosse anche un altro fiume parallelo che troviamo molto citato nel più antico libro dei Veda, il Rg. Il complesso Indo-Sarasvati con una serie di altri corsi d’acqua che intrecciavano la regione, sarebbe stato la culla dell’antica civiltà vallinda. La misteriosa scomparsa di quella civiltà che ad un certo punto sembra aver abbandonato più o meno di colpo i propri imponenti centri abitati, erroneamente attribuita in un primo tempo alle ipotetiche invasioni ariane indoeuropee (che ci furono in tutta evidenza ma non nei tempi e nei modi descritti da queste vecchie ipotesi), pare fosse dovuta ad una serie di terremoti dovuti allo scontro tettonico che spinge il triangolo indiano contro l’Asia (da cui il Tibet). Tali terremoti avvenuti in alta montagna proprio lì dove originavano gli antichi corsi d’acqua, ne cambiò il tracciato a monte e quindi a valle i corsi cambiarono direzione e portata, cambiando radicalmente le ecologie. I vallindi, si suppone, migrarono verso est, dalle parti del Gange, qui espulsero i locali che migrarono verso sud. L’attuale divisione netta di areali linguistici tra ceppo sanscrito (Nord) e dravidico (Sud), che poi ebbe riflessi anche nella composizione e definizione castale tra chiari (ex vallindi misti ad ariani) e scuri (ex popolazioni indigene gangetiche di lontane origini africane), rifletterebbe tale storia.
Tutto ciò ha ancora tratti speculativi, ma tutto ciò era ignoto fin quando non abbiamo allargato le durate delle nostre indagini. Eventi di poche migliaia di anni fa, ci mostrano un possibile fatto prima ignoto: le ecologie possono cambiare in archi anche solo di pochi millenni e con esse, la vita umana che vi dipende. Quest’ultima però, nei casi in questione, non aveva storia e scrittura per cui dei tormenti delle genti dei tempi non abbiamo ricordo, in più, dato che il pianeta era decisamente sottopopolato, c’era pur sempre la possibilità di far quello che gli umani hanno fatto da sempre: spostarsi. Sono decine e decine i casi di storia antica che o abbiamo del tutto ignorato o abbiamo cercato di interpretare cercando ragioni all’interno delle dinamiche sociali dei gruppi umani, quando invece erano mossi dal semplice variare climatico ed ambientale.
Chi mai fosse interessato a questa storia mossa dal clima troverà soddisfazione nei bei libri del mio omonimo Brian Fagan. Avverto che quel Fagan indaga e scrive su questo argomento da quaranta anni, non è un cialtrone che specula sul “cambiamento climatico” per sfornare best seller un tanto al chilo. Ma pur non essendo l’unico a condurre questi progetti di ricerca da così lungo tempo, poiché la nostra immagine di mondo era ai tempi affaccendata in tutt’altro, l’argomento a molti sembrerà ignoto, recente, quindi collegato al Grande Reset o ad altri presentismi. Gli ignoranti si svegliano sempre tardi e piuttosto che domandarsi perché avevano ignorato argomenti macroscopici del genere e per così lungo tempo, prendono un articolino su Internet e ci fanno sopra la loro teoria mondo dando cause sbagliate ad eventi complessi. Poi vengono pure col sorrisino di chi la sa lunga a spiegare a te che di queste cose ti occupi da decenni, che sei un ingenuo a credere a queste “narrazioni” catastrofiche, spacciate per verità dal solito gruppetto di élite banco-finanziarie pluripotenti capitanate da un oscuro massone capo di Spectre. Potenza dell’immaginario di Ian Fleming di cui sono figli, nutriti con la saga di 007.
Venendo a noi, ricercatori del CNR ci avvertono che, da tempo, il fatidico anticiclone delle Azzorre, sta perdendo potenza e regolarità, forse anche locazione. Altri ci avvertono da tempo, che l’ Atlantic meridional overturning circulation – AMOC, sta perdendo portanza, regolarità ed intensità, fatto che preluderebbe all’ennesima catastrofe climatica poiché questa corrente oceanica atlantica è la principale responsabile della stabilità climatica degli ultimi millenni, quantomeno per le zone settentrionali che si affacciano sull’Atlantico, ma forse non solo.
Quanto alle Azzorre, il ritiro di questa area di circolazione, favorirebbe l’espandersi delle celle anticicloniche africane (ad esempio celle di Hadley) che però hanno caratteristiche climatiche e di umidità del tutto differenti. Questo spiegherebbe il “Mediterraneo in fiamme” dalla Turchia, alla Grecia in cui mi trovo, alla Sicilia, alla Sardegna. Qui dove mi trovo, nell’Egeo, siamo a 36-38 gradi stabili. Poiché le economie locali vivono di turismo, in estate arriva un sacco di gente. Gente che usa i condizionatori a palla, il che mette sotto pressione la rete elettrica che talvolta salta. Saltando, non solo toglie corrente ai condizionatori, ma anche ai de-salinizzatore locale per cui a volte manca l’acqua, oltre Internet e tutto il resto. Ad Atene nord, c’è chi vive vicino ad incendi di lunga durata per cui deve rintanarsi a casa con le finestre chiuse, senza condizionatore e senza elettricità, l’inferno in terra praticamente.
Lunedì esce parte del nuovo rapporto IPCC che si annuncia più pessimista dei precedenti. Il tema è il riscaldamento climatico e la CO2. Ma c’è un altro argomento in questa faccenda che è la disclocazione dei climi, lo spostamento delle celle climatiche che poi determinano celle ecologiche a cui siamo adattati per millenni e che ora cambiano regime, come cambiarono al tempo della Cina mesolitica o dell’India Neolitica. Può darsi cambino per colpe antropiche più generali, ma può anche darsi cambino perché sono sempre cambiate se si inquadrano durate storiche meno anguste della mezzoretta che chiamiamo “civiltà”. Quindi, a prescindere le cause, gli effetti sono certi, tangibili ed immediati nel qui ed ora. Nell’attesa si svolga il grande dibattito sull’Antropocene avversato da negazionisti manipolati dalle lobbies carbonifere e dai centri anarco-capitalisti americani, mentre altri pensano sia tutta una invenzione di quelli di Davos per manipolarci dopo averci imposto la dittatura sanitaria, sarebbe forse il caso di domandarci cosa fare in senso adattivo?
Altrimenti, come ci fa notare l’opportuno Cacciari (le cui ragioni di filosofia politica-giuridica hanno fondamenti ben diversi da quelli di c.d. “bio”-politica à la Agamben che però non ha di biologia competenze pari a quelle che Cacciari ha di giurisprudenza costituzionale), andremo di stato d’eccezione in stato d’eccezione non solo subìto, ma invocato per ragioni apparentemente evidenti.
Dedicato ai molti che pensano di esser svegli mentre dormono (Eraclito), ricordo che il sociologo U. Beck (e non solo lui per altro) scrisse trentaquattro anni fa il saggio “La società del rischio”. Rischi pandemici, alimentari, sanitari, geopolitici, ambientali, tecnologici, migratori, demografici, economici, finanziari et varia. Del resto, se ti aumenta la popolazione planetaria di tre volte in settanta anni, una “durata” molto breve per un evento molto intenso, non ci voleva un genio per capire che qualcosa di nuovo sarebbe successo.
Tutte cose note da tempo quindi, tempo trascorso invano. Ignoranza di massa, madre di tutte le catastrofi, dovrebbe esser “il” nemico comune per tutti coloro che non si rassegnano a subire le conseguenze di questa epoca problematica. Ma l’ignoranza rende ciechi anche sul problema della sua importanza negativa, questo è il problema primo, quello da cui discende ogni altro. Sopportare e supportare l’ignoranza di massa fa sì che ad eventi eccezionali, l’unica risposta che sembra potersi dare è quella dei vari stati d’eccezione e degli interventi emergenziali promossi da politici ignoranti eletti da persone altrettanto ignoranti.

Transizione energetica o cinese?, di Samuel Furfari

Secondo la maggior parte dei politici e dei media europei, siamo in procinto di passare dal vecchio mondo dell’energia a quello della transizione energetica. Pensare che una politica così cruciale come la politica energetica possa essere riassunta nel semplicistico slogan “Salva il pianeta” mostra una mancanza di visione di come funzionerà il mondo. Sperare che l’emergenza climatica possa cambiare tutto velocemente è ingenuo, perché l’unità di tempo del sistema energetico è al massimo un decennio.

 

La transizione energetica politica chiamata anche decarbonizzazione è un pio desiderio che non si realizzerà per una serie di ragioni che vogliamo riassumere in questo forum. Questa affermazione sembrerà assurda in quanto va contro il pensiero dominante. Una piattaforma non può dimostrare, ma solo allertare. Il lettore può fare riferimento, se lo desidera, alle dimostrazioni che si trovano in una quindicina di libri e numerosi forum.

 

1. La domanda di energia può solo crescere

L’energia è la vita. Tutto – assolutamente tutto – che facciamo utilizza energia. Anche il nostro cibo è un consumo di energia di cui il nostro corpo ha bisogno per vivere. Abbiamo imparato in fisica che l’energia è lo stesso concetto del lavoro, cioè ciò che muove una forza (un peso). A meno che tu non muoia di fame, devi lavorare e quindi hai bisogno di energia. Col tempo l’energia veniva fornita dalla forza degli animali o dell’uomo. Per cucinare abbiamo utilizzato quella che oggi si chiama bioenergia, ovvero il legno. Grazie alla rivoluzione energetica, abbiamo completamente cambiato il mondo. Oggi alcuni che non hanno mai girato un pezzo di terra con una vanga sostengono un ritorno all ‘”energia muscolare”. È una loro scelta. È rispettabile, purché non lo impongano.

Si stima per il momento che ci siano 1,3 miliardi di persone nel mondo che non hanno accesso all’elettricità, di cui 290 milioni in India. Per cucinare, il 40% della popolazione mondiale dipende dalle energie rinnovabili: legno verde, carbone di legna o sterco essiccato. Brucia emettendo fumi tossici che provocano inquinamento atmosferico e morte prematura. C’è un urgente bisogno di elettrificare l’Africa come ho scritto in un libro nel 2019.

La loro ricerca della qualità della vita e la loro demografia galoppante inducono un aumento del consumo di energia. I leader di questi paesi – l’India in testa – lo sanno e hanno una sola preoccupazione: crescere e quindi consumare energia, l’energia poco costosa che noi stessi abbiamo utilizzato per garantire il nostro sviluppo: energie fossili e nucleari.

 

2. La questione energetica non è nata con la decarbonizzazione

La transizione energetica non è una nuova ricerca. La novità è chiamarla decarbonizzazione, ovvero abbandonare completamente i combustibili fossili. Dopo la seconda guerra mondiale, il periodo di crescita economica e sviluppo sociale ha permesso un cambiamento straordinario nella qualità della vita degli europei. Fu interrotta bruscamente dalla prima crisi petrolifera del 1973; il secondo nel 1979 ha avuto un impatto molto più forte. Per rispondere a una carenza geopolitica di petrolio, l’OCSE si è organizzata, in particolare creando l’Agenzia internazionale per l’energia e accumulando scorte di petrolio e prodotti petroliferi equivalenti a 90 giorni di consumo. All’epoca, abbiamo lanciato l’idea del risparmio energetico e delle “energie alternative” come venivano chiamate allora le energie rinnovabili. Non ha funzionato bene. Il vero cambiamento è stato l’arrivo del nucleare.

 

3. Energia nucleare, l’unica vera soluzione alla transizione energetica

Dopo l’avvio della CECA, i sei ministri degli esteri dei paesi fondatori si riunirono a Messina l’1 e il 2 giugno 1955 per decidere sul futuro della Comunità. Decidono di avviare la creazione del mercato comune e dell’Euratom, vale a dire la comunitarizzazione dell’elettricità nucleare civile. Hanno capito che il futuro di questa nuova comunità richiederà “energia abbondante ed economica”. I Sei stanno lanciando una transizione energetica che non è mai stata eguagliata. Vengono attuati piani ambiziosi e quando scoppia la crisi petrolifera, le centrali arrivano puntuali. Ciò ha consentito alla Francia di essere il leader europeo nell’energia nucleare.Jo Biden che segue Donald Trump ) si stanno dirigendo verso l’elettrificazione del prossimo futuro. Ma la Cina non fa affidamento esclusivamente sull’elettricità nucleare.

 

4. La Cina scommette sul petrolio

Nel 2020 Covid ha praticamente chiuso l’economia globale. Tuttavia, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia , il consumo di petrolio da 100 milioni di barili al giorno (Mb / g) nel 2019 a 91,0 Mb / g è diminuito solo del 10%. È già rimbalzato a 93,9 Mb / g nel primo trimestre del 2021 e si prevede che raggiungerà 99,2 Mb / g nel quarto trimestre del 2021. Perché? Perché l’olio non amato rimane inevitabile. I combustibili fossili sono percepiti in Francia e nell’UE più in generale come il passato, sia per le emissioni di CO 2 che generano, ma anche per la percezione indiscutibile che “non c’è più petrolio”.

Durante la crisi petrolifera appena citata, le riserve di petrolio si sono attestate a 90 miliardi di tonnellate (Gt) e avrebbero dovuto essere esaurite nel 2000; ora sono 244 Gt e dovrebbero essere esaurite in 55 anni. Le stesse ragioni che hanno determinato la crescita delle riserve sono ancora oggi presenti e ancor più affermate: nuove tecnologie e nuovi territori. Rimando il lettore ai miei numerosi scritti sull’argomento.

Inoltre, la Cina, che non si preoccupa della transizione energetica, è molto attiva nell’appropriarsi delle riserve di petrolio dove può. China National Offshore Oil Corporation (CNOOC) è il braccio del Partito Comunista Cinese responsabile della cooperazione con grandi compagnie internazionali e dell’acquisto di concessioni all’estero. Data la sua importanza strategica, nel dicembre 2020 l’amministrazione Trump ha aggiunto CNOOC alla lista nera delle “Compagnie militari cinesi comuniste”. Le sanzioni contro Cina e Iran stanno spingendo i due paesi a un accordo da 400 miliardi di dollari, afferma Forbes. L’Iran ha bisogno di vendere urgentemente petrolio per non soffocare, e la Cina ha bisogno di petrolio per la crescita economica per raggiungere l’obiettivo del Partito Comunista di essere la potenza leader del mondo entro il 2050.

Leggi anche: la  Cina di fronte al mondo anglosassone

5. La Cina fa affidamento sul gas naturale

Il petrolio è inevitabile, ma la sorpresa dell’energia è il gas naturale. Questa energia è molto poco inquinante, molto abbondante, disponibile, economica e polivalente. Nuovi paesi stanno diventando esportatori di gas naturale, competendo così con esportatori storici (Russia, Norvegia, Algeria, Qatar, Indonesia, ecc.). Gli Stati Uniti possono esportare gas di origine rocciosa (scisto) a prezzi così competitivi che stanno cercando di vietare la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania. L’Australia sta diventando un importante paese esportatore per il sud-est asiatico, con così tante riserve di gas disponibili. Anche il Mozambico, il secondo Paese più povero del mondo, si prepara ad esportare gas dal suo giacimento di Rovuma, in cui ha investito la CNPC di proprietà statale cinese. Più vicino a noi, ciò che sta accadendo nel Levante è un buon esempio dell’attuale rivoluzione nel gas naturale. Israele, che mancava di energia primaria, è già un esportatore di gas in Giordania e si prepara ad esportare molto di più. La Turchia di RT Erdoğan non vuole interessarsi alle sardine della ” parte appropriata di questo spazio marittimo .

Il gas naturale quando viene liquefatto (GNL) trasportato dal vettore GNL diventa un’energia che assomiglia al petrolio. Liberato dal vincolo del tubo che collega un produttore a un consumatore e viceversa, il GNL consente fluidità e dinamismo in un mercato del gas in crescita.

La Cina lo ha capito bene poiché ciascuna delle sue province marittime ha almeno un rigassificatore. Le sue 28 strutture gli forniscono energia e sicurezza competitiva poiché il paese può rifornirsi da molti paesi. Non è il caso del Turkmenistan ( quarta  riserva mondiale) che sperava di vendere grandi quantità di gas al vicino. Inoltre, il GNL arriva nell’est industriale mentre il turkmeno arriva nell’ovest, dove ci sono difficoltà con gli uiguri e dove l’industrializzazione è poco sviluppata e rimarrà senza dubbio tale per molto tempo a causa delle difficoltà con le popolazioni locali.

Si noti che la Russia ha compreso molto bene questo cambiamento di paradigma portato dal GNL. Dal 2017, il gas proveniente dalla penisola di Yamal, nella Siberia settentrionale, rifornisce i mercati asiatici, in particolare la Cina. Questo progetto da 27 miliardi di dollari è stato realizzato dalla società privata russa Novatek con Total Energy (che non può nemmeno realizzare progetti di esplorazione in Francia). Un progetto simile è in corso nella stessa area, questa volta con l’aggiunta di due società cinesi. Queste grandi manovre sul fronte del gas naturale indicano che questa energia verrà utilizzata almeno per tutto questo secolo. Il boom è ovunque da quando recentemente anche Birmania, Ghana e Senegal hanno acquisito terminali GNL. L’anno del Covid – il 2020 – ha visto il consumo di GNL aumentare dall’1 al 2%mentre il petrolio è sceso del 9% e il carbone del 4%. La Cina ha già piazzato le sue pedine del gas.

 

6. Il carbone cinese fa esplodere le emissioni di CO 2

Tra il 2018 e il 2019, la crescita delle emissioni cinesi di CO 2 ha rappresentato il 73% delle emissioni annuali totali della Francia. Il Partito Comunista ha annunciato la creazione di 250 GW di nuove centrali elettriche a carbone (l’UE ha un totale di 150 GW). Continueranno la loro crescita economica – e quindi energetica – perché non vogliono finire come l’URSS. Cioè, non si preoccupano delle emissioni di CO 2 . La loro diplomazia popolare è lì per ingannare gli ingenui che ancora credono che ridurremo le emissioni globali di CO mondiali.

Sono aumentati in tutto il mondo del 58% dall’adozione della convenzione delle Nazioni Unite sul clima nel 1992. Perché? Perché l’energia è vita e gli stati che danno la priorità al benessere delle loro popolazioni devono prima di tutto fornire ai loro cittadini energia abbondante e poco costosa. È un loro diritto. Questi stati non cambieranno di una virgola la loro strategia energetica basata sui combustibili fossili e sull’energia nucleare. Il tempo stringe per parlare dell’India, ma basti pensare che Cina e India consumano insieme quasi i due terzi del carbone mondiale per misurare quanto c’è tra le politiche europee e quindi francesi e quei paesi che stanno correndo avanti.

 

7. La nuova sicurezza dell’approvvigionamento energetico

Il Libro verde del  2000 “  Verso una strategia europea per la sicurezza dell’approvvigionamento energetico ” ha sollevato preoccupazioni circa la crescita della sua dipendenza energetica. 20 anni dopo, non è peggiorato grazie alla diminuzione dei consumi a seguito della ristrutturazione dei paesi ex socialisti, l’esternalizzazione dell’industria manifatturiera e delle grandi industrie come l’ alluminio , la diminuzione delle importazioni di carbone, il risparmio energetico e lo sviluppo dell’energia del legno, la principale energia rinnovabile (eolica e solare rappresentano solo il 2,5%energia primaria). E poi, soprattutto, i timori sollevati 20 anni fa sulla mancanza di riserve di petrolio e gas sono stati spazzati via dai fatti; tutte queste riserve sono abbondanti, varie e disponibili. Quindi sta andando tutto bene? No, è sorto un nuovo pericolo: l’ascesa al potere della Cina o per essere più precisi del Partito comunista cinese.

Sono ovunque, invadono tutte le sfere di energia del mondo. Il Washington Time stima che nell’autunno del 2020 Pechino abbia effettuato operazioni di investimento per quasi 17 miliardi di dollari nel settore energetico americano. La Cina, che è già azionista di minoranza della società Energie du Portugal (80% dell’elettricità del Portogallo), voleva monopolizzare tutte le azioni; Donald Trump si è opposto. Utili idioti nella lobby ambientalista che vogliono sviluppare veicoli elettrici e turbine eoliche non si rendono conto che dipenderanno dal Partito Comunista Cinese che controlla il mercato per i molti materiali necessari per produrre batterie e magneti per turbine eoliche, perché il mercato di cobalto è controllato dalla Cina. La Commissione Europea, che intende realizzare un “Airbus di batterie”, dovrebbe innanzitutto porsi la questione della disponibilità del litio. Tutti sanno anche che i pannelli solari provengono dalla Cina. È meno noto, ma la Cina sta investendo anche nelle centrali elettriche a carbone nei Balcani; questa elettricità “cinese” potrebbe arrivare nell’UE.

L’UE ha urgente bisogno di svegliarsi dal suo torpore verde. Il resto del mondo non crede alle energie rinnovabili moderne, perché costano molto , altrimenti non sarebbero state necessarie tre direttive europee – nel 2001, 2009 e 2018 – per obbligarne la produzione; inoltre, dall’obbligo del 2009, il prezzo dell’elettricità in Francia è aumentato del 54%. Inoltre, generano solo un quinto del tempo e possono quindi svilupparsi solo dove sono già presenti centrali termiche e nucleari.

Se l’UE vuole ancora contare un po’ nella marcia del mondo, dovrebbe abbandonare la sua politica di decarbonizzazione e la sua utopia dell’idrogeno e fare come gli altri paesi: usa energie abbondanti ed economiche e smetti di essere ossessionato dalla CO2 . L’UE pensa ingenuamente che il Partito comunista cinese lo seguirà, mentre alimentato da milioni di ingegneri prepara il dominio del mondo con l’energia. Non siamo più nel 1974, quando il colonnello Gheddafi stava cercando di allineare l’OCSE controllando il mercato del petrolio. Il pericolo oggi è la geopolitica dell’energia cinese.

https://www.revueconflits.com/transition-energetique-ou-chinoise-samuel-furfari/

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare, di Giuseppe Gagliano

La questione ambientale sarà un terreno fondamentale di confronto e di scontro politico. Dagli indirizzi che verranno imposti e dagli strumenti che verranno utilizzati dipenderà la prevalenza dei particolari centri decisionali e la conformazione delle formazioni politico-sociali. E’ già un terreno di duro scontro nelle dinamiche geopolitiche celato dietro un lirismo stucchevole e strumentale. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare

di

L’articolo di Giuseppe Gagliano sulla chiusura della centrale nucleare di Fessenheim in Francia

 

“Nella notte tra lunedì 29 giugno e martedì 30, la centrale nucleare alsaziana di Fessenheim ha cessato definitivamente l’attività prima di essere smantellata. Situata sulle rive del Reno, vicino alla Germania e alla Svizzera, la più antica centrale elettrica della Francia ha smesso per sempre di produrre elettricità. Nei prossimi quindici anni ne è previsto lo smantellamento, a partire dalla rimozione del combustibile altamente radioattivo, che, secondo il programma sarà completato nel 2023”.

La chiusura è stata accolta come un successo della lotta ambientalista. Da molti anni infatti numerosi attivisti antinucleari hanno portato avanti manifestazioni non violente e azione di lobbying sulle autorità francesi per chiudere la centrale nucleare di Fessenheim alle quali hanno risposto provocatoriamente gli attivisti pro – nucleare.

In un primo momento si era previsto che questa chiusura dovesse essere per così dire sincronizzata con il lancio della terza centrale a Flamanville.

Ma la data di completamento è stata posticipata a causa di nuovi problemi al 2023. Quindi, come produrre i 12,32 TWh prodotti nel 2019 dalla centrale nucleare?

È più che ingenuo scommettere su mega fattorie di pannelli solari o turbine eoliche. La prevista installazione massiccia di un pannello solare nell’Alto Reno in sostituzione di Fessenheim fornirebbe solo il 17% della potenza dell’impianto. È importante sottolineare che il sole della regione ha una percentuale del 13%.

Per continuare e per compensare questa improvvisa perdita di energia, EDF dovrà rivolgersi a centrali termiche. Queste ultime pesano molto nella produzione di carbonio rispetto alle loro omologhe nucleari. Dove l’elettricità nucleare emette solo 6 g di CO2 per KWH, quella prodotta dal gas emette fra 500 e 1000 g di CO2 prodotta dall’energia dal carbone.

Anche se è necessario credere nelle fonti energetiche rinnovabili come l’eolico, il solare o l’idroelettrico, occorre assumere un atteggiamento realistico: il miraggio di questa transizione non tiene conto di molteplici elementi.

Per citarne solo uno, l’offshoring dell’inquinamento. Infatti per poter avere elettricità verde, occorre importare pannelli solari o turbine eoliche. Merci prodotte per la stragrande maggioranza nella Repubblica popolare cinese in modo molto inquinante e che richiedono materie prime estratte in modo identico e in condizioni umane più che deplorevoli.

Sarebbe quindi più realistico e soprattutto più ecologico parlare di complementarità energetica, dove le fonti di energia rinnovabile producono simultaneamente centrali nucleari, riducendo la quota di elettricità a base di carbonio.

Partendo dalla constatazione di natura storica che il nucleare sia civile che militare ha consentito alla Francia autorevolezza e credibilità sia nel contesto della autonomia energetica che in quello della politica internazionale, il caso francese dimostra in modo esemplare come i fondamentalismi in campo ecologico conducano i governi a scelte che finiscono per danneggiarne l’autonomia energetica e soprattutto la competizione globale.

A tale riguardo è di estremo interesse l’intervista rilasciata dall’ex direttore dell’impianto nucleare Joël Bultel che smentisce numerosi luoghi comuni. Secondo l’ex direttore seguire il modello tedesco costituirebbe un grave danno per la Francia.

In primo luogo gli impianti tedeschi producono quasi 10 volte più CO2 rispetto al sistema francese nel quale i consumatori pagano circa il 75% in più per la loro elettricità rispetto ai loro omologhi francesi. Si tratta di un modello energetico dai costi altissimi: parliamo di oltre 500 miliardi di euro.

Sostituire una tecnologia che produce quanto effettivamente serve con un’altra tecnologia che produce in modo intermittente a seconda delle condizioni meteorologiche significa degradare l’autonomia energetica.

In secondo luogo la chiusura di questo impianto è stata in realtà dettata da motivi squisitamente politici e questa chiusura sarà pagata molto cara da i consumatori: quasi mezzo miliardo di euro a breve termine e diversi miliardi cumulativi (tra 4 e 7 per un prezzo medio di mercato dell’elettricità compreso tra 40 e 50 € / MWh) per i prossimi 20 anni per compensare il danno.

In terzo luogo — sottolinea il direttore — questo impianto era in realtà funzionante e avrebbe potuto continuare a produrre elettricità a basso costo per altri vent’anni. Infatti la Corte dei Conti francese ha sottolineato il grave danno economico che una tale chiusura determinerà.

In quarto luogo questa vicenda dimostra per l’ennesima volta il ruolo sempre più importante e rilevante delle associazioni e delle ONG ambientaliste nel condizionare le scelte di politica energetica dei governi e dall’altro lato dimostra la debolezza della classe politica che per ragioni di consenso politico — non certo per convinzione — asseconda queste scelte.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-succede-in-francia-sullenergia-nucleare/?fbclid=IwAR1sKIHI1dKPW9-yz87f5qNgSMmVOLu4wb1aHXXh44NHxuLSgltKWFxO-9I

Ecologisti ridicoli, di Valerie Toranian

È come la sottomissione di Michel Houellebecq . In nome della sua “interpretazione delle regole della laicità”, il nuovo sindaco di Lione ha rifiutato di partecipare alla cerimonia cattolica del voto degli assessori , l’8 settembre, per assistere il giorno successivo, alla posa della prima pietra della moschea di Gerland. Armato di cazzuola, Grégory Doucet si è applicato alla stesura del cemento, fiero di questo simbolo della nuova alleanza tra il campo progressista e la religione musulmana perché “l’autorità pubblica ha il dovere di proteggere i fedeli che vogliono praticare la loro religione ”. Questo è ciò che è grande con il campo del Bene postmoderno: pratica un secolarismo a geometria variabile come altre verità alternative. Che il sindaco di Lione, in nome dei suoi valori, si rifiuti di partecipare a una tradizione che gli rizza i capelli, lo si capisce: regalare uno scudo d’oro all’arcivescovo per ringraziare la Vergine di aver salvato la città dalla peste del 1643 non era l’espressione primaria dei valori della Repubblica. Anche se, per molto tempo, la tradizione è più folkloristica che espressione di fedeltà alla tonaca.

Solo Édouard Herriot, membro del Partito Radicale e sindaco della città dopo la Liberazione, si è rifiutato di farlo; preferirà inviare un assistente. Riferimento che piace ricordare alla sinistra radicale del Rodano. È. Ma senza parlare al posto dei morti, è difficile immaginare Édouard Herriot che posa la prima pietra di una moschea. Quello che ha fatto Grégory Doucet congratulandosi con se stesso sui social network. Il sindaco di Lione ritiene che sia necessario “adattarsi” alla realtà di un Paese dove l’islam politico occupa un posto sempre più importante? Grégory Doucet è uno dei tanti Verdi o di sinistra eletti che intendono denunciare “l’islamofobia” perché la religione non dovrebbe più essere criticata in Francia? Crede che dovremmo mostrarci con i religiosi musulmani come una forma di solidarietà? La confusione regna. E anche la febbre.

“Nel progetto radicale verde, il nemico è la tradizione, il giudice della pace l’impronta di carbonio, la scrittura elitaria inclusiva standard. Si tratta di fondare una nuova era. La grande notte (senza illuminazione) è finalmente arrivata. Nessuna pietà per il vecchio regime e i suoi odiosi simboli. “

I Verdi hanno sicuramente ottenuto vittorie storiche alle elezioni comunali, ma con un tasso di astensione altissimo. Ciò dovrebbe incoraggiarli a consultarsi e dialogare. Il loro programma, soprattutto nella sua espressione più radicale, non riflette accuratamente il colore politico della loro città . Ma è proprio il contrario.

Sfidiamo l’opinione pubblica con decisioni controverse e assurde. Non ci sarà albero a Natale, scusate, a fine anno festeggiamenti, ha deciso il sindaco di Bordeaux, Pierre Hurmic (EELV): “Non metteremo alberi morti nelle piazze cittadine. Questa non è affatto la nostra concezione della rivegetazione. Alla fine del 2020 adotteremo la carta dei diritti degli alberi. » Dettaglio buffo , il sindaco di Bordeaux fa la sua dichiarazione circondato da due grandi vasi di cultivar di spathiphyllum , originarie dell’Amazzonia, prodotte in serra con la forza dell’irrigazione e di prodotti sanitari non ecologici. Post informativo sulla Francia su Twitter: “Il sindaco verde di Bordeaux rifiuta di installare un albero di Natale e attira l’ira della destra. Ah! Bene ? I ragazzi hanno ragione? Il servizio pubblico è così lontano da perdere il buon senso?

Nel progetto radicale verde, il nemico è la tradizione, il giudice della pace l’impronta di carbonio, la scrittura elitaria inclusiva standard. Si tratta di fondare una nuova era. La grande notte (senza illuminazione) è finalmente arrivata. Nessuna pietà per il vecchio regime e i suoi odiosi simboli. Il tour della Francia? È come l’abete. Quando le persone capiranno fino a che punto è una tradizione obsoleta, “sciovinista e inquinante”, si congratuleranno con noi per averla soppressa, pensano gli ecologisti radicali, convinti ad agire per il Bene e per le generazioni future. Come molte competizioni sportive internazionali, il big loop ha effettivamente una scarsa impronta di carbonio. E la distribuzione di gadget di plastica prodotti in Cina per oltre 3.470 chilometri non è l’aspetto più rispettabile dell’evento. Ovviamente è una pratica evolversi. Ma è stupido riassumere il Tour de France, evento popolare per eccellenza, nella sua impronta di carbonio. O il suo machismo.

“Ciò che infastidisce e scoraggia è che l’ecologia è un argomento importante e serio […] Ma quanto è difficile per una causa così buona essere rappresentata e tradita da ideologi assurdi. “

E se la questione delle donne e del loro status riguarda a questo punto gli ambientalisti, dovrebbero spiegare perché le hostess del Tour de France sono indegne mentre le donne velate, che con orgoglio indossano il simbolo della loro inferiorità rispetto al gli uomini, sarebbero vittime da proteggere, anche “femministe” da valorizzare. Laicità alternativa, libertà alternativa, femminismo alternativo.

La lingua, che è fascista perché si impone a tutti secondo Roland Barthes, deve chiaramente diventare lo strumento ideologico al servizio del mondo verde secondo: la scrittura inclusiva è adottata con dichiarazione lirica a sostegno di molti municipi verdi. Non importa se la legge dice al contrario che non è riconosciuto nei documenti amministrativi. Non importa che gli insegnanti indichino un nuovo vincolo che favorirà ancora una volta le classi agiate e non le classi lavoratrici. Le classi lavoratrici? Quante divisioni? Non hanno votato alle elezioni municipali. Non capiscono la posta in gioco rivoluzionaria dell’albero morto e del Tour de France. Sono populisti. Amano il Natale e non hanno nemmeno le bici elettriche!

Ciò che infastidisce e scoraggia è che l’ecologia è un argomento importante e serio. Che voler migliorare il nostro ambiente di vita, combattere l’inquinamento, promuovere l’agricoltura locale e biologica, porre la questione della sofferenza degli animali, sono tutte domande che ci riguardano e giustamente ci affascinano. Ma quanto è difficile per una causa così buona essere rappresentata e tradita da ideologi assurdi.

https://www.revuedesdeuxmondes.fr/auteur/valerie-toranian/

Quali forze sono presenti nell’Artico?, di Laurence Artaud

NB. La traduzione sarà perfezionata appena possibile_Giuseppe Germinario

Quali forze sono presenti nell’Artico?
Rincorsa alle materie prime: un nuovo confronto internazionale?

Di  Laurence ARTAUD , 28 agosto 2019  Stampa l'articolo  lettura ottimizzata  Scarica l'articolo in formato PDF

Laureata in letteratura e civiltà comparate (Sorbonne Paris III DEA) e poi in HEC, Laurence Artaud ha trascorso la sua carriera in organizzazioni francesi incaricate del supporto all’esportazione. Si è quindi specializzata nell’analisi di concetti e pratiche di intelligenza economica e ha quindi acquisito una comprensione delle problematiche della geopolitica. Appassionata dell’estremo nord, dove è stata regolarmente per venticinque anni, è stata in grado di osservare i cambiamenti geografici e politici nella regione

Questa è una panoramica generale delle implicazioni geopolitiche e strategiche dei cambiamenti climatici nell’Artico. L’autore presenta prima le questioni militari e politiche nel 20 ° secolo, poi gli antagonismi dei paesi rivieraschi e infine i nuovi paradigmi del 21 ° secolo legati al cambiamento climatico: il passaggio del Nord-Est, la sovranità economica e l’accesso a risorse naturali.

Da tempi immemori l’Artico e il Polo Nord hanno affascinato l’immaginazione degli esploratori, scienziati, antropologi ed etnologi. Hanno quindi attratto società che commerciavano pelli, società minerarie e oro, petrolio e altre risorse, incluso il diamante di cui la Russia è diventata in questo decennio il più grande produttore del mondo (Repubblica di Yakutia ). Durante la seconda guerra mondiale e poi durante la guerra fredda, queste aree che si estendevano dalla Siberia orientale all’Alaska assunsero una dimensione militare e strategica. Largo solo 85 chilometri, lo stretto di BeringDal 1947 il confronto est / ovest si è cristallizzato lì, soprattutto perché le aree artiche sono ancora molto militarizzate, soprattutto dalla parte russa.

Dalle sfide militari strategiche ai problemi economici e commerciali
Nel ventesimo secolo, il gioco delle “forze” ha coinvolto principalmente i paesi rivieraschi, ovvero Russia, Canada, Stati Uniti, Danimarca (a causa della Groenlandia) e in misura minore la Norvegia (Svalbard). I problemi erano geostrategici e militari; ma con il riscaldamento globale che causa lo scioglimento del permafrost, la ritirata del ghiacciaio e lo scioglimento del ghiaccio marino (progressivo restringimento spaziale e del volume), l’ interesse spasmodico per l’Artico sta aumentando: l’accesso alle risorse naturali e l’apertura della via del mare a Nordest ora attira nuove potenze per motivi economici e commerciali.
Dalla metà del XX secolo, il Canada e la Russia hanno minato e giacimenti di gas e pozzi di idrocarburi nei rispettivi territori. Sin dal periodo sovietico, la Russia è stata molto attiva nella penisola di Yamal e ora sta investendo molto nel petrolio.
Il riscaldamento globale sta facilitando l’accesso alle risorse naturali, ma recenti ricerche scientifiche dimostrano che il sottosuolo è ricco di vari minerali e terre rare. Tuttavia, le difficoltà tecniche di sfruttamento e l’alto costo delle attività in un ambiente molto ostile rallentando ulteriormente uno sviluppo petrolifero veramente competitivo anche se molti depositi di gas di scisto sono stati scoperti e gestiti a costi inferiori nell’ultimo decennio, in particolare negli Stati Uniti (Kansas, Oklahoma, …) al confine con gli Stati Uniti. il Canada. Inoltre, pochissimi paesi padroneggiano ancora queste tecnologie e i “nuovi entranti” dovranno fare affidamento su partner più esperti per lavorare a queste latitudini.
La pesca, anche a meno di cinquecento chilometri dal Polo Nord, è anche una questione economica per tutte le flotte nell’emisfero settentrionale. Le zone economiche esclusive (ZEE) definite nel 1982 dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (applicata solo nel 1994) sono ora oggetto di un’attenzione particolare da parte dei paesi asiatici non firmatari.
Infine, l’ultimo aspetto della tensione riguarda la navigazione nel passaggio a nord-est. Questa via di mare è davvero una risorsa importante poiché riduce la rotta degli esportatori asiatici verso l’Europa. La rotta marittima settentrionale (NMR) è quindi di interesse non solo per la Cina ma anche per il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan. L’avidità di questi paesi indica negoziati internazionali sotto il segno di scontri economici.
Pertanto, il riscaldamento globale e la globalizzazione degli scambi stanno cambiando la “geografia”. Il passaggio a nord-ovest è già aperto alle navi portacontainer e petroliere per più di 6 mesi all’anno e il passaggio a nord-est è anche rapidamente privo di ghiaccio durante l’estate australe. In entrambi i casi, le navi sono sempre precedute da costosi rompighiaccio per ridurre il rischio di incidenti.

Il Consiglio artico: prima rappresentazione delle popolazioni indigene
Nel 1996 (Conferenza di Ottawa) fu formato un nuovo attore istituzionale; ilConsiglio artico . Affronta le questioni affrontate dagli otto stati con una parte del loro territorio nell’Artico e consente alle popolazioni indigene di ottenere, per la prima volta, una rappresentazione reale. Per la prima volta, sei associazioni aborigene hanno lo status di partecipanti permanenti al Consiglio

Inizialmente, nel 1991, il trattato era limitato alla strategia di protezione ambientale dell’Artico, ma la Dichiarazione di Ottawa (1996) istituì un Consiglio artico rafforzato per promuovere lo sviluppo sostenibile e lo sviluppo sostenibile. supervisione dei rischi inerenti alle sostanze tossiche e inquinanti. Tuttavia, le sue dichiarazioni non sono vincolanti.
È composto da 8 membri permanenti che sono (in ordine alfabetico), Canada , Danimarca , Stati Uniti , Finlandia , Islanda , Norvegia , Svezia e Russia, 6 associazioni indigene nella regione artica e membri osservatori, organizzazioni non governative, organizzazioni internazionali e 13 paesi, tra cui la Francia, sono regolarmente ammessi.
Questi osservatori non hanno potere decisionale, ma la loro presenza attesta il crescente interesse del mondo per queste regioni. La Francia spera di far sentire la propria voce nella misura in cui desidera sviluppare attività economiche (idrocarburi, miniere, ricerca scientifica, turismo).
Se, per secoli, l’immaginazione degli europei li ha attratti ad esplorare l’Artico dal IX secolo (Vichinghi), quindi il XVI e il XIX secolo, alla ricerca di due passaggi (Nord-Ovest e Nord-Est), nel ventesimo secolo, la posta in gioco militare fu raddoppiata dall’avidità economica internazionale a causa della ricchezza degli scantinati e degli stock ittici.

Quali forze sono presenti nell'Artico?
Mappa dell’Artico. Anno polare internazionale – ipy-api.gc.ca
Clicca sulla miniatura per ingrandire la mappa dell’Artico. Territori nelle vicinanze dell’Artico: Canada, Stati Uniti, Russia, Finlandia, Svezia, Norvegia, Islanda, Groenlandia (Danimarca)

I. Nel ventesimo secolo: questioni militari e politiche

La seconda guerra mondiale e poi la guerra fredda hanno illustrato la posizione geostrategica dell’Artico e l’emergere di rivalità militari tra i paesi che confinano con il Nord Atlantico.

Navigazione artica degli alleati per sfuggire agli U-boat tedeschi
L’importanza strategica della rotta transatlantica è apparsa durante la prima guerra mondiale.
Durante la seconda guerra mondiale, ha facilitato le forniture di materiale (legno, ferro, combustibili esplosivi, …) e cibo per gli alleati. L’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1941 costrinse i convogli marittimi a navigare il più lontano possibile dai numerosi sottomarini tedeschi nel Nord Atlantico. Tuttavia, oltre un centinaio di navi mercantili furono affondate dagli U-boat tedeschi durante questo periodo. Da quel momento in poi, i primi convogli che riunivano il Nord America nell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (URSS) iniziarono a impegnarsi più a nord sulla rotta artica per sventare i sottomarini nemici. 

La via del ferro e la battaglia dell’acqua pesante
La Germania, che dipendeva molto dal ferro svedese (paese neutrale), doveva spedire il minerale via mare lungo le coste di Svezia, Finlandia o Norvegia (Narvik).
Misurando il ruolo strategico di queste rotte, la Gran Bretagna decise di interrompere la via del ferro (Battaglia di Narvik).
Le battaglie di acqua pesante guidate dagli alleati in 5 successive operazioni militari e il cui obiettivo era quello di distruggere una centrale di acqua pesante in Norvegia, illustrano l’intensità della competizione nella corsa nucleare.

La base nucleare dell’Artico durante la guerra fredda
Gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro inviolabilità nucleare a causa della sua lontananza geografica fino all’esplosione russa del 1949.

Tuttavia, dal 1949, furono minacciati dai bombardieri intercontinentali russi, in grado di sorvolare l’Artico e raggiungere il Canada nord-orientale e gli Stati Uniti.
Ecco perché i canadesi hanno installati nel 1952 radar collocati più vicino alla banchisa per proteggere la parte settentrionale del loro paese ora minacciato. Allo stesso modo, la Groenlandia riparò varie basi militari americane lungo la sua costa occidentale, la più strategica delle quali era quella di Thule, situata a 1.600 km dal polo.
Il lancio nel 1957 del primo satellite sovietico Sputnik mise in discussione la superiorità strategica americana; questo successo nello spazio civile potrebbe essere facilmente applicato a obiettivi militari equipaggiando una testata nucleare nel satellite.
Questa nuova dimensione, durante la guerra fredda, posizionò ancora una volta l’Artico al centro dei conflitti strategici est-ovest. La calotta di ghiaccio era al centro di uno scontro nucleare tecnicamente possibile tra Stati Uniti e URSS. Anche i paesi europei sulle traiettorie sono stati minacciati.
Fino alla caduta dell’Unione Sovietica (1991) , l’energia nucleare è al centro della rivalità est-ovest nell’Artico.
Le maggiori potenze occidentali si sono posizionate nella regione o stabilendo basi offensive o posizionando siti per mezzi di allarme avanzati, situati intorno al 70 ° parallelo, alla latitudine della North West Highway.
Questi includono installazioni istituite dalla Seconda Guerra Mondiale dagli Alleati, a volte rinforzate durante la Guerra Fredda: in Groenlandia, Thule, (Sondre Stormfjord – Kangerlussaq, Baia di Disko); in Canada, (Goose Bay – Labrador,., ..); in Alaska e alle Isole Aleutine (non artico ma così vicino). In Islanda, durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti stabilirono una base aerea a Keflavik (vicino alla capitale Reykjavik). Questa situazione al centro del Nord Atlantico consente di controllare tutto lo spazio aereo del Nord Atlantico. Situato all’aeroporto internazionale, è stato aperto come base aerea strategica.

Dal 1951, gli Stati Uniti avevano assunto la difesa dell’Islanda  ; nel 2006, l’esercito americano lasciò l’isola; la base era “chiusa” o piuttosto “messa a dormire” da circa l’anno 2016, la Marina degli Stati Uniti avrebbe preso in considerazione la possibilità di trasferirsi lì per posizionare pattuglie marittime e Boeing P-8 Poseidon per osservare l’evoluzione Sottomarini russi nel Nord Atlantico.

In effetti, la recrudescenza delle tensioni tra le potenze occidentali e la Russia, l’annessione della Crimea, il conflitto in Ucraina e una riaffermata attività militare russa, l’Islanda trova un interesse geostrategico.

Infine, è necessario tenere conto del “potere di occultamento del ghiaccio impacchettato” che garantisce un “rifugio naturale” per i sottomarini la cui capacità di autonomia è stata aumentata dalla propulsione nucleare. Il sottomarino può quindi rimanere diverse settimane immerso sotto il ghiaccio del pacchetto e, l’acqua che rimane libera dal ghiaccio (sotto il ghiaccio del pacchetto), riemergere per eseguire operazioni militari offensive convenzionali.

II. Gli antagonismi dei paesi rivieraschi

I 23.600 km di costa lungo l’Oceano Artico hanno da tempo assicurato ildominio russo della regione, nonostante le controversie militari “contenute” con la Norvegia.

Oslo e Mosca: “compartimentare” e “concordare questioni marittime”
Bruno Tertrais, vicedirettore della Fondazione per la ricerca strategica (FRS), ricorda in un articolo del 12 gennaio 2019 che “l’esercizio del La NATO, Trident Juncture 2018 , ha nuovamente attirato l’attenzione sull’Artico , in particolare a causa della “reazione russa”. ”

La disputa storica tra Norvegia e Russia è antica a causa della loro vicinanza geografica al confine settentrionale e dei possibili “tracimazione” delle attività militari russe, nonostante le ripetute riassicurazioni da quel paese.
Tuttavia, esiste una cooperazione rafforzata tra i due stati per il salvataggio in mare:
Oslo ammette nel 2019 che la Russia è una “sfida strategica ma non una minaccia”, i russi che sanno “compartimentare” e questa circostanza di “cooperazione” nell’Artico è mantenuto.

Il caso delle Svalbard

L’arcipelago delle Svalbard è sotto la sovranità della Norvegia dal Trattato di Parigi del 1920, che prevede “la parità di trattamento tra i firmatari per le attività economiche ma vieta l’istituzione di basi militari”.
Il business del carbone viene abbandonato dai norvegesi a causa della difficoltà di sfruttamento e del declino di questa energia. Tuttavia, i russi mantengono una presenza di quasi 500 “minatori” stabiliti con le loro famiglie nel fiordo di Longyearbyen (Pyramiden, …) anche se le miniere sono appena sfruttate.
I norvegesi hanno poi trasformato l’arcipelago in una base di ricerca scientifica che accoglie ricercatori da tutto il mondo, sistemati paese per paese in stazioni “nazionali” ben distinte. La Cina è appena entrata nella base di Longyearbyen.
Nel 2006, la “stabilità” del sottosuolo ha persino permesso di installare nell’arcipelago delle Svalbard, vicino a Longyearbyen, la riserva mondiale di “semi”. Questa “volta mondiale del grano” scavata nel fianco della montagna a una profondità di 120 metri è stata progettata per proteggere i semi delle colture alimentari in tutto il mondo. Nel maggio 2017, la volta è stata allagata a causa dello scioglimento del permafrost a causa del riscaldamento globale. La banca del seme sarebbe rimasta intatta.

Situazione tesa per le acque internazionali
La Convenzione di Montego Bay del 1982 sulla delimitazione marittima mondiale ha riconosciuto la sovranità russa sulle terre di Francis Joseph, ma ne ha limitato lo spazio territoriale.
Tra la Norvegia e la Russia persistono difficoltà a delimitare le zone di pesca, soprattutto perché i paesi del Nord Europa ritengono, al di là dei trattati, che abbiano anche un diritto di accesso a queste acque per la pesca del granchio.
“L’attuale equilibrio” potrebbe continuare a causa delle convergenze economiche e militari di interesse.

Russia
Durante tutto il periodo sovietico, la Russia aveva, de jure o de facto , un accesso limitato alle regioni artiche, tra cui lo Stretto di Bering e il porto di Murmansk, una distanza di 5.700 km inclusa una parte occidentale libera di gelato tutto l’anno (Kola Peninsula, Murmansk).
Tuttavia, l’accesso dall’Oceano Artico (Mare di Chukchi) all’Oceano Pacifico (Mare di Bering) è “complicato” in quanto se lo Stretto è largo solo 85 km, è ostruito da Arcipelago dei Diomede …
Numerosi arcipelaghi, tra cui Nouvelle-Zemble, permisero ai russi di moltiplicare l’istituzione di relè terrestri per installare centri di test nucleari.
Quali sono i nuovi paradigmi?

III. I nuovi paradigmi del 21 ° secolo

Le rivalità della fine del XX secolo sono esacerbate nel XXI secolo; riguardano la sovranità del passaggio a nord-est, la delimitazione delle zone di pesca e la corsa internazionale alle risorse minerarie e petrolifere.

L’avidità ora riguarda tre aree: lo sfruttamento dei minerali, le terre rare e gli idrocarburi, l’accesso al passaggio a nord-est e la delimitazione delle zone di pesca. I conflitti di frontiera sono ora esacerbati sopra e sotto il ghiaccio .
Il riscaldamento globale sta colpendo principalmente le regioni dell’Artico (e dell’Antartico) con l’effetto immediato dello scongelamento del permafrost, con lo scioglimento del ghiaccio marino che garantisce il libero accesso al passaggio a nord-est durante il periodo estivo.
Di conseguenza, si stanno aprendo nuove rotte di navigazione, facilitando la circolazione delle navi, l’accesso alle zone di pesca e agli scantinati è più facile da esplorare e sfruttare anche se un disgelo troppo grande destabilizza i sottostrati di esplorazione in modo pericoloso.
Questa situazione indotta dal clima respinge le carte della sovranità internazionale e nuovi attori, in particolare Cina e Giappone , bramano questo nuovo El Dorado.
La domanda è se, dietro a questi effetti a cascata, le società di esplorazione e sfruttamento degli scantinati (miniere, idrocarburi) continueranno le loro attività. In effetti, le condizioni meteorologiche ostili per l’uomo e i macchinari, che causano una rivalutazione dei costi di produzione molto elevati a causa dei provati rischi di inquinamento marino e terrestre, potrebbero ostacolare questi sviluppi.

Il passaggio a nord-est e le sovranità economiche della regione
Lo scioglimento della banchisa ha dato un nuovo significato al progetto immaginato nel XVI secolo dagli esploratori europei per utilizzare il mitico passaggio del nord-est per attraversare le strade. tra Nord Atlantico e Nord Pacifico.
I primi tentativi risalgono al XVI secolo, ma non è stato fino al 1879 che un browser finlandese, AE Nordenskiöld, va da Atlantic Pacific utilizzando questo percorso seguito dal norvegese Roald Amundsen nel 1918 – 1920.
The Road Il Nord Marittimo senza ghiaccio durante l’estate artica è la via più breve dall’Europa all’Asia. Le navi sono scortate dai rompighiaccio nucleari russi per prolungare l’orario di apertura della traversata.
Due questioni importanti sono oggetto di discussioni molto tesi tra i paesi che si affacciano l’Artico , ma anche con i paesi europei e asiatici:
. da un lato, lo status giuridico delle rotte marittime dei passaggi nord-ovest e nord-est mentre si prevede un aumento della navigazione in queste aree: sono stretti internazionali o sono sotto la completa sovranità di Canada e Russia? 
. d’altra parte, la questione dell’estensione della sovranità economica sulle piattaforme continentali oltre le 200 miglia nautiche in vista dell’abbondanza di risorse naturali in due regioni.
Queste due prospettive, a volte contraddittorie per lo stesso stato, portano a giochi di alleanze spesso messi in discussione.
Il passaggio a nord-est diventa un centro di importanti rivalità in termini di sovranità nazionale.

Il passaggio a nord-est apre la strada a nuove rotte di navigazione competitive Negli
ultimi anni, il passaggio a nord-est ha attirato l’interesse della marina mercantile.
Anche se le navi portacontainer devono essere scortate dai rompighiaccio nucleari russi, a spese degli armatori, i viaggi tra il Pacifico e l’Atlantico sono notevolmente ridotti con differenze di circa il 40% per le navi provenienti dagli Stati Uniti. Giappone, 30% per quelli dalla Corea del Sud, 25% per quelli dalla Cina (Shanghai).

Questa riduzione dei tempi di consegna rappresenta una riduzione significativa del costo del carburante e della manodopera a bordo. Inoltre, non trascurabili, le compagnie assicurative non addebitano rischi per la pirateria marittima (a differenza della Somalia, del Golfo di Aden o, più recentemente, del Golfo di Guinea …). Infine, il passaggio non impone alcun vincolo di larghezza e tiraggio a differenza del Canale di Suez.

Nel settembre 2018, la nave da trasporto danese Venta dalla Corea del Sud di Maesk è arrivata a San Pietroburgo dopo un viaggio di 37 giorni attraverso lo stretto di Bering e lungo la costa settentrionale della Siberia. caricato con pesce russo congelato e componenti elettronici coreani. È la prima nave di questa categoria ad attraversare la rotta marittima settentrionale attraverso l’Artico russo con un carico commerciale a bordo.

La nave di 200 metri, del peso di 42.000 tonnellate vuote e con una capacità di 3.596 container TEU, è in grado di operare a temperature fino a -25 gradi Celsius e di farsi strada attraverso il ghiaccio baltico . Fa parte di una nuova serie di 7 navi portacontainer costruite nei cantieri navali cinesi Cosco di Zhoushan

Questo esempio illustra le prospettive commerciali del passaggio a nord-est, che consente agli armatori di guadagnare quasi due settimane rispetto alla classica rotta del canale di Suez. Se questa rotta è ancora difficile e costosa, la Russia e diversi paesi asiatici sono molto interessati alla prospettiva di ottenere rapidamente uno sviluppo commerciale redditizio. Alla fine di agosto 2019, molti media francesi hanno trasmesso la decisione del gruppo CMA-CGM, numero 4 al mondo nel trasporto marittimo, di “non navigare mai nell’Artico” per “proteggere l’ambiente e il pianeta” per “le generazioni future”. Secondo Mika Mered, questa sarebbe un’operazione di comunicazione “greenwashing”. Da seguire.

Risorse marine La

maggior parte delle risorse alieutiche sono ben note ma potrebbero presto mutare, spostarsi o scomparire, la temperatura dell’acqua e la sua salinità cambiano sempre più velocemente. Le specie del sud potrebbero migrare verso queste acque più fredde, ora più temperate.
Le normative internazionali in materia di pesca non si applicano ancora all’Artico centrale. La pesca commerciale è attualmente regolata dalla Convenzione internazionale del 1982 sul diritto del mare che non copre specificamente l’Artico o le sue particolarità.
Gli scienziati stanno già osservando che il volume elencato è molto limitato e temono già un esaurimento della risorsa a causa di un intenso sfruttamento industriale. Nel 2012 hanno parlato a favore di un precedente divieto di pesca. Allo stesso tempo, le flotte dei paesi asiatici si stanno avvicinando all’acqua libera: i consumatori di pesce giapponesi sono posizionati nelle zone di pesca e i principali porti cinesi sono a soli 8000 km dall’Artico …

L’Unione europea mantiene una posizione precauzionale sulla regolamentazione della pesca, ma la Norvegia, che non è un membro dell’UE, con la pesca e l’acquacoltura come il secondo più grande articolo di esportazione (dietro gli idrocarburi) gode di una situazione speciale, più favorevole.

Una terra che alimenta l’avidità e porta a rivalità contrastanti per la corsa alle materie prime

Durante la seconda guerra mondiale, le aree artiche erano già state esplorate, in particolare i campi petroliferi terrestri e le risorse minerarie già sfruttate.

Oil and Gas

Le prime piattaforme petrolifere sono apparsi nel 1930 in Venezuela, nel 1947 nel Golfo del Messico, e si moltiplicano nel Mare del Nord fino al 1960
non è stato fino al 1968 che il il petrolio fu scoperto in Alaska e, nel caso del Grande Nord, l’ostilità e la durezza del clima impongono condizioni di vita molto difficili per gli uomini e richiedono attrezzature e attrezzature tecniche molto robuste e costose; anche se il petrolio del Medio Oriente è ancora abbondante, facile da estrarre e competitivo.
Pertanto, le piattaforme petrolifere di Trading Bay (Alaska), situate su una stretta fascia costiera, sono molto spesso catturate nel ghiaccio e il loro funzionamento sospeso per diverse settimane.

Tuttavia, nonostante le difficoltà di estrazione e sfruttamento di queste materie prime, le grandi potenze si impegnano tutte in una corsa di velocità e intimidazione per affermare la loro forza di volontà e occupare posizioni geopolitiche.
Nel 2008, gli Stati Uniti hanno pubblicato un rapporto affermando che il 22% delle potenziali risorse energetiche sfruttabili sarebbe artico . Altri studi non concordano sul fatto che la risorsa gas / shale gas sarà molto più grande di quella del petrolio e sarebbe più facile da sfruttare sotto la piattaforma continentale e non sotto il mare.

Nel 2019 lo sfruttamento rimane incerto ma le crisi politiche o economiche potrebbero accelerare la ricerca. Queste fattorie rimarranno costose e ora l’opinione pubblica internazionale è molto più attenta alle questioni ambientali, tanto più incerta in quanto i rischi dell’inquinamento ambientale non sono ancora dominati a queste latitudini. Lo sviluppo di queste attività potrebbe quindi essere rallentato da molte incertezze.

Le compagnie

Shell hanno tentato di esplorare il mare di Chukchi al largo dell’Alaska, ma questa ricerca ha suscitato tanta controversia che Shell ha dovuto rinunciare a cercare di mantenere il progetto nonostante abbia speso miliardi di dollari.
Total, Engie ed EDF stanno cercando di essere presenti nell’Artico, ma in un contesto di declino delle tariffe globali per gli idrocarburi, molti progetti sono stati abbandonati o messi a dormire in questa regione.
Ciononostante, le esplorazioni continuano e le società francesi stanno stringendo collaborazioni con società canadesi (ENGIE detiene i diritti petroliferi al largo dell’isola di Baffin) o società russe che controllano meglio i rischi di questa regione (in particolare il Gazprom).
La Norvegia è oggetto di investimenti esteri, in particolare di EDF, e la compagnia petrolifera italiana ENI ha appena aperto una piattaforma petrolifera nell’Artico norvegese.

Minerali e terre rare Minerali e

terre rare sono diventati essenziali per i paesi che sono sempre più consumatori di nuove tecnologie che producono oggetti connessi e altri, la cui produzione richiede uranio, litio e altre risorse minerali.
Tuttavia, l’Artico conterrebbe riserve promettenti di questi materiali tra cui diamanti, oro, ferro, uranio e persino rubini.
Nell’ottobre 2013, il ministro dell’industria e dei minerali della Groenlandia, Jens-Erik Kirkegaard, annuncia la revoca del divieto di estrazione mineraria, in particolare per l’uranio. La London Mining britannica aveva già ottenuto la licenza per gestire un deposito di minerale di ferro situato a 150 km a nord-est della capitale Nuuk. Si prevede che questo sito produrrà circa 15 milioni di tonnellate all’anno e impiegherà da 1.000 a 3.000 persone nel tempo.
Dagli anni ’90, gli Inuit si sono opposti al lancio di progetti minerari a Nunavut. Ad esempio, il progetto di estrazione dell’uranio di Areva, situato nel sito di Kiggavik (Baker Lake), è stato oggetto di ritorsioni nel 2009 da un referendum locale. I popoli indigeni temono l’impatto delle miniere sul loro habitat e la lontananza del caribù, credendo che Areva abbia sottovalutato i rischi ambientali.
Entro il 2019, gli atteggiamenti degli Inuit stanno cambiando e alcuni membri delle loro comunità mostrerebbero interesse per queste nuove attività sulla base del fatto che il lavoro minerario avrebbe portato lo sviluppo nella regione.
Ma oggi dobbiamo contare su un’opinione internazionale che potrebbe opporsi alla creazione di aziende agricole non sufficientemente sicure che potrebbero modificare l’equilibrio ecologico della regione. Le organizzazioni internazionali ambientaliste avvertono della pericolosità di questi progetti; vedono questo come una minaccia al sistema ecologico dell’Artico, sostenendo che i pericoli di tale sfruttamento costituiscono minacce “irreversibili” per la flora e la fauna locali sia durante il normale funzionamento che in un caso molto critico di incidente industriale. Infatti, temperature gelide, condizioni meteorologiche estreme,
Inoltre, alcune comunità Inuit credono che le attività industriali, che inizialmente hanno portato al loro rapido sviluppo, sono ora considerate pericolose, soprattutto perché contribuiscono ad accelerare il riscaldamento globale, che minaccia i loro habitat e habitat. stili di vita.


Una strategia cinese aggressiva nell’Artico?

. La Cina sta portando avanti una vasta ricerca accademica dagli anni ’80 per preparare le attività future e sensibilizzare all’importanza socioeconomica di una forte presenza nell’Artico. Questo approccio apparentemente limitato al campo accademico fa anche parte del programma di Pechino per rafforzare il nazionalismo cinese. Queste pubblicazioni sono oggetto di disaccordi nel mondo accademico.
Tuttavia, la volontà di potere della Cina nell’Artico si sta sviluppando sul campo: nel 1992, prima che fosse ampiamente discussa l’apertura dei Passaggi, la Cina organizzò un primo programma di ricerca quinquennale con le università. da Kiel e Brema (Germania).
Nel 1994, la Cina ha acquisito un rompighiaccio ucraino per istituire un programma di ricerca polare coordinato da un’amministrazione cinese artica e antartica. In questa occasione, ha istituito la sua prima stazione scientifica a Ny Alesund. (Spitzbergen).
Parallelamente a queste attività, la Cina conduce una diplomazia molto sottile e molto attiva; ad esempio, un inaspettato riavvicinamento con l’Islanda con il quale sono stati conclusi sei accordi di cooperazione nei settori dell’energia e della scienza. La Cina ha inoltre firmato numerosi partenariati bilaterali di cooperazione politica ed economica con i paesi dell’Artico. Comprendono scambi accademici e scientifici, studi sulla navigazione artica, lo sfruttamento delle risorse naturali, …
Nel 2019, la Cina non (ancora) interviene nella governance del Consiglio artico, ma vuole far sentire la sua voce su questioni relative alle risorse naturali, alla navigazione e all’attuazione della Convenzione sul diritto del mare …

. In campo economico, la Cina ha un forte interesse per l’estrazione e l’estrazione di idrocarburi.
Ha quindi unito le forze con la società britannica London Mining, che sta iniziando a gestire un’importantissima miniera di ferro a Isua, nel sud-ovest della Groenlandia. A Nunavut, ha stretto una partnership con Wesco (Canada) per il deposito di minerale di ferro a Nunavut e ha acquisito una delle più grandi società canadesi (Canadian Royalties Inc.) per gestire un deposito di nichel a Nunavik, Nunavut. .
Nel campo degli idrocarburi, stiamo assistendo all’attuazione di strategie “incrociate” tra Russia e Cina. In effetti, la Russia, che controlla il passaggio a nord-est, e vuole sviluppare un massiccio sfruttamento delle risorse naturali nella sua zona è consapevole dell’interesse cinese per l’Artico. La Russia ritiene che la Cina potrebbe fornire il capitale necessario per questi nuovi progetti, anche se sarebbe un cliente preferito per l’uso della rotta marittima settentrionale.
Gli ostacoli sono duplici e di diversa natura: da un lato, la Cina ha appena scoperto giacimenti di petrolio di scisto molto importanti sul suo territorio, aumentando così le sue riserve locali, dall’altro le sue difficoltà tecniche per sfruttare i siti in l’Artico perché la Cina non ha una competenza tecnologica specializzata molto avanzata.
Per quanto riguarda la navigazione attraverso il passaggio a nord-est, la Cina si sta posizionando con molta forza per abbreviare i suoi viaggi sia per il trasporto di idrocarburi dalle risorse naturali artiche e di gas, sia per i manufatti.
I russi furono i primi a usare questa via di mare nel 2010 per consegnare petrolio in Cina. L’autocisterna di Baltica ha consegnato il condensato di gas naturale Murmansk a nord-est della provincia cinese dello Zhejiang.
Questa iniziativa è stata seguita dalla firma di un accordo bilaterale di cooperazione a lungo termine per la navigazione artica e lo sviluppo della rotta del Mare del Nord-Est tra la compagnia di trasporti russa Sovcomflot e China National Petroleum Corporation (CNPC). Questo accordo, firmato dai più alti dignitari dei due paesi, è stato ufficialmente dichiarato parte della strategia di cooperazione energetica sino-russa.

Questo accordo, oltre agli accordi esistenti, determina i termini di utilizzo congiunto del passaggio a nord-est. I due paesi perseguono obiettivi diversi: la Russia conta su un proficuo partenariato economico e la Cina su una nuova rotta marittima competitiva.
Questi sforzi di cooperazione sino-russa, avviati nel 2010, hanno dato risultati significativi: ci sono 5 transiti marittimi nel 2010, 34 nel 2011, 47 nel 2012 e la crescita è gradualmente confermata. Tuttavia, le navi cinesi sono ancora poche in numero, la maggior parte del traffico rimane dagli armatori russi o europei
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Lo scioglimento del ghiaccio impacchettato e della calotta di ghiaccio sono solo l’aspetto più spettacolare dei profondi sconvolgimenti che stanno cambiando strutturalmente il sistema ecologico della regione; c’è già un aumento delle precipitazioni, un aumento del rischio di tempeste e cicloni e incendi boschivi senza fine che causano molti decessi.
Questo nuovo ambiente crea certamente nuove opportunità economiche per i paesi non ripariali, ma acuisce nuove rivalità e cambia le relazioni politiche ereditate dai secoli precedenti. I nuovi concorrenti, asiatici e indiani, potrebbero rivendicare nuovi accordi.
Dagli anni 2000, il Canada e la Russia hanno combattuto per la sovranità sul Polo Nord. Sollevare una bandiera sul palo non è rilevante, ma nel 2007 i russi hanno inviato un sommergibile per piantare una bandiera sotto il mare
, quindi l’isola Hans, isola disabitata di 1,3 km2 e situata equidistante Tra Thule (Groenlandia) e Nunavut, le tensioni sono visibili a tutti mentre ogni paese invia soldati per occupare simbolicamente il terreno. I danesi hanno piantato la loro bandiera prima che il Primo Ministro canadese andasse lì. La domanda è “pendente” con le Nazioni Unite …
I canadesi affermano oggi che “ciò che accade nell’Artico non è irrilevante per il resto del mondo”, se non altro perché i livelli degli oceani sono già in aumento, le correnti stanno cambiando senza trascurare gli effetti terrestri già registrati nell’Artico, tra cui emissioni molto elevate di metano e meno riflessione della luce, …

Di fronte a queste nuove minacce, gli stati rivieraschi stanno accelerando le loro indagini cartografiche nella speranza di poter acquisire nuove aree nonostante i rischi di sfruttamento. Inoltre, le controversie sui confini non sono solo terrestri, ma possono anche essere giocate sotto il ghiaccio.
Infine, lo stato dei due attraversamenti nord-ovest e nord-est – acque interne, acque territoriali e stretto di Bering – è ancora oggetto di discussione sia da parte dei paesi rivieraschi sia dalla comunità commerciale internazionale.

Finché gli scontri sono limitati ai paesi rivieraschi, il Consiglio artico può contenere queste storiche volontà di potere. Ma nel 1996, Germania, Regno Unito e Polonia furono ammessi come “osservatori permanenti”. La Francia è entrata nel Consiglio solo nel 2000.
Quindici anni dopo, un rapporto interdipartimentale francese (2016), “La grande sfida dell’Artico”si concentra su questioni ambientali e sulla necessità di garantire il coinvolgimento della popolazione locale. Individua le opportunità per le aziende francesi che consiglia di avvicinarsi agli attori locali e stabilire partnership. I settori privilegiati, quelli in cui si potrebbe avanzare il progresso tecnologico francese, sono lo sfruttamento delle risorse minerarie e quello degli idrocarburi, la sorveglianza spaziale, le energie rinnovabili, il TIC e un turismo “equo”. Tuttavia, il coinvolgimento politico della Francia non sembra essere una priorità.
Ma da allora, nel 2013, il Consiglio ha ammesso Cina, Giappone, Corea del Sud, Singapore, India e Italia; come molti paesi asiatici (ad eccezione dell’Italia) molto determinati ad affermare la propria forza di volontà per accedere alle risorse minerarie e petrolifere e per utilizzare i due “passaggi” dell’Artico per accelerare le loro navi portacontainer quindi le loro navigazioni. I cartelli del ventesimo secolo potrebbero essere destabilizzati e il centro di gravità dell’economia globale potrebbe spostarsi verso i paesi asiatici e il Pacifico.

Copyright agosto 2019-Artaud / Diploweb.com

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NOTIZIE DA UN ALTRO PIANETA, di Pierluigi Fagan

NOTIZIE DA UN ALTRO PIANETA. La NASA ha pubblicato su Nature uno studio incredibile. Tramite osservazione satellitare, si sono accorti che il pianeta Terra è più verde di venti anni fa. Se ne sono accorti dopo un po’ dall’inizio del monitoraggio appunto venti anni fa, ed avevano pensato che questa ripresa del verde planetario fosse un prodotto inaspettato dell’esubero di CO2, una sorta di effetto benefico collaterale all’effetto ritenuto malefico dell’eccesso di emissioni, una applicazione della logica Zichichi, un maitre à penser che ultimamente ha molto seguito qui da noi.

Col tempo però, comparando le rilevazioni su mappe, hanno scoperto che tutto il rinverdimento planetario era concentrato in due zone di questo strano altro pianeta, le zone dette “Cina” ed “India”. Caramba, che sorpresa! Hanno poi scoperto che i gli abitanti di questo strano altro mondo, i cinesi, usano quello che chiamano “Esercito Popolare” per piantare alberi che contrastino l’avanzata dei deserti interni ed anzi, pare che questi strani esseri si siano messi in testa di rubare spazio al deserto stesso, piantando alberi a ripetizione. Un esercito di vangatori, che buffa idea, no? Mettete dei fiori nei vostri cannoni, diceva una antica canzone … . Si sono anche detti sorpresi del fatto che, alla stessa NASA, avevano letto i giornali che mostravano quanto pazzi fossero questi cinesi che si auto-soffocavano con l’emissione di CO2 a causa della dissennata idea di far avanzare il loro sviluppo. Ma allora non erano così pazzi se il satellite dotato addirittura di un Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer, o Modis (un po’ di auto-pubblicità su gli effetti meravigliosi degli investimenti in tecnologia ci vuole sempre, no?), mostrava questa massiccia avanzata del bosco cinese.

Quanto a quegli altri alieni degli indiani, alla NASA hanno scoperto che a furia di fare figli che chiedevano di mangiare, si sono messi a coltivare sempre più spazio con culture multiple. Insomma, i bizzarri indiani continuando pervicacemente a volersi nutrire con i vegetali, con l’agricoltura invece che le manipolazioni molecolari driven by biotecnologie di società quotate in borsa (creazione di valore dogma centrale della nostra forma di civiltà avanzata), piantano cose che poi crescono aumentando il verde. Che buffo, no?

Certo, che i cinesi siano strani visto che si ostinano a definirsi addirittura “comunisti”, si sa, ma gli indiani sarebbero pure “democratici”. Cose dell’altro mondo …

E dire che invece, qui nel nostro pianeta, il nostro campione del nuovo Sud America liberato dalla presa dell’illiberismo chavista-lulista, Bolsonaro, il verde lo sta eliminando. Mah, comunque in quell’altro strano pianeta del quale non avremmo notizie senza l’occhio vigile della NASA, anche gli etiopi stanno piantando alberelli, 350 milioni per la precisione in meno di dodici ore, giusto ieri. Su quell’altro pianeta sottosviluppato, deve esserci una strana epidemia di ragion pratica …

Mano umana (nome della strana specie che abita questo altro pianeta di esseri strani), non mano invisibile. La mano invisibile il verde lo distrugge per creare valore salvo poi mandare ragazzine con l’aria truce in giro per le grandi assemblee dei potenti a far da coscienza infelice che ammonisce. Qui da noi, allora, si scrivono corposi libri sull’Antropocene, usando carta che è presa dagli alberi che Bolsonaro sta buttando giù. Lì invece nell’altro pianeta, non scrivono libri ma prendono zappe e vanghe e piantano semi.

Chissà, magari invece che lo scontro delle civiltà e la guerra dei mondi, ci converrebbe copiare questi alieni animati da una ragione strumentale così diversa dalla nostra? Chissà, forse è una fake news della sezione orientalista della NASA …

[“Richiede una mente davvero insolita intraprendere l’analisi dell’ovvio” A. N. Whitehead]

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