DIALECTICUS NUNCIUS, di Massimo Morigi
Alfred Eisenstaedt – ‘Weathervane in Vermont’, early 1940
Dialecticvs Nvncivs, di Massimo Morigi
Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis
Il momento dialettico è il superarsi proprio di tali determinazioni finite e il loro passare nelle determinazioni loro opposte. La dialettica viene usualmente considerata come un’arte estrinseca che arbitrariamente porta confusione in concetti determinati e produce una semplice apparenza di contraddizioni in essi, in modo che non queste determinazioni, ma quest’apparenza sarebbe un nulla e l’intellettivo invece sarebbe il vero. Spesso la dialettica è anche nient’altro che una sorta di altalena soggettiva di ragionamenti che vanno su e giù e dove manca ogni contenuto effettivo e la nudità viene nascosta semplicemente dalla sottigliezza che produce un tale raziocinare. – Nella sua determinatezza peculiare la dialettica è piuttosto la natura propria, vera, delle determinazioni dell’intelletto, delle cose e del finito in generale. La riflessione è dapprima l’oltrepassare la determinazione isolata e il metterla in relazione; così questa determinatezza viene messa in rapporto e, per il resto, viene conservata nella sua validità isolata. La dialettica invece è questo immanente oltrepassare, in cui l’unilateralità e la limitatezza delle determinazioni dell’intelletto si espone per quello che è, cioè come la loro negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l’anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così come in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in Compendio, § 81
Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico,(1) oltre alla “falsificazione” di Marx, innumeri volte rappresentata da La Grassa in tutta la sua opera e ora per ultimo di nuovo molto opportunamente ripetuta nella Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli), la nascita mai avvenuta della nuova classe al potere del lavoratore collettivo cooperativo associato, sulla quale ci soffermeremo fra poco, siamo di fronte a due ulteriori “crampi” del pensiero marxiano che, uniti alla “falsificazione” di cui sopra ci consentono davvero, alla luce dell’impostazione conflittuale-strategica lagrassiana, di compiere un passo decisivo per lo sviluppo delle scienze sociali e storiche che, non solo rivoluzionino gli attuali paradigmi teorici, ma anche possano dare l’inizio ad una reale prassi sociale anch’essa rivoluzionaria rispetto agli stantii paradigmi politici democraticistici. Partiamo, molto semplicemente, dal passo fondamentale del Capitale dove Marx individua il carattere del tutto ideologico dell’allora (e tuttora) imperante economia politica: «Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale.»(2) Marx ci dice quindi, al contrario di quanto sostenevano gli economisti classici (e di quanto sostengono ancor oggi gli attuali economisti), che è la storia e non la natura a produrre la società dominata dal capitalismo e che, di conseguenza, le presunte leggi economiche non sono per niente naturali ma totalmente dovute all’umana evoluzione storica. Questo totale cambio di paradigma segna ad un tempo la grandezza ed anche l’enorme ed invalicabile limite di Marx (e di tutte le varie scuole di pensiero e di azione che da lui prenderanno origine). Detto in estrema sintesi: vero è che la società capitalistica e le presunte leggi dell’economia non hanno affatto l’ineluttabilità della natura ma sono di pura origine storico-sociale. Falso è, come invece traspare chiaramente dal testo appena citato, che sussista una suddivisione reale fra natura e storia. Come ho già affermato in altri luoghi, questa errata epistemologia è l’errore più grande di tutta la tradizione filosofica occidentale, alla quale, con risultati del tutto insoddisfacenti, cercarono di porre rimedio Hegel e Schelling e che, quindi, non si può fare particolare biasimo a Marx per esservi ricaduto. Ma se non si può certo biasimare in particolare Marx per questo errore, sul piano del giudizio storico sono del tutto da deprecare i problemi derivatine. La conseguenza, veramente nefasta, è stata una visione terribilmente ristretta del metodo dialettico dove da una parte, cioè nel cosiddetto Diamat – sviluppo teorico finale delle cosiddette tre pseudoleggi dialettiche di Engels illustrate nella sua Dialettica della Natura e nell’Anti-Dühring (conversione della quantità in qualità, compenetrazione degli opposti e negazione della negazione, tre leggi che sono la scimmiottatura della logica aristotelica) –, la dialettica è diventata una forma corrotta di pensiero positivistico e che, sulla linea dell’ineluttabilità di queste leggi pseudodialettiche engelsiane, ha smesso, appunto, di essere dialettica per trasformarsi in instrumentum regni dei regimi totalitari del socialismo reale; dall’altra parte, invece, cercando di preservare i limiti di libertà e di creazione prassistica dell’azione che dovrebbe consentire la dialettica stessa, si è cercato di staccare la dialettica dalla comprensione dei fenomeni naturali, gravissima perdita gnoseologica il cui esempio più famoso è quello di György Lukács, dove in Storia e Coscienza di Classe affermò che «Questa limitazione del metodo alla realtà storico-sociale è molto importante. I fraintendimenti che hanno origine dall’esposizione engelsiana della dialettica poggiano essenzialmente sul fatto che Engels – seguendo il falso esempio di Hegel – estende il metodo dialettico anche alla conoscenza della natura. Mentre nella conoscenza della natura non sono presenti le determinazioni decisive della dialettica: l’interazione tra soggetto ed oggetto, l’unità di teoria e praxis, la modificazione storica del sostrato delle categorie come base della loro modificazione nel pensiero, ecc. Purtroppo è qui impossibile discutere di questi problemi in modo più minuzioso.»(3) Altrove, sempre in Storia e Coscienza di Classe, Lukács sembra arrivare quasi ad un passo dallo scioglimento del nodo gordiano fra storia e natura che lo ha bloccato nel passo appena citato. Ad un passo senza mai arrivarci e non ci vuole molta immaginazione per vedere dove poggiasse questa impossibilità di “discutere di questi problemi in modo più minuzioso”: certamente non solo di natura teorica ma, soprattutto, di natura molto, molto pratica …(4) Torniamo ora a Marx, quando afferma nella prefazione alla prima edizione del Capitale con una evidente contraddizione (per niente dialettica) rispetto al passo sempre del Capitale appena citato: «Una parola ad evitare possibili malintesi. Non ritraggo per niente le figure del capitalista e del proprietario fondiario in luce rosea. Ma qui si tratta delle persone solo in quanto sono la personificazione di categorie economiche, che rappresentano determinati rapporti e determinati interessi di classe. Il mio punto di vista che considera lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, non può assolutamente fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente possa innalzarsi al di sopra di essi.»(5) Qui la società è quindi per Marx assimilabile ad una sorta di processo naturale, gli uomini piuttosto che agire in esso sono agiti da forze che li sovrastano e la loro natura, insomma, è quella del Gattungswesen, un ente naturale generico determinato dalle leggi e dalle forze che agiscono nella società stessa.(6) In questo passaggio si sviluppa sì una linea di pensiero che unisce società e natura ma è una linea di pensiero similpositivistica, anticipatrice della Dialettica della Natura e dell’ Anti-Dühring di Engels prima e poi del Diamat di cui abbiamo già detto. Veniamo ora ai nostri giorni. IL conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa nasce dopo la definitiva consunzione, filosofica prima che politica, di tutta la tradizione marxista che, se a livello storico-politico, è crollata per la tragicomica inefficienza economica dei vari sistemi socialisti effettivamente storicamente realizzatisi unito alle lusinghe (totalmente) false del paese dei balocchi della forma di stato “democratico-capitalistica”, sul piano teorico e filosofico aveva fatto bancarotta in ragione del suo economicismo, che prendeva le forme ideologiche di stato “diamattine”, di un positivismo degradato, di modelli economici meno inefficienti di quelli del cosiddetto “libero mercato” capitalistico e, last but not the least, di una visione filosofica dell’uomo come Gattungswesen, un ente naturale generico completamente sottoposto alle determinazioni sociali, con la non irrilevante conseguenza che alla mitizzata classe operaia (mito che era una versione degradata del marxiano lavoratore collettivo cooperativo associato) veniva riservato un trattamento da Gattungswesen, appunto, mentre alla nomenklatura veniva, in pratica, violentemente concesso di “elevarsi al di sopra” di essa; realizzando cioè nella prassi, a solo uso e consumo della burocratica classe dominante, un compiuto modello conflittuale-strategico, in cui il dominato era la tanto mitizzata (e presa per il fondelli) classe operaia-gattungswesen. Il conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa, portando esplicitamente il conflitto al centro dell’interpretazione della società, mantiene e approfondisce la fondamentale critica marxiana sulla naturalità dell’economia politica, chiude quindi definitivamente con tutta questa tradizione marxista economicistico-positivistica da una parte (diamat, altrimenti detto marxismo orientale) o dialettico-dimidiata dall’altra (il cosiddetto marxismo occidentale: uno dei massimi esempi di questa seconda – ben più feconda però per il futuro, nonostante le segnalate contraddizioni, della derivazione diamattina – quella avanzata da György Lukács in Storia e Coscienza di Classe) e però, per il completo sviluppo rivoluzionario del suo paradigma, è per il Repubblicanesimo Geopolitico assolutamente necessario un dialettico riorientamento gestaltico sia del conflitto strategico che del suo stesso concetto.(7) Questo riorientamento passa A) attraverso un deciso abbandono della mainstream impostazione della cultura occidentale che vede una suddivisione fra storia e natura (o cultura e natura: sotto questo punto di vista, l’annullamento cioè dell’antidialettico discrimine fra natura e cultura, è possibile ricuperare e superare, rovesciandolo, il significato del concetto di alienazione, facendolo, cioè, poggiare saldamente sui piedi di un sodo realismo politico e di un’altrettanto concreta epistemologia politico-filosofica prassistica anziché su una testa positivista e/o genericamente gattungsweniana; l’uomo, comunque si intenda il marxiano Gattungswesen – in senso deterministico-positivista o come un segno delle sue potenzialità e libertà – non è un ente generico, ma, se vogliamo, un ente naturale strategico, anzi il massimo ente strategico prodotto dalla natura, o per dare conseguente e migliore definizione a quanto fin qui affermato, il massimo ente strategico prodotto dalla natura/cultura – per un approfondimento su questo inestricabile rapporto natura/cultura e sull’uomo ente naturale strategico, il presente nunzio anticipa Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico per una Fenomenologia della Dialettica della Natura e della Cultura attraverso il Conflitto Espressivo-Cognitivo-Evoluzionistico-Strategico. Nuovo Nomos della Terra, Nuovo Principe, Rivoluzione e Dialettica della Filosofia della Praxis Espressiva, Conflittuale e Strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (Aufhebung della Rivoluzione e dell’Azione Strategica nello Sviluppo Storico-Dialettico della Cultura e della Natura), di prossima pubblicazione –, una nuova semantica dell’alienazione così interpretata ed indagata, contrariamente all’ accezione negativa marxiana, attraverso il rioerientamento compiuto su di questa dal concetto e dalla prassi dell’azione-conflitto strategico e, perciò, come la felice concreta manifestazione della dialettica di tale conflitto; felice da un punto soggettivo, è ovvio, solo se questo processo alienante è vissuto consapevolmente e strategicamente da un agente alfa-strategico e non risulta, invece, dall’imposizione di un dominio esterno di un agente alfa-strategico su un agente omega-strategico – sulle dinamiche dei rapporti fra agenti alfa-strategici e agenti omega-strategici, i portatori storici, quest’ultimi, del negativo marxiano significato originario di ‘alienazione’ e, quindi, il permanente lato ‘infelice’ dell’alienazione, cfr. la Teoria della Distruzione del Valore. Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il Superamento/conservazione del Marxismo, riferimenti bibliografici in nota 1) e passa quindi B) attraverso un ripudio delle categorie positivistiche, in primis quella di legge di natura deterministica e immodificabile ed immutabile. Insomma, e qui dissento da La Grassa, il punto non è se il pensiero possa o meno riprodurre la realtà, il punto è che il pensiero, se realmente pensiero strategico, produce la realtà. E ora mi taccio, in parte perché la giustificazione di questa mia ultima affermazione dovrebbe essere trovata nelle parole che l’ hanno qui preceduta (e che, oltre a quanto si è già precedentemente scritto o ora espresso nel presente Dialecticvs Nvncivs – che introduce le prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico che svolgono, attraverso il taglio del nodo gordiano natura/cultura o storia/natura, la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico stesso –, sono sulla falsariga di una filosofia della praxis che, partendo dalle marxiane Glosse a Feuerbach, approda prima in Giovanni Gentile – cfr. del filosofo dell’attualismo La Filosofia di Marx del 1899 – e poi nella filosofia della praxis compiutamente espressa da Antonio Gramsci nei Quaderni del Carcere)(8) e in parte perché, oltre La Grassa, altri grandi (vedi la teoria del rispecchiamento di Lenin(9) in Materialismo e Empiriocriticismo), hanno sempre espresso una differente opinione, un contraddittorio che necessita acribia e una puntuta analisi delle relative fonti e non certo il presente discorso da intendersi solo come inquadramento generale – anche se con tutta la dignità ed autorevolezza che, in via di consolidata storica consuetudine, ogni nunzio merita che gli si accordi – del necessario e, ormai, non più rinviabile dibattito.
Massimo Morigi, luglio-dicembre 2016
NOTE
1-L’occasione per l’elaborazione di questo punto di vista, Dialecticvs Nvncivs, oltre che dai precedenti lavori sul Repubblicanesimo Geopolitico, nasce originariamente come commento di Massimo Morigi in data 16 luglio 2016 all’intervista a Gianfranco La Grassa Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli). Il commento all’intervista è agli URL http://www.conflittiestrategie.it/commento-di-massimo-morigi-allintervista-di-gianfranco-la-grassa-intervista-teorica-di-g-la-grassa-di-f-ravelli-pubblicata-su-conflitti-e-strategie; http://www.webcitation.org/6j4Ecswj9;
http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.conflittiestrategie.it%2Fcommento-di-massimo-morigi-allintervista-di-gianfranco-la-grassa-intervista-teorica-di-g-la-grassa-di-f-ravelli-pubblicata-su-conflitti-e-strategie&date=2016-07-17 ed è presente pure come commento sulla pagina di presentazione dell’intervista stessa caricata su Internet Archive all’URL https://archive.org/details/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi (l’intervista è poi scaricabile direttamente sempre su Internet Archive all’URL
https://ia601204.us.archive.org/32/items/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi/IntervistateoricaAG.LaGrassadiF.Ravelli.html). L’ Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli) è stata inizialmente pubblicata in data 15 luglio 2016 sul sito di “Conflitti e Strategie” e su questo sito è all’URL http://www.conflittiestrategie.it/intervista-teorica-a-g-la-grassa-di-f-ravelli e, vista la sua importanza si è pure provveduto di caricarla, oltre presso i già citati https://archive.org/details/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi e https://ia801204.us.archive.org/32/items/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi/IntervistateoricaAG.LaGrassadiF.Ravelli.html, anche ricorrendo alla ridondanza di WebCite all’URL http://www.webcitation.org/6jFLY1dNh. Per ultimo si segnala che il Dialecticvs Nvncivs è stato preceduto, oltre che da tutta la precedente elaborazione presente nel Web sul Repubblicanesimo Geopolitico, specificatamente da tre lavori: la Teoria della Distruzione del Valore. (Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il Superamento/conservazione del Marxismo), Repubblicanesimo Geopolitico. Intervista al professor Massimo Morigi e Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Saggio sulla Moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più Breve Nota all’Intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi). La Teoria della Distruzione del Valore, oltre che essere sparsa in vari luoghi del Web, è recuperabile agli URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore;https://ia800501.us.archive.org/20/items/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F20%2Fitems%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf&date=2015-12-04 e http://www.webcitation.org/6dWOlPr8n. L’intervista sul Repubblicanesimo Geopolitico, curata da Giuseppe Germinario, oltre ad essere visionabile su “Conflitti e Strategie” e su YouTube, rispettivamente agli URL http://www.conflittiestrategie.it/repubblicanesimo-geopolitico-intervista-al-professor-massimo-morigi e https://www.youtube.com/watch?v=VeOUHYC8zq8, è stata anche caricata su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi e https://ia600508.us.archive.org/8/items/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi.mp4. Infine Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Saggio sulla Moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più Breve Nota all’Intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi), prima parte sotto l’aspetto di una morale pubblica dialettica e di una conseguente filosofia della prassi che trovi la sua raggiunta entelechia in una pienamente manifestata epifania strategica di un trittico sul Repubblicanesimo Geopolitico che comprende oltre il presente lavoro anche il di prossima pubblicazione Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico (cfr. in proposito la nota introduttiva di Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats), è anch’esso tramite motori di ricerca reperibile in vari luoghi del Web o può essere direttamente visionabile e scaricabile ai seguenti URL https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297;https://ia801501.us.archive.org/11/items/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSullaMoralitaDelRepubblicanesimoGeopolitico.pdf;http://www.webcitation.org/6lXceRo2L;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Farchive.org%2Fdetails%2FRepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297&date=2016-10-26; https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf:DOI: 10.13140/RG.2.2.11532.72320.
2- Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200.
3- György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, Milano, Sugar Editore. p. 6. In Codismo e Dialettica, concepito per rispondere alle accuse di chi aveva giudicato Storia e Coscienza di Classe di non essere opera marxista ma bensì idealista, Lukács comincia a rispondere a questi problemi davvero in modo più minuzioso e, a proposito del problema dell’applicabilità nei vari campi del sapere e dell’attività umana del metodo dialettico, fornisce una regola veramente aurea che oggi è anche fatta propria – ma poco merito, un po’ di storia, di tragedie, di filosofia, di scienze biologiche, informatiche, fisiche, di epigenetica, di teoria del caos e di meccanica quantistica sono da allora passate sotto i ponti, discipline per una trattazione delle quali, sotto l’aspetto del loro decisivo apporto per una rifondazione della dialettica, il nunzio rimanda ancora a Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, cit., di imminente pubblicazione – dalla dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico. Questa regola si esprime in questi termini: non è che la spiegazione dialettica debba sostituire in toto la spiegazione meccanicistico-causale ma deve essere in testa, rispetto a quella meccanistico-causale, nella gerarchia della preferenza fra le due (e oltre sotto l’aspetto dell’explanandum per il quale deve occupare questo primo posto, dal punto di vista dell’explanans, cioè della dialettica dell’origine del modello teorico stesso, occupa questo primato gerarchico perché 1) per quanto sia meccanico, un modello esplicativo esso come modello risale come genesi alla struttura dialettica della totalità, se no si è in presenza, per la sua isolata e presunta autosufficienza, ad un principio teologico, valido unicamente in ragione di una cieca fede nello stesso e quindi 2) esso è concretamente ed operativamente costituito da elementi del mondo anch’essi rapportati empiricamente e dialetticamente con la totalità, se no si ricade in fattispecie religiose già evidenziate in 1). Che poi non tutte le spiegazioni impiegate dalle scienze, allo stato attuale dello sviluppo delle conoscenze e del conseguente concreto sviluppo della dialettica della filosofia della praxis, non rispondano formalmente ad una legalità dialettica, poco importa. Quello che importa realmente è essere consapevoli della necessità di questo rovesciamento nella gerarchia delle spiegazione e della dialetticità del reale, quella dialetticità che se assunta come forma mentis ed agendi è la sola condizione necessaria e sufficiente per generare mutamenti autenticamente rivoluzionari e quindi veritativi: «Nel materialismo dialettico il problema strutturale viene risolto storicamente (cioè mostrando la genesi concreta, reale e storica della struttura data), e il problema storico viene risolto teoricamente (cioè mostrando la legge che ha prodotto il contenuto concreto dato) [il Repubblicanesimo Geopolitico dice: cioè mostrando che è il principio dell’azione/conflitto/dialettico/epressivo/strategico – e non una galileana meccanica e predestinante legalità esemplata sul modello di presunte leggi di natura – ad avere prodotto il contenuto concreto dato, ndr]. Ecco perché Marx, a proposito del susseguirsi delle categorie economiche, scrive: “La loro successione è determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, e questo è esattamente l’inverso di quello che sembra essere il loro ordine naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico”. [ndr: Karl Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, introduzione di Maurice Dobb, traduzione di Emma Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 196] Da ciò comunque, cioè dal fatto che il processo oggettivamente reale è esso stesso dialettico e che l’origine reale e l’intreccio della conoscenza che gli corrisponde adeguatamente siano essi stessi dialettici, non segue affatto che ogni conoscenza debba apparire nella forma di conoscenza del metodo dialettico [corsivo di Lukács: nel Dialecticvs Nvncivs le evidenziazioni del testo delle citazioni, dove non di mia espressa autoattribuzione, sono di Lukács]. L’affermazione del giovane Marx: “La ragione è sempre esistita ma non sempre in forma razionale” [ ndr: lettera di Karl Marx ad Arnold Ruge scritta nel settembre 1843 da Kreuznach, in Arnold Ruge, Karl Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di Gian Mario Bravo e traduzione di Anna Pegoraro Chiarloni e Raniero Panzieri, Milano Edizioni del Gallo, 1965, p.81] vale anche per la dialettica. Dipende dalla struttura economica della società e dalla posizione di classe che il conoscente assume in essa, se fino e a che punto un rapporto oggettivamente dialettico assuma forma dialettica nel pensiero, se e fino a che punto gli uomini possano diventare coscienti del carattere dialettico del rapporto dato. In determinate circostanze può accadere che esso non appaia affatto dal punto di vista del pensiero conoscitivo; oppure può apparire sotto forma di contraddizione irrisolvibile, come antinomia; può essere compreso adeguatamente sotto certi aspetti, senza che possa essere determinato correttamente il suo giusto posto nello sviluppo complessivo etc. Da quanto abbiamo detto finora è chiaro che tali conoscenze possano comunque essere, almeno in parte, oggettivamente giuste. Ma solo quando lo sviluppo storico della società è progredito fino al punto che i problemi reali che stanno alla base di queste contraddizioni etc. sono storicamente risolti, oppure che la loro soluzione non è lontana, solo allora può essere trovata la conoscenza teoricamente giusta e dialettica. In altre parole: la soluzione, il superamento di una contraddizione dialettica viene prodotta dalla realtà nel processo storico reale. Il pensiero può, a certe condizioni, anticipare mentalmente questi processi, ma solo quando il loro superamento esiste oggettivamente nel processo storico effettivo come una reale tendenza di sviluppo (anche se magari come tendenza ancora immatura dal punto di vista della prassi). E se questo rapporto con il processo storico reale non è divenuto pienamente cosciente, se quel problema dialettico non viene ricondotto al suo fondamento concreto e materiale, l’anticipazione mentale deve necessariamente rimanere incastrata nell’astrazione e nell’idealismo (Hegel).»: György Lukács, Codismo e Dialettica (titolo originale del manoscritto: Chvostismus und Dialektik), ed. it. Idem, Coscienza di Classe e Storia: Codismo e Dialettica, postfazione di Slavoj Žižek, Roma, Alegre, 2007, pp. 86-88. Purtroppo, la succitata regola d’oro non doveva risultare, evidentemente, di facile applicazione, perché costante è in Codismo la tensione fra la piena applicazione della predetto ordine gerarchico fra i due tipi di spiegazione e un piegarsi agli idola fori della gnoseologia del tempo che, nonostante quanto avrebbe voluto una conseguente ed integrale applicazione della appena esposta filosofia della prassi, finiva con l’accettare, de facto, una divisione di ambiti – usando un’area semantica compatibile con la Weltanschauung conflittuale/strategica della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico, noi ancor meglio diremmo una divisione delle sfere d’influenza – fra spiegazione meccanicistica e spiegazione dialettica, con complementariamente inevitabile separazione ontologica fra società e natura che da questa impostazione natural-meccanicistica consegue: «Fino a che, tuttavia, non siamo in grado di mostrare in senso storico-genetico l’origine delle nostre conoscenze a partire dalla loro base materiale concreta – cioè non solo il fatto “che” esse siano, ma anche “cosa” e “come” – come fece Marx per le nostre conoscenze storico-sociali, la nostra visuale sarà manchevole di un importante e oggettivo momento della dialettica: la storia. Ribadisco che non mi passa affatto per la testa di negare che le scienze della natura comprendano elementi della visione storica, che in essi ci sono gli inizi (Kant-Laplace, Darwin etc.) di quella “scienza unitaria della storia” richiesta da Marx. Anche la conoscenza sociale premarxista conteneva elementi storici (Steuart, Hegel, gli storici francesi etc.) ma una conoscenza realmente e storicamente dialettica la si trova solo in Marx ed è sorta come conoscenza dialettica del presente in quanto momento del processo complessivo. Nessuno vorrà però sostenere che questi elementi storici si trovino al centro delle problematiche delle moderne scienze della natura o che proprio le scienze naturali più sviluppate e che fanno da modello metodologico per le altre si occupino coscientemente di queste problematiche. Viste tali questioni, sarebbe necessario, da un lato, chiarire per quali epoche o periodi valgano determinate conoscenze, poiché esse colgono col pensiero i loro rapporti specifici, storici, oggettivi e reali; dall’altro comprendere dialetticamente la genesi necessaria delle conoscenze a partire dallo stesso processo storico oggettivo e reale. (Per quanto concerne le conoscenze economiche si esprime chiaramente Engels). In che misura le conoscenze della natura possono essere trasformate in conoscenze storiche, ovvero, se si diano fatti materiali in natura che non mutano mai la loro struttura, oppure soltanto in periodi di tempo così lunghi che essi non possono essere percepiti come mutamenti dalla conoscenza umana, non è questione che possa essere trattata qui, poiché anche laddove ci sembra che sviluppi storici sono avvenuti, il loro carattere storico può ora essere affermato solo in misura molto limitata. Ciò significa che noi siamo spinti fino a conoscere che la storia dell’umanità deve essere preceduta da uno sviluppo storico oggettivo che copre un infinito lasso temporale, ma le fasi di passaggio tra questa storia e la nostra ci sono tuttavia note solo in piccola parte o, addirittura, per nulla. E ciò non avviene perché materiali a disposizione oggi siano ancora insufficienti o a causa del temporaneo sottosviluppo dei nostri metodi di ricerca (molte scienze della natura surclassano le scienze della storia per quanto concerne la precisione [sottolineatura nostra ad evidenziare quanto anche in Lukács agisse prepotentemente il pregiudizio di una maggiore “scientificità” delle cosiddette scienze della natura rispetto alle scienze sociali e storiche: per un definitivo e minuziosamente argomentato rigetto di questo fondamentale e fondante errore di tutta la tradizione filosofica della modernità occidentale, errore che non è altro il negativo fotografico dell’altro fondante e fondamentale errore di questa tradizione, cioè l’illusoria e fantasmatica separazione ontologica ed empirica fra natura e cultura, Dialecticvs Nvncivs rinvia per l’ennesima volta a Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, cit., di prossima pubblicazione]) ; ciò avviene perché la capacità di scoprire i fondamenti materiali della conoscenza e di derivare dialetticamente quest’ultima dalla sua base materiale, non è stata ancora prodotta dallo sviluppo oggettivo reale. Gli scienziati migliori si trovano perciò dogmaticamente prigionieri, come ad es., Ricardo rispetto alla società capitalistica (i peggiori sono divorati dallo scetticismo e possono essere qui considerati solo come sintomo di una crisi). Ciò non impedisce loro affatto – come mostra l’esempio di Ricardo – di raggiungere conoscenze oggettivamente valide, lo stesso Ricardo ne ebbe in alcuni campi. Ciò che è loro impossibile è di chiarire le contraddizioni che sorgono dal materiale concreto e mostrarle come contraddizioni dialettiche, di mostrare i momenti singoli come momenti di un processo storico unitario e, come è stato indicato prima, di ordinarli al tempo stesso teoricamente e storicamente in un contesto complessivo. Una tale storicizzazione delle scienze della natura, una crescente penetrazione nella loro origine (ad es., la consapevolezza del loro carattere geocentrico) le renderebbe tanto poco “relativiste” quanto lo sono diventate le scienze sociali come risultato della penetrazione marxista nella genesi reale della [sic] loro conoscenze. Tutto l’opposto. »: Ivi, pp. 96-97. È sempre difficile discernere in un autore (come nella vita di tutti i giorni) quanto una scelta sia dettata da convinzione e quanto, invece, dalla preoccupazione – molto concreta e realistica nel caso di Lukács – delle conseguenze personali e politiche del comportamento o del messaggio che si intende rendere pubblico. Le parole conclusive di Codismo appena citate, nel loro incerto e tortuoso procedere teorico, ci fanno propendere per la seconda ipotesi ma non nel senso di una egoistica tutela personale ma nel significato di un tentativo di tutela, anche se solo difensivistico, della dialettica dalla deriva positivistica che poi avrebbe definitivamente preso la forma del Diamat staliniano: «Per Engels, dunque, l’aver parzialmente omesso le mediazioni che gli hanno reso possibile la sua conoscenza dialettica e che appartengono oggettivamente a questa conoscenza, costituisce semplicemente un episodio. E se si trattasse solo di Engels, si potrebbe tranquillamente lasciare cadere la questione, oppure essa potrebbe essere una questione inessenziale da trattare in modo storico-filologico. Poiché però queste lacune vengono ampliate entusiasticamente ed erette a Sistema del Marxismo allo scopo di liquidare la dialettica, allora bisogna sottolineare con forza questi aspetti. La tendenza di Deborin e Rudas è evidente: essi vogliono – usando le parole di Marx ed Engels – fare del materialismo storico una “scienza” nel senso borghese, poiché essi non possono rinunciare a ciò che tiene in vita la società borghese e la sua concezione della storia, né al carattere puramente spontaneo dell’accadere storico, perché essi […: periodo non completo perché la pubblicazione di Codismo si è basata su un manoscritto mutilo di alcune pagine, ndr ]. »: Ivi, p. 118. La realtà teorica e politica era invece molto più cruda e (in tutti i sensi) molto più pericolosa di quella che in queste parole conclusive di Codismo Lukács si sforzava di voler rappresentare. L’abbandono e/o il depotenziamento della dialettica con la conseguente deriva positivistica in Engels non era un episodio ma la sua vera nota di fondo (vedi Anti-Dühring e Dialettica della Natura, opere nelle quale vengono esplicitate, in una vera e propria inconsapevole parodia della logica aristotelica, le tre farlocche engelsiane leggi dialettiche: la legge della conversione della quantità in qualità, la legge della compenetrazione degli opposti, la legge della negazione della negazione) e Deborin e Rudas non intendevano affatto perpetuare culturalmente e socialmente la società borghese ma criticando Storia e Coscienza di Classe (anche se la critica partiva dal corretto presupposto dell’insostenibile e niente affatto dialettica contraddittorietà dell’impostazione lukacsiana di una divisione fra società e natura – separazione, fra l’altro, come abbiamo visto, molto “opportunistica” e alla quale nemmeno Lukács, ad attenta analisi, mostra di credere – dove per la natura non sarebbero valse le impostazioni dialettiche), agivano oggettivamente e con convinzione nel senso di creare sì una dialettica unificata fra questi due ambiti ma una dialettica falsa e positivizzata alla Engels. Il senso profondo quindi della reazione di Lukács, vero e proprio Defensor Dialecticae, era di creare una sorta di ridotta gnoseologica dove almeno lì sarebbe valsa la vera dialettica. Evidenti ragioni storico-politiche del secolo della violenza e degli sterminii organizzati su base scientifica e dei totalitarismi prima ancora che ragioni teoriche, resero questa difesa impossibile. Compito di chiunque voglia lasciarsi per le generazioni future lo strazio novecentesco alle spalle non è tanto proclamare vuoti slogan politici (oggi dopo la caduta dei regimi socialisti, totalmente di marca democratico-liberal-liberista) ma raccogliere quella bandiera dialettica che all’insegna di una vera filosofia della prassi possa costituire un reale progresso (per una volta sia consentito usare questo termine) rispetto agli immani lutti che non solo non ci siamo lasciati alle spalle ma che continuano non contrastati se non dalle vuote retoriche democraticistiche, una “distrazione/distruzione di massa” democraticistica vero frutto autentico e legittimo del secolo che ci ha lasciati poco più di un decennio fa e che non contrastato continua nei suoi nefasti – ma perciò pure rivoluzionari – effetti anche nel presente.
4- Se non arrivò mai a compiere questo passo, Lukács, attraverso il magistero marxiano ed in asprissimo contrasto col revisionismo, comprese assai bene la falsa “naturalità”, la farlocca “inevitabilità” ed il presunto “determinismo” delle presunte “leggi naturali” dell’economia. Storia e Coscienza di Classe è totalmente percorsa da questa consapevolezza prassistica e citando forse il più efficace di uno dei suoi tanti passaggi in proposito, il presente Dialecticvs Nvncivs ribadisce con ancora maggiore energia e convinzione, se possibile, la ridicolaggine della credenza nell’esistenza di leggi di natura economiche che non derivino dalle decisioni degli uomini (o, per meglio dire, da azioni/conflitti strategici che vengono compiuti più o meno consapevolmente da agenti singoli o collettivi: per un primo approccio del Repubblicanesimo Geopolitico sulla problematica del conflitto strategico, cfr. Teoria della Distruzione del Valore agli URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore;https://ia800501.us.archive.org/20/items/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F20%2Fitems%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf&date=2015-12-04;http://www.webcitation.org/6dWOlPr8n). Ovviamente, tutta la filosofia della praxis del discorso marxiano e lukacsiano deve essere riorientato smontando la controdialettica (e veramente oggettivamente controrivoluzionaria) divisione fra natura e cultura: «Solo in questa coscienza [di classe, ndr] infatti viene in luce la profonda irrazionalità che sta in agguato dietro i sistemi razionalistici parziali della società borghese e che si manifesta altrimenti in modo catastrofico, in eruzioni improvvise, e proprio per questo senza modificare alla superficie la forma e la connessione degli oggetti. Si può senz’altro riconoscere questa situazione negli avvenimenti più semplici della vita quotidiana. Il problema del tempo-lavoro che abbiamo considerato provvisoriamente, dal punto di vista dell’operaio, come momento in cui nasce la sua coscienza in quanto coscienza della merce (quindi come coscienza del nucleo strutturale della società borghese), mostra nell’istante in cui essa sorge ed oltrepassa la mera immediatezza della situazione data, concentrato in un punto, il problema fondamentale della lotta di classe: il problema della violenza, come il punto in cui, in seguito al fallimento delle “leggi eterne” dell’economia politica , in seguito al loro dialettizzarsi, la decisione sul destino dello sviluppo viene necessariamente rimessa all’attività cosciente degli uomini. Marx sviluppa questa idea nel modo seguente. “È evidente: prescindendo dai limiti del tutto elastici, dalla stessa natura dello scambio delle merci non risulta nessun limite della giornata lavorativa, quindi nessun limite al plus-lavoro. Quando cerca di prolungare al massimo la giornata lavorativa fino al punto di giungere, se è possibile, a raddoppiarla, il capitalista non fa altro che affermare il proprio diritto di compratore. Dall’altra parte, la natura specifica della merce venduta implica un limite del suo consumo da parte del compratore, e l’operaio afferma il proprio diritto di venditore, quando vuole limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata. Qui ha dunque luogo un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la violenza. Così nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa – lotta tra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia. [Karl Marx, Il Capitale, cit., p. 284]”»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 234-235.
5-Karl Marx, Il Capitale, cit., pp.6-7.
6-«Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.»: Karl Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, cit., p.5]: per i due maggiori interpreti del marxiano Gattungswesen come un ente generico che proprio in ragione di questa sua genericità non è meccanicamente determinato dalla società ma in questa consapevolmente, culturalmente e pubblicamente vi agisce in analogia all’aristotelico Zoon Politikon e del marxismo come una teoria della libertà in cui questa libertà è data dal rapporto dialettico dell’uomo con la storia e la società, confronta, in particolare, Costanzo Preve e Giorgio Agamben e segnatamente: Costanzo Preve, L’Eguale Libertà. Saggio sulla Natura Umana, Vangelista, Milano, 1994; Id., I Secoli Difficili. Introduzione al Pensiero Filosofico dell’Ottocento e del Novecento, Petite Plaisance, Pistoia, 1999; Id., Marx Inattuale. Eredità e Prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; Giorgio Agaben, Mezzi senza Fine. Note sulla Politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996; Id., La Comunità che Viene, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
7-Una interpretazione dialettica dimidiata quella di Lukács e, allo stesso tempo, in contraddizione, con una precisa visione di quello in cui deve consistere il metodo dialettico. In vari luoghi successivi al passaggio citato alla nota 1, Storia e Coscienza di Classe mostra ad un tempo la natura totale e “anticosale” della dialettica – che sembra già una prefigurazione della consapevolezza dell’intima natura dialettica del conflitto-scontro strategico che modella di continuo e trasforma la realtà stessa – unita, però, contraddittoriamente, ad una interpretazione del tutto “cosale” dello scontro sociale che inevitabilmente da questa dialettica avrebbe dovuto scaturire (contro una lettura mitologica ed ipostaticizzata delle due classi antagoniste capitalistica ed operaia, il conflittualismo strategico lagrassiano costituisce il primo indispensabile passo per questo riorientamento. Per il Dialecticvs Nvncivs – e come si vedrà poi più per esteso nelle Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione – sarà necessario poi riorientare a sua volta anche il conflittualismo strategico di La Grassa sulla falsariga dell’abolizione della divisione fra natura e cultura): «Ma anche in questo caso si deve sottolineare che la violenza, che appare come figura concreta dei limiti di irrazionalità del razionalismo capitalistico, del punto di intermittenza delle sue leggi, è per la borghesia qualcosa di completamente diverso che per il proletariato. Per la borghesia, la violenza è la continuazione immediata della sua vita quotidiana: essa non rappresenta dunque un problema nuovo: d’altro lato, e proprio per questo, essa non è capace di risolvere nemmeno una delle contraddizioni sociali che si autogenerano. Il suo intervento e la sua efficacia, la sua possibilità e la sua portata dipendono del resto dal grado in cui è stata superata l’immediatezza dell’esistenza. Certo, la possibilità di questo oltrepassamento, quindi la estensione e la profondità della coscienza stessa, è un prodotto della storia. Ma questo livello storicamente possibile non consiste qui nella continuazione graduale e rettilinea di ciò che si trova già nell’immediatezza (e delle sue “leggi”), ma nella consapevolezza, raggiunta attraverso molte mediazioni delle tendenze dialettiche dello sviluppo. E la serie delle mediazioni non può concludersi nella contemplazione ma deve dirigersi alla novità qualitativa che scaturisce dalla contraddizione dialettica: essa deve essere un movimento di mediazione tra il presente e il futuro. Tutto ciò presuppone ancora una volta che il rigido essere cosale degli oggetti dell’accadere sociale si scopra come mera parvenza, che la dialettica – la quale rappresenta un’autocontraddizione, un’assurdità logica, finché si tratta del passaggio di una “cosa” ad un altro – trovi la propria conferma in tutti gli oggetti e che le cose si mostrino perciò come momenti che si risolvono nel processo. Siamo così pervenuti al limite della dialettica antica, al punto che separa questa dialettica da quella del materialismo storico. (Hegel rappresenta il momento di transizione metodologica, in lui si trovano cioè gli elementi di entrambe le concezioni in una funzione non interamente chiarita in rapporto al metodo). Infatti, la dialettica eleatica del movimento indica appunto le contraddizioni immanenti nel movimento in generale, ma essa lascia intatta la cosa che si muove. Sia che la freccia in volo si muova o si trovi in quiete – all’interno del vortice dialettico – essa resta nella sua oggettualità, come freccia, come cosa. Stando ad Eraclito, è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume: ma poiché lo stesso eterno mutamento non diviene, ma è, non produce nulla di qualitativamente nuovo, esso è un divenire soltanto rispetto all’essere rigido delle cose singole. […] In Marx, invece, il processo dialettico trasforma le forme di oggettualità degli oggetti in un processo, in un flusso. Nella riproduzione semplice del capitale appare in tutta la sua chiarezza questa sovversione delle forme di oggettualità che caratterizza in modo essenziale il processo. […] Non appena si abbandona quella realtà immediata, che si presenta come già definita, nasce così l’interrogativo: “Un lavoratore in una fabbrica di cotone produce soltanto cotone”? No, produce capitale. Produce i valori che serviranno di nuovo a comandare il suo lavoro, a creare, per suo mezzo, nuovi valori” [Karl Marx, Lavoro Salariato e Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 51]»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 235-238. «Hegel stesso distingue tra dialettica meramente negativa e dialettica positiva, dove per dialettica positiva si deve intendere l’emergere di un determinato contenuto, il venire alla luce di una totalità concreta. Ed in sede di esecuzione effettiva, anch’egli percorre quasi sempre nello stesso modo la via che conduce dalle determinazioni della riflessione sino alla dialettica positiva, benché ad esempio, quest’ultima venga direttamente esclusa dal suo concetto di natura come “essere altro”, come essere “esterna a sé stessa” dell’idea (e indubbiamente qui si potrà trovare uno dei motivi metodologici delle costruzioni spesso forzate della sua filosofia della natura). D’altra parte, dal punto di vista storico, Hegel stesso vede chiaramente che la dialettica della natura – dove, almeno al grado finora raggiunto, il soggetto non può essere inserito nel processo dialettico – non è in grado di oltrepassare il piano di una dialettica del movimento che si presenta ad uno spettatore che non vi partecipa. Egli sottolinea, ad esempio, che le antinomie di Zenone si sono elevate sino all’altezza conoscitiva delle antinomie kantiane e che quindi non è possibile qui procedere oltre. Con ciò risulta la necessità della separazione metodologica della dialettica del movimento puramente oggettivo della natura dalla dialettica sociale, nella quale anche il soggetto è inserito nell’interazione dialettica, la teoria e la praxis debbono entrare in un reciproco rapporto dialettico ecc. (Va da sé che lo sviluppo della conoscenza della natura come forma sociale è sottoposto alla dialettica del secondo tipo). Inoltre, sarebbe tuttavia assolutamente necessario per la concreta costruzione del metodo dialettico illustrare concretamente i diversi tipi di dialettica. In tal caso, le distinzioni hegeliane di dialettica positiva e negativa così come quelle relative ai livelli dell’intuizione, della rappresentazione e del concetto (senza che ci si debba necessariamente attenere a questa terminologia) caratterizzerebbero soltanto alcuni tipi di differenze. Per gli altri, nelle opere economiche di Marx si trova un ricco materiale per un’analisi strutturale chiaramente elaborata. In ogni caso, una tipologia di queste forme dialettiche, sia pure presentata con pochi cenni, andrebbe ampiamente oltre i limiti di questo lavoro. »: Ivi, pp. 272-273. Prima Lukács afferma la necessità della separazione fra la dialettica della natura e la dialettica sociale improntata alla filosofia della praxis e poi, sentendo tutta la debolezza di questo ragionamento, rimanda la precisazione del suo pensiero ad un ulteriore lavoro. Conscio quindi della fragilità di tutto il suo ragionamento – e conscio che se si vuole dare una chance al proletariato è assolutamente indispensabile fuoruscire integralmente dal vecchio materialismo meccanicista – immediatamente dopo avere affermato che l’affrontare la questione della separazione fra dialettica della natura e quella sociale sarebbe andare “oltre i limiti di questo lavoro”, riprende il ragionamento sminuendo l’importanza della predetta distinzione dialettica e insistendo sull’importanza del processo di reificazione che, secondo Lukács, avrebbe un intimo legame diretto con la dialettica della natura: «Ma ancora più importante di queste distinzioni metodologiche è il fatto che anche quegli oggetti che si trovano manifestamente al centro del processo dialettico, possono rendere esplicita la loro forma reificata solo in un lungo e difficile processo. In un processo, nel quale la presa del potere del proletariato e la stessa organizzazione socialista dello Stato e dell’economia rappresentano soltanto tappe, certo molto importanti, ma non il punto di arrivo. Sembra anzi che il periodo in cui il capitalismo entra in una crisi decisiva abbia la tendenza ad accrescere ancor più la reificazione, a spingerla ai suoi estremi. All’incirca nel senso in cui Lassalle scriveva a Marx: “Il vecchio Hegel soleva dire: immediatamente prima del sorgere di qualche cosa di qualitativamente nuovo, il vecchio stato qualitativo si raccoglie nella sua essenza originaria puramente generale, nella sua totalità semplice, superando ancora una volta e riprendendo in sé tutte le sue marcate differenze e le sue peculiarità che esso aveva posto quando era ancora vitale”. D’altro lato, ha ragione anche Bucharin quando osserva che nell’epoca della dissoluzione del capitalismo le categorie feticistiche falliscono, ed è necessario risalire alla “forma naturale” che si trova alla loro base. Questi due modi di vedere sono contraddittori solo in apparenza. O più esattamente: il segno che contraddistingue la società borghese al suo tramonto è proprio questa contraddizione: da un lato, il crescente svuotamento delle forme della reificazione – si potrebbe dire, il lacerarsi della loro crosta per via del loro vuoto interno –, la loro crescente incapacità di comprendere i fenomeni, sia pure nella loro singolarità e secondo modi calcolistici-riflessivi; dall’altro la loro crescita quantitativa, il loro vuoto diffondersi estensivamente sull’intera superficie dei fenomeni. E con il crescente acuirsi di questo contrasto, aumenta per il proletariato sia la possibilità di sostituire i propri contenuti positivi a veli svuotati e lacerati, sia il pericolo – almeno temporaneo – di soggiacere ideologicamente a queste vuote ed esautorate forme della cultura borghese. In rapporto alla coscienza del proletariato, non vi è automatismo di sviluppo. Per il proletariato è quanto mai vero che la trasformazione e la liberazione può essere solo opera della sua azione, che “l’educatore stesso deve essere educato”: cosa che il vecchio materialismo meccanicistico-intuitivo non riuscì a comprendere. Lo sviluppo economico oggettivo ha potuto soltanto creare la posizione che il proletariato occupa nel processo di produzione e dalla quale viene determinato il suo punto di vista; esso può solo far sì che la trasformazione della società diventi per il proletariato possibile e necessaria. Ma questa trasformazione può essere operata soltanto dalla libera azione del proletariato stesso.»: Ivi, pp. 273-274. Lukács era completamente nel giusto nel dire che le forme feticistiche e reificate abbiano un intimo legame con la dialettica della natura (volendo, però, così suggerire un legame errato della filosofia della praxis con la filosofia della natura, attraverso cioè il negativo, o meglio, la negazione della filosofia della praxis stessa, la reificazione e le forme di feticismo appunto; reificazione che, invece, non è che una delle manifestazioni della dialettica del confronto/scontro strategico, che a sua volta non è che la traduzione in atto concreto della filosofia della prassi, consapevoli o no che siano di questa Weltanschauung/Forma mentis/Forma mundi gli attori – alfa-strategici o omega-strategici, per i quali cfr. Teoria della Distruzione del Valore, cit. – del confronto/scontro strategico stesso), era però completamente in errore, ma questo è l’errore che attraversa praticamente tutte le varie scuole marxiste, pensando che le forme feticistiche e la reificazione possano e debbano essere superate nella rivoluzione prossima ventura in cui il proletariato avrebbe dovuto essere la classe universale che avrebbe dissolto queste forme alienanti. Alla base di questo errore sta, lo ripetiamo, l’artificiale suddivisione marxiana (ma non di origine marxiana, non ci stancheremo mai di ripetere) fra natura e cultura, uno scenario artificiale nel quale il capitalismo frutto di una “cattiva” cultura umana avrebbe imposto agli uomini delle scelte del tutto innaturali, scelte innaturali alle quali sarebbe stato compito del proletariato, la classe universale ed erede della filosofia classica tedesca, porre rimedio. In realtà, questa suddivisione fra natura e cultura è del tutto innaturale; in realtà l’alienazione/reificazione/feticismo non è, di per sé, un fatto negativo, ma rappresenta il fondamentale momento di trasformazione dialettico-strategica del soggetto per venire incontro e incorporare l’oggetto che inizialmente gli si pone di fronte: insomma l’alienazione/reificazione/forme di feticismo non è che lo sviluppo concreto del processo dell’ Aufhebung; infine, in questo processo dialettico-strategico di conservazione/superamento del soggetto nell’oggetto e viceversa, credere che il proletariato, nelle condizioni storiche di allora, fosse l’unica classe in grado di interpretarlo e di dargli compiuta espressione è stato il più grande errore del marxismo essendo il processo dialettico-strategico un processo – giusto l’attualismo di Giovanni Gentile – cognitivo-attivo-creativo, un processo che può essere sì guidato da una classe – storicamente non è mai stato guidato, ma semmai solo innescato, dalle classi subalterne ma per questo non si può certo affermare che, in un futuro totalmente imprevedibile dal punto di vista di una conseguente antideterministica filosofia della prassi, le classi subalterne, proprio per la natura dialettica e pantocratrice di questo processo, non possano farlo proprio e recitarvi una parte da protagoniste: la dittatura del proletariato altro non è che l’ingenua espressione utopico-mitologica di una potenzialità reale della dialettica del confronto/scontro strategico – ma che attraversa tutte le classi e categorie della società. E volendo far sì che questo processo alienanante-reificante di trasformazione dialettica attraversi in senso rivoluzionario tutti gli strati della società, rende il Repubblicanesimo Geopolitico l’erede diretto – anche se sotto l’insegna dell’ Aufhebung, del suo, cioè, conservazione/superamento nel quadro di un totale rinnovamento che abolisca la suddivisione fra natura e cultura – di quella linea di realismo dialettico-cognitivo che corre lungo Machiavelli, Vico, Hegel e che culmina in Marx, l’erede diretto, quindi, anche di quella tradizione marxista – ci riferiamo in specie al quel marxismo occidentale che al contrario del diamattino marxismo orientale, oppose strenua resistenza alla deriva positivistica del marxismo – che sempre fu ai ferri corti con l’interpretazione meccanicistica e fatalistica del marxismo stesso, quest’ultima conseguenza inevitabile – ed anche voluta per le ovvie ragioni di più facile dominio delle masse Gattungswesen composte da miriadi di esseri naturali generici – della versione positivistica e eterodiretta dall’alto della lezione del pensatore di Treviri. A suivre, anche in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione, ulteriore giustificazione di questa impegnativa affermazione del Dialecticvs Nvncivs …
8- Dai Quaderni del Carcere emerge lo scarto decisivo gramsciano per una filosofia della praxis che non solo aveva superato in maniera definitiva ogni residuo positivistico (consapevolmente ma, purtroppo, come abbiamo visto, in maniera non del tutto conseguente ciò era avvenuto anche nel Lukács di Storia e Coscienza di Classe, di Codismo e Dialettica, per terminare – e in una prospettiva che, complici la sua travagliata vita personale sempre all’insegna, negli anni che seguirono alle critiche a Storia e Coscienza di Classe e fino alla sua morte, di una straussiana ermeneutica della reticenza e le non brillantissime prove che aveva dato il socialismo reale, aveva ridimensionato le originarie speranze millenaristiche e rivoluzionarie del comunismo novecentesco – nel Lukács di Ontologia dell’Essere Sociale – «É anche giusto, anche se del tutto evidente, ricordare che in Storia e Coscienza di Classe si riflette teoricamente il carattere messianico ed ottimistico del comunismo degli anni Venti, mentre nella Ontologia dell’Essere Sociale è presente l’inevitabile metabolizzazione della delusione staliniana e della sensazione di blocco e di crisi del processo rivoluzionario. Sarebbe sciocco se una grande opera filosofica non rispecchiasse anche le attese, le illusioni e le consapevolezze diffuse del tempo.»: Costanzo Preve, Il Testamento Filosofico di Lukács. II Parte, agli URL http://www.kelebekler.com/occ/lukacs02.htm, WebCite: http://www.webcitation.org/6mHHmUGbL e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.kelebekler.com%2Focc%2Flukacs02.htm&date=2016-11-25 –, una Ontologia dell’Essere Sociale anch’essa preda di questa illusoria separazione fra cultura e natura o storia e natura), ma anche che, sull’onda dell’attualismo gentiliano, additava il positivismo come uno dei principali nemici da battere – ma non ricadendo negli errori del filosofo di Castelveltrano di derivazione ficthiana dell’atto puro, dove in Gentile l’atto puro soggettivistico era il creatore di tutta la realtà, la cosiddetta autoctisi, mentre in Gramsci, correttamente, non poteva sussistere l’autoctisi, non poteva esservi un “atto puro” soggettivo che crea la realtà ma un soggetto che agendo sull’oggetto trasforma e crea sé stesso e nel corso di questa attività morfogenetica interna/esterna si unisce inscindibilmente e dialetticamente con l’oggetto: «Idealismo-positivismo [“Obbiettività” della conoscenza.] Per i cattolici: “… Tutta la teoria idealista riposa sulla negazione dell’obbiettività di ogni nostra conoscenza e sul monismo idealista dello “Spirito” (equivalente, in quanto monismo, al quello positivista della “Materia”) per cui il fondamento stesso della religione, Dio, non esiste obbiettivamente fuori di noi, ma è una creazione dell’intelletto. Pertanto l’idealismo, non meno del materialismo, è radicalmente contrario alla religione” (padre Mario Barbera, nella “Civiltà Cattolica” del I°-VI-1929). Per la quistione della “obbiettività” della conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza deve essere l’affermazione di Marx (nell’introduzione alla Critica dell’economia politica, brano famoso sul materialismo storico) che “gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel terreno ideologico” delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche. Ma questa consapevolezza è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il testo marxiano – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni conoscenza? Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche. Né il monismo materialista né quello idealista, né “Materia” né “Spirito” evidentemente, ma “materialismo storico”, cioè attività dell’uomo (storia) [sottolineatura nostra] in concreto, cioè applicata a una certa “materia” organizzata (forze materiali di produzione), alla “natura” trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’ “atto puro”, ma proprio dell’atto “impuro”, cioè reale nel senso profano della parola. [sottolineatura nostra] »: Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. critica a cura di Valentino Gerratana, vol. I, Torino, 1975, pp. 454-455. Gramsci, in altre parole, era fortissimamente refrattario ad ammettere la separazione fra cultura e natura, e questo profondissimo rifiuto di uno dei più inveterati paradigmi della civiltà occidentale veniva inquadrato in una Weltanschauung dove filosofia della prassi si traduceva direttamente in una prassi, appunto, – al contrario delle visioni elitaristiche alla Mosca, alla Pareto o alla Michels – dove il vertice non doveva regnare dispoticamente ma fra l’alto (il nuovo Principe, cioè il partito comunista, e con questa immagine machiavelliana, unendo la filosofia della praxis con l’insegnamento del realismo politico del Segretario fiorentino Antonio Gramsci si pone anche come il più grande erede, nella teoria e, appunto, nella prassi, del magistero di Niccolò Machiavelli) e il basso della società (la classe operaia e contadina) si doveva dialetticamente istituire un’azione politica e sociale di continuo mutuo arricchimento cognitivo ed accrescimento di potenza politica, che avrebbe costituito, ancor prima e premessa ineludibile della pur necessaria lotta di classe condotta su base ed in prospettiva economicista, la vera ragion d’essere ed energia generatrice del costituito e sempre evolutivamente costituendo partito comunista-Nuovo principe, una dinamica della conoscenza e del potere che è praticamente sovrapponibile con la visione dialettico-conflittualistica-strategica del Repubblicanesimo Geopolitico: «“Marx e Machiavelli”. Questo argomento può dar luogo a un duplice lavoro: uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto teorici della politica militante, dell’azione, e un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe. L’argomento sarebbe il partito politico, nei suoi rapporti con le classi e con lo Stato: non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato. In realtà, se bene si osserva, la funzione tradizionale dell’istituto della corona è, negli stati dittatoriali, assolta dai partiti: sono essi che pur rappresentando una classe e una sola classe, tuttavia mantengono un equilibrio con le altre classi, non avversarie ma alleate e procurano che lo sviluppo della classe rappresentata avvenga col consenso e con l’aiuto delle classi alleate. Ma il protagonista di questo “nuovo principe” non dovrebbe essere il partito in astratto, una classe in astratto, uno Stato in astratto, ma un determinato partito storico, che opera in un ambiente storico preciso, con una determinata tradizione, in una combinazione di forze sociali caratteristica e bene individuata. Si tratterebbe insomma, non di compilare un repertorio organico di massime politiche, ma di scrivere un libro “drammatico” in un certo senso, un dramma storico in atto, in cui le massime politiche fossero presentate come necessità individualizzata e non come principi di scienza. [sottolineatura nostra per evidenziare l’antipositivitismo e l’impostazione dialettica del conflittualismo strategico di Antonio Gramsci]»: Ivi, vol. I, p. 432; «Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna. Questi due punti fondamentali – formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l’organizzatore e l’espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del lavoro. I punti concreti del programma devono essere incorporati nella prima parte, cioè dovrebbero “drammaticamente”, risultare dal discorso, non essere una fredda e pedantesca esposizione di raziocini [sottolineatura nostra sempre le ragioni di cui sopra]. Può esserci riforma cultuale e cioè elevamento degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di una laicismo moderno o di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.»: Ivi, vol. III, pp. 1560-1561; «“La tesi XI”: “I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo; si tratta ora di cangiarlo”, non può essere interpretata come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia, ma solo di fastidio per i filosofi e il loro psittacismo e l’energica affermazione di una unità tra teoria e pratica. […] Questa interpretazione delle Glosse al Feuerbach come rivendicazione di unità tra teoria e pratica, e quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del mondo con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della filosofia fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una “terrestrità assoluta” – si può ancora giustificare con la famosa proposizione che “il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca”, la quale non significa già, come scrive il Croce: “erede che non continuerebbe già l’opera del predecessore, ma ne imprenderebbe un’altra, di natura diversa e contraria” ma significherebbe proprio che l’ “erede” continua il predecessore, ma lo continua “praticamente” poiché ha dedotto una volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera contemplazione e in questa attività pratica è contenuta anche la “conoscenza” che solo anzi nell’attività pratica è “reale conoscenza” e non “scolasticismo”. Se ne deduce anche che il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma “generalizzate” nella realtà sociale. E l’attività del filosofo “individuale” non può essere pertanto concepita che in funzione di tale unità sociale, cioè anch’essa come politica, come funzione di direzione politica.»: Ivi, vol. II, pp.1270-1271; «La posizione della filosofia della praxis è antitetica a questa cattolica: la filosofia della praxis non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica. Tuttavia questa concezione “verbale” non è senza conseguenze: essa riannoda a un gruppo sociale determinato, influisce nella condotta morale, nell’indirizzo della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica. La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di “egemonie” politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per giungere ad una elaborazione superiore della propria concezione del reale [evidenziazione nostra]. La coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per un’ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano. Anche l’unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di “distinzione”, di “distacco”, di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e completo di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filosofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso comune ed è diventata, sia pur entro limiti ancora ristretti, critica [evidenziazione nostra]. Tuttavia, nei più recenti sviluppi della filosofia della prassi, l’approfondimento del concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: rimangono ancora dei residui di meccanicismo, poiché si parla di teoria come “complemento”, “accessorio” della pratica, di teoria come ancella della pratica. [evidenziazione nostra]. Pare giusto che anche questa quistione debba essere impostata storicamente, e cioè come un aspetto della quistione politica degli intellettuali. Autocoscienza critica significa storicamente e politicamente creazione di una élite di intellettuali: una massa umana non si “distingue” e non diventa indipendente “per sé” senza organizzarsi (in senso lato) e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distingua concretamente in uno strato di persone “specializzate” nell’elaborazione concettuale e filosofica. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di contraddizioni, di avanzate e ritirate, di sbandamenti e di riaggrupamenti, in cui la “fedeltà” della massa (e la fedeltà e la disciplina sono inizialmente la forma che assume l’adesione della massa e la sua collaborazione allo sviluppo dell’intero fenomeno culturale) è messa talvolta a dura prova. Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettuali-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova “ampiezza” e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con punte individuali o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati. Nel processo però si ripetono continuamente dei momenti in cui tra massa e intellettuali (o certi di essi, o un gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto, quindi l’impressione di “accessorio”, di complementare, di subordinato. L’insistere sull’elemento “pratico” del nesso teoria-pratica, dopo aver scisso, separato e non solo distinto i due elementi (operazione appunto meramente meccanica e convenzionale) significa che si attraversa una fase storica relativamente primitiva, una fase ancora economico-corporativa, in cui si trasforma quantitativamente il quadro generale della “struttura” e la qualità-superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora organicamente formata. […] Una di queste fasi si può studiare nella discussione attraverso la quale si sono verificati i più recenti sviluppi della filosofia della praxis, discussione riassunta in un articolo di D. S. Mirsckij, collaboratore della “Cultura”. Si può vedere come sia avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica e puramente esteriore a una concezione attivistica, che si avvicina di più, come si è osservato, a una giusta comprensione dell’unità di teoria e pratica [evidenziazione nostra], sebbene non ne abbia ancora attinto tutto il significato sintetico. Si può osservare come l’elemento deterministico, fatalistico, meccanicistico sia stato un “aroma” ideologico immediato della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti), resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere “subalterno” di determinati strati sociali. Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata [evidenziazione nostra]. “Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare ecc.”. La volontà reale si traveste in atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc., delle religioni confessionali. Occorre insistere sul fatto che anche in tal caso esiste realmente una forte attività volitiva, un intervento diretto sulla “forza delle cose” ma appunto in una forma implicita, velata, che si vergogna di se stessa e pertanto la coscienza è contraddittoria, manca di una critica, ecc. Ma quando il “subalterno” diventa dirigente e responsabile dell’attività economica di massa, il meccanicismo appare a un certo punto un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo sociale di essere [evidenziazione nostra]. I limiti e il dominio della “forza delle cose” vengono ristretti perché? perché, in fondo, se il subalterno era ieri una cosa, oggi non è più una cosa ma una persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché “resistente” a una volontà estranea, oggi si sente responsabile perché non più resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente. Ma anche ieri era egli stato mera “resistenza”, mera “cosa”, mera “irresponsabilità”? Certamente no, ed è anzi da porre in rilievo come il fatalismo non sia che un rivestimento da deboli di una volontà attiva e reale. Ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità del determinismo meccanico, che, spiegabile come filosofia ingenua della massa e in quanto solo tale elemento intrinseco di forza, quando viene assunto a filosofia riflessa e coerente da parte degli intellettuali, diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente responsabile [evidenziazione nostra]. Una parte della massa anche subalterna è sempre dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto non solo come anticipazione teorica, ma come necessità attuale. Che la concezione meccanicistica sia stata una religione di subalterni appare da un’analisi dello sviluppo della religione cristiana, che in un certo periodo storico e in condizioni storiche determinate è stata e continua ad essere una “necessità”, una forma necessaria della volontà delle masse popolari, una forma determinata della razionalità del mondo e della vita e dette i quadri generali per l’attività pratica reale. »: Ivi, vol. II, pp. 1384-1389; «Non solo la filosofia della praxis è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico, come “soggettività storica di un gruppo sociale”, come fatto reale, che si presenta come fenomeno di “speculazione” filosofica ed è semplicemente un atto pratico, la forma di un contenuto concreto sociale e il modo di condurre l’insieme della società a foggiarsi una unità morale. L’affermazione che si tratti di “apparenza”, non ha nessun significato trascendente e metafisico, ma è la semplice affermazione della sua “storicità”, del suo essere “morte-vita”, del suo rendersi caduca perché una nuova coscienza sociale e morale si sta sviluppando, più comprensiva, superiore, che si pone come sola “vita”, come sola realtà in confronto del passato morto e duro a morire nello stesso tempo. La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata di ogni rediduo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologico-speculativa. [evidenziazione nostra]»: Ivi, vol. II, pp. 1225-1226. A parte la mitizzazione della classe operaia e contadina che costituisce la parte oggi caduca dei Quaderni ma nei quali la gramsciana filosofia della praxis segna un decisivo distacco da una visione cosale delle classi e dove decisivo è per queste classi, proprio come nel Repubblicanesimo Geopolitico, il processo cognitivo legato all’aquisizione, mantenimento e creazione di nuovo potere, la forma della filosofia della praxis espressa nei Quaderni del Carcere rappresenta uno dei capisaldi per il Repubblicanesimo Geopolitico. Per l’approfondimento della decisiva importanza della filosofia della praxis per il conflittualismo dialettico-strategico del Repubblicanesimo Geopolitico (e su come sia possibile far definitivamente evolvere questa filosofia della praxis in una dialettica in cui l’azione-scontro strategico – compiendo, sia individualmente che socialmente, la sua piena entelechia attraverso una consapevole ed attiva epifania strategica – sia il principio unificante dell’agire conoscitivo/teorico/pratico dell’uomo e perciò dissolvente della illusoria diarchia cultura/natura e quindi, in ultima istanza, generante quella vera e profonda rivoluzione politica e culturale inseguita con risultati del tutto deludenti – ma non per questo inutili, anzi! – durante tutto il Novecento), si rinvia ancora Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico.
9- Riguardo la teoria leniniana del rispecchiamento, radicale è il rifiuto espresso in Storia e Coscienza di Classe: «La coscienza del proletariato può chiamare in vita, nella sua riconversione pratica, soltanto ciò che viene spinto ad una decisione dalla dialettica storica, ma non può disporsi “praticamente” al di sopra del corso della storia ed imporre ad essa puri e semplici desideri e conoscenze. Infatti, essa stessa non è altro che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale. D’altro lato, una necessità dialettica non è affatto identica ad una necessità meccanico-causale. Nel passo citato in precedenza Marx dice: “la classe operaia non deve far altro che mettere in libertà gli elementi della società nuova, che si sono sviluppati nel seno della società borghese nella fase del suo crollo”. Alla semplice contraddizione – che è un prodotto automatico secondo legge, dello sviluppo capitalistico – deve dunque aggiungersi qualcosa di nuovo: la coscienza del proletariato che si trasforma in azione. Tuttavia, poiché la semplice contraddizione si eleva così ad una contraddizione dialettica, poiché la presa di coscienza si trasforma in punto di passaggio per la praxis, appare ancora una volta e con maggior concretezza, il carattere essenziale, che abbiamo già più volte ricordato, della dialettica proletaria: la coscienza non è qui coscienza di un oggetto che si contrappone, ma autocoscienza dell’oggetto stesso – e per questo l’atto della presa di coscienza rovescia le forme di oggettività del proprio oggetto.»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., p. 234; un rifiuto in cui il proletariato è la classe universale che attraverso la sua dialettica realizza con la sua praxis l’unione fra soggetto ed oggetto e dove a sottolineare l’improponibilità di una pensiero che rifletta meccanicamente la realtà, Lukács arriva a cogliere l’inizio dell’ errore della teoria del riflesso nel mito della cosa in sé kantiana e nel mito platonico delle idee, entrambe posizioni che sono queste sì il riflesso di una concezione mitica e cosale della realtà: «Soltanto se comprendiamo tutto ciò siano in grado di penetrare sino all’ultimo residuo della struttura coscienziale reificata e della sua forma concettuale, del problema della cosa in sé. Anche Friedrich Engels si è una volta espresso a questo proposito in modo facilmente equivocabile. Descrivendo il contrasto che divedeva Marx e lui stesso dalla scuola hegeliana, egli dice: “Noi intendevamo i concetti della nostra testa ancora una volta materialisticamente come riflessi (Abbild) delle cose reali in luogo di considerare le cose reali come riflessi di questo o quel grado del concetto assoluto”. [Friedrich Engels, Ludovico Feuerbach e il Punto di Approdo della Filosofia Classica Tedesca, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1947, p. 41] Tuttavia, si deve porre qui l’interrogativo che del resto si pone lo stesso Engels ed al quale egli dà anzi, nella pagine [sic] seguente, una risposta del tutto conforme a ciò che noi pensiamo: “Il mondo non è da comprendere come un complesso di cose già definite, ma come un complesso di processi”. Ma se non vi sono due cose – che cosa viene “riflesso” dal pensiero? Qui non è possibile, neppure per cenni, tracciare la storia della teoria della riflessione immaginativa, benché essa sola possa mostrare tutta la portata di questo problema. Infatti, in questa teoria si oggettiva teoricamente la dualità insuperata – per la coscienza reificata – tra pensiero ed essere, coscienza e realtà. E da questo punto di vista è lo stesso che le cose vengano intese come riflessi dei concetti o i concetti come i riflessi delle cose, dal momento che in entrambi i casi questa dualità riceve un’insuperabile fissazione logica. Il grandioso e coerente tentativo di Kant di superare logicamente questa dualità, la teoria della funzione sintetica della coscienza in generale nella creazione della sfera teoretica, non poteva portare alcuna soluzione filosofica alla questione, perché la dualità, allontanata dalla logica, veniva resa eterna come problema filosoficamente insolubile nella forma della dualità tra fenomeno e cosa in sé. Che questa soluzione kantiana possa difficilmente essere riconosciuta come soluzione in senso filosofico, è dimostrato dal destino della sua teoria. Le radici di questo equivoco si trovano tuttavia nella teoria stessa: certo, non direttamente nella logica, ma nel rapporto tra la logica e la metafisica, tra il pensiero e l’essere. Ora, bisogna comprendere che ogni comportamento contemplativo, quindi ogni pensiero “puro” che si assume come compito la conoscenza di un oggetto che gli sta di fronte, solleva al tempo stesso il problema della soggettività e dell’oggettività. L’oggetto del pensiero (come contrapposto) si trasforma in qualcosa di estraneo al soggetto ed ha origine così il problema se il pensiero concordi con l’oggetto. Quanto più il carattere conoscitivo del pensiero viene elaborato nella sua “purezza”, quanto più il pensiero diventa “critico”, tanto più grande ed incolmabile appare l’abisso tra la forma “soggettiva” del pensiero e l’oggettività dell’oggetto (essente). Ora, è possibile, come accade in Kant, intendere l’oggetto del pensiero come “generato” dalle forme del pensiero. Ma con ciò il problema dell’essere non viene risolto, ed in quanto Kant allontana questo problema dalla teoria della conoscenza, sorge per lui la questione filosofica: anche i suoi oggetti pensati debbono concordare con una “realtà” qualsiasi. Ma questa realtà viene tuttavia posta – come cosa in sé – al di fuori di ciò che è “criticamente” conoscibile. Nei confronti di questa realtà (che anche per Kant, come dimostra la sua etica, è la realtà vera e propria, la realtà metafisica) il suo atteggiamento resta lo scetticismo, l’agnosticismo: anche se l’oggettività gnoseologica, la teoria della verità immanente al pensiero ha trovato una soluzione ben poco scettica. Non è dunque affatto un caso che abbiano trovato un aggancio in Kant indirizzi agnostici di genere diverso (basti pensare a Maimon od a Schopenhauer). E lo è ancora meno il fatto che proprio Kant cominciò a reintrodurre nella filosofia quel principio che si trova in netto contrasto con il suo principio sintetico della “generazione”: la teoria delle idee di Platone. Infatti, questo è l’estremo tentativo di salvare l’oggettività del pensiero, la sua concordanza con il suo oggetto, senza essere costretti a ricercare il criterio della concordanza nell’essere empirico materiale degli oggetti. Ora è chiaro che in ogni conseguente riformulazione della teoria delle idee un principio che, da un lato, connette il pensiero con gli oggetti del mondo delle idee, dall’altro questo mondo con gli oggetti della conoscenza empirica (rimemorazione, intuizione intellettuale, ecc.) [errore sintattico, ndr] Con ciò tuttavia la teoria del pensiero viene spinta oltre il pensiero stesso: essa si trasforma in teoria dell’anima, in metafisica, in filosofia della storia. Anziché essere risolto, il problema assume una duplice o triplice forma. Infatti, la comprensione dell’impossibilità di principio di una concordanza, di un rapporto di “riflessione immaginativa” tra forme oggettuali che sono per principio eterogenee, è il motivo che guida ogni interpretazione di questo genere di teoria delle idee. Essa intraprende il tentativo di dimostrare questa stessa ultima essenzialità come nucleo negli oggetti del pensiero o nel pensiero stesso. Così Hegel caratterizza da questo punto di vista molto giustamente il motivo filosofico fondamentale della teoria della rimemorazione: in essa il rapporto fondamentale dell’uomo verrebbe presentato miticamente, “la verità si troverebbe in lui e si tratterebbe perciò soltanto di portarla alla coscienza”[Nota a piè di pagina di Lukács: «Werke, XI, p.160»]. Ma in questo modo è possibile dimostrare nel pensiero e nell’essere questa identità – dopo che, per via del modo in cui si presentano necessariamente all’atteggiamento intuitivo e contemplativo, il pensiero e l’essere sono stati già intesi nella loro reciproca eterogeneità di principio? Qui deve appunto intervenire la metafisica, per unificare ancora una volta in qualche modo, attraverso mediazioni apertamente e implicitamente mitologiche, il pensiero e l’essere, la cui separazione, oltre a formare il punto di vista di avvio del pensiero “puro”, deve anche essere – volenti o nolenti – costantemente mantenuta. E questa situazione non muta minimamente, se la mitologia viene capovolta e il pensiero viene spiegato a partire dall’essere empiricamente materiale. Rickert definì una volta il materialismo un platonismo di segno rovesciato. A ragione. Infatti, finché il pensiero e l’essere mantengono la loro vecchia e rigida contrapposizione, finché essi restano immodificati nella struttura loro propria, ed in quella dei loro reciproci rapporti, la concezione secondo la quale il pensiero è un prodotto del cervello e concorda perciò con gli oggetti dell’empiria, non è meno mitologica di quella della rimemorazione del mondo delle idee. Ed anche questa mitologia non è in grado di spiegare a partire da questo principio i problemi specifici che qui emergono. Essa è costretta ad abbandonarli irrisolti a mezza via oppure a risolverli con i “vecchi” mezzi: la mitologia entra in scena soltanto come principio di soluzione del complesso non analizzato nel suo insieme. [ nota a piè di pagina di Lukács: «Questo rifiuto del significato metafisico del materialismo borghese non muta nulla nella sua valutazione storica: esso fu la forma ideologica della rivoluzione francese e resta come tale praticamente attuale, finché resta attuale la rivoluzione borghese (anche come momento della rivoluzione proletaria). Cfr. in proposito i miei saggi su Moleschott, Feuerbach e l’ateismo in “Rote Fahne”, Berlino; e soprattutto l’ampio saggio di Lenin, Unter der Fahne des Marxismus, in “Die kommunitische Internationale”, 1922, n. 21.»] Ma, come sarà ormai chiaro da quanto precede, è impossibile anche togliere di mezzo questa differenza ricorrendo ad un progresso all’infinito. Allora ha origine una soluzione apparente oppure si ripresenta in una forma modificata la questione della riflessione immaginativa. [nota a piè di pagina di Lukács: «Molto coerentemente Lask introduce nella logica stessa una regione pre-immaginativa e post-immaginativa (Die Lehre vom Urteil). Benché egli escluda criticamente il platonismo puro, la dualità riflessiva tra idea e realtà, essa rivive in lui sul terreno della logica.»] Proprio nel punto in cui al pensiero storico si rivela la concordanza tra pensiero e essere, il fatto che entrambi hanno nell’immediatezza (e solo in essa) una rigida struttura di cosa, il pensiero dialettico viene costretto ad assumere questa insolubile impostazione del problema. Dalla rigida contrapposizione di pensiero ed essere (empirico) segue, da un lato, che essi non possono trovarsi l’uno con l’altro in un rapporto di riflessione immaginativa, ma dall’altro che solo in essa si deve ricercare il criterio del pensiero corretto. Finché l’uomo si comporta in modo intuitivo-contemplativo, egli può riferirsi al suo proprio pensiero ed agli oggetti dell’empiria che lo circondano solo in modo immediato. Egli li assume nel loro carattere di definitiva compiutezza, che è stato prodotto dalla realtà storica. Poiché vuole soltanto conoscere il mondo e non modificarlo egli è costretto ad assumere come inevitabile sia la fissità empirico-materiale dell’essere che la fissità logica dei concetti: e le sue impostazioni mitologiche dei problemi non sono orientate nel senso di accertare da quale terreno concreto abbia avuto origine la fissità di queste due datità fondamentali, quali siano i momenti reali che in esse si celano e che operano nel senso del superamento di queste fissità, ma tendono unicamente ad accertare in che modo l’essenza immutata di queste datità possa essere ricomposta nella sua immutabilità e spiegata in quanto tale. La soluzione che Marx indica nelle sue tesi su Feuerbach è la conversione della filosofia nella praticità. Tuttavia, come abbiamo visto, l’aspetto complementare ed il presupposto strutturale oggettivo di questa praticità è la concezione della realtà come un “complesso di processi”, la concezione secondo cui le tendenze evolutive della storia rappresentano una realtà superiore, la vera realtà rispetto alle fatticità rigide e cosali dell’empiria, pur emergendo dall’empiria stessa, e quindi senza essere al di là di essa. Ora, per la teoria del riflesso ciò significa che il pensiero, la coscienza deve orientarsi appunto alla realtà, che il criterio della verità consiste nell’incontro con la realtà. Tuttavia, questa realtà non è per nulla identica all’essere empirico fattuale. Questa realtà non è, essa diviene. Ed il divenire va inteso in due sensi. Da un lato, in quanto divenire, in questa tendenza, in questo processo si scopre la vera essenza dell’oggetto. E precisamente nel senso – si pensi agli esempi citati, che possono essere moltiplicati a piacere – che questa trasformazione delle cose in un processo porta concretamente a soluzione tutti i problemi concreti posti dal pensiero dai paradossi della cosa essente. Riconoscere che è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume è soltanto un’incisiva espressione per indicare l’incolmabile contrasto tra concetto e realtà, ma non aggiunge nulla di concreto alla conoscenza del fiume. Invece, riconoscere che il capitale come processo può essere soltanto capitale accumulato o meglio capitale che si accumula, rappresenta una concreta e positiva soluzione di un complesso di problemi concreti e positivi, di contenuto e di metodo, che concernono il capitale. Quindi soltanto se viene superata la dualità tra filosofia e conoscenza particolare, tra metodologia e conoscenza dei fatti, si può aprire la via verso il superamento nel pensiero della dualità tra pensiero ed essere. Ogni tentativo orientato – come nel caso di Hegel, nonostante i molti sforzi nella direzione opposta – verso il superamento dialettico di questa dualità nel pensiero liberato da ogni rapporto concreto con l’essere, nella logica, è condannato al fallimento. Infatti, ogni logica pura è platonica: è pensiero separato dall’essere e fissato in questa separazione. Solo nella misura in cui il pensiero appare come realtà, come momento del processo complessivo, esso può andare dialetticamente al di là della propria fissità, assumere il carattere del divenire. [nota a piè di pagina di Lukács: «Le indagini puramente logiche e puramente metodologiche non fanno dunque altre che contrassegnare il punto nel quale storicamente ci troviamo: la nostra provvisoria incapacità di afferrare e presentare i problemi categoriali nel loro complesso come problemi della realtà che si trasforma storicamente.»] D’altro lato, il divenire è al tempo stesso mediazione tra passato e futuro: tra il passato concreto, cioè storico ed il futuro altrettanto concreto, cioè altrettanto storico. Il concreto qui ed ora nel quale il divenire si risolve nel processo, non è più un istante passeggero ed inafferrabile, sfuggente immediatezza [nota a piè di pagina di Lukács: «Cfr. in proposito, la Fenomenologia di Hegel (in particolare Werke, II, pp. 73 sgg) dove questo problema viene trattato con maggiore profondità, ed anche la teoria di Ernst Bloch dell’ “oscurità del momento vissuto” e del “sapere non ancora cosciente”.»], ma il momento della mediazione più profonda ed articolata, il momento della decisione, della nascita del nuovo. Finché l’uomo rivolge intuitivamente e complessivamente il proprio interesse verso il passato o verso il futuro, entrambi si fissano in una estraneità d’essere – e tra soggetto ed oggetto si estende l’incolmabile “dannoso spazio” del presente. Soltanto se l’uomo è in grado di afferrare il presente, in quanto riconosce in esso quelle tendenze dal cui contrasto dialettico egli è capace di creare il futuro, il presente, il presente come divenire diventa il suo presente. “Infatti, la verità – dice Hegel – consiste nel non atteggiarsi nell’oggetto come verso qualcosa di estraneo”. [nota a piè di pagina di Lukács: «Werke, XII, p. 207.»] Ma se la verità del divenire è rappresentata dal futuro non ancora sorto, che deve essere reso prossimo, dal nuovo che emerge dalle tendenze che si realizzano (con il nostro ausilio cosciente), allora la questione della riflessività immaginativa del pensiero appare completamente priva di senso. Il criterio della correttezza del pensiero è appunto la realtà. Ma questa non è, diviene – non senza l’intervento del pensiero. Qui si realizza dunque il programma della filosofia classica: il principio della genesi e di fatto il superamento del dogmatismo (in particolare nella sua massima figura storica, nella teoria platonica del riflesso). Ma la funzione di questa genesi può essere svolta soltanto dal divenire concreto (storico). Ed in questo divenire, la coscienza (la coscienza di classe divenuta pratica nel proletariato) è un elemento costitutivo necessario ed indispensabile. Il pensiero e l’essere non sono quindi identici nel senso che essi si “corrispondono” reciprocamente, si “riflettono” l’uno nell’altro, procedono “parallelamente” o “arrivano a coincidere” (tutte queste espressioni sono soltanto forme dissimulate di un rigido dualismo): la loro identità consiste piuttosto nel loro essere momenti di uno stesso processo dialettico storico-reale. Ciò che la coscienza del proletariato “riflette” è quindi il positivo e il nuovo che scaturisce dalla contraddizione dialettica dello sviluppo capitalistico. Non dunque qualcosa che il proletariato trova o “crea” dal nulla, ma una conseguenza necessaria del processo di sviluppo nella sua totalità: qualcosa che, non appena arriva alla coscienza del proletariato e viene da esso reso pratico, si trasforma da astratta possibilità in realtà concreta. Questa trasformazione non è tuttavia meramente formale, dal momento che il realizzarsi di una possibilità, l’attualizzarsi di una tendenza significa appunto trasformazione oggettuale della società, modificazione delle funzioni dei suoi momenti e quindi modificazione sia strutturale che contenutistica di tutti gli oggetti particolari. Ma non si deve dimenticare: soltanto la coscienza di classe divenuta pratica del proletariato possiede questa funzione trasformatrice. In ultima analisi, ogni comportamento contemplativo puramente conoscitivo si trova in un rapporto duplice rispetto al suo oggetto: e la semplice introduzione della struttura qui riconosciuta in un altro comportamento qualsiasi che non sia l’agire del proletariato – dal momento che solo la classe nel suo riferirsi allo sviluppo complessivo può essere pratica – riconduce necessariamente ad una nuova mitologia del concetto, ad una ricaduta nel punto di vista della filosofia classica superato da Marx. Infatti, ogni comportamento puramente conoscitivo resta affetto dalla macchia dell’immediatezza: cioè, in ultima analisi, trova di fronte a sé una serie di oggetti finiti, non risolubili in processi. La sua essenza dialettica può consistere soltanto nella tendenza alla praticità, nell’orientamento verso le azioni del proletariato. Nel fatto che esso si rende criticamente cosciente di questa sua tendenza all’immediatezza, insita in ogni comportamento non-pratico e tende di continuo a chiarire criticamente le mediazioni, i rapporti con la totalità come processo, con l’azione del proletariato in quanto classe. Il sorgere ed il realizzarsi del carattere pratico nel pensiero del proletariato è tuttavia anch’esso un processo dialettico. In questo pensiero, l’autocritica non è soltanto autocritica del suo oggetto, la società borghese, ma è anche il riesame critico tendente ad accertare in che misura la propria natura pratica sia realmente arrivata a manifestarsi, quale grado di vera praticità sia oggettivamente possibile e quanto sia stato praticamente realizzato di ciò che era oggettivamente possibile. È chiaro infatti che la comprensione del carattere processuale dei fenomeni sociali ed il disvelamento della parvenza della loro rigida cosalità, per quanto possano essere corretti, non possono tuttavia sopprimere praticamente la realtà di questa parvenza nella società capitalistica. I momenti in cui questa comprensione può realmente convertirsi nella praxis sono determinati appunto dal processo sociale di sviluppo. Perciò il pensiero proletario è anzitutto soltanto una teoria della praxis, per trasformarsi poi a poco a poco (e indubbiamente spesso a salti) in una teoria pratica che trasforma la realtà. Solo le singole tappe di questo processo – che non è possibile qui neppure schizzare – potrebbero mostrare in piena chiarezza la via dello sviluppo della coscienza proletaria di classe (del costituirsi del proletariato in classe). Soltanto qui si illuminerebbero le intime interazioni dialettiche tra la situazione oggettiva, storico-sociale, e la coscienza di classe del proletariato; solo qui si concretizzerebbero realmente l’affermazione che il proletariato è il soggetto-oggetto identico del processo di sviluppo sociale.»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 263- 271. Per quanto la critica lukacsiana alla teoria del rispecchiamento arrivi con estrema precisione a minarne le fondamenta filosofiche e, come abbiamo visto, pagando un inevitabile pesantissimo pedaggio al mito del proletariato come classe universale in Storia e Coscienza di Classe non si troverà un passo dove verrà attaccato Materialismo ed Empiriocriticismo. Nella edizione impiegata nel Dialecticvs Nvncivs di Storia e Coscienza di Classe, alla prefazione, alle pp. XXXV-VI, Lukács fornisce il seguente ritratto di Lenin come interprete della filosofia della praxis che, oltre ad avere una indubbia aderenza col personaggio storico reale, rappresenta anche una sorta di Imitatio Lenini, alla quale ogni vero rivoluzionario per Lukács avrebbe dovuto trarre ispirazione seguendo una corretta – e concreta – filosofia della praxis (ma avrebbe dovuto trarre, pure questo traspare dalle parole di Lukacs, se non dalla vita di Lenin, dalla storia del movimento comunista anche motivi di meditata e sorvegliata prudenza: questa prefazione fu apposta da Lukács all’edizione di Storia e Coscienza di Classe del 1967 e dal 1923 fino all’anno dell’edizione del 1967 utilizzata nel presente lavoro Lukács non aveva autorizzato nessun’altra edizione ufficiale: fra l’edizione del 1923 e quella del 1967 tutta l’operato di Lukács fu teso – se escludiamo l’episodio di Codismo e Dialettica, opera, fra l’altro, rimasta per oltre settant’anni solo manoscritta, che se fu verosimilmente conosciuta, direttamente o indirettamente, nei circoli ristretti degli addetti ai lavori della rivoluzione, non poté mai dispiegare quella carica dirompente che avrebbe avuto se, in occasione delle critiche paleodiamattine di Rudas e Deborin a Storia e Coscienza di Classe, fosse stato data allora alle stampe – a smorzare sul piano personale e su quello politico le gravissime potenzialità di frattura che all’interno di un movimento comunista dominato dall’incipiente sovietico Diamat recava con sé Storia e Coscienza di Classe): «Già nella prefazione che scrissi recentemente per la riedizione separata di questo breve studio ho tentato di mettere in luce con una certa precisione ciò che io ritengo ancora vitale ed attuale nel suo atteggiamento di fondo. Ciò che importa a questo proposito è anzitutto intendere Lenin nella sua vera peculiarità spirituale, senza considerarlo come un prosecutore rettilineo sul piano della teoria di Marx e di Engels e neppure come un geniale e pragmatico “politico realistico”. Nel modo più conciso si potrebbe formulare questo ritratto di Lenin come segue: la sua forza teorica poggia sul fatto che egli considera qualsiasi categoria – per quanto possa essere astrattamente filosofica – dal punto di vista della sua efficacia all’interno della praxis umana e al tempo stesso porta l’analisi concreta della situazione concreta data di volta in volta, su cui si basa costantemente ogni sua azione, in una connessione organica e dialettica con i principi del marxismo. Così egli non è nel senso stretto del termine, né un teorico né un pratico, ma un profondo pensatore della praxis, un uomo il cui penetrante sguardo è sempre rivolto al punto in cui la teoria trapassa nella praxis e la praxis nella teoria. Il fatto che la cornice storico-spirituale di questo mio vecchio studio all’interno del cui ambito si muove questa dialettica, porti ancora in sé i tratti tipici del marxismo degli anni venti, altera indubbiamente alcuni elementi della fisionomia intellettuale di Lenin, dal momento che soprattutto nei suoi ultimi anni di vita egli sviluppò molto più di quanto faccia il suo biografo la critica del presente, ma riproduce anche i suoi lineamenti fondamentali in modo sostanzialmente corretto, poiché l’opera teorico-pratica di Lenin è anche oggettivamente inscindibile dai momenti preparatori del 1917 ed associata alle loro conseguenze necessarie. Oggi io credo che il tentativo di cogliere la peculiarità specifica di questa grande personalità riceva una sfumatura non del tutto identica, ma non per questo completamente estranea, attraverso l’illuminazione compiuta a partire dalla mentalità degli anni venti.» : György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. XXXV-VI. Gramsci, a differenza di Lukács, non ebbe la felice sorte di vivere abbastanza a lungo per vedere il fallimento dei regimi che iniziarono dalla Rivoluzione d’ottobre; ebbe però la fortuna di consegnarci un pensiero che giganteggia, forse anche per le sue eccezionali sventure personali, su tutti quanti coloro, fra questi indubbiamente Lukács, diedero fondamentali contributi per la fondazione di una filosofia della praxis che sapesse rompere definitivamente con tutti i positivismi e meccanicismi (e, conseguentemente, con tutti i postmodernismi liberal-liberisti) che hanno sempre tarpato le ali a coloro che vollero cogliere il vivo dell’insegnamento di Marx (e, ovviamente, della dialettica di Hegel: fra i giganti di quel marxismo occidentale che felicemente seppero far evolvere l’idealismo in una feconda filosofia della prassi nominiamo qui solo di sfuggita Karl Korsch e il suo Marxismo e Filosofia: autore ed opera che troveranno una ben più completa disamina in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico). Il conflittualismo dialettico-strategico del Repubblicanesimo Geopolitico, forse immodestamente ma, si spera, anche con la consapevolezza di Bernardo di Chartres, a questo aspira.
Alfred Eisenstaedt – ‘Weathervane in Vermont’, early 1940