LA RIVOLTA DEGLI SCERIFFI, di Gianfranco Campa già pubblicato su www.conflittiestrategie.it il 18 giugno 2016

Pubblico un articolo curioso e illuminante nella sua particolarità, apparso il 18 giugno 2013 sul sito www.conflittiestrategie.it del quale abbiamo fatto parte sia il sottoscritto che l’autore. E’ utile a comprendere gli antefatti che hanno portato all’attuale situazione negli Stati Uniti. Giuseppe Germinario

LA RIVOLTA DEGLI SCERIFFI
18.06.2013 conflittiestrategie 0 Comments
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Dalla finestra del suo ufficio si vede l’autostrada, una tipica freeway californiana con almeno quattro corsie per senso di marcia, si alza dalla sedia e si avvicina alla finestra, sembra fissare le macchine che sfrecciano sulla strada; non è ora di punta ma il traffico è già sostenuto. Si gira verso di me: “vuoi un caffè?”

La mia è una visita cordiale, ci sono stato altre volte nell’ufficio di questo sceriffo; un’autorità molto amata in questa contea di media grandezza nello Stato dell’oro, la California. Alto, di corporatura media, con una lunga carriera alle spalle, uno di quelli che ha cominciato dalla gavetta, facendo pattugliamento sulla strada e arrivando fino alla posizione più alta; “no grazie, il caffè l’ho già preso” rispondo. Ritorniamo a parlare del più e del meno ma c’è una domanda che mi brucia; aspetto il momento giusto; “hai mai avuto il piacere di incontrare l’ex sceriffo Richard Mack?” Mi guarda sorridendo, capisce che la mia è una domanda trabocchetto: “ma non eri venuto solo per salutarmi…? No, non ho mai avuto il piacere…Ma lo so dove stai andando a parare…Senti io non appartengo alla categoria degli sceriffi ribelli…” Il suo viso si fa serio “ le nuvole all’orizzonte sono cupe e minacciose …” dice lui, adesso anche io volgo lo sguardo alla finestra. Una giornata di sole di tarda primavera tipicamente Californiana; d’altronde nella baia di San Francisco da Aprile a Ottobre non piove mai, le nuvole cui si riferisce annunciano…ben altre tempeste… da tardo impero americano …

Quando nell’ormai lontano 1994, l’allora Sceriffo Richard Ivan Mack, della contea di Graham in Arizona, fece causa al governo Clinton, accusando il governo federale di violare la costituzione con il Brady Handgun Violence Prevention Act, pochi consideravano la possibilità che nel futuro immediato si sarebbe creato un gruppo consistente di sceriffi, sparsi in tutto il territorio a stelle e strisce, pronti ad alzare le barricate contro il tiranno federale (https://www.youtube.com/watch?v=uEoeLGIL3BI). Dopo quasi vent’anni dalla causa di Mack, siamo alla resa dei conti. La proposta di legge fatta recentemente dai democratici con il supporto di un ristretto numero di repubblicani e poi bocciata, la quale prevedeva l’ inasprimento delle norme sul controllo delle armi, ha creato un’onda d’urto considerevole tra molti sceriffi e tutori della legge americani, al punto da far sorgere lo spettro tangibile della ribellione armata.

Mentre gli americani devono confrontarsi, scandalo dopo scandalo, con la totale incompetenza e il delirio dell’imperatore nudo Obama e dei suoi fedeli, nei posti più remoti dell’America, più di 400 sceriffi, sparsi in 15 stati (il 15% degli sceriffi), su un totale di 3080, hanno giurato di opporsi a qualsiasi tentativo dei politici di violentare la costituzione, soprattutto riguardo al secondo emendamento: il diritto di possedere armi (https://www.youtube.com/watch?v=UAgcgGyv_i0). Sotto la magistrale regia dell’ormai ex sceriffo Mack con la sua stella appesa al chiodo, ma non il suo fucile, il movimento patriottico Americano ha ritrovato nuova linfa. Una linfa che non si vedeva forse dai tempi della guerra di indipendenza, quando nelle taverne del paese, gruppi di contadini, sceriffi, fuorilegge, coloni, tutti insieme patrioti convinti, si ritrovavano per esprimere la loro frustrazione e rabbia contro l’oppressione della corona inglese che limitava la loro libertà. Quegli stessi che poi si ritroveranno a combattere per l’indipendenza dal tiranno d’oltre oceano. Allora solo il 30% circa della popolazione di coloni, credeva nella necessità di liberarsi dal giogo della tirannia materna inglese. Ma quel 30 % era pronto a morire per il loro ideale di libertà, un concetto di patriottismo pressoché sconosciuto in Italia. Soprattutto questa Italia odierna del politicamente corretto, asservita ai padroni sparsi tra Europa e Nord America, preoccupata più delle proprie marchette che della propria sopravvivenza.

Questi 400 sceriffi, hanno non solo giurato di difendere la costituzione Americana dall’attacco perpetrato, secondo loro, da componenti del governo federale, ma sono passati dalle parole ai fatti. Negli Stati dello Utah e Nuovo Messico, 58 sceriffi hanno spedito una lettera di sfida alla Casa Bianca. In New Hampshire, uno sceriffo ha dichiarato che sia lui che ì suoi vice si ritengono giustificati nello sparare a vista contro i dottori abortisti per proteggere la vita “di piccoli innnocenti”, vittime di barbari assassini. Nella contea di Maricopa, in Arizona, l’ormai leggendario sceriffo Joe Arpaio (genitori originari di Lacedonia), è impegnato con i suoi incaricati a purgare la contea da immigrati illegali, cosa che gli è costata una denuncia da parte del Dipartimento di Giustizia Americano per abuso di potere; ma Arpaio ha risposto mostrando l’indice medio al governo federale e per ritorsione ha ordinato ai suoi vice, di avviare una inchiesta, per accertare, una volta per tutte, se il certificato di nascita mostrato da Obama è autentico oppure falsificato, caso questo che validerebbe la teoria cospiratrice che Obama non è nato negli USA, ma in Africa; quindi ineleggibile alla presidenza secondo la regola dettata dalla Costituzione Americana (https://www.youtube.com/watch?v=RbxBZ12sjgQ ).

Più di qualche sceriffo ha anche dichiarato che ogni agente federale che cercherà di applicare nella loro contea qualsiasi legge che sia in violazione o in diretto contrasto con la Costituzione Americana dei padri fondatori, verrà dichiarato fuorilegge e quindi sottoposto ad arresto immediato da parte dei suoi incaricati; una minaccia indirizzata soprattutto alla FBI. Lo Sheriffo Greg Hagwood, della contea di Plumas in California, ha dichiarato recentemente che il governo federale con le sue azioni incostituzionali “ha svegliato il gigante dormiente” (https://www.youtube.com/watch?v=a_fhPEMFOxk ). I casi sono virtualmente infiniti e non basterebbe un libro di 300 pagine per menzionare tutti gli sceriffi e le dichiarazioni da loro fatte negli ultimi mesi contro il governo centrale, contro Obama e contro i vigliacchi colleghi delle forze dell’ordine che non hanno ancora preso una posizione antigovernativa. Al riguardo è significativo aggiungere che recentemente in Colorado, durante una visita di Obama, un gruppo di Sceriffi ribelli ha manifestato contro in presidente, fuori dal luogo in cui parlava (https://www.youtube.com/watch?v=Vsgtvz4OnYw ). La cosa peculiare è che il Presidente aveva alle spalle, durante il comizio, un gruppo di agenti della Polizia di Denver ed il comizio si teneva nell’edificio principale dell’accademia di polizia di Denver. Passato l’evento si è saputo da alcuni degli agenti presenti, che molti colleghi sono stati ”obbligati” dall’amministrazione ad attendere e partecipare alla manifestazione di Obama. Si profila uno scontro tra forze di polizia contrapposte.

La storia degli sceriffi ribelli, non è l’unico segno di cedimento strutturale della potenza Americana. Come riportato l’anno scorso in questo mio articolo ( http://www.conflittiestrategie.it/cracks-in-the-empire) il problema è anche politico, oltre che civile/sociale. Lo scontento manifestato dagli sceriffi, anche se per il momento circoscritto a circa il 15%, potrebbe allargarsi ancora di più. Questi sceriffi si ergono a barriera contro la deriva liberale progressivista che pervade la terra a stelle e strisce. Loro sono pronti alla difesa estrema della causa patriottica conservatrice. Nelle parole dello sceriffo della contea di Milwaukee, David A. Clarke Jr., si sentono i tuoni, ancora lontani ma in avvicinamento, di una seconda rivoluzione americana (https://www.youtube.com/watch?v=hgH7LfNTt3U )

Questi 400 sceriffi possono contare sui loro incaricati, agenti addestrati allo stesso modo e a volte anche più di poliziotti regolari; vice che pattugliano ogni giorno le strade delle contee americane. Se calcoliamo questi subordinati fedeli ai loro sceriffi, parliamo di un potenziale di circa 40.000 agenti (stima per difetto). A questi deputati bisogna aggiungere semplici civili patrioti, militari ed ex militari, milizie anti-governative, poliziotti statali e cittadini comuni; quindi gli ingredienti ci sono veramente tutti per un nuovo 1776. Tutto dipenderà dal comportamento di Obama e della sua amministrazione su certe tematiche e politiche. Le sue elezioni, anche se apparentemente maggioritarie, seguite dagli scandali a ruota che coinvolgono la sua amministrazione e dalle leggi federali anti-costituzionali, hanno lasciato un segno indelebile e cambiato il corso del paese mettendolo quindi in rotta di collisione con milioni di cittadini americani. Il voto popolare preso da Obama in Novembre, non assicura la sua sopravvivenza perché le forze contrapposte a lui e al partito democratico sono quelle “dure e pure” (forze che vanno al di là del Partito Repubblicano, dove è in corso una resa dei conti stile “notte dei lunghi coltelli”) pronte a lottare e morire per la loro causa. I prossimi 3 anni di Obama saranno cruciali per capire se l’America che conosciamo potrà sopravvivere nella sua forma attuale oppure quella forma assumerà per sempre altre vesti.

Mi rivolgo di nuovo allo sceriffo: “ti vedo preoccupato …” Mi guarda diretto negli occhi “hai mai sentito la frase che fu detta da Lincoln?” “Quella sulla caduta dell’unione?” Chiedo io. “Sì, proprio quella” risponde continuando a scrutarmi negli occhi. “Non me la ricordo a memoria, mi pare che menzioni la caduta del nostro paese come una possibiltà concreta più dovuta a un fattore interno che esterno.” Con il dito si tocca la tempia “l’ho memorizzata fin da piccolo, mi rimase impressa dopo una discussione nella lezione di storia alle medie: America will never be destroyed from the outside. If we falter and lose our freedoms, it will be because we destroyed ourselves.” … Le nuvole all’orizzonte si stanno gonfiando di un nero pesante …

CREPE NELL’IMPERO, di Gianfranco Campa già pubblicato il 19 marzo 2012 sul sito www.conflittiestrategie.it

Pubblico un articolo curioso e illuminante nella sua particolarità, apparso il 19 marzo 2012 sul sito www.conflittiestrategie.it del quale abbiamo fatto parte sia il sottoscritto che l’autore. E’ utile a comprendere gli antefatti che hanno portato all’attuale situazione negli Stati Uniti. Seguirà un articolo dello stesso autore sulla rivolta degli sceriffi. Buona lettura, Giuseppe Germinario

CREPE NELL’IMPERO, di Gianfranco Campa

“La storia è una galleria di immagini in cui ci sono pochi originali e molte copie” Alexis de Tocqueville

Marcus Cassianius Latinius Postumus si dice sia nato in una famiglia povera di origine gallica, crescendo in condizioni modeste fino in età adulta, quando si arruolò nell’esercito. Postumus eventualmente avanzò di grado per effetto del suo coraggio, forza, intelligenza e capacità diplomatiche. Postumus e vissuto in una era di grande inquietudine per l’Impero Romano. Nel terzo secolo l’ambiente stava cambiando ed i Romani avevano a che fare con gravi problemi sia all’interno che al di fuori dell’impero. Postumus divenne il governatore della Germania Superiore durante il regno dell’imperatore Gallieno. Nel 258 DC, fu un anno di grande fermento alle frontiere: i Goti e le altre tribù germaniche venivano spinti contro i confini romani da una nuova tribù barbara di grandi guerrieri che erano tutto ad un tratto apparsi dall’ est: gli Unni. Gallieno era già impegnato in una guerra per difendere le frontiere orientali dai Persiani, suo figlio, Saloninus, si trovava in Germania per difendere la frontiera del Reno. Postumus nel frattempo era diventato il comandante delle legioni di stanza sulla frontiera del Reno. Non correva buon sangue tra Postumus e Saloninus, situazione che portò all’assassinio di quest’ultimo. Dopo la morte di Saloninus, Postumus si proclamò imperatore del nuovo Impero gallico, che comprendeva i territori di Spagna, Gran Bretagna, Gallia e Rezia. Il comandante ribelle affermò così la sua indipendenza da Roma e dall’imperatore Gallieno, arrivando a coniare una nuova moneta raffigurante il proprio volto . Postumus avrebbe regnato tra il 260-269 DC, quando fu assassinato da uno dei suoi uomini. L’Impero Gallico sarebbe andato avanti per altri cinque anni, fino al 274 DC, quando, dopo la battaglia di Chalons, l’imperatore Aureliano avrebbe reintegrato i territori di Postumus nell’Impero romano.

Nonostante la crisi del III secolo, l’impero romano sopravviverà per altri 200 anni, grazie soprattutto a due grandi imperatori: Diocleziano e Costantino, che contribuirono a immettere nuova linfa nell’impero morente. Le invasioni barbariche, iniziate nel 376 DC, con i Goti, e la sconfitta delle legioni romane ad Adrianopoli nel 378, avrebbero continuato per un secolo con i Visigoti nel 410, seguita dagli Unni nel 451 e dai Vandali nel 455, fino a quando l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo fu deposto da Odoacre nel 476 DC data che segnò la fine dell’impero romano occidentale. Le invasioni barbariche sono state il risultato, non la causa della debolezza romana. Quando Odoacre prese il potere, Roma era ormai un guscio vuoto.

Quando i padri fondatori hanno stipulato la Costituzione americana, lo hanno fatto prendendo ad esempio la Repubblica Romana come un modello politico. Da allora un numero incalcolabile di libri, relazioni accademiche e opinioni sono state rese sul confronto tra l’Impero Romano e gli Stati Uniti. Una considerevole quantità di storici e sociologi oggi vedono molte similitudini tra la fine dell’Impero Romano e la situazione attuale in evoluzione negli Stati Uniti. Il motivo di tanta ricerca è che gli USA siano la versione attuale dell’Impero Romano. Per loro, Hollywood equivale agli spettacoli tenuti nel Colosseo, la politica estera degli Stati Uniti con i loro tentacoli di vasta portata, l’esercito americano con la sua presenza ufficiale e non ufficiale in 140 paesi in tutto il mondo sono paragonabili alla legione romana a guardia del vasto territorio dell’impero. Naturalmente, questi confronti possono essere inverosimili, soggettivi e discutibili. A mio parere, Roma è troppo distante dagli Stati Uniti in termini di tempo per esprimere un giudizio equo. Gli Stati Uniti e Roma non sono confrontabili, ma per il ragionamento di questa analisi, facciamo finta che l’equazione USA = Romano Impero sia correlata. Dobbiamo partire dal presupposto che se gli Stati Uniti equivalgono all’Impero Romano i due condividerebbero allora lo stesso destino, compreso il loro collasso. Uno stato di fatto è che tutti gli imperi e le civiltà che ci hanno preceduto sono nati e morti seppelliti dalla storia. Alcuni di essi sono durati più a lungo rispetto ad altri, ma non c’è mai stata una civiltà che è sopravvissuta intatta al flusso del tempo.

Probabilmente, la caduta dell’impero romano non è stata causata da un singolo evento, ma era la combinazione di molti eventi, alcuni più importanti di altri. Non importa quale sia la ragione, i segni del declino erano presenti per essere interpretati e spiegati ben prima della fine dei Cesari. Si possono prevedere i tempi della fine americana? Possiamo interpretare i segni di decadenza americana e il collasso? Può essere, ma è un giudizio soggettivo di chi fa l’analisi. Nel terzo volume della La Storia della Civiltà, del suo splendido libro, Cesare e Cristo, pubblicato nel 1944, Will Durant ha scritto: “Una grande civiltà non viene conquistata dall’esterno fino a quando non si è distrutta dall’interno“.

Durante gli anni dell’Amministrazione Bush, personaggi appartenenti all’altra parte dello spettro politico avevano ipotizzato la caduta degli Stati Uniti a causa delle guerre in Iraq e in Afghanistan, del terrorismo, della globalizzazione, della erosione delle libertà civili, della violazione della Costituzione, della crisi economica, ect. Se abbiano realmente creduto alla sua morte è un’altra questione. Ora che Obama è in carica, l’ideologia politica avversa vede Obama e i risultati delle sue decisioni, come un segno del declino americano. Essi dichiarano: le guerre continuano, destabilizzazione di Medio Oriente e Africa, la spesa e il debito nazionale, la recessione economica, crollo della struttura familiare, erosione dei valori morali, la violazione della Costituzione, immigrazione, ect. Come potete vedere, alcuni di questi fattori sono gli stessi di entrambe le parti politiche e tutti insieme hanno una qualche validità nell’ipotizzare la possibilità del crollo americano. Tenete a mente, però, che fare la previsione su modelli futuri e stabilire una linea di tempo è quasi impossibile e non importa quanto efficaci si e`nell’interpretare gli eventi attuali; si può solo speculare. Forse uno dei più grandi errori che possiamo fare è quello di concentrarci sui segni più grandi, mentre sottovalutiamo i piccoli.

A volte i guai cominciano negli angoli più remoti dell’impero, i luoghi più tranquilli. Si inizia con una crepa, per quanto piccola, ma queste piccole crepe sono quelli più difficili da affrontare. A volte possono passare inosservate, anche quando sono visibili, non si prendono sul serio, perché sembrano innocue. Se non immediatamente chiuse, queste sono le crepe che si espandono mettendo così in moto una serie di effetti devastanti sulla fondazione; mettendo di conseguenza in pericolo la stabilità della struttura dell’impero. La proposta di legge del Wyoming HB85 potrebbe essere una di quelle piccole crepe.

Il Wyoming è un posto tranquillo, uno Stato bellissimo di montagne imponenti, maestosi parchi nazionali come Yellowstone e il Grand Tetons, con una massa di terra di 251501 chilometri quadrati, più grande della Gran Bretagna e Irlanda del Nord messe insieme. Confina con il Montana a nord, Nebraska e South Dakota ad est, Colorado e Utah a sud, Idaho ad ovest. Ci sono solo circa 570.000 residenti in Wyoming, ma è una terra ricca di risorse naturali. Wyoming fu acquistato dalla Francia nel 1803. A volte ci si riferisce al Wyoming come a “lo Stato Cowboy”. Oltre alla bellezza naturale, il Wyoming è uno degli stati che negli ultimi anni hanno espresso un certo “dispiacere” nei confronti del governo centrale e dell’amministrazione Obama.

Alcuni sostengono che questo malcontento è dovuto al fatto che il Wyoming è governato da un repubblicano, come repubblicani sono il segretario di Stato, il procuratore generale e il tesoriere. Non nego che ci sia una certa verità in questa affermazione, ma minimizzare il malcontento strisciante presente in alcuni degli stati dell’Unione, come una questione puramente ideologica-politica è troppo semplicistico. Per iniziare, il Wyoming è ben lungi dall’essere semplicemente uno “Stato Cowboy”come dice il suo soprannome. Il Wyoming ha una storia molto progressista. E ‘stato il primo stato dell’Unione a concedere alle donne il diritto di voto nel 1869, ha avuto la prima donna giudice di Pace nel 1870, la prima giuria tutta femminile nel 1870, la prima donna governatore negli Stati Uniti tra 1925-1927; il primo senatore donna negli Stati Uniti è stato eletto nel Wyoming, la prima città in America ad essere interamente governata da donne ; la città di Jackson nel biennio 1920-1921. Inoltre, Wyoming non è il primo Stato che ha cercato di esercitare una sorta di “indipendenza” da Washington. Dopo l’introduzione della legislazione sanitaria di Obama, molti stati, come Florida, Oklahoma, Colorado, Virginia, South Carolina e Georgia, hanno introdotto una legislazione locale in opposizione a determinati requisiti del mandato di salute pubblica di Obama. Inoltre, lo Utah, una volta ha tentato di creare il suo sistema monetario. In molti casi, questi stati si appellano al decimo emendamento della Costituzione americana che dice: “I poteri non delegati agli Stati Uniti dalla Costituzione, né proibiti ai singoli Stati, sono riservati ai rispettivi Stati, o ai cittadini. ” Originariamente i padri fondatori dell’America hanno messo l’emendamento decimo nel Bill of Rights, perché non volevano che il governo centrale diventasse troppo potente. Ma il decimo emendamento è stato dimenticato e indebolito da anni di continui cambiamenti e dall’acquisizione di maggiori poteri federali.

Il Wyoming HB85 va oltre la lotta alla legislazione sanitaria federale. HB85 è un nuovo tipo di disegno di legge senza precedenti dalla fine della guerra rivoluzionaria. HB85 propone la creazione di una task force “per studiare la continuità del governo locale in caso di interruzione nei poteri del governo federale.” Questa task force sarebbe stato costituita da due senatori nominati dal Senato. Nella proposta di legge è scritto: “La task force studierà gli impatti potenziali sul Wyoming di … una potenziale interruzione del governo federale degli Stati Uniti, compreso, ma non limitato a:

(I) gli effetti potenziali del rapido declino del dollaro degli Stati Uniti …

(Ii) gli effetti potenziali di una situazione in cui il governo federale non ha alcun potere effettivo o autorità sul popolo degli Stati Uniti;

(Iii) I potenziali effetti di una crisi costituzionale;

(Iv) Il coordinamento tra l’ufficio del governatore, la guardia nazionale e il personale militare federale nel Wyoming;

(V) I potenziali effetti di una interruzione nel settore della distribuzione alimentare;

(Vi) I potenziali effetti di una interruzione nella distribuzione di energia “.

Il disegno di legge è stato subito soprannominato il ” Doomsday Bill.” Introdotto da David Miller, un legislatore repubblicano del Wyoming, in un’intervista con un giornale locale, l’autore ha affermato che “Le cose a volte accadono in fretta. Guarda la Libia, guarda l’Egitto, vedi quelle situazioni “Miller ha anche aggiunto che” Se continuiamo su questa linea, questo è il modo in cui ogni società finisce -.. Con una moneta senza valore .”

HB85 è morta nella mattinata di Martedì 28 per soli tre voti, 30-27. Il disegno di legge inizialmente era sopravvissuto alla Camera, ma poi, prima della votazione finale, un altro parlamentare repubblicano, Kermit Brown, ha aggiunto una nuova clausola nel disegno di legge che la modificava in modo da includere uno studio per la creazione di un esercito indipendente del Wyoming, compresi marina e aviazione. In più alla possibilità di acquisto di una portaerei (non importa che il Wyoming sia senza sbocco sul mare). E facile intuire che Brown potrebbe aver deciso di aggiungere l’emendamento per una ragione: rendere il disegno di legge scandalosamente ridicolo firmandone la sua condanna. Forse Brown, un ex ufficiale della Marina, è stato colpito da un senso di fedeltà al governo federale. Brown ha dichiarato dopo aver aggiunto l’emendamento sulla portaerei “Ho deciso di iniettare un po’ di umorismo in questo disegno di legge“. Brown, ovviamente, non ha voluto immaginare uno stato dell’unione potenzialmente con il proprio esercito e la propria valuta.

Se il disegno di legge fosse passato, si sarebbe creato un gruppo di studio. Questo gruppo di studio avrebbe dovuto redigere un rapporto entro il dicembre di quest’anno, consigliando quali passi sono necessari per creare un esercito e una moneta. Chissà cosa sarebbe venuto dopo? Una volta che la porta è aperta, tutto può succedere. Non è difficile immaginare forse non nell’immediato futuro, ma nei prossimi anni, che, inspirato dal Wyoming, qualcuno potrebbe prendere l’iniziativa di presentare un referendum per l’indipendenza da Washington.

Molti degli altri Stati dell’Unione hanno problemi di bilancio e il governo federale è di $ 15 trilioni di debito. Alcuni hanno chiamato i sostenitori della ” Doomsday Bill” pazzi da complotto apocalittico e stanno ridendo di loro. Ma dietro queste etichette facilmente appiccicate,il Wyoming ha il diritto di essere preoccupato. Per Miller e molti dei legislatori del Wyoming, l’incubo di un crollo del governo centrale è reale. Miller ha dichiarato: “Le cose le facciamo giuste nel Wyoming, abbiamo la miglior conduzione dello Stato incluso un avanzo di bilancio. ” Le finanze del Cowboy State sono molto migliori rispetto al resto del paese. Sam Krone, un rappresentante repubblicano di Cody, ha dichiarato: “Siamo in una situazione relativamente buona finanziariamente, con $ 14 miliardi di risparmio e surplus.” La disoccupazione in Wyoming è anche la più bassa rispetto al resto del paese con il 5,7%; ben al di sotto del 8,5% a livello nazionale. Lo Stato del Wyoming in questo ciclo di bilancio in corso prevede di finire con 1.000 milioni dollari in eccesso. Sicuramente la gestione del “Cowboy State” è molto positiva

Se l’umanità sopravvive, in 1000 anni, gli storici guarderanno indietro nel la storia e` forse identificheranno la HB85 come una di quelle piccole crepe che sono diventati un punto di svolta nella caduta degli Stati Uniti. Se ci sono voluti 200 anni per Roma a cadere, ci vorrà molto meno per gli Stati Uniti. Se non è il Wyoming, forse sarà un altro Stato a bussare alle porte dell’indipendenza, usando come mezzo il “referendum democratico” creando probabilmente un effetto domino. Allora la caduta sarà veloce come il collasso dell’Unione Sovietica. Non vedo uno Diocleziano o Constantino all’orizzonte. Il meglio che l ‘America è in grado di produrre al giorno d’oggi sono persone del calibro di Obama o di Romney. Invece di ridere, mi metterei a piangere.

Potete leggere una copia del HB-85 aprendo questo link: http://legisweb.state.wy.us/2012/Bills/HB0085.pdf

“History is a gallery of pictures in which there are few originals and many copies” Alexis de Tocqueville

It has been said that Marcus Cassianius Latinius Postumus was born to a poor Gallic family and after growing up in modest conditions until adult age, he joined the army. Postumus eventually rose through the ranks due to his courage, strength, intelligence and diplomatic skills. Postumus’ times were times of great unrest for the Roman Empire. By The third century the environment was changing and the Romans were dealing with severe problems inside as well as outside the empire. Postumus eventually became the governor of Germania Superior during the reign of Emperor Gallienus. In 258 AD, there was great turmoil on the frontiers: The Goths and other Germanic tribes were being pushed against the Roman borders by a new barbarian tribe of great warriors that suddenly appeared from the east: The Huns. Gallienus was already engaged in a struggle to defend the eastern frontiers from the Persians; his son, Saloninus, was in Germany defending the Rhine frontier. By then, Postumus had become the commander of the legions stationed on the Rhine frontier. There was bad blood between Postumus and Saloninus, leading to the execution of the latter. After the death of Saloninus, Postumus declared himself Emperor of the Gallic Empire, which included the territories of Spain, Britain, Gaul and Rhaetia. The rebel commander asserted his independence from Rome and the Emperor Gallienus by also coining a new currency. Postumus would reign from 260 to 269 AD, when he was assassinated by one of his own men. The Gallic Empire would go on for another five years until, after the Battle at Chalons in 274 AD, Emperor Aurelian claimed back the territories for the Roman Empire. Despite the crises of the third century, the Roman Empire would linger on for another 200 years, thanks mainly to two great emperors: Diocletian and Constantine, who were instrumental in breathing new life into the dying empire. The barbaric invasions, which started in 376 AD with the Goths and the defeat of the Roman legions at Adrianople in 378, would continue for a century off and on, with the Visigoths in 410, followed by the Huns in 451 and the Vandals in 455, until the last Roman emperor, Romulus Augustulus was deposed in 476 AD by Odoacer which, as a date, marked the end of the western Roman empire. The barbaric invasions were the result, not the cause, of Roman weakness. By the time Odoacer came to power, Rome was an empty shell.

When the founding fathers drafted the American Constitution, they looked at the Roman Republic as a political model. Since then countless numbers of books, scholarly papers and opinions have been rendered on the comparisons between the Roman Empire and the USA. A considerable amount of historians and sociologists today see many similarities between the fall of the Roman Empire and the evolving situation in USA today. They see the USA as the current version of the Roman Empire. To them, Hollywood is comparable to the spectacles played in the Coliseums; the US foreign polices with their far reaching tentacles and the US military with its official and unofficial presence in 140 countries around the world is comparable to the Roman legions guarding the vast territory of the empire. Naturally, these comparisons may be farfetched, subjective and debatable. In my opinion, Rome is far too distant from the USA in terms of era to render a fair judgment. The United States’ and Rome’s achievements are not comparable, but for the sake of this analysis, let’s pretend that the equation USA=Roman Empire is interrelated. We have to start from the presumption that if the USA is equal to the Roman Empire, then the two will share the same fate, including their collapse. It is a fact that all empires and civilizations that have preceded us have come and gone, some of them have lasted longer than others, but there has never been a civilization that has survived untouched the flow of time.

Arguably, the Roman Empire’s fall was not due to a single event, but was the combination of many events, some more important than others. No matter the reason, the signs of the decline were there well before the end of the Caesars. Can we predict the timeframe of the end of the American enmpire? Can we interpret the signs of American decay and collapse? Of course that depends on whom you are talking to; opinions on the matter will differ. In the third volume, The Story of Civilization, of his splendid book, Caesar and Christ, published in 1944, Will Durant wrote, “A great civilization is not conquered from without until it has destroyed itself from within.”

During the years of the Bush administration, people on the opposite side of the political spectrum claimed the pending demise of the USA due to the wars in Iraq and Afghanistan, terrorism, globalization, erosion of civil liberties, violation of the Constitution, economic crises, etc. Now that Obama is in charge, the other side of the political ideology sees Obama and his decision-making results as a sign of the American demise. They point to continuing wars, destabilization of the Middle East and Africa, spending and national debt, economic recession, the breakdown of the family structure, the eroding of moral values, violation of the Constitution, immigration, etc. As you can see, some of these factors are the same from both political prospectives and, all together, they have some validity in making the case for the American downfall. Keep in mind, however, that predicting future patterns and establishing a time line is impossible, and no matter how well one interprets the current events, one can only speculate. Perhaps one of the biggest mistakes we can make is to focus on the bigger signs, while underestimating the small ones.

Sometimes trouble starts in the far reaches of the empire, the quietest places. It begins with a crack, however small. Sometimes these cracks go undetected. Even though visible, they are not measured seriously because they look harmless. If not patched promptly, these cracks will expand, setting in motion a series of devastating effects on the foundation and stability of the empire. The Wyoming Bill HB85 is one of those small cracks.

Wyoming is a quiet place, a beautiful State of towering mountains, majestic national parks such as Yellowstone and the Grand Tetons, with a land mass of 251,501 sq. km, larger than Great Britain and North Ireland put together. It borders Montana to the north, Nebraska and South Dakota to the east, Colorado and Utah to the south, and Idaho to the west. There are only roughly 570,000 residents in Wyoming, but it is a land rich in natural resources. Wyoming was purchased from France 1803. Sometimes people refer to Wyoming as the “Cowboy State.” Besides its natural beauty, Wyoming is also one of several states that in the last few years have voiced certain “displeasure” toward the central government and the Obama administration.

Some argue that this malcontent is due to the fact that Wyoming is governed by a Republican, and the secretary of state, the attorney general and the treasurer are also Republicans. I won’t deny that there is a certain truth in this statement, but to discount the malcontent slithering around some of the states in the Union as political issues is too simplistic. To start, Wyoming is far from its nickname of “Cowboy State.” Wyoming has a rather progressive history. It was the first state in the Union to grant women the right to vote in 1869; it had the first woman Justice of the Peace in 1870; the first all-women jury in 1870; the first woman governor in the US from 1925-1927; the first female senator in the US was elected from Wyoming; the first town in America to be governed entirely by women was the city of Jackson from 1920-1921. In addition, Wyoming is not the first state that has tried to exercise some kind of “independence” from Washington. Since the introduction of Obama’s Health Care legislation, many states, such as Florida, Oklahoma, Colorado, Virginia, South Carolina, and Georgia, have introduced local legislation in opposition to certain requirements of the Obama Healthcare mandate. Additionally, Utah once attempted to create its own monetary system. In many cases, these states are appealing to the 10th Amendment to the American Constitution which says, “The powers not delegated to the United States by the Constitution, nor prohibited by it to the States, are reserved to the States respectively, or to the people.” Originally, America’s founding fathers put the 10th Amendment into the Bill of Rights because they didn’t want the central government to become too powerful. But the 10th amendment has been forgotten or weakened by years of constant changes and the acquisition of more federal powers.

Wyoming HB85 goes beyond the fight over federal healthcare legislation. HB85 is a new kind of bill, unprecedented since the end of the Revolutionary War. HB85 called for a task force “to study governmental continuity in case of a disruption in federal government operations.” This task force would have been made up of two senators appointed by the Senate. It stated that, “The task force shall study potential impacts on Wyoming of…a potential disruption of the United States federal government including, but not limited to:

(i) Potential effects of the rapid decline of the United States dollar…

(ii) Potential effects of a situation in which the federal government has no effective power or authority over the people of the United States;

(iii) Potential effects of a constitutional crisis;

(iv) Coordination between the governor’s office, Wyoming national guard and any federal military in Wyoming;

(v) Potential effects of a disruption in food distribution;

(vi) Potential effects of a disruption in energy distribution.”

The bill was quickly nicknamed the “Doomsday Bill.” It was first introduced by David Miller, a Republican Wyoming Legislator. In an interview with a local newspaper, Miller stated that “Things happen quickly sometimes. Look at Libya, look at Egypt, look at those situations.” Miller also added that “If we continue down this course, this is the way any society ends up – with a valueless currency.”

HB85 was killed on Tuesday morning, February 28 2012, by three votes, 30-27. The bill initially survived the House, but prior to the vote, another Republican legislator, Kermit Brown, added new language in the bill amending it to include a study to train and establish an independent Wyoming army, including navy and air force, in addition to the possibility of the purchase of an air carrier (never mind that Wyoming is landlocked). It appears Brown decided to add the amendment to make the bill so outrageously ridiculous to effectively kill it. Perhaps Brown, a former navy officer, had an allegiance to the federal government. He stated after adding the air carrier amendment that “It was just injecting a little bit of humor into the bill.” Brown obviously did not want to envision a state within the United States with potentially its own army and currency.

If the bill had passed, it would have created a task force. That task force would have had to come up with a report by December of this year, advising on what steps were necessary to take to have an army and a currency. Even though the bill does not call for a split from the central government, the mere fact that a possibility of a central government collapse is taken into the account is troubling. Who knows what would have come after the task force’s report? Once the door is open, anything can happen. It’s not hard to imagine that in the next few years, someone might take the initiative to submit a referendum for independence from Washington. Other states of the Union have major budgetary issues and the Federal government is $15 trillion in debt. Some people have called supporters of the “Doomsday Bill” apocalyptic conspiracy lunatics, and they are laughing at them. But behind these easily attached labels, Wyoming does have the right to be worried. To Miller and many of the Wyoming legislators, the nightmare of a collapse of the central government is real. Miller stated, “We do it right in Wyoming, we have the best-run state. We have a budget surplus.” Its finances are in better shape than the rest of the country. Sam Krone, a Republican Representative from Cody, stated “We’re in relatively good shape financially, with $14 billion in savings and assets.” Unemployment in Wyoming is also the lowest of the Union with 5.7%, well below the 8.5% nationally. The state also has billions of dollars in savings and in this current budget cycle is expected to end with $1 billion surplus.

If humanity survives, in 1,000 years historians may look back in time and identify HB85 as one of those small cracks that became a turning point in the fall of the United States. If it took 200 years for Rome to fall, it will take much less for the United States. If it’s not Wyoming, perhaps it will be another state that could seek independence by means of a “democratic referendum” or legislative actions to create a domino effect. Then it will be as fast as the fall of the Soviet Union. I don’t see a Diocletian or Constantine on the horizon. The best America can produce nowadays are people of the caliber of Obama or Romney. Instead of laughing, we should be crying.

Here is the link to HB85: http://legisweb.state.wy.us/2012/Bills/HB0085.pdf

UNA CHIOSA di MASSIMO MORIGI a “la posta in palio delle elezioni americane”

Una chiosa di Massimo Morigi a “la posta in palio delle elezioni americane” che va al di là delle considerazioni sull’evento oggetto dell’articolo spingendosi a riflessioni sul piano teorico e sui fondamenti impliciti di questa analisi. Buona lettura
Ne “La posta in palio delle elezioni americane” Giuseppe Germinario, oltre a fornirci una completa ed esatta radiografia delle forze in campo nelle elezioni presidenziali USA del 2016, una disamina che per nitore e completezza ridicolizza tutti gli sproloqui in proposito dei vari turiferari di destra e sinistra del nostro paese il cui unico scopo è vendere ai consumatori della politica (i.e. il popolo) le magliette della propria squadra politica, è un anche un esempio di scuola di una metodo che in tempi – parafrasiamo Lenin – quando si era teoricamente più arretrati ma politicamente ben più avanzati, si sarebbe definito dialettico, metodo dialettico perché il nucleo della dialettica, in verità assai semplice da comprendere da qualsiasi persona di buon senso, è la consapevolezza che nelle società (così come nella natura, ma per il momento tralasciamo questo legame, la cui discussione va ben al di là dello scopo di queste brevi note dedicate a commentare l’articolo di Germinario) non esistono da una parte i valori e dall’altra delle forze, la cultura, l’economia, la politica, che rispondono ad una diversa legalità ma che, al contrario, fra questi vari momenti dell’espressività umana convivono, si intrecciano e si fondono tutti quegli aspetti che una mente ingenua (o più spesso, interessata) vuole tenere distinti. Prima ancora che di Marx, fu questa la fondamentale acquisizione di Machiavelli e come non machiavelliana – non nel senso deteriore del “fine che giustifica i mezzi”, concetto mai del resto espresso dal Segretario fiorentino, ma nel senso che la politica ha una morale che la morale comune, proprio perché intrinsecamente non dialettica, non può comprendere – potrebbe essere giudicata l’affermazione dove, per esempio, in relazione alle capacità di mobilitazione del Partito democratico della parte meno avvertita e politicamente consapevole della popolazione statunitense, Germinario scrive che “Il concetto di diritto individuale inteso come soddisfazione di bisogni personali e di gruppi particolaristici che sovrasta e prescinde dai contesti sociali e politici, proprio del radicalismo democratico, assurge al rango di ideologia dominante e motivante. La stessa ambizione al benessere tende ad essere ridotta al diritto a un reddito e a un sostentamento, ad una mera redistribuzione di risorse”?, o dove quel moderno imperativo categorico delle cosiddette democrazie rappresentative che va sotto il nome di ‘diritti umani’ viene messo in discussione e ricondotto alla sua valenza di instrumentum regni di matrice geopolitica quando Germinario giudica che “La stessa pratica del multilateralismo, d’altro canto, comporta una crescente dispersione delle energie politiche ed una progressiva caduta di credibilità legata alla posizione di arbitro-giocatore nei conflitti e alla mutevolezza opportunistica delle alleanze più o meno dichiarate. Una dinamica che sta erodendo inesorabilmente l’efficacia del richiamo al rispetto dei cosiddetti diritti umani”? E se “La posta in palio delle elezioni americane” è quindi un’ ottima dimostrazione di come la dialettica della lotta fra gruppi dominanti sia produttiva – oltre che, ça va sans dire, di potere – di valori, in quanto cimento dialettico è anche un importante ed affilato strumento per una rinnovata prassi politica intesa a spazzare via dalla faccia della terra tutti quegli idola fori che l’imparaticcia cultura delle cosiddette democrazie avanzate occidentali ha iniettato nelle teste dei poveri consumatori passivi della politica. L’ultimo frutto di questa pseudocultura, accanto al ridicolo concetto appartenente alla demonologia polemologica e neo-colonialista di ‘terrorista’, è l’abuso del termine ‘populismo’, che non ha altra funzione di sostituire, come strumento di demonizzazione dell’avversario, l’ormai consunto ‘fascismo’ e suoi derivati, area semantica quest’ultima ormai priva di ogni senso politico, assiologico e valoriale sia per la distanza temporale che ci separa dall’esperienza fascista e nazista (se prima le masse, almeno intuitivamente, sapevano per esperienza diretta di cosa si trattava, ora hanno perso anche questa consapevolezza) sia perché dal punto di vista scientifico assolutamente inapplicabile per definire i fenomeni di resistenza contro la retorica totale e totalizzante dell’odierna ideologia democratica. Come giustamente individua Germinario, il vero significato dell’opzione “populista” di Trump è “Il timore […] che il nascere di una alternativa politica fondata sul riconoscimento delle forze in campo internazionali e sul recupero di una economia più equilibrata in una situazione interna così fragile porti alla sconfessione di una intera classe dirigente e al crollo del sistema di relazioni illustrato”. E prosegue così concludendo il ragionamento: “Non ha senso per noi schierarci nella solita inutile tifoseria senza alcuna influenza; piuttosto dovremo valutare le opportunità che potranno sorgere da questa situazione se non addirittura da una sia pur remota eventuale vittoria di Trump. Ma sono appunto opportunità che si vuole e si deve voler cogliere con la costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia”. Dal punto di vista di una corretta ed efficace prassi politica che non può non sostanziarsi in una integrale visione dialettica (si ripete, ad nauseam, il dialettico concetto ma di questi tempi …) come non ha senso schierarsi per quanto riguarda le elezioni americane con il “populista” Trump (consideriamo farlo per il suo avversario un’opzione, si passi il termine, addirittura contronatura), così a casa nostra non ha alcun senso schierarsi, in occasione del referendum costituzionale, per le vecchie oligarchie o per il nuovo “populismo” al governo (populismo, fra l’altro, che suona anche assai falso visto che si sta attualmente sviluppando in occasione delle mancate performance, soprattutto dal punto di vista dell’ecomomia, della politica dell’attuale mai eletto premier). Bisogna, piuttosto, valutando “le opportunità che potranno sorgere da questa situazione”, internazionale – dice Germinario – ed interna – dico io ma non credo proprio di tradire il pensiero di Germinario – schierarsi per la “costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia”. Gramsci nei Quaderni del Carcere ci dice del machiavellismo degli Stenterelli (“Stenterello è molto più furbo di Machiavelli […]”: Quaderno 9 (XIV) § 25 ). Se ci sapremo sbarazzare di questo deteriore machiavellismo, allora si potrà avviare una prassi politica all’altezza di coloro come Machiavelli, Mazzini, Marx, Lenin e Gramsci intesero la politica come una cosa terribilmente seria (ed anche terribilmente bella). Se invece ci atterremo alla prassi di Stenterello, allora teniamoci pure la Clinton, il “populista” Trump e, a casa nostra, i vecchi oligarchi e quelli nuovi figli dei vecchi (non i vecchi o i nuovi, troppo bello: i vecchi assieme ai nuovi). L’articolo di Germinario, apparentemente solo rivolto alle elezioni USA, può così essere visto – ad una più attenta ma non certo esegeticamente particolarmente complessa lettura – come un invito ed una precisa indicazione per la vita interna del nostro paese, giusto l’oraziano e marxiano ammonimento “de te fabula narratur”.

Massimo Morigi – 2 novembre 2016

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

I momenti in cui il velo della dissimulazione, il fair play sbiadiscono sino a rivelare la spietatezza dello scontro politico sono piuttosto rari.
Di solito può avvenire nei momenti in cui la forza dominante ritiene di avere il potere e controllo assoluto della situazione, ma si tratta di una illusione, spesso di un delirio di onnipotenza, destinata ad infrangersi rapidamente.
Più spesso avviene nelle fasi di scontro aperto tra centri con opzioni politiche antitetiche la prevalenza di una delle quali comporta la soppressione o la irrilevanza della parte avversa. È il momento in cui, nelle cosiddette democrazie, la cosiddetta divisione dei poteri tesa al reciproco controllo si trasforma apertamente nella collusione dalle modalità sofisticate tra settori di poteri nelle loro diverse funzioni.
Gli Stati Uniti, al pari di altri paesi, hanno conosciuto ciclicamente questi momenti.
Quaranta anni fa fu il Presidente Nixon a farne le spese.
Il casus belli fu la scoperta di un sistema illegale di intercettazione delle conversazioni di avversari politici. Il motivo reale fu l’opposizione di altri centri politici alla politica di apertura alla Cina in qualità di leader di un terzo polo ostile al blocco sovietico propugnata da Nixon e Kissinger.
Uno scontro acceso che quantomeno, però, riuscì a salvaguardare le apparenze della correttezza di rapporti istituzionali; consentì persino alla stampa, nella figura dei giornalisti Woodward e Bernstein, di rafforzare la propria immagine di indipendenza quando in realtà essa fu il veicolo di informazioni pilotate da settori di servizi e apparati tesi a colpire una determinata strategia politica.
Oggi, le elezioni presidenziali americane offrono uno scenario nel quale parecchi di quegli infingimenti sopravvissuti al Watergate sono venuti meno.
• La quasi totalità dei tradizionali mezzi di comunicazione fa aperta campagna elettorale a sostegno della candidata, asseconda gli argomenti e le cadenze scelte da uno dei comitati elettorali, spesso ne anticipa le azioni sostituendosi ad esso secondo una agenda ormai con ogni evidenza concordata.
• Una Agenzia delle Fisco impegnata negli accertamenti in particolare delle attività della fondazione del candidato e pressoché incurante dello stratosferico giro di finanziamenti provenienti anche da quegli ambienti meno commendevoli che i paladini dei diritti umanitari dovrebbero stigmatizzare. Una rete tra l’altro costruita in anni di incarichi pubblici internazionali ricoperti dalla famiglia Clinton.
• Una autorità investigativa impegnata ad indagare personaggi di primo livello dello staff di Trump su filoni nei quali risulta implicata la candidata Clinton e il suo staff, spesso e volentieri colti praticamente con le mani nel sacco dei brogli elettorali e quant’altro, ma ancora apparentemente indenne da indagini.
• L’aperta ostilità e la dichiarata intenzione di disobbedienza di numerosi vertici dello Stato e funzionari, in particolare delle Forze Armate e dei dipartimenti di sicurezza ed esteri nell’eventualità di vittoria di Trump.

Gli esempi potrebbero arricchirsi sino a comprendere la cadenza programmata e presumibilmente sempre più incalzante delle defezioni degli esponenti neoconservatori repubblicani a sostegno ormai più o meno esplicito della candidata democratica.
Quanto esposto mi pare però più che sufficiente ad intuire intanto la radicalità dello scontro e soprattutto la inconciliabilità fattuale di opzioni strategiche; una intuizione però non suffragata ad arte da un aperto dibattito sviato piuttosto dalla campagna denigratoria sui comportamenti privati di qualche decennio fa di Trump innescata dalle austere testate del NYT e del WPJ e dall’allusione insistita di connivenza con il nemico ufficiosamente dichiarato di nome Putin.
Una radicalità paradossalmente del tutto assente ai tempi della elezione di Obama, non ostante i fiumi di retorica sull’arrivo de “l’uomo nuovo e della nuova era dei diritti”.
Anche quella elezione di otto anni fa sancì una svolta ormai per altro già in atto dall’anno precedente. Sul piano internazionale si passò da una politica di intervento massiccio diretto ma necessariamente più delimitato sulla base del quale costruire sul posto nuove alleanze ad una politica di intervento “coperto” più discreto ma molto più capillare e diffuso teso ad utilizzare e fomentare le divisioni sugli innumerevoli fronti aperti. Si trattò in pratica di una opzione diversa, più radicale e flessibile, all’interno di una stessa strategia tesa al conseguimento di un controllo unipolare. Il prezzo politico pagato dalla fazione perdente si risolse infatti in qualche umiliazione pubblica come incorse al malcapitato Presidente Bush in occasione del conflitto georgiano del 2008. Sul piano interno si risolse con il gigantesco salvataggio del sistema finanziario, con il contenimento del processo di deindustrializzazione nei settori complementari ed il potenziamento di quelli strategici, con l’estensione del diritto all’assicurazione sanitaria mantenendo il regime privatistico.

I PRESUPPOSTI DELLA SVOLTA DI GATES-OBAMA

Il perseguimento dell’obbiettivo di monopolio egemonico sotto nuove spoglie aveva bisogno di essere sostenuto da diverse gambe e da motivazioni ideologiche più complesse di quelle in dotazione nell’armamentario neoconservatore americano più che altro ridotto al concetto di introduzione forzata della “democrazia” e di libertà “supportata” negli affari.
Il concetto di diritto individuale inteso come soddisfazione di bisogni personali e di gruppi particolaristici che sovrasta e prescinde dai contesti sociali e politici, proprio del radicalismo democratico, assurge al rango di ideologia dominante e motivante. La stessa ambizione al benessere tende ad essere ridotta al diritto a un reddito e a un sostentamento, ad una mera redistribuzione di risorse.
Il sodalizio che è maturato nell’ultimo trentennio tra questi ambienti e il complesso militare-industriale, propugnato dai democratici americani ma ormai ben accetto dagli ambienti neocon, ha fornito l’energia sufficiente all’interventismo “discreto”, al sostegno dei particolarismi identitari e della ulteriore frammentazione politica del pianeta secondo le proprie esigenze strategiche. Lo abbiamo riscontrato in Europa, nel Nord-Africa e soprattutto in Medio-Oriente dove l’ambizione alla nazione araba comprensiva di laici e cristiani è stata ridotta ormai al particolarismo arabo-sunnita dalle mille fazioni. Lo stesso perseguimento dell’autonomia energetica sembrava un ulteriore fattore in grado di minimizzare i contraccolpi della libertà di intervento.
È un sodalizio che per perdurare ha bisogno però di controllare ed indirizzare i due processi reticolari che determinano le relazioni su scala mondiale apparentemente in grado di autoregolarsi nella loro maturità:
• la globalizzazione, intesa come rete inestricabile di relazioni soprattutto economiche e comunicative di tipo molecolare tendenzialmente scevro da alleanze e sodalizi consolidati. Nella sua versione utopica, propria del periodo clintoniano degli anni ‘90 e del primo Bush, mirava ad impedire alleanze stabili e sodalizi economici tra stati e paesi e a ricondurre le relazioni sotto il controllo e la normazione di organismi internazionali apparentemente autonomi, in realtà strettamente controllati da parte americana. Nella versione pragmatica odierna, propria della gestione Obama, arriva a riconoscere la presenza di diverse aree di influenza e di relazioni privilegiate normate però secondo la visione e gli interessi fondamentali di una unica potenza che funge da anello di congiunzione tra le stesse.
È la logica che sta spingendo alla costruzione dei trattati TTP e TTIP. La gestazione faticosa e secondo me altamente problematica e lontana dagli obbiettivi originari della dirigenza americana lascia intuire che il diaframma che separa questa concezione universalistica dalla presa d’atto finale della formazione di zone di influenza in attrito tra loro è ormai sottile
• il multilateralismo, accezione diversa dal policentrismo, attraverso il quale si cerca di inibire la formazione di diverse aree politiche di influenza e tanto meno di sistemi di alleanze potenzialmente in conflitto tra di essi attraverso la regolazione di rapporti occasionali tra singoli stati entro la supervisione di organismi internazionali a controllo americano

COSTI E BENEFICI DELLA GLOBALIZZAZIONE E DEL MULTILATERALISMO

Per quanto di successo, non esistono politiche che comportino solo benefici ad agenti e centri vittoriosi, tanto meno ai restanti
Per quanto conservatrice e reazionaria, la politica è movimento, determina e si inserisce in dinamiche, implica inevitabilmente amici e nemici, alleati e avversari, decisione ed obbedienza entro i vari campi di azione pubblica spesso al di là delle intenzioni e delle capacità di previsione degli agenti politici e in sistemi di relazione mutevoli e cangianti.

Così la necessità di indirizzare e regolare i due processi comporta l’obbligo di sostenere i costi di una supremazia politico-militare e tecnologica soverchiante.

La supremazia politico-militare è garantita da un sistema di alleanze (NATO,ect) congegnato in modo da impedire l’autonomia operativa efficiente delle strutture militari e dei complessi industriali collegati dei paesi satelliti riducendo di conseguenza il loro spazio di iniziativa politica autonoma; in modo tale altresì da poter pescare dall’ampio cortile i volenterosi disponibili a partecipare di volta in volta alle avventure militari. Un sistema che comporta un onere preponderante da parte degli Stati Uniti solo in piccola parte direttamente compensato dalla partecipazione diretta degli alleati alle spese.
Un onere reso ancora sostenibile dalla straordinaria capacità ancora pressoché unica da parte degli Stati Uniti di riuscire a convertire ed utilizzare le scoperte e le tecnologie di origine militare nell’industria civile proponendo prodotti e sistemi di servizi innovativi dei quali riesce a detenere gelosamente il controllo.
Riescono in pratica a costruire e detenere, grazie alla loro politica, il MERCATO.

Sino a quando, in pratica sino agli anni ‘80, le dimensioni geografiche del cuore della propria area di influenza si limitavano all’Europa, al Giappone, alla Corea del Sud e all’Australia il ciclo rimaneva virtuoso; consentiva di costruire negli USA una formazione sociale sufficientemente coesa ed equilibrata nella quale accanto alle attività di punta permanevano in buona misura tutta una serie di attività complementari che consentivano piena occupazione e una costruzione di ceti medi di servizio e produttivi ricca di funzioni e gratificati economicamente.
Con l’implosione del blocco sovietico e l’emergere delle ambizioni di nuovi grandi paesi il circuito si è notevolmente complicato così come i fattori da combinare. In interi settori economici la ricerca scientifica, la progettazione dei prodotti, il marketing si separano dalla diretta attività di produzione ed pezzi interi di settori industriali migrano praticamente dagli USA per finire in gran parte in Cina, ma anche in altri paesi. Agli inevitabili squilibri e polarizzazioni innescati nella formazione sociale americana corrispondono nei nuovi paesi nuove capacità indispensabili a fornire le risorse necessarie ad una politica di potenza ma lungi ancora da essere conseguite stabilmente ed autonomamente.
Sino ad ora questa dinamica è stata compensata dal controllo ferreo del sistema finanziario e monetario con il quale è praticabile quell’enorme ritorno di risorse che consente ancora la supremazia politico-militare, lo sviluppo tecnologico ed il mantenimento di una struttura assistenziale e di integrazione tale da impedire l’implosione sociale in una formazione però ormai pesantemente squilibrata; anche questa compensazione però inizia a presentare limiti e crepe e soprattutto tende a mascherare piuttosto che a compensare gli squilibri della formazione sociale americana.
La stessa pratica del multilateralismo, d’altro canto, comporta una crescente dispersione delle energie politiche ed una progressiva caduta di credibilità legata alla posizione di arbitro-giocatore nei conflitti e alla mutevolezza opportunistica delle alleanze più o meno dichiarate. Una dinamica che sta erodendo inesorabilmente l’efficacia del richiamo al rispetto dei cosiddetti diritti umani.

LA POSTA IN PALIO

La reale posta in palio dello scontro tra Trump e Clinton si gioca in questi ambiti e sta assumendo sempre più i connotati di uno scontro tra diverse opzioni strategiche. Da una parte la prosecuzione dell’attuale politica in termini ancora più virulenti e avventuristici nel tentativo di mantenere ed accrescere il predominio, dall’altra l’intenzione di prendere atto dell’emersione di nuove forze in campo e soprattutto di riconoscerle.
Sottolineo il termine “intenzione” giacché si tratta dell’espressione di un nucleo dirigente abbastanza limitato, ancorché combattivo, del quale non si conoscono le modalità operative, i fondamenti di analisi, la capacità di presa nei settori fondamentali dell’amministrazione il cui controllo è fondamentale per concretizzare le intenzioni politiche.
Sappiamo bene che alle intenzioni raramente corrispondono esattamente comportamenti politici coerenti e soprattutto risultati coerenti; addirittura spesso le nobili intenzioni e gli enunciati più magnanimi si trasformano in strumenti per le politiche più subdole. L’ideologia dirittoumanitarista ne è l’esempio preclaro.
Tutto sommato però non devono trattarsi di sprovveduti, a giudicare da alcune biografie presenti nello staff; nemmeno si devono considerare così isolati dai centri di potere a giudicare dal lavorio costante della talpa di WikiLeaks.
Si tratta, è bene precisare, di uno scontro che non nasce dal nulla; affonda radici profonde nella storia americana; presenta però alcuni significativi elementi di novità

L’ANATRA ZOPPA

Sin dalle primarie Hillary Clinton ha rivelato i suoi innegabili punti di forza e i suoi importanti punti di debolezza, già intravisti nel confronto delle primarie delle 2008 con Obama.
Una straordinaria capacità di raccogliere e fornire sostegno alle più variegate e potenti élites interne e alla pletora di classi dirigenti straniere, comprese quelle europee, ancora più risolute nel loro oltranzismo perché devono la propria sopravvivenza alla prosecuzione della attuale politica americana piuttosto che alla loro capacità di radicamento nei propri paesi.
Un lavorio in questi ultimi anni teso a garantire, in condominio con il Presidente uscente, il controllo dei vertici della macchina amministrativa, comprese le forze armate e l’intelligence
L’imponente macchina organizzativa e l’entità dei finanziamenti sono lì a dimostrare la potenza di fuoco.
Non ostante i mezzi e gli strumenti di influenza disponibili non è riuscita a carpire quel consenso politico e sociale minimo così necessario alla sopravvivenza di un politico di scena.
Sanders, il suo rivale nelle primarie, è riuscito a strappare consensi in fette consistenti di elettorato giovanile specie studentesco, di ceto medio borghese e del residuo ceto operaio rimasto nelle fila del Partito Democratico (PD) solo grazie a critiche pesantissime, radicali alla sua rivale marginalmente sulla politica estera, ma puntuali sulla politica economica. Alla fine ha concesso il sostegno finale a Clinton in cambio di posti significativi nel partito e nei futuri incarichi pubblici trangugiando anche la polpetta avvelenata dei brogli elettorali subiti nelle primarie. Il segno di future prossime battaglie in seno al PD, ma anche della perdita di credibilità del personaggio e di una caduta di entusiasmo nell’attività di militanza.
Gli appelli alla fedeltà di partito e l’esorcizzazione dell’avversario qualificato dei peggiori epiteti dal punto di vista politicamente corretto sono il segno di una debolezza di argomenti non sostenibile nei tempi lunghi; la vittoria risicata nelle primarie e la conseguente estensione della platea di mecenati dai quali ottenere il sostegno ne indebolirà la coerenza politica; se aggiungiamo l’incredibile pletora di agenti con i quali garantirsi l’omertà e il sostegno mediatico, si comprenderà l’estrema ricattabilità ed il condizionamento di un simile personaggio.
Le rimangono il sostegno significativo nei settori di punta della società e dell’economia e nella fazione dei radicalisti dei diritti umani secondo opportunità; permane con qualche difficoltà il richiamo alle minoranze sempre più consistenti ed ai settori assistiti ed assistenziali. Aspetto tutt’altro che trascurabile ma attenuato dal fatto che oggi gli Stati Uniti sono sempre più un paese di minoranze chiuse in se stesse piuttosto che in relazione feconda e integrate.

LA VECCHIA TALPA

Non mi dilungo vista l’ampia letteratura riservata al personaggio e alle forze che rappresenta.
Ho già sottolineato il repertorio limitato quanto astioso di critiche riservato all’avversario Trump.
Si riconduce alle accuse di razzismo, di fondamentalismo, di faziosità così ben conosciute anche dalle nostre parti.
Si tratta tuttavia di anatemi che poggiano su stereotipi validi per vicende del passato recente e remoto del conservatorismo e del “populismo” americano utili a serrare le fila delle componenti più ottuse del PD americano ma atte a suscitare ulteriore diffidenza nell’elettorato più mobile.

La candidatura di Trump ha dato voce diretta ad una fetta di elettorato conservatore sino ad ora strumentalizzata da altre componenti, in particolare dai neoconservatori.

Viene tacciata di scarsa “compassione” per essere contraria a qualsiasi forma di stato sociale.
Si tratta in realtà di una componente “produttivista” che sostiene l’esistenza del welfare ma in una ottica di produttività piuttosto che di assistenzialismo; inteso, quindi, come intervento nei momenti critici della vita delle persone e di reintegrazione nella vita produttiva piuttosto che di interventi cronici puramente distributivi e assistenzialistici.
Negli anni ‘30 in effetti tali posizioni avevano connotati razzisti perché le rivendicazioni di tutela erano riservate e furono ottenute per i lavoratori di razza bianca; attualmente tali connotati sono inesistenti o del tutto marginali. In realtà in questi anni il “produttivismo” non ha trovato una compiuta espressione politica, tuttalpiù si è concentrata in circoli di opinione (tea party) ma è stata strumentalizzata dai neocon favorevoli alla globalizzazione indiscriminata e alla soppressione dello stato sociale, per altro più proclamata che messa in pratica. L’ultimo tentativo di prevaricazione è avvenuto nelle primarie repubblicane con la candidatura di Rubio, naufragata ingloriosamente; dopo quel naufragio gran parte dei neoconservatori sono andati a rinforzare apertamente le fila dei globalisti e degli interventisti della Clinton. Del resto la divisione in ceti e strati della formazione sociale americana non corrisponde più esattamente alla sua divisione in razze e gruppi etnici, privando di senso ogni politica fondata sulla discriminazione razziale.

Viene tacciata di isolazionismo perché identifica l’attivismo nelle reti civiche locali e legate alla gestione delle comunità locali con la richiesta di riduzione drastica delle competenze dello stato centrale e di ritiro da qualsiasi iniziativa di politica estera che non comportasse la fine di una minaccia diretta al paese presente in alcune sue frange per altro espresse dal quarto candidato alla presidenza attualmente in corsa

Viene tacciata di integralismo ipocrita, ma anche questa critica viene smontata dalla fine ingloriosa della candidatura di Ted Cruz alle primarie, il reale rappresentante di questa componente.

Trump viene spacciato per un repubblicano oltranzista quando in realtà è un personaggio che ha sfruttato la crisi di quel partito, in parte indotta dagli stessi democratici, per infiltrarsi e mettere a nudo le affinità e le connivenze della vecchia dirigenza con la politica dei democratici.

Pur con tutti i limiti, anche caratteriali, del personaggio la proposta politica di Trump pare in realtà molto più equilibrata di quanto ce la diano a bere i sistemi di informazione.

Parla di compiti precisi dello stato centrale anche nel welfare (la sanità), punta ad una politica estera fondata sul riconoscimento degli stati nazionali, sottolinea la necessità di un riequilibrio dei vari settori dell’economia e di un processo di reindustrializzazione attraverso anche una rinegoziazione dei trattati commerciali.
Critica l’interventismo militare dispersivo, concentrato in zone non vitali per l’interesse del paese; chiede la ridefinizione del sistema di alleanze militari con l’attribuzione degli oneri di difesa ai paesi direttamente implicati nelle aree di attrito.

Tutte posizioni dalle profonde implicazioni sul sistema di relazioni internazionali, sulla organizzazione dello stato, in particolare delle forze armate, sulla formazione sociale americana.
Lascia presagire un confronto più serrato con la Cina e meno ostile con la Russia.

Come ho sottolineato, siamo ancora alle enunciazioni generali da parte di un gruppo dirigente formatosi solo recentemente perché ha individuato l’umore profondo di settori del paese e le debolezze nascoste dell’avversario. Non conosciamo la praticabilità di quelle intenzioni né le capacità tattiche del gruppo né le capacità di opposizione, neutralizzazione ed inclusione dell’attuale assetto di potere. Si deve constatare che gran parte del confronto e del successo iniziale di Trump è avvenuto con la gran cassa mediatica. Nel confronto decisivo il sistema informativo gli si è rivoltato contro.
Un primo aspetto che l’attuale dirigenza sta cercando di affrontare nel prossimo futuro.
Per il resto si dovrà attendere quantomeno l’esito della competizione elettorale.

CONCLUSIONI

Lo scontro ha evidenziato l’imponenza di un apparato ma anche la capacità di erosione del terreno su cui poggia della vecchia talpa. La ripresa delle indagini a carico di esponenti dello staff della Clinton sulla base delle nuove email apparse sono un segno di questa azione erosiva.
Sono dinamiche però che richiedono tempi diversi.
Difficilmente modificheranno l’esito elettorale se non nel differenziale di voti e ancor meno nel numero dei grandi elettori; certamente lasceranno sulla graticola l’eventuale vincitrice lasciando intravedere quella della Clinton ormai come una presidenza di transizione.
Le avvisaglie della durezza dello scontro erano apparse già con la esplicita e pubblica sconfessione da parte del Congresso Americano di due atti fondamentali della politica estera democratica: l’accordo sull’Iran e i rapporti con Israele. Adesso sono arrivati ai tentativi di annichilimento di una possibile nuova classe dirigente e alle minacce di galera.
Il timore è che il nascere di una alternativa politica fondata sul riconoscimento delle forze in campo internazionali e sul recupero di una economia più equilibrata in una situazione interna così fragile porti alla sconfessione di una intera classe dirigente e al crollo del sistema di relazioni illustrato.
Non ha senso per noi schierarci nella solita inutile tifoseria senza alcuna influenza; piuttosto dovremo valutare le opportunità che potranno sorgere da questa situazione se non addirittura da una sia pur remota eventuale vittoria di Trump. Ma sono appunto opportunità che si vuole e si deve voler cogliere con la costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia.

La prochaine Révolution française? Estratto di una intervista a Marine Le Pen apparsa su Foreign Affairs

è un estratto significativo di una intervista pubblicata sulla rivista bimestrale Foreign Affairs di novembre/dicembre 2016 https://www.foreignaffairs.com/interviews/2016-10-17/france-s-next-revolution Mi pare rilevante soprattutto per l’interlocutore scelto. L’intervista è disponibile anche in inglese

France’s next revolution? Estratto di una intervista a Marine Le Pen dalla rivista Foreign Affairs


La prochaine Révolution française?
Conversation avec Marine Le Pen
Marine Le Pen
• Country: France
• Title: Leader of the National Front

Marine Le Pen a grandi en politique. Dès l’âge de treize ans, elle rejoint la campagne électorale de son père, Jean-Marie Le Pen, fondateur du Front National. Avocate, elle gagne sa première élection et est élue conseillère régionale en 1998. En 2011 elle succède à son père à la tête du Front National et commence à prendre ses distances avec les positions les plus extrêmes. Finalement, elle expulse son père du parti après qu’il eut réaffirmé que l’Holocauste était un « point de détail de l’histoire de la Deuxième Guerre mondiale ». Ces jours-ci, face à la crise migratoire en Europe, les attentats terroristes à Paris et à Nice et le Brexit, le message nationaliste, eurosceptique, et anti-immigrant de Marine Le Pen résonne. Selon les sondages d’opinion, elle est parmi les meneurs à la présidence française de 2017 avec deux fois plus de soutiens que le président sortant François Hollande. Marine Le Pen s’est entretenue en septembre, à Paris, avec Stuart Reid, journaliste à Foreign Affairs.
A travers l’Europe, les partis anti-establishment, dont le Front National, gagnent du terrain. Comment l’expliquez-vous?
Je crois que la liberté est une aspiration des peuples et que depuis de trop nombreuses années, les peuples des pays de l’Union Européenne, mais aussi peut-être le peuple américain, ont le sentiment que les responsables politiques ne défendent plus leurs intérêts mais défendent des intérêts catégoriels. Il y a une forme de fronde de la part des peuples à l’égard d’un système qui n’est plus au service des peuples, mais qui est au service de lui-même.
Pensez-vous qu’il y a des facteurs communs entre le succès de Donald Trump aux Etats-Unis et le vôtre ici en France?
Oui. Je trouve surtout qu’il y a des points communs dans la montée en puissance de Donald Trump et de Bernie Sanders. Tous les deux ont émergé sur ce rejet d’un système qui apparait profondément égoïste et même egocentrique et qui a mis de côté les aspirations du peuple. Donc, j’effectue un parallèle entre ces deux succès, car ce sont deux succès. Même si Bernie Sanders n’a pas été désigné, son émergence n’était pas prévue. Donc oui, je crois qu’il y a là vraiment dans beaucoup de pays du monde, un courant d’abord d’attachement à la nation, de rejet d’une mondialisation sauvage, un rejet de cela parce que c’est ressenti aujourd’hui comme une forme de totalitarisme. C’est imposé à toute force, la guerre de tous contre tous au bénéfice de quelques-uns seulement.
Vous avez déclaré « tout sauf Hillary ». Cela signifie-t-il que vous soutenez Trump?
J’ai bien été claire. Je pense que tout élu serait, dans ma vision, meilleur qu’Hillary Clinton. Je vise à être présidente de la République française donc je m’attache à l’intérêt de la France exclusivement. Je n’ai pas à me mettre dans la peau d’un américain pour savoir si la politique domestique proposée par l’un ou l’autre me va. Ce qui m’intéresse c’est quelles peuvent être les conséquences des choix politiques portés par Hillary Clinton ou par Donald Trump sur la situation de la France, économiquement, en matière de sécurité.
Or je note que Madame Clinton est pour le TAFTA (traité de libre-échange transatlantique, ndlr). Monsieur Trump est contre. Moi, je suis contre aussi. Je note que Mme Clinton est porteuse de guerre dans le monde, qu’elle a, derrière elle, l’Irak, la Libye, la Syrie et que ceci a eu des conséquences extrêmement lourdes pour mon pays, en terme, notamment de déstabilisation, de montée en puissance du fondamentalisme islamiste et de ces gigantesques vagues de migrations qui sont en train de submerger l’Union Européenne. Monsieur Trump souhaite une forme de retour des Etats-Unis dans leur cadre naturel. Madame Clinton pousse à cette forme d’extraterritorialité du droit américain, dont je crois que c’est une arme inadmissible pour des peuples qui souhaitent rester indépendants. Donc tout ça me fait dire que l’intérêt de la France aujourd’hui entre Hillary Clinton et Donald Trump, c’est plutôt la politique que promet Donald Trump.

JEAN-PAUL PELISSIER / REUTERS
Aboard the aircraft carrier Charles de Gaulle, Toulon, France, November 2015.
Le taux de chômage en France dépasse les 10%. C’est le deuxième taux le plus élevé parmi les membres du G7. Quelles sont, selon vous, les racines du malaise économique en France? Quelles solutions proposez-vous?
Aujourd’hui, tout le monde propose les solutions du Front National précisément. Nous avons enregistré une très belle victoire idéologique puisque j’entends Monsieur Montebourg (ancien ministre de l’Economie, ndlr) plaider pour le « Made in France », qui est un des axes défendus par le Front National.
Le taux de chômage est beaucoup plus important que cela, car il y a toute une série de magouilles statistiques mis en œuvre – les stages, les préretraités, le travail partiel – qui permet de ne pas faire entrer les français dans les statistiques du chômage.
Il y a plusieurs raisons (à un chômage élevé, ndlr). La première raison c’est le libre échange total, qui nous met en concurrence déloyale avec des pays qui effectuent à notre encontre un dumping social et un dumping environnemental sans que nous nous donnions les moyens de nous protéger et de protéger nos entreprises stratégiques à la différence de ce que font les Etats-Unis. Quand je vous parlais de dumping social, la directivedétachement des travailleurs qui fait qu’on va chercher des travailleurs à très bas coûts qu’on amène pour travailler en France est également une raison.
Le deuxième c’est le dumping monétaire que nous subissons. L’euro – le fait de ne pas avoir notre monnaie – nous met dans une situation économique extrêmement difficile. Le FMI vient de dire que l’euro était surévalué de 6 % en France et sous-évalué de 15 % en Allemagne. Ça fait un différentiel de 21 % de compétitivité que nous perdons, face à notre principal concurrent au sein de l’Europe.
Et puis, c’est aussi la disparition de l’état stratège. Cet état très gaullien qui portait en quelque sorte nos champions industriels et qui a été totalement abandonné. Vous savez, la France est un pays d’ingénieurs. C’est un pays de chercheurs. Mais c’est vrai que ça n’est pas un pays de commerciaux. Et que donc bien souvent, on s’aperçoit dans l’Histoire que nos grands champions industriels n’ont réellement pu se développer, que grâce à l’impulsion apportée par l’état stratège, en abandonnant ça, et bien on se prive d’un levier de développement très important.
Parlons de l’euro. Sur un plan pratique, et si vous obtenez le soutien populaire, comment vous y prendriez-vous?
Ce que je souhaite, c’est une négociation. Ce que je souhaite c’est une sortie concertée de l’Union Européenne où tous les pays sont autour de la table et décident de revenir au phénomène du serpent monétaire européen (une politique des années 1970 conçue pour limiter les variations de taux de change, ndlr) qui permet à chaque pays, de pouvoir, dans un espace délimité, adapter la monnaie à son économie. C’est ce que je souhaite. Je souhaite que ça se fasse dans la douceur, dans la concertation.
Beaucoup de pays aujourd’hui prennent conscience qu’ils ne peuvent pas continuer à vivre avec cette monnaie parce que la contrepartie de l’euro c’est la politique d’austérité dont on voit bien qu’elle contribue à aggraver la récession dans les pays. Je vous renvoie au livre que vient d’écrire (ndlr, l’économiste Joseph) Stiglitz, qui est très clair sur ce sujet. Cette monnaie est totalement inadaptée à nos économies et cette monnaie est une des raisons de la situation de chômage que vivent les pays de l’Union Européenne. Alors soit on arrive par la négociation, soit et bien nous ferons un référendum comme la Grande Bretagne, et on décidera de reprendre la maîtrise de notre monnaie.
Pensez-vous qu’un referendum sur un « Frexit » est envisageable?
En tout cas, moi, je l’envisage. Le peuple français a été trahi en 2005. Il a dit non à la constitution européenne ; les élus de droite et de gauche ont imposé contre sa volonté cette constitution européenne. Moi, je suis une démocrate. Je pense que c’est au peuple français de décider de son avenir et que tous ce qui touche à sa souveraineté, à sa liberté, à son indépendance doit être décidé par lui et par personne d’autre.
Donc oui, moi, j’organiserai un referendum sur ce sujet. Et selon les négociations que j’aurai effectué, je dirai aux français, « écoutez, j’ai obtenu ce que je voulais, je pense que nous pouvons rester dans l’Union Européenne », ou « je n’ai pas obtenu ce que je souhaitais, et je crois qu’il n’y a pas d’autres solutions que de sortir de l’Union Européenne ».
Quelles leçons tirez-vous du succès de la campagne britannique sur le Brexit ?
Deux leçons majeures. D’abord, quand le peuple le souhaite, rien n’est impossible. Et deuxièmement, on nous a menti. On nous a expliqué que ce serait la catastrophe ce Brexit, que les bourses allaient s’effondrer, que l’économie allait êtremise à l’arrêt, que le chômage de masse allait exploser. La réalité c’est que rien de tout cela ne s’est passé. Les banques aujourd’hui piteusement viennent nous dire, « ah, nous nous sommes trompées ». Non, vous nous avez menti. Vous nous avez menti pour essayer d’influer sur le vote, mais les peuples commencent à connaitre vos méthodes qui consistent à les terroriser lorsqu’ils ont un choix à faire. C’est une grande preuve de maturité dont a fait preuve le peuple britannique au moment de ce vote.
Ne craignez-vous pas que la France se retrouve isolée économiquement si elle sort de l’euro?
C’est exactement les reproches que l’on faisait au Général de Gaulle lorsqu’il souhaitait en 1966 sortir du commandement intégré de l’OTAN. La liberté n’est pas l’isolement. L’indépendance n’est pas l’isolement. Et moi, ce que je note c’est que la France a toujours été beaucoup plus puissante en étant la France seulement que depuis qu’elle est une province de l’Union Européenne. Je souhaite retrouver cette puissance.
Beaucoup pensent que l’Union Européenne a permis de préserver la paix depuis la seconde guerre mondiale. Pourquoi ont-ils tort?
Parce que ça n’est pas l’Union Européenne qui a fait la paix ; c’est la paix qui a permis l’Union Européenne. Cet argument, qui a été rabâché à de très multiples reprises, n’a pas de sens. La paix d’ailleurs n’a pas été parfaite au sein de l’Union Européenne – le Kosovo, l’Ukraine à ces portes – ce n’est pas si simple.
En fait, l’Union Européenne s’est progressivement transformée en une sorte d’union soviétique européenne, qui décide de tout, qui impose ses vues, qui rompt avec le processus démocratique. Il n’y a qu’à entendre la déclaration de Monsieur Juncker (président de la Commission européenne, ndlr), il dit « il ne peut y avoir de choix démocratique contre les traités européens ». Tout est dit dans cette formule. Nous ne nous sommes pas battus pour être un peuple libre et indépendant lors de la première guerre mondiale, lors de la seconde guerre mondiale, pour aujourd’hui accepter de ne plus être un peuple libre parce que certains de nos dirigeants ont décidé à notre place.

PHILIPPE WOJAZER / REUTERS
German Chancellor Angela Merkel and French President Francois Hollande in Evian, France, September 2016.
Que pensez-vous du leadership allemand en Europe au cours des dernières années?
Il était inscrit dans la construction de l’euro. En réalité, l’euro est une monnaie qui a été construite par l’Allemagne pour l’Allemagne et qui est un costume qui ne va qu’à l’Allemagne. Madame Merkel a eu peu à peu le sentiment qu’elle était la dirigeante de l’Union européenne. Elle a imposé ses vues. Elle les a imposées en matières économiques, mais elle les a aussi imposées en acceptant d’accueillir 1 million de migrants en Allemagne, en sachant pertinemment que l’Allemagne ferait le tri dans ces migrants. Elle garderait les meilleurs et elle laisserait les autres aller dans les autres pays de l’Union Européenne. Il n’y a plus de frontières intérieures entre nos pays et donc cette situation est absolument inadmissible. Le modèle imposé par Mme Merkel est surement un modèle qui plait aux allemands, mais c’est un modèle qui tue les pays voisins de l’Allemagne. Moi, je suis l’anti Merkel.
Que pensez-vous de l’état des relations entre la France et les Etats-Unis, et que pensez-vous qu’elles devraient être?
Aujourd’hui les dirigeants français se soumettent très facilement aux exigences qui sont portées soit par Madame Merkel, soit par Monsieur Obama. La France a oublié de défendre ses intérêts, y compris ses intérêts commerciaux et industriels, face aux exigences des Etats-Unis. Je suis pour l’indépendance. Je suis pour que la France reste à équidistance sans hostilité mais sans soumission à l’égard des deux grandes puissances que sont la Russie et les Etats-Unis. Nous avons le droit de défendre nos intérêts, comme les Etats-Unis ont le droit de défendre les leurs, comme l’Allemagne a le droit de défendre les siens, comme la Russie a aussi le droit de défendre les siens.
Pourquoi pensez-vous que la France devrait se rapprocher davantage de la Russie sous Vladimir Poutine?
D’abord parce que la Russie est un pays européen. La France et la Russie ont une histoire partagée, une proximité de culture très forte. Et stratégiquement nous n’avons aucune raison de ne pas approfondir nos relations avec la Russie. La seule raison pour laquelle nous ne le faisons pas c’est parce que les américains nous l’interdisent. Ça heurte mon souhait d’indépendance. De surcroit je pense que les Etats-Unis commettent une erreur en recréant une forme de guerre froide avec la Russie, parce qu’ils poussent la Russie dans les bras de la Chine et je ne crois pas que cette ultra puissance que consistuerait une association Chine-Russie soit un avantage ni pour les Etats-Unis, ni pour le monde, objectivement.
Les derniers sondages donnent le Front National au second tour face au parti Les Républicains. Dans le passé, et notamment en 2002, les partis se sont unis pour faire barrage. De votre côté seriez-vous prête à conclure des alliances et dans cette perspective, avec qui?
Ce n’est pas à moi de décider de cela. Cette élection présidentielle va être une élection où un grand choix va devoir être fait, est-ce que nous défendons ce choix de civilisation ou est-ce que nous l’abandonnons ? Par conséquent, je pense qu’il y a des gens qui peuvent venir de tout horizon politique, de droite et de gauche, qui sont d’accord avec moi et qui peuvent nous rejoindre.
Le Front National que vous dirigez a bien changé par rapport à celui que votre père a fondé. A quel moment de votre carrière politique avez-vous compris que le Front National devrait prendre de la distance avec cette image extrémiste s’il voulait pouvoir faire face aux autres parties?
Le Front National était par le passé un parti de protestation. C’était un parti d’opposition. C’est la monté en puissance du Front National qui de manière naturelle l’a transformé en parti de gouvernement, c’est-à-dire, en parti qui envisage d’accéder aux plus hautes responsabilités pour appliquer ces idées. Il est vrai que de surcroit un mouvement politique est toujours influencé par la personnalité de son dirigeant. Je n’ai pas le même parcours que mon père. Je n’ai pas le même âge que lui, je n’ai pas le même profil, c’est un homme, je suis une femme. Tout ça à fait que j’ai peut-être imprimé au Front National, une image qui correspondait plus à ce que je suis, que à ce qu’il était, lui.

YOUSSEF BOUDLAL / REUTERS
At a mosque in Paris, January 2015.
Comment la France peut-elle se protéger d’autres attaques terroristes comme celle de Nice en juillet dernier?
Pour l’instant, elle n’a strictement rien fait. Il faut qu’elle arrête l’arrivée des migrants au sein desquels on le sait s’infiltrent des terroristes. Il faut qu’elle arrête le droit du sol, l’acquisition automatique de la nationalité française sans aucun critère qui a fabriqué des français qui soit comme Coulibaly et Kouachi (les terroristes derrière les attentats de Paris en Janvier 2015, ndlr) avaient un long passé de délinquance, soit ont une hostilité à l’égard de la France. Ce n’est pas le cas de tous ; je ne généralise pas mais c’est un bon moyen d’avoir un phénomène de surveillance. Il faut qu’elle mette en place la déchéance de la nationalité pour les doubles nationaux qui ont un lien quelconque avec ces organisations terroristes.
Il faut surtout qu’elle lutte contre le développement du fondamentalisme islamiste sur notre territoire car pour des raisons électoralistes, la classe politique française a déroulé le tapis rouge à ce fondamentalisme islamiste qui s’est développé par l’intermédiaire de mosquées, de centres culturels, de centres soit disant cultuels financés non seulement par la France, mais aussi par des pays dont nous savons qu’ils soutiennent le fondamentalisme islamiste. Il faut retrouver la maitrise de nos frontières, car je ne vois pas comment on peut lutter contre le terrorisme en ayant des frontières ouvertes à tous les vents.
Vous avez déclaré que, à part l’Islam, aucune autre religion ne pose des problèmes. Pourquoi pensez-vous que cela est vrai?
Parce que l’ensemble des religions en France sont soumises aux règles de la laïcité. Beaucoup de musulmans l’on fait aussi, disons-le clairement. Mais certains au sein de l’Islam, et je pense bien sûr au fondamentalisme islamiste, ne peuvent pas accepter cela pour une raison simple, c’est qu’ils considèrent que la charia, c’est-à-dire la loi religieuse est supérieure à toutes autres formes de loi ou de norme, y compris la constitution française. Ça n’est pas admissible.
Depuis un siècle, depuis la loi sur la laïcité, personne n’a cherché à imposer une loi religieuse en faisant plier les lois du pays ou en faisant plier la constitution du pays. Ces groupes de fondamentalistes islamistes cherchent à faire cela. Il faut donc le dire, parce qu’on ne peut pas lutter contre un ennemi si on ne le désigne pas. Il faut être intransigeant sur le respect de notre constitution et de nos lois. Et honnêtement, la classe politique française a plutôt été dans l’esprit des accommodements raisonnables à la canadienne que dans l’esprit de cette intransigeance qui permet de protéger nos grandes libertés publiques. On le voit avec les gigantesques régressions des droits des femmes qui sont vécues aujourd’hui sur le territoire français. Les femmes qui ne peuvent plus, dans certains endroits, se vêtir comme elles le souhaitent.
Vous soutenez l’interdiction du burkini. Quel est le problème avec le burkini?
Le problème c’est que ça n’est pas un maillot de bain. C’est un uniforme islamiste. C’est un des multiples moyens grâce auxquels le fondamentalisme islamiste effectue, à notre égard, un bras de fer. Lorsque l’on acceptera que les femmes soient soumises à cet uniforme islamiste, la deuxième étape sera que l’on accepte la non-mixité dans les espaces publics, dans les piscines, et que l’on accepte après la différenciation des droits entre les hommes et les femmes. Si l’on ne voit pas cela, alors, on n’a pas compris le combat auquel nous sommes confrontés aujourd’hui face aux fondamentalistes islamistes.
Mais, est-ce que cette mesure favoriserait vraiment une intégration des musulmans de France?
C’est quoi l’intégration? C’est vivre l’un à côté de l’autre en ayant chacun notre mode de vie, nos codes, nos mœurs, notre langue? Le modèle français c’est le modèle de l’assimilation. La liberté individuelle ne permet pas de remettre en cause les grands choix de civilisation qui sont ceux de la France.
En France, on n’accepte pas le concept de la victime consentante. Dans le droit pénal français, par exemple, on n’accepte pas que les gens se fassent du mal à eux-mêmes au motif qu’ils ont le droit puisqu’il s’agit d’eux-mêmes. On n’accepte pas ça parce que ça remet en cause nos grands choix de civilisation, l’égalité à une femme, le refus du communautarisme, c’est-à-dire de communautés organisées entre elles qui vivent selon des lois qui sont des lois à elles. C’est le modèle anglo-saxon. Ça n’est pas le nôtre. Les anglo-saxons ont le droit de défendre leur modèle, mais nous, nous avons le droit de défendre le nôtre.
Pensez-vous que le modèle d’intégration aux Etats-Unis est plus ou moins efficace qu’en France?

Je n’ai pas à juger de cela. C’est le problème des américains. Moi, je ne veux pas de ce modèle-là. Mais ce modèle, il est la conséquence de l’histoire des Etats-Unis, des communautés issues d’un certain nombre de pays sont allées sur cette terre vierge qu’étaient les Etats-Unis pour créer une nation qui est constituée de gens qui venaient de partout. Ça n’est pas le cas de la France. La France est une longue construction humaine et juridique très ancienne. Rien n’est là par hasard. La laïcité c’est la manière que nous avons eu de gérer les conflits religieux qui ont mis notre pays à feu et à sang.
Je ne demande pas à imposer mon modèle aux autres, mais je ne souhaite pas que les autres puissent décider que mon modèle n’est pas le bon. Je suis souvent choquée de voir que des pays étrangers condamnent le modèle français. Moi, je ne condamne pas le modèle américain. Mais je ne veux pas qu’on condamne le mien. Moi je pense que le communautarisme porte en germe les conflits entre les communautés, et je ne souhaite pas que mon pays soit au prise avec des conflits entre communautés. Moi, je ne reconnais que les individus. Ce sont les individus qui ont des droits. Ce sont les individus qui ont le libre arbitre. Ce sont les individus qui s’assimilent. En aucun cas ce sont les communautés.

France’s next revolution? Estratto di una intervista a Marine Le Pen dalla rivista Foreign Affairs

news_img1_70638_marine-le-pen è un estratto significativo di una intervista pubblicata sulla rivista bimestrale Foreign Affairs di novembre/dicembre 2016 https://www.foreignaffairs.com/interviews/2016-10-17/france-s-next-revolution Mi pare rilevante soprattutto per l’interlocutore scelto. L’intervista è disponibile anche in francese

La prochaine Révolution française? Estratto di una intervista a Marine Le Pen apparsa su Foreign Affairs


France’s Next Revolution?
A Conversation With Marine Le Pen
Marine Le Pen

As the youngest daughter of Jean-Marie Le Pen, the founder of the right-wing French political party the National Front, Marine Le Pen grew up in politics, starting to campaign with her father at 13. Trained as a lawyer, she won her first election in 1998, as a regional councilor, and in 2011, she succeeded her father as party leader. She soon distanced herself from his more extreme positions, and eventually—after he reiterated his claim that the Holocaust was a “detail” of history—she expelled him from its ranks. These days, in the wake of the European migrant crisis, the terrorist attacks in Paris and Nice, and the Brexit vote, Le Pen’s nationalist, Euroskeptical, anti-immigrant message is selling well. Recent polls show her as a leading candidate for the presidency in 2017, with respondents preferring her two to one over the Socialist incumbent, François Hollande. Le Pen spoke with Foreign Affairs’ deputy managing editor Stuart Reid in Paris in September.
Lire en français (Read in French).
Antiestablishment parties, including the National Front, are gaining ground across Europe. How come?
I believe that all people aspire to be free. For too long, the people of the countries inthe European Union, and perhaps Americans as well, have had a sense that political leaders are not defending their interests but defending special interests instead. There is a form of revolt on the part of the people against a system that is no longer serving them but rather serving itself.
Are there common factors behind Donald Trump’s success in the United States and yours here in France?
Yes. I see particular commonalities in the rise of Donald Trump and Bernie Sanders. Both reject a system that appears to be very selfish, even egocentric, and that has set aside the people’s aspirations. I draw a parallel between the two, because they are both success stories. Even though Bernie Sanders didn’t win, his emergence wasn’t predicted. In many countries, there is this current of being attached to the nation and rejecting untamed globalization, which is seen as a form of totalitarianism. It’s being imposed at all costs, a war against everybody for the benefit of a few.
When asked recently who you supported in the U.S. election, you said, “Anyone but Hillary.” So do you support Trump?
I was quite clear: in my view, anyone would be better than Hillary Clinton. I aim to become president of the French Republic, so I am concerned exclusively with the interests of France. I cannot put myself in an American’s shoes and determine whether the domestic policies proposed by one or another candidate suit me. What interests me are the consequences of the political choices made by Hillary Clinton or Donald Trump for France’s situation, economically and in terms of security.
So I would note that Clinton supports TTIP [the Transatlantic Trade and Investment Partnership]. Trump opposes it. I oppose it as well. I would also note that Clinton is a bringer of war in the world, leaving behind her Iraq, Libya, and Syria. This has had extremely destabilizing consequences for my country in terms of the rise of Islamic fundamentalism and the enormous waves of migration now overwhelming the European Union. Trump wants the United States to return to its natural state. Clinton pushes for the extraterritorial application of American law, which is an unacceptable weapon for people who wish to remain independent. All of this tells me that between Hillary Clinton and Donald Trump, it’s Donald Trump’s policies that are more favorable to France’s interests right now.

JEAN-PAUL PELISSIER / REUTERS
Aboard the aircraft carrier Charles de Gaulle, Toulon, France, November 2015.
The unemployment rate in France now stands at around ten percent, the second highest among the G-7 members. What are the roots of France’s economic malaise, and what solutions do you propose?
These days, everyone is proposing the National Front’s solutions. We recorded a nice ideological victory when I heard [Arnaud] Montebourg [a former economy minister in Hollande’s Socialist government] pleading for “made in France,” which is one of the major pillars of the National Front.
The unemployment rate is much higher than that because there are a bunch of statistical shenanigans going on—involving internships, early retirement, part-time work—that keep a number of French from being counted in the unemployment statistics.
There are a number of reasons for [the high unemployment]. The first is completely free trade, which puts us in an unfair competition with countries that engage in social and environmental dumping, leaving us with no means of protecting ourselves and our strategic companies, unlike in the United States. And in terms of social dumping, the Posted Workers Directive [an EU directive on the free movement of labor] is bringing low-wage employees to France.
The second is the monetary dumping we suffer. The euro—the fact of not having our own money—puts us in an extremely difficult economic situation. The IMF has just said that the euro was overvalued by six percent in France and undervalued by 15 percent in Germany. That’s a gap of 21 percentage points with our main competitor in Europe.
It also has to do with the disappearance of a strategic state. Our very Gaullist state, which supported our industrial champions, has been totally abandoned. France is a country of engineers. It is a country of researchers. But it’s true that it is not a country of businesspeople. And so quite often in history, our big industrial champions were able to develop only thanks to the strategic state. In abandoning this, we are depriving ourselves of a very important lever for development.
Let’s talk about abandoning the euro. Practically speaking, how would you do it?
What I want is a negotiation. What I want is a concerted exit from the European Union, where all the countries sit around the table and decide to return to the European “currency snake” [a 1970s policy designed to limit exchange-rate variations], which allows each country to adapt its monetary policy to its own economy. That’s what I want. I want it to be done gently and in a coordinated manner.
A lot of countries are now realizing that they can’t keep living with the euro, because its counterpart is a policy of austerity, which has aggravated the recession in various countries. I refer you to the book that [the economist Joseph] Stiglitz has just written, which makes very clear that this currency is completely maladapted to our economies and is one of the reasons there is so much unemployment in the European Union. So either we get there through negotiation, or we hold a referendum like Britain and decide to regain control of our currency.
Do you really think a “Frexit” referendum is conceivable?
I, at any rate, am conceiving of it. The French people were betrayed in 2005. They said no to the European constitution; politicians on the right and the left imposed it against the wishes of the population. I’m a democrat. I think that it is up to no one else but the French people to decide their future and everything that affects their sovereignty, liberty, and independence.
So yes, I would organize a referendum on this subject. And based on what happened in the negotiations that I would undertake, I would tell the French, “Listen, I obtained what I wanted, and I think we could stay in the European Union,” or, “I did not get what I wanted, and I believe there is no other solution but to leave the European Union.”
What lessons do you take from the success of the Brexit campaign?
Two major lessons. First, when the people want something, nothing is impossible. And second, we were lied to. They told us that Brexit would be a catastrophe, that the stock markets would crash, that the economy was going to grind to a halt, thatunemployment would skyrocket. The reality is that none of that happened. Today, the banks are coming to us pitifully and saying, “Ah, we were wrong.” No, you lied to us. You lied in order to influence the vote. But the people are coming to know your methods, which consist of terrorizing them when they have a choice to make. The British people made a great show of maturity with this vote.
Do you worry that France will find itself economically isolated if it leaves the eurozone?
Those were the exact criticisms made against General de Gaulle in 1966 when he wanted to withdraw from NATO’s integrated command. Freedom is not isolation. Independence is not isolation. And what strikes me is that France has always been much more powerful being France on its own than being a province of the European Union. I want to rediscover that strength.
Many credit the European Union for preserving the peace since World War II. Why are they wrong?
Because it’s not the European Union that has kept the peace; it’s the peace that has made the European Union possible. This argument has been rehashed repeatedly, and it makes no sense. Regardless, the peace hasn’t been perfect in the European Union, with Kosovo and Ukraine at its doorstep. It’s not so simple.
In fact, the European Union has progressively transformed itself into a sort of European Soviet Union that decides everything, that imposes its views, that shuts down the democratic process. You only have to hear [European Commission President Jean-Claude] Juncker, who said, “There can be no democratic choice against European treaties.” That formulation says everything. We didn’t fight to become a free and independent people during World War I and World War II so that we could no longer be free today just because some of our leaders made that decision for us.

PHILIPPE WOJAZER / REUTERS
German Chancellor Angela Merkel and French President Francois Hollande in Evian, France, September 2016.
What do you make of Germany’s leadership in recent years?
It was written into the creation of the euro. In reality, the euro is a currency created by Germany, for Germany. It’s a suit that fits only Germany. Gradually, [Chancellor Angela] Merkel sensed that she was the leader of the European Union. She imposed her views. She imposed them in economic matters, but she also imposed them by agreeing to welcome one million migrants to Germany, knowing very well that Germany would sort them out. It would keep the best and let the rest go to other countries in the European Union. There are no longer any internal borders between our countries, which is absolutely unacceptable. The model imposed by Merkel surely works for Germans, but it is killing Germany’s neighbors. I am the anti-Merkel.
What do you think of the state of relations between France and the United States, and what should they be?
Today, French leaders submit so easily to the demands of Merkel and Obama. France has forgotten to defend its interests, including its commercial and industrial ones, in the face of American demands. I am for independence. I am for a France that remains equidistant between the two great powers, Russia and the United States, being neither submissive nor hostile. I want us to once again become a leader for the nonaligned countries, as was said during the de Gaulle era. We have the right to defend our interests, just as the United States has the right to defend its interests, Germany has the right to defend its interests, and Russia has the right to defend its interests.
Why do you think France should get closer to Russia under President Vladimir Putin?
First of all, because Russia is a European country. France and Russia also have a shared history and a strong cultural affinity. And strategically, there is no reason not to deepen relations with Russia. The only reason we don’t is because the Americans forbid it. That conflicts with my desire for independence. What’s more, I think the United States is making a mistake by re-creating a kind of cold war with Russia, because it’s pushing Russia into the arms of China. And objectively, an ultrapowerful association between China and Russia wouldn’t be advantageous for either the United States or the world.
In the latest polls, the National Front is projected to make it to the runoff of the presidential election. In the past, notably in 2002, the other parties united to block the National Front in the second round. Would you be ready to form alliances, and if so, with whom?
It’s not up to me to decide that. This presidential election will be about a big choice: Do we defend our civilization, or do we abandon it? So I think there are people from the entire political spectrum, from the right and the left, who agree with me and who could join us.
The National Front that you are leading has changed a great deal from the party your father led. At what point in your career did you realize that the National Front had to distance itself from its extremist image if it was going to be competitive?
In the past, the National Front was a protest party. It was an opposition party. Naturally, its rising influence has transformed it into a party of government—that is, into a party that anticipates reaching the highest offices in order to implement its ideas. It’s also true that a political movement is always influenced by its leader’s personality. I have not taken the same path as my father. I am not the same age as he is. I do not have the same profile. He is a man; I am a woman. And that means I have imprinted on the party an image that corresponds more with who I am than with who he was.

YOUSSEF BOUDLAL / REUTERS
At a mosque in Paris, January 2015.
How can France protect itself from terrorist attacks like the one in Nice in July?
So far, it has done absolutely nothing. It has to stop the arrival of migrants, whom we know terrorists infiltrate. It has to put an end to birthright citizenship, the automatic acquisition of French nationality with no other criteria that created French like [Amedy] Coulibaly and [Chérif and Saïd] Kouachi [the terrorists behind the Paris attacks of January 2015], who had long histories of delinquency and were hostile toward France. This isn’t the case for everyone; I’m not generalizing. But it’s a good way to have a surveillance mechanism. We need to revoke citizenship from dual nationals who have any kind of link to terrorist organizations.
We especially need to combat the development of Islamic fundamentalism on our territory. For electoral reasons, French politicians rolled out the red carpet for Islamic fundamentalism, which has developed in mosques and so-called cultural centers financed not only by France but also by countries that support Islamic fundamentalism. We also have to regain the mastery of our borders, because I can’t see how we can combat terrorism while having open borders.
You have said that apart from Islam, “no other religion causes problems.” Why do you think that this is true?
Because all religions in France are subject to the rules of secularism. Let’s be clear, many Muslims have done that. But some within Islam—and of course I’m thinking of the Islamic fundamentalists—cannot accept that, for one simple reason, which is that they consider sharia to be superior to all other laws and norms, including the French constitution. That’s unacceptable.
For a century, since the law on secularism was passed, no one has sought to impose religious law by bending the laws of our country. These Islamic fundamentalist groups are seeking to do this. This must be said, because we cannot fight an enemy if we do not name it. We must be intransigent when it comes to respecting our constitution and our laws. And honestly, the French political class has instead acted in the spirit of Canadian-style reasonable accommodation rather than in the spirit of an intransigence that would allow us to protect our civil liberties. We see it in the huge regressions in women’s rights taking place today on French soil. In certain areas, women can no longer dress as they wish.
You support the ban on the burkini. Why is it a problem?
The problem is that it’s not a bathing suit. It’s an Islamist uniform. It’s one of the many ways in which Islamic fundamentalism flexes its muscles. Once we accept that women are subject to this Islamist uniform, the next step is that we accept the separation of the sexes in swimming pools and other public spaces. And then we’ll have to accept different rights for men and women. If you don’t see that, then you don’t understand the battle we face against Islamic fundamentalism.
But does this measure really help integrate Muslims in France?
What is integration? It is to live side by side, each with their own lifestyle, their own code, their own mores, their own language. The French model is assimilation. Individual freedom does not allow one to call into question the major civil¬izational choices France has made.
In France, we don’t believe in the concept of a consenting victim. French criminal law, for example, doesn’t allow people to harm themselves on the grounds that they have the right to do so because they are acting on their own. We don’t accept that, because it undermines the major choices we have made as a civi¬¬lization regarding women’s equality and the rejection of communitarianism—that is, organized communities that live according to their own rules. That is the Anglo-Saxon model. It is not ours. The Anglo-Saxons have the right to defend their model, but we have the right to defend ours.
Do you think that the American model of integration is more effective than the French one?
Recent Interviews

La prochaine Révolution française?
Conversation avec Marine Le Pen

I don’t have to judge that. That’s a problem for Americans. Personally, I don’t want that model. That model is a consequence of American history. Communities came from different countries to a virgin land to create a nation made up of people from everywhere. That is not the case for France. France is a very old human and legal creation. Nothing is there by chance. Secularism is how we handled religious conflicts that had plunged our country into a bloodbath.
I don’t seek to impose my model on others, but I don’t want others to decide that my model is not the right one. I’m often offended when foreign countries condemn the French model. I don’t condemn the American model. But I don’t want mine condemned. I think that communitarianism sows the seeds of conflict between communities, and I don’t want my country to face conflicts between communities. I recognize only individuals. It is individuals who have rights. It is individuals who have free will. It is individuals who assimilate themselves. In no case is it communities.

I PARADOSSI DEL REFERENDUM, di Giuseppe Germinario

I PARADOSSI DEL REFERENDUM, di Giuseppe Germinario
Il referendum sulle riforme istituzionali sta diventando il catalizzatore degli equivoci, dei trasformismi e delle debolezze che caratterizzano il dibattito tra le forze politiche in Italia.
Una confusione in una certa misura creata ad arte; dovuta soprattutto alla estrema difficoltà di emersione di una nuova classe dirigente capace di indirizzare il paese verso scelte che quantomeno allentino l’attuale stato di subordinazione e supina accondiscendenza non solo alle strategie di fondo dell’Alleanza Atlantica ma anche a quelle mediazioni tra la potenza egemone, gli Stati Uniti e le potenze intermedie in Europa, Germania e Francia che consentono il mantenimento del sodalizio eleggendo a vittime sacrificali designate i paesi nel bacino mediterraneo praticamente ridotti a teste di ponte delle avventure destabilizzatrici nell’intera area.
Scelte, è bene ribadirlo, che non intaccano ormai soltanto la dignità di un paese e della sua classe dirigente ma che compromettono pesantemente la condizione economica nonché l’equilibrio e l’equità della formazione sociale. Una novità di rilievo rispetto al compromesso raggiunto ai tempi della Guerra Fredda.
Il referendum, non ostante il giudizio di valore apparentemente oscillante del nostro premier, rappresenta un momento cruciale, ma non decisivo, della battaglia politica perché sancirà l’epilogo più o meno vittorioso su due dei quattro punti fondativi di questo Governo e ne determinerà le modalità future di sviluppo: la ricostituzione della verticale di potere tra Stato Centrale e Regioni, il ribilanciamento dei rapporti tra Governo e Parlamento a favore del primo; gli altri due punti essendo la riforma elettorale e la riforma della Pubblica Amministrazione, compresa quella dell’ordinamento giudiziario.
Tralascio, in questo articolo, la politica economica; un corollario nell’attività dell’attuale governo utile a garantire un minimo di coesione politica e sociale anche se fondamentale, con l’attuale indirizzo, nel compromettere le potenzialità strategiche di azione del paese.

LA FORZA DEL Sì

La forza della ragione del sì risiede nella necessità intrinseca delle due riforme sottoposte a giudizio.
L’attuale assetto delle Regioni, le loro funzioni e competenze, la loro frammentazione hanno portato ad un incremento esponenziale del contenzioso con lo Stato Centrale dovuto alla condivisione di competenze.
Non è questo però il principale aspetto negativo.
Ha portato alla dispersione del patrimonio di competenze tecniche e finanziarie presenti nelle grandi agenzie nazionali liquidate assieme a gran parte della grande industria pubblica entro la metà degli anni ’90, riducendo drasticamente la possibilità e la capacità di progettare e porre in opera attività ed infrastrutture strategiche.
Ha portato ad una frammentazione e ad una dispersione della spesa pubblica, in particolare quella di investimento e di ricostituzione e sviluppo del patrimonio produttivo ed infrastrutturale.
Ha consentito l’azione diretta degli apparati dell’Unione Europea sulle realtà regionali aggirando le competenze e le capacità di controllo di quegli stati nazionali, tra i quali l’Italia, dalle strutture amministrative più deboli, con l’obbiettivo dichiarato, nella sua opzione funzionalista, di procedere al processo unitario attraverso l’indebolimento surrettizio di quegli apparati.
Ha concentrato la maggior parte delle risorse finanziarie ed amministrative delle Regioni in settori di servizio, in particolare sanità e formazione, fortemente connotati da intenti distributivi ed assistenziali piuttosto che da investimento.
Le Regioni e gli enti locali sono diventati di conseguenza sempre più il principale luogo di formazione e radicamento di ceti politici segnati da localismo e limitata capacità strategica e gestionale dai quali però hanno attinto sempre più, in mancanza di alternative, le formazioni politiche nazionali o extraregionali.
La ridefinizione dei rapporti tra Governo e Parlamento e delle competenze e della rappresentatività all’interno di quest’ultimo è l’altro punto importante.
Il conflitto politico generale (strategico) è un aspetto che pervade tutti gli ambiti della società; per potersi esprimere e poter esprimere la propria forza ha bisogno di simboli, strutture ed istituzioni che in qualche maniera lo inquadrano, gli danno forma, determinano le modalità di emersione, formazione e successo di alcune élites rispetto ad altre.
Il conflitto politico nelle istituzioni pubbliche, un particolare ambito di quello generale, è ulteriormente costretto da questa dinamica. La loro inadeguatezza conduce a forzature e distorsioni interne che alla lunga influiscono sull’esito, sui risultati e sulla formazione stessa di nuovi centri decisionali. L’uso dei decreti legge, il ricorso alla fiducia, i governi di emergenza, il trasformismo politico sono alcune delle modalità e degli strumenti di adeguamento surrettizio delle istituzioni pubbliche governative e rappresentative. Nelle fasi di svolta, quando le istituzioni preposte si rivelano inadeguate soprattutto rispetto al contesto internazionale, spesso il conflitto cruciale si sposta in e vede prevalere altri ambiti istituzionali con ulteriori distorsioni negli esiti.
Il ruolo dei magistrati inquirenti nell’Italia dell’ultimo quasi trentennio, sono un esempio lampante.
La conferma referendaria dell’accentuazione del ruolo del Governo, della primazia della Camera sul Senato sancisce il tentativo di ricondurre nell’alveo originario questo particolare conflitto politico

LE VACUITA’ DEL Sì

Lo scotto pagato da Renzi è stato però particolarmente pesante e soprattutto lungi dall’essere saldato completamente.
L’eventuale nuova composizione del Senato renderà altamente problematiche la riduzione del numero delle regioni e la definizione delle funzioni di orientamento, di controllo e di subentro del Governo Centrale.
Il rilevante numero di procedure di regolazione dei rapporti tra Camera e Senato lascia presagire il mantenimento di un contenzioso comunque importante rispetto alla situazione attuale anche se si fa finta di ignorare che in una situazione di cambiamento istituzionale è comunque necessaria una fase di transizione e di adeguamento.
Sono solo due delle tante incongruenze evidenziate con certosino accanimento dal Fronte del No.
In realtà la debolezza dell’impianto generale in parte è il frutto di una nuova classe dirigente poco preparata e soprattutto poco avvezza, a differenza dei primi costituenti, alle grandi battaglie politiche; di un errore di valutazione sul presunto carattere effimero, almeno nel breve periodo, del M5S (Movimento 5 Stelle); soprattutto di una complessa operazione di trasformismo politico gestita con l’ancora insostituibile comprimario Silvio Berlusconi tesa a garantire contemporaneamente la permanenza di Matteo Renzi e la definitiva irreversibile trasformazione del PD da una parte e contestualmente a impedire, in una fase di declino governato, l’affermazione nell’area del centrodestra di forze più attente ad una collocazione più autonoma del paese.
In pratica si sta affidando un processo di centralizzazione, di ridefinizione di competenze e procedure decisionali, di riprofilazione dei quadri dirigenti pubblici a forze che in realtà hanno interesse a mantenere il più possibile la propria autonomia e visibilità politica e in tanti casi il proprio riferimento territoriale. Le modifiche in corso d’opera dei testi di legge originari e l’impegno di revisione della legge elettorale sono solo i primi cedimenti rispetto a quello che accadrà nel prossimo futuro comunque sia l’esito referendario e ammesso che si riesca a tenerlo. Passi che daranno spazio a colpi di mano e situazioni di stallo.

berlusconi-renzi-3LE TROPPE RAGIONI DEI NO

Disegnare una mappa degli oppositori è impresa ardua. Più che una mappa aiuta tracciare un itinerario con i diversi piloti succedutisi sino ad ora al volante.
Inizialmente la guida del fronte dei NO è stata assunta dai difensori della Costituzione e dai fautori di un ritorno ad essa. Un proclama, in realtà, ricorrente nella storia della Repubblica Italiana che però sta esaurendo progressivamente la propria forza evocativa man mano che il carattere antifascista è servito progressivamente ad esorcizzare gli avversari politici del momento e a mascherare l’attuale condizione di sudditanza politica e militare con la condanna della occupazione militare tedesca. La novità legata allo scontro sui referendum riguarda il tentativo di alcune forze di legare la difesa della Costituzione al recupero di sovranità nazionale e popolare.
In realtà la parte dei principi costituzionali non è cambiata nel corso di questi settanta anni; a partire dagli anni ’70 sono cambiati alcuni articoli delle parti successive di essa. Mi sembra evidente che il richiamo alle origini si riduca quindi ad un appello strumentale teso a delegittimare avversari che andrebbero combattuti con ben altre e potenti argomentazioni; la sua difesa oltranzistica conduce ad un atteggiamento conservatore che impedisce tra l’altro l’introduzione di quelle modifiche tese a contestare l’insindacabilità di scelte politiche fondamentali riguardanti la politica estera e quella economica e a regolare al meglio il funzionamento dello Stato e della Comunità in funzione degli obbiettivi di fondo.
La debolezza di questa impostazione si è rivelata clamorosamente con l’incapacità di raccogliere le cinquecentomila firme necessarie ad acquisire il diritto di partecipazione agli spazi pubblici di dibattito e propaganda; si era del resto già manifestata affidando la conduzione del dibattito ad intellettuali e costituzionalisti abili a distruggere la costruzione giuridica sottoposta a voto solo sino a quando però hanno potuto evitare il confronto politico con i sostenitori del sì, in particolare con Renzi. La latitanza di veri leader politici ha evidenziato l’assenza o al meglio l’estrema frammentazione ed approssimazione di linee politiche propositive.
Lo stesso argomento del recupero della sovranità popolare, nella sua ambiguità, ha fornito una chiave di ingresso a quei morituri costretti all’angolo da Renzi, destinati a conquistare gli spazi pubblici residui offerti dal sistema mediatico e ad assumere presumibilmente la guida del movimento di opposizione.
In realtà, a proposito di volontà e sovranità popolare, faccio fatica ad individuare in questo mondo una qualsivoglia modalità di governo del popolo, nè riesco ad intravederne una qualche possibilità.
Vedo piuttosto centri decisionali, gruppi dirigenti agire, cooperare e confliggere tra loro in nome di qualcuno e qualcosa i quali per poter operare devono riuscire a coartare le volizioni dei gruppi in un rapporto circolare in cui l’iniziativa parte e torna da questi centri nuovi e vecchi anche in quei regimi come la democrazia dove la volontà popolare viene riconosciuta sovrana. Non significa certamente che la diversità di regime sia un fattore insignificante; semplicemente le loro modalità di conduzione del conflitto politico sono regolate diversamente, con diversa flessibilità ed efficacia secondo le congiunture politiche e diversa modalità di espressione delle pulsioni dal basso.
Il richiamo alla volontà popolare può servire ad un appello solenne in uno scontro politico dirimente; quando diventa un programma politico nasconde di solito la debolezza e l’inconcludenza di un nucleo dirigente.
Sta di fatto che l’argomento è servito alla riemersione temporanea della vecchia classe dirigente, l’attuale sinistra del PD, ormai messa all’angolo e corresponsabile diretta dell’attuale condizione del paese; a ridare forza alle aspirazioni di autonomia e sopravvivenza di piccoli potentati politici rispetto al tentativo di ricondurli nell’alveo di due grosse formazioni, ormai per altro ricondotte a tre; a mantenere nell’equivoco piuttosto che nel Limbo formazioni politiche, in particolare la Lega la quale a fronte di alcune posizioni interessanti in politica estera, non riesce nè può a mio avviso assurgere a forza nazionale, tanto più a forza mirante al recupero delle prerogative nazionali perché ostaggio del proprio vizio di origine localistico e secessionistico e vittima di conseguenza del miraggio di una Italia dei popoli e di risulta delle regioni.
Tutte condizioni che se dovessero affermarsi, riporteranno in auge il vero dominus destinato in qualche maniera a prendere le redini e a pilotare la scuderia variegata del NO e a porsi ancora una volta come reale interlocutore di Renzi. Abbiamo già visto la discesa in campo di Mario Monti e Massimo D’Alema, quest’ultimo saggiamente rimasto nell’ombra in questi tre anni e quindi non compromesso dalle costrizioni del voto parlamentare dei recalcitranti. Manca ancora l’ingresso in zona Cesarini di Silvio Berlusconi, il vero interlocutore e sostenitore del nostro Capo di Governo e destabilizzatore di ogni realtà politica più accettabile. Anche se di mala voglia non mancherà eventualmente all’appuntamento.
Dovrà procrastinare l’agognato pensionamento; in cambio potrà ottenere qualche garanzia in più sul futuro della propria famiglia per meriti sul campo.

LA SAGGEZZA DEL Nì

Per poter scegliere con maggior discernimento, in conclusione occorre a mio avviso porsi due domande esecrabili dal “politicamente corretto” ma decisive secondo l’approccio del “realismo politico”:
• È possibile separare l’obbiettivo dell’efficacia delle riforme istituzionali dall’obbiettivo strategico di una forza politica, in particolare i centri che esprimono e sostengono Matteo Renzi? La mia risposta è no in quanto il successo dell’intento funzionale contribuirebbe al successo della finalità strategica; in particolare il nostro sta contribuendo al pari dei suoi predecessori a peggiorare la condizione di sottomissione politica e di depauperamento economico e nel vano tentativo di resistere alle brame dei propri simili di pari rango in realtà sta consegnando mani e piedi il paese alle mene dell’attuale leadership della potenza di rango superiore, riducendolo così ad un mero campo di azione e predazione. Un argomento che meriterà lo spazio di altri articoli. È lo stesso obbiettivo funzionale in realtà ad essere compromesso significativamente, proprio perché quella strategia deve necessariamente fare a meno e scoraggiare le forze più dinamiche del paese e appoggiarsi, non ostante i proclami e magari concedendo qualcosa alla volontà velleitaria di Renzi, a forze parassitarie e remissive.
• Il conseguimento dell’obbiettivo funzionale delle riforme istituzionali contribuirà in maniera decisiva a concedere a Renzi e alle forze che lo esprimono la forza necessaria ad un assetto stabile? Secondo me, per meglio dire secondo la mia sensazione no perché comunque l’obbiettivo strategico, più o meno consapevole, impedisce comunque la formazione di una base solida e motivata su cui poggiare l’azione politica e contribuisce piuttosto a creare una oligarchia arrogante ma dalla base fragile e da una estensione del potere limitata. Una condizione idonea a continui colpi di mano e fibrillazioni in una palude stagnante. Un minimo di riorganizzazione, d’altro canto, potrebbe agevolare l’azione di future forze politiche sovraniste di là ancora da venire. Ho la sensazione che per maturare nel nostro paese, tale svolta dovrà verificarsi e consolidarsi prima nei nostri vicini di casa. Una affermazione negli attuali termini del no, contribuirebbe ad accentuare la palude e l’immobilismo. Vedremo gli sviluppi delle prossime settimane.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI

Globalizzazione e stati nazionali, di Giuseppe Germinario

globalizzazione

PROLOGO

Questo intervento si prefigge di approfondire due tematiche: di tracciare approssimativamente le basi teoriche ed evidenziare i limiti di analisi e la sterilità dell’azione politica derivata da una di una di esse, la globalizzazione; di evidenziare, al contrario, la persistente vitalità di quello strumento e luogo di azione politica che è lo Stato e più in generale di sottolineare, forse sarebbe più corretto dire tentare di sottolineare alcune delle potenzialità offerte dalla teoria del conflitto tra agenti strategici; una chiave di lettura che consente analisi più complesse ed efficaci dei contesti e potrebbe offrire strumenti idonei a comprendere nei vari ambiti le dinamiche e le logiche di conflitto tra centri strategici e a individuare alcuni dei luoghi e delle modalità di formazione di nuovi agenti

LA GLOBALIZZAZIONE

Il tema della globalizzazione (G) comincia ad affiorare dagli ambienti accademici negli anni ’80. I progressi tecnologici, una vera e propria rivoluzione, sono i fattori scatenanti questa rappresentazione; l’implosione del sistema sovietico, il conseguente crollo del sistema bipolare e la permanenza degli Stati Uniti come unica virtuale superpotenza regolatrice ne sanciscono la primazia nel dibattito e confronto politico e nella analisi teorica. Poggia quindi su un contesto politico inedito per le dimensioni dello scenario e la profondità del processo, anche se, inteso più limitativamente come internazionalizzazione, è una situazione che in realtà si verifica ciclicamente nella storia
Il processo di G implica una azione significativa sulle dimensioni del tempo e dello spazio. Il tempo di azione necessario all’azione tende ad azzerarsi; lo spazio operativo e di influenza degli attori tende invece ad estendersi all’intero pianeta. La detenzione e la capacità politica di sviluppo e utilizzo degli strumenti tecnologici moderni sono la condizione propedeutica indispensabile ad una azione efficace nelle due dimensioni.
Il processo di G consiste in un decisivo incremento delle correlazioni, delle interrelazioni, degli scambi, dei flussi di dati, prestazioni e merci su scala planetaria e tendenzialmente, almeno nelle interpretazioni primigenie senza la limitazione di particolari zone di influenza. Le decisioni politiche strategiche tendono quindi ad avere una valenza planetaria e il multilateralismo rappresenta la modalità di azione ideale a garantire la definitiva affermazione di tale processo. Il processo di G riguarda quindi l’ambito culturale, il sistema informativo e di trasmissioni dati, l’ambito economico, la ricerca scientifica e l’applicazione tecnologica e in maniera più controversa le rappresentazioni ideologiche e l’azione politica
La rappresentazione del processo di G offre due scenari guida principali con numerose varianti e gradazioni al loro interno:
Quello di impronta liberale-liberista. Un sistema reticolare i cui punti sono in grado di connettersi potenzialmente con tutti gli altri attraverso gli snodi senza particolari gerarchie o percorsi obbligati da terzi, specie politici. Il funzionamento ottimale del sistema prevede la presenza debole del sistema politico e dei suoi decisori, limitata per lo più alla regolamentazione esterna dell’insieme; i luoghi e gli strumenti operativi sono gli istituti sovranazionali sotto la supervisione e regolamentazione dei quali i singoli attori, in particolare gli stati, possono interagire tra loro; il criterio operativo diviene appunto il multilateralismo, il quale prevede la possibilità di relazione tra gli stati non strutturati in blocchi, sfere di influenza e alleanze predefinite ma all’interno di strutture e nel rispetto delle linee guida dettate dalle istituzioni internazionali. Parte integrante dello schema liberale, con alterne fortune, attualmente però in declino è la sua variabile progressista, ancora ostinatamente radicata nella sinistra con le seguenti linee guida: il rapporto tra attività politica ed attività economica è efficace e proficuo solo se le dimensioni delle istituzioni politiche corrispondono a quelle del mercato o siano almeno tali da poterne influenzare o regolamentare le dinamiche; attualmente la divaricazione tra il mercato globale e le istituzioni politiche troppo limitate territorialmente impedirebbero il controllo e l’indirizzo dei circuiti economici nonché la formazione di una società civile corrispondente alle dimensioni del mercato in grado di costruire formazioni politiche adeguate. Si assisterebbe quindi al primato assoluto dell’economico sul politico, al meglio ad una sorta di convivenza parallela tra i due ambiti. L’obbiettivo, in realtà l’aspirazione, diventerebbe quindi la “governance” e possibilmente l’istituzione del governo mondiale. Tra gli ispiratori più in auge di tale concezione, ma con un ascendente in declino, troviamo Habermas il quale in particolare individua nella storia una chiara tendenza alla giuridificazione dei rapporti umani e politici tra i paesi a scapito dell’uso diretto della violenza; la detta giuridificazione trae alimento dal riconoscimento di legittimità fondato attraverso la formazione di un “mondo vitale” comune imperniato su un linguaggio, un patrimonio culturale e valori comprensibili e condivisi tendenzialmente da tutti; l’insieme dell’attività degli uomini, con la significativa eccezione di quella economica, categoricamente separata dall’autore, è impregnata da questa prassi discorsiva. In realtà Habermas si rende conto del carattere utopico e larvatamente totalitario, nella fase conclusiva, della propria visione proprio perché tende a ridurre al mero diritto l’intero ambito d’azione del politico e questo all’azione dello Stato. Il rischio consisterebbe nel favorire il predominio per via istituzionale di una cerchia tecnocratica analoga a quella che prevarrebbe grazie all’attuale predominio dell’economico. La “soluzione” individuata da Habermas consiste nella formazione di istituti di governo mondiale laschi fondati sui principi minimi comuni presenti nelle grandi rappresentazioni ideologiche e morali prevalenti, in particolare le religioni.
Quello di impronta sistemica. Anche questo un sistema reticolare, ma diretto ed egemonizzato da un centro di comando particolare (er i puù la grande finanza) oppure da un sistema centralizzato e pervasivo (il capitalismo). La scuola degli Annales, a partire da Braudel per arrivare a Wallerstein e tanti altri, ha inaugurato uno dei filoni originari da cui traggono alimento queste concezioni. Secondo costoro la storia si sviluppa per cicli di varia estensione a loro volta all’interno di cicli di lunga durata (cicli di Kondratief) inframezzati da fasi di transizione; ad ogni ciclo di lunga durata corrisponde l’affermazione di particolari sistemi-mondo, di sistemi interconnessi, dotati di centro e periferia con particolari regole interne di funzionamento in grado di garantire stabilità, efficacia e continuità. In passato i sistemi mondo erano costituiti da imperi e dal predominio del politico e della funzione diretta di comando, di controllo e di esercizio della forza nel conflitto. L’ultimo sistema-mondo caratterizzante l’epoca moderna, è in realtà una economia-mondo; un mercato tendenzialmente globale dominato dal capitalismo all’interno del quale la dimensione politica assume il carattere di una funzione egemonica piuttosto che di esercizio diretto di decisione e comando. La finalità del capitalismo, però, si riduce al profitto e all’accumulazione. Il capitalismo deve la propria esistenza e la propria fortuna al regime di oligopolio sui prodotti di punta coltivati nel centro del sistema e sullo sfruttamento conseguente dei prodotti concorrenziali predominanti invece nella periferia. I centri del sistema si avvicendano seguendo la capacità di detenzione dei prodotti di punta; cercano di contrastare il proprio declino ed il proprio collasso legato alla crescita dei costi di produzione attingendo dal serbatoio delle masse contadine per altro ormai in via di esaurimento e cercando di eludere i costi sociali, infrastrutturali e ambientali delle proprie attività ma con crescente difficoltà. La pretesa prioritaria del “capitalismo” rivolta al Politico è quella di alimentare quella frammentazione degli Stati tale da consentire di sfuggire al loro eventuale stretto controllo; l’impegno subordinato degli Stati consiste nel conquistare la posizione egemonica centrale garantendosi l’allocazione ed il controllo delle produzioni oligopolistiche rispetto alle posizioni periferiche e semiperiferiche, queste ultime le più impegnate nelle posizioni precarie e acute di conflitto. Come in a), anche in b) si ramificano dallo schema originario numerosi varianti (Baumann, Negri, Badie e tanti altri ancora ben inseriti nel mondo accademico anglosassone anche se in funzione ancillare rispetto alla componente ben più autorevole del “realismo politico”) le quali esercitano ancora una potente influenza sui fatui fuochi di opposizione movimentista planetaria che qua e là si accendono improvvisamente.

LE INCONGRUENZE DI QUESTE RAPPRESENTAZIONI

Più volte abbiamo denunciato la sterilità e la inadeguatezza di queste rappresentazioni. Le incongruenze di queste rappresentazioni riguardano rispettivamente il merito del processo di globalizzazione, la sua immagine sacralizzata e assolutizzata che obnubilano le diverse e diseguali dinamiche interne, l’attribuzione di una intelligenza e volontà proprie ai sistemi reticolari e alla relazione piuttosto che agli agenti operanti in quelli; ineriscono in particolare la riduzione al dominio dell’economico o al meglio degli agenti economici sugli altri ambiti delle diverse possibilità di relazione e influenza tra gli ambiti vari dell’attività umana con il ruolo connettivo e dinamico del politico secondo i vari contesti, alla separazione dell’azione politica rispetto agli altri ambiti di attività, la riduzione dell’attività politica stessa all’attività statale e nell’ambito dello stato, il disconoscimento e il travisamento della funzione dei centri strategici e delle dinamiche del conflitto e della cooperazione tra di essi. Tutti ambiti sui quali il professor La Grassa ha offerto spunti e chiavi di interpretazione tali da poter sviluppare proficuamente il lavoro di ricerca teorica ed analisi politica.

Le conseguenze di queste discrasie sono particolarmente pesanti e influiscono negativamente nell’azione politica.

Comincio dalle incongruenze:

La G non è un processo che investe uniformemente tutti gli ambiti. Vi sono settori investiti più pesantemente (parte del finanziario, trasmissione e gestione dei dati), altri con minore intensità; nemmeno investe uniformemente i territori ed i paesi; le limitazioni sono presenti spesso e volentieri anche negli stessi paesi centrali paladini della libera circolazione. La stessa intensità del processo è sovrastimata dalla ulteriore frammentazione politica del pianeta e dal cambiamento di regime economico di gran parte dei paesi del blocco sovietico, fattori che ad esempio hanno trasformato in internazionali gli scambi economici interni ai paesi originari e alle unità produttive stesse. In realtà si parte da un presupposto invece tutto da dimostrare (stati in dissolvimento e/o ridotti a mero strumento del capitale e delle sue esigenze di accumulazione e profitto), si individua l’ambito di maggior evidenza come dominus e regolatore esclusivo del sistema (finanza), capaci di autoalimentare potere e ricchezza addirittura senza rapporto con i poveri e i diseredati nella versione estrema (Baumann). La conseguenza è che il conflitto diventa planetario ma riguarda la semplice redistribuzione tra l’1% della popolazione ed il restante ridotto a plebe nella rappresentazione più estrema, tutt’al più nella versione più “novecentesca” tra capitale e sfruttati questi ultimi a loro volta uniti nella rivendicazione contestuale di diritti sociali classici e dei diritti civili ed individuali (Wallerstein). Il ruolo degli Stati non è più centrale, ridotti come sono a meri esecutori e agenti di repressione e spesso nella condizione di ostaggi del mondo finanziario. In sostanza l’aspetto e il punto di vista economico, in particolare quello distributivo e commerciale, pervadono tutti gli ambiti, da quello politico (denaro corruttore) a quello ideologico-esistenziale (consumismo, l’alienazione). Tutte chiavi di interpretazione che tanto semplificano indubbiamente le analisi quanto distorcono e rendono sterili e subordinati i propositi di opposizione riducendoli spesso a denunce moralistiche e rivendicazioni dogmatiche o fuorvianti.

La rappresentazione reticolare, nel suo aspetto più appariscente, offre una visione di flussi frenetici secondo una logica propria e autonoma, praticamente spontanea, di quella trama; al sistema e alla rete di relazioni vengono attribuite una volontà ed una intelligenza proprie dal sapore spesso deterministico. Tale rappresentazione nasconde in realtà la valenza della gerarchia degli snodi dove i flussi si incrociano, si mischiano e si scontrano e soprattutto l’elemento fondamentale che gli impulsi partono da agenti e da loro gruppi di diverso peso e composizione presenti nella trama in rapporto non univoco tra di essi

L’azione politica anziché essere pervasiva a determinate condizioni dei vari ambiti dell’azione, subisce di conseguenza una sorta di dissociazione e separazione dal contesto. Da una parte, dalle componenti politiche apertamente integrate nel sistema viene relegata negli ambienti e nelle dinamiche istituzionali, per lo più rappresentative o al meglio di solo governo ma svuotate in realtà sempre più di potere e di competenze; dall’altra assume nella sua componente radicale connotati esistenziali che investono la salvaguardia della natura umana oppure la sua mera riduzione ed alienazione ad un unico aspetto (economico, consumistico). In pratica lo scontro politico si riduce al conflitto assoluto tra bene e male, alla salvaguardia o meno dell’integrità della natura umana. I soggetti in opposizione si riducono a pletore e masse indistinte dai bisogni insoddisfatti.

COME DON CHISCIOTTE. UNO SPRECO IMMANE DI ENERGIE

Le rappresentazioni così enunciate inibiscono una comprensione adeguata del contesto, conducono ad una sottovalutazione della complessità dei sistemi, della identità, della natura e della capacità operativa e attrattiva dei decisori dominanti, delle motivazioni complesse della loro azione politica e al contrario ad una sopravvalutazione moralistica della forza degli oppositori e dei centri minori in conflitto e competizione. Con esse si tende ad ignorare la complessità delle stratificazioni sociali e geopolitiche e l’effettiva forza ed omogeneità delle forze interagenti e in contrapposizione.

In particolare:

il dominio occidentale viene assimilato al dominio capitalistico e quest’ultimo surrettiziamente al dominio finanziario. Una rappresentazione resa verosimile dalla attuale fase di approssimativo dominio unipolare pur in degrado, laddove lo strumento militare esercita soprattutto una pressione latente e la gerarchia degli stati e la progressiva disgregazione o assoggettamento di quelli autonomi più deboli può offrire una parvenza di sistema unico nel quale il dominio politico rimane in ombra e sembra concedere a forze più appariscenti, più mobili e liquide (finanza, ect) quel predominio cui contrapporre masse informi o richiedenti al meglio una costellazione di diritti. L’emergere di centri politici alternativi e progressivamente contrapposti al dominante, radicati in alcuni stati emergenti ha infatti disorientato la leadership della contestazione mondialista al dominio mondialista. Da una parte questa li assimila forzatamente ai dominanti storici denunciandone la collusione e la condivisione di interessi e di dominio. Un’altra parte di costoro investe i nuovi arrivati dell’aura di paladini della ricostruzione dell’integrità umana antitetica al nichilismo e materialismo occidentale. Assegnano loro una funzione salvifica e di creazione di un sodalizio strategico millenaristico (lotta tra impero terrestre e potenze marittime, tra spiritualità e gretto materialismo, ect). Tutti ingredienti atti a sostituire una nuova subordinazione alla precedente o a indurre al rifugio verso soluzioni localistiche e comunitaristiche.
il preteso dominio assoluto della finanza impedisce di individuare la complessità della struttura finanziaria, la stessa conflittualità presente tra i centri finanziari stessi, la funzione non solo parassitaria ma positiva ultima di drenaggio, convogliamento e destinazione delle risorse, la caratteristica prevalente di strumento politico-strategico dovuta alla sua facilità e flessibilità di utilizzo; strumento soggetto quindi alle fasi difensive e di attacco delle azioni politiche. Un preteso predominio che impedisce inoltre di vedere la finanza come un ambito particolare e consustanziale del capitalismo, inteso come un sistema di relazioni sociali in ambito economico molto più pervasivo, più potente ma meno volubile e mobile del suo particolare ambito finanziario, certamente più determinante nei tempi lunghi
il capitalismo può definirsi “assoluto” solo perché ormai pervade, come “rapporto sociale di produzione” l’intero pianeta soprattutto per le caratteristiche superiori di organizzazione e di dinamicità grazie alla sua capacità attrattiva, non perché determini in esclusiva ogni aspetto della vita umana. Questo rapporto implica anche e soprattutto il conflitto tra agenti capitalistici; implica comunque, sempre più, caratteristiche intanto di gestione politica strategica delle dinamiche interne delle sue attività; dalla gestione dei gruppi interni alle imprese, ai rapporti tra i vari ambiti e i vari agenti in conflitto e cooperazione, alla creazione e gestione di aree di influenza nella verticale della struttura di produzione e nella competizione orizzontale. Altrettanto, però, comporta dinamiche politiche esterne all’attività economica che riguardano gli altri ambiti delle attività umane nelle loro interazioni ed influenze reciproche. I suoi agenti diventano parte integrante dei centri strategici, partecipano ma sono anche costretti ed indirizzati da logiche politiche di dominio e conflitto che costringono il rapporto capitalistico stesso ad adattarsi e conformarsi dinamicamente alle diverse formazioni sociali e alle strutture politiche. I capitalismi stessi, gli agenti delle varie formazioni, hanno bisogno di essere normati, sostenuti, indirizzati formalmente ed informalmente nei rapporti interni, nella competizione interna e in quella esterna, inseriti in una base sociale sufficientemente solida che le dinamiche capitalistiche stesse contribuiscono continuamente a sconvolgere. Tutti requisiti che svelano finalmente che il conflitto politico, con il capitalismo, pervade la stessa funzione economica. Tali requisiti richiedono inoltre l’esistenza di una struttura particolare deputata ad alcune specifiche e particolari attività politiche le quali, però, hanno uno spettro e finalità di azioni diverse e più ampie e offrono una rappresentazione tendenzialmente organica degli obbiettivi e delle finalità di azione: lo Stato. Gli stessi capitalisti delle varie formazioni dette capitaliste devono tener conto, agire all’interno e il più delle volte obbedire alle indicazioni e alle esigenze dei centri strategici dello Stato anche nelle loro attività internazionali, quelle che apparentemente dovrebbero garantire maggiore autonomia di azione nelle utopie liberali e movimentistiche.

In realtà il processo di globalizzazione non fa che riconfigurare il ruolo di centri e realtà politiche comunque delimitate territorialmente e funzionalmente, accentuando spesso tali caratteristiche piuttosto che annullandole. Tale consapevolezza sembra acquisita ormai nei paesi e nelle formazioni dalla identità politica più forte. L’affermazione, tutt’altro che consolidata però, di Trump negli Stati Uniti e del Front National in Francia, il consolidamento del potere di Putin in Russia sono alcuni esempi significativi. L’annaspamento dell’Italia lo è altrettanto, ma in senso opposto.

IL RITORNO DELLO STATO (DALLA FINESTRA)

Quello che nelle rappresentazioni “creative” si è fatto uscire dalla porta, sta rientrando a volte alla chetichella dalle finestre più spesso di forza dalle entrate principali in quelle stesse rappresentazioni: lo Stato

In realtà pur in una visione economicista, specie nei paesi dominanti sono sempre rimaste bel salde, anche se in ombra sino a pochi anni fa, correnti di economisti che riconoscono un ruolo decisivo dello Stato non solo in termini di regolazione keynesiana dei cicli, ma anche di regolazione normativa, intervento diretto strategico anche nelle relazioni internazionali ma anche l’influsso dei costumi, della cultura e dell’ideologia nelle dinamiche economiche (Rodrick, Stiglitz, Aghion, Krugman, Foglietta).

A maggior ragione le correnti del realismo politico, compresa quella liberale, hanno sempre avuto un peso determinante, predominante anche se discreto, nei centri decisionali delle potenze egemoni. In Europa e nelle regioni periferiche con scarse ambizioni e capacità di autonomia politica hanno prevalso nettamente al contrario le tesi sovranazionali, del declino degli stati, della legittimità e della forza intrinseca della legge senza il corredo della forza, del potere autonomo degli organismi internazionali. Nel paese dominante ed egemone ha prevalso tutt’al più la rappresentazione falsamente egualitaria del multilateralismo tra gli stati all’ombra di organizzazioni internazionali (FMI, BM, UE, ect) senza effettivo potere diretto ma condizionate e orientate dal paese vincitore; quella stessa rappresentazione egualitaria dei ventisette paesi europei dell’ UE propinata dai paesi più eterodiretti, tra i quali ovviamente l’Italia i quali tendono ad attribuire alla Commissione e al Parlamento Europei poteri ben radicati in realtà altrove. Sarebbe sufficiente ripercorrere la genesi storica delle varie istituzione per intuire la reale fonte ed origine del loro potere. L’aura pacificatrice, democratica ed egualitaria del multilateralismo in realtà presuppone l’esistenza e l’affermazione di una potenza regolatrice indiscussa. Un modello di azione teso ad impedire o ritardare la nascita e lo sviluppo di aree di influenza alternative e potenzialmente contrapposte. Tant’è che, al sorgere di queste realtà politiche, l’iniziativa americana ha mutato registro, sta abbandonando progressivamente l’approccio multilaterale e sta concentrando le energie soprattutto alla stipula di trattati di area internazionali (TTP, TTIP, ect) con gli Stati Uniti come cerniera e baricentro tra questi gruppi. Una impresa, per altro, dall’esito non scontato; anch’essa probabilmente destinata a fallire oppure ad essere significativamente ridimensionata.

La condizione di uno Stato dipende dalla capacità di tenuta delle relazioni esterne e dal livello di controllo e dalla capacità di coesione della formazione sociale di appartenenza (Huntington: intensità ed estensione del potere). Uno Stato può quindi sorgere, fallire, rafforzarsi, indebolirsi, estendersi o ridimensionarsi. Esattamente quello che sta avvenendo in questa fase di fine del bipolarismo e di incertezza e volubilità degli schieramenti legata all’incipienza del multipolarismo; situazione che rende i centri strategici decisori di diverse formazioni sociali più esposti agli interventi esterni e più fragili rispetto alle mutazioni delle proprie formazioni sociali.

Al momento lo Stato rimane ancora l’unica istituzione e struttura organizzata in grado di pretendere e garantire in diversa misura quelle prerogative che consentono la tenuta della formazione sociale ed il confronto con e le interrelazioni esterne alla formazione: il controllo territoriale la cui estensione dipende dalle caratteristiche geografiche, dalla sedimentazione storica della popolazione, dalla capacità tecnologica e quindi in particolare dalla capacità dei centri dominanti di gestire i rapporti di cooperazione e conflitto; la pretesa di monopolio dell’uso della forza all’interno e la conseguente fondazione del diritto regolatore dei rapporti tra lo Stato e i cittadini e tra i cittadini nei suoi aspetti anche informali; la rappresentazione del bene comune, in una delle sue accezioni, fatta non solo di rappresentazioni ideologiche ma di composizione degli interessi più o meno mediati dalla dimensione del conflitto e dai retaggi culturali, indispensabile alla tenuta e alla motivazione dei vari componenti e dell’insieme della formazione sociale; aspetto importante per i fautori del conflitto strategico, la delimitazione dell’azione politica esterna allo stato negli aspetti formali ed informali, comprese le trasgressioni rispetto alle prassi e alle regole riconosciute.

Le prerogative, lo spazio e l’intensità degli interventi tendono piuttosto ad estendersi, intensificarsi e complicarsi: l’estensione delle pretese di controllo delle acque, la gestione e la manipolazione del flusso dei dati e degli snodi di transito, la relativamente nuova dimensione dello spazio aereo, la ricerca scientifica, l’integrazione delle piattaforme industriali, l’apparato militare sono tutti fattori tra gli altri che richiedono un utilizzo complesso delle strutture statali e che definiscono le gerarchie e le possibilità di sopravvivenza e autonomia decisionale degli stati. Le stesse organizzazioni internazionali sono il frutto di accordi diplomatici ed agiscono con il supporto fondamentale degli stati e della loro forza; non possono essere equiparate alla funzione degli stati stessi e quindi non si prestano a modello di superamento di essi se non nelle rappresentazioni ingannevoli. Se dovessero sorgere nuove istituzioni, non deriverebbero certamente da queste ultime; piuttosto trarrebbero ispirazione dalla loro forma più flessibile, lo Stato Democratico Rappresentativo o per meglio dire lo Stato Poliarchico (Charles Lindbloem) con la sua capacità superiore, allo stato attuale di regolare il conflitto tra centri strategici interni alla formazione sociale e il rapporto di questi con le varie componenti e i vari gruppi della formazione in continuo mutamento.

ARTICOLAZIONE DELLO STATO E AZIONE DEGLI AGENTI STRATEGICI

Ho già ribadito che una struttura, una rete, una relazione non sono un soggetto. Hanno una dinamica, ma non una volontà. Sono composte, mosse da soggetti che tutt’al più agiscono in nome e per conto.

Sono i soggetti, singoli o in gruppo che si muovono, utilizzano e mobilitano, non lo Stato. Costituiscono, mobilitano utilizzano parti di esso.

Lo Stato, campo e strumento di azione politica per eccellenza, nelle sue varie conformazioni, fondamentali nel delineare le modalità della cooperazione e del conflitto tra agenti strategici e della conformazione dei blocchi sociali, è comunque una struttura su base gerarchica. Una visione riduttiva e deterministica di questa base induce spesso a ridurre la competizione politica tra agenti in conflitto alla mera taumaturgica e semplicistica conquista del vertice e alla defenestrazione o inglobamento dell’avversario.

Non è così in quanto:

Il rapporto gerarchico non implica una semplice relazione univoca dall’alto in basso; trattandosi inoltre di più livelli nella struttura, le figure intermedie svolgono funzioni di comando e di esecuzione. La posizione gerarchica superiore ha bisogno della competenza, della capacità e della disponibilità di quella inferiore, assegnando a questa comunque un potere di azione relativo. Gli stessi ordini hanno bisogno di interpretazione nella loro esecuzione e di rapporti orizzontali ai vari livelli tra le strutture ed i centri decisionali. La biunivocità o “multiunivocità” delle relazioni sono quindi determinate anche dai rapporti informali, dalle competenze, dall’impossibilità di controllo diretto, dall’interpretazione e da tanti altri fattori
Lo Stato moderno ha sviluppato una separazione di poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) che implica una prima divisione di strutture e un rapporto di controllo, conflitto e cooperazione tra di essi; condizioni straordinarie ed eccezionali creano strutture ad hoc difficilmente revocabili le quali una volta sedimentate duplicano e sovrappongono le competenze; la stessa complessità della macchina spinge a rapporti formali ed informali orizzontali tra i livelli tra i vari settori; le strutture diventano di per sé centri relativamente autonomi di potere; con il decentramento spesso si tendono a sovrapporre stessi livelli di competenze e sovranità tra potere centrale e periferico. Nelle situazioni di crisi e di transizione si tende a sopperire alle carenze e al mancato controllo di un settore con l’attribuzione o l’usurpazione di competenze improprie ad altri ambiti (Althusser, Poulantzas) pagando lo scotto di carenze di gestione e situazioni croniche di instabilità, di raggiungimento del tutto parziale e distorto degli obbiettivi politici, di scarso consolidamento dei risultati, di riconfigurazione nefasta dei rapporti tra centri di potere. La vicenda di “mani pulite” in Italia rappresenta un esempio emblematico di tutto ciò. Il processo può essere manipolato direttamente, indirettamente o scaturire da dinamiche incontrollate.
Gli stessi componenti dei centri strategici tendono a creare una cerchia di fedeli, anche esterni ed estranei ai posti di comando formali (“cerchio magico”) come rifugio e consulenza informale e di azione coperta o di ultima istanza nello scontro politico

La rappresentazione della classe dirigente in regnante, governante e dominante (Poulantzas) rende ancora più difficile individuare e stabilizzare le gerarchie di potere per non parlare della funzione del cosiddetto “Stato Profondo” (Chauprade)

Nell’interazione agiscono a pieno titolo importanti centri esterni allo Stato autonomi oppure strettamente collegati a settori di esso. L’azione politica dello Stato e nello Stato assume quindi forme e funzioni particolari ma è solo un aspetto del conflitto strategico tra centri presenti nei vari ambiti delle formazioni sociali (La Grassa)

Sono tutte condizioni che agevolano le trame politiche, gli spazi agibili e la provvisorietà delle situazioni non ostante la parvenza di equilibrio e di definizione dei rapporti di forza.

Condizioni che allargano lo spettro di azione e le condizioni di conflitto. Non solo! Condizioni che moltiplicano le possibilità, le tattiche e le dinamiche del confronto politico e le possibilità di disarticolazione in particolari frangenti degli apparati di potere e soprattutto i luoghi di formazione e consolidamento di potenziali centri strategici e decisionali alternativi ai centri dominanti. Le recenti lotte anticolonialiste, la rifondazione degli stati dell’Europa Orientale seguita al dissolvimento del blocco sovietico sono gli ultimi esempi delle opportunità offerte allo scontro politico da strutture di potere sempre più articolate e complicate.

Quello che si riferisce allo Stato è, per di più, riproponibile con alcune varianti essenziali all’intero spazio del conflitto strategico.

Tutto questo rende molto più problematica e complicata una analisi politica, ma renderà sicuramente l’azione politica degli eventuali centri alternativi più efficace, realistica e meno soggetta alle manipolazioni distorsive.

Purtroppo siamo ancora alla fase propedeutica alla definizione di chiavi interpretative consolidate ed efficaci; tanto più ad una “analisi concreta della situazione concreta” adeguata alle opportunità che l’attuale contingenza politica potrebbe offrire.

Il che dice tanto sull’arretratezza della nostra condizione

 

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