Prosegue il dibattito sui due documenti pubblicati da “Italia e il Mondo” a proposito di Europa, Europe ed europeismo http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/ . In aggiunta alla nota di Luigi Longo e all’intervento di Roberto Buffagni segue un contributo di Alessandro Visalli, tratto dal blog https://tempofertile.blogspot.it/2017/10/lo-scontro-tra-le-diverse-europe-due.html ,
cui seguirà una replica dello stesso Buffagni
Sulla pagina on line “Italia e il Mondo”, è uscito un articolo dal titolo “Due appelli, due Europe” del mio amico Roberto Buffagni nel quale è presente una interessante lettura di due diversi appelli, usciti negli ultimi tempi, nel campo conservatore, sul destino dell’Europa. Sono molto diversi, decisamente opposti: il primo parla di ‘progetto’, il secondo di uno scontro nel quale è in campo il ‘proprio sé’. Il primo è stato scritto da una importante istituzione che ha sede a Bruxelles e finanzia azioni politiche e culturali per la promozione della democrazia, fornendo quelli che chiama “finanziamenti veloci e flessibili”; ne fanno parte politici come Elmar Brok (CDU), Andrej Grzyb (PP), Bogdan Wenta (PPE), Cristian Preda (PPE), Pier Antonio Panzieri (PD), Alexander Lambsdorff (Partito Liberale), Elena Valenziano Martinez-Orozco (PSE), Mark Demesmaeker (conservatori e riformisti) e Tamas Meszerics (Verde ungherese). Il secondo da un gruppo di intellettuali accademici caratterizzati da una netta prevalenza dei filosofi politici e dall’essere conservatori di chiara fama.
La prima Dichiarazione chiama all’azione culturale e propagandistica (il campo del proponente) per la “democrazia”, ma intende una specifica connotazione del termine, la seconda ad una battaglia egemonica contro l’utopia di un mondo globalizzato, in cui le nazioni si dissolvano progressivamente in una utopistica unità multiculturale (ovvero, tradotto in termini realistici, siano inquadrate senza resti in un’unità imperiale). Del resto giova ricordare che la relazione tra democrazia e progetto del governo mondiale, pur avendo importanti antisegnani, è soprattutto scritta nella anglosfera di marca conservatrice (uno dei firmatari è Francis Fukuyama).
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Coalition for democratic renewal |
Si potrebbe dire che si tratta di due testi molto e forse troppo lontani, ma Buffagni li connette su una linea specifica: l’inimicizia reciproca, fondata su diversi orizzonti. Cioè su prospettive diverse in modo irriducibile.
La conclusione che trae (salto molti passaggi) è che sia in corso uno scontro decisivo per la definizione dei nostri tempi, dentro il campo conservatore, tra:
- – una destra liberale e tecnocratica, ‘progressista’,
- – e una destra orientata sulla nazione, la cultura comune, ‘conservatrice’ e per questo schierata contro la UE.
La sinistra, invece, è secondo lui indisponibile a produrre una riflessione critica, e tanto meno un’azione politica contro la UE, e dunque si estromette automaticamente dal campo dello scontro ordinato da questa dualità. Cioè non entra nella battaglia.
La sinistra, dice Buffagni in sostanza, è ancora troppo legata alla mossa inaugurale della modernità, ed al mito della rivoluzione (in primis francese) per riconoscere il lato oscuro della ragione illuminista, la sua hybris di potere. Tentativi, per la verità, ce ne sono stati: ad esempio la prima Scuola di Francoforte, più di recente il post-strutturalismo francese, alcune componenti della cultura pragmatista americana, molti antropologi, qualche raro e coraggioso economista, ma non riescono a fare sistema. L’ancoraggio all’industrialismo ed al milieu culturale nel quale i socialismi si formarono, nella prima metà dell’ottocento, è ancora troppo forte; la sostanza della cultura della sinistra, sembra dire, è legata ad una visione fondamentalmente scientista, tardo positivista, e quindi a visioni idealiste della storia (anche se ammantate da un materialismo scolastico che ne nasconde le fattezze). Una tesi del genere la sostiene il filosofo francese radicale Michéa.
Alla fine dunque la sinistra gli appare come una variante, e magari neppure particolarmente interessante, del liberalismo illuminista, la cui versione più coerente e radicale è in fondo quella assunta nella metà del secolo scorso dai pensatori politici ed economisti che per comodità chiamiamo “liberisti”. Dunque per Buffagni mentre la sinistra è solo una versione più ipocrita della posizione della “coalizione per il rinnovamento” e del suo “Appello di Praga”, le posizioni coerentemente conservatrici, senza il peso di doversi districare nella densa tradizione rivoluzionaria, possono andare al nocciolo, espresso nella “Dichiarazione di Parigi” in modo esemplare.
Per dialogare con questa posizione, proporrò qualche distinzione, ma prima vediamo meglio i due Appelli: sono, come è tipico del genere letterario, delle chiamate alle armi. Il primo, quello di Praga, per la “democrazia liberale”, che sarebbe sotto attacco da parte dei “populismi”. Il secondo, quello di Parigi, per la difesa della “casa” contro una idea trasversale e sbagliata. Chiamano dunque alle armi l’uno contro l’altro.
Più precisamente, l’idea sbagliata, per il secondo, è quella del progresso inevitabile, che viene riclassificato da “fede” (faith nel testo di Praga) in “superstizione”. Non, quindi, realizzazione della cesura della modernità (fatta risalire alle due rivoluzioni liberali settecentesche sulle opposte sponde dell’Atlantico), ma abbandono della casa e sua “requisizione”. Se presa sul serio, infatti, questa idea della cesura, del rasoio che separa le vecchie tradizioni dal moderno, incarnato dallo spirito della ragione, che è propria della ‘fede’ nella forza dell’individualismo illuminista, si estende necessariamente al mondo intero; con la sua forza corrosiva dei legami ascrittivi, essa ha intrinsecamente un respiro di potenza che finisce per classificare necessariamente tutti tra “liberali” e “illiberali”, in uno tra democrazie “avanzate” e “arretrate”. A leggere il primo Appello si vede che le prime si fondano infatti sulla “credenza nella dignità della persona” e quindi nei diritti umani (libertà di espressione, associazione, religione), nel pluralismo e nella competizione, nella “economia di mercato priva di corruzione e capace di offrire opportunità a tutti”, le seconde invece sulle politiche estrattive, sull’oppressione delle persone e sull’oscurantismo, appunto sul tradizionalismo. La prima posizione è cioè ‘progressista’, la seconda ‘conservatrice’.
Buffagni prende quindi da questo elenco di banalità, che spicca per la sua sicumera (potendo dare senza esitazioni patenti al mondo intero, in funzione della maggiore o minore distanza da un sé immaginato e idealizzato), la “dichiarazione di guerra totale all’Europa come realtà storica e come tradizione culturale”.
Si, perché la realtà storica dell’Europa (non del suo “progetto”) è fondata invece nella differenza delle sue profonde culture, e non nasce come un fungo dalla terra nel 1789. Senza considerare questa radice gli estensori dell’appello di Praga, che sono per lo più politici centristi, dicono in sostanza che se non si riconosce che la forma della civiltà occidentale, e per essa la forma politica della democrazia liberale nata dalle due rivoluzioni settecentesche, è superiore si è “relativisti”, e certamente c’è del vero; ma parimenti sarebbe da rimarcare che allora loro sono “assolutisti” (dato che si definisce tale chi sostiene una posizione, appunto, “assoluta”). E le forme di assolutismo hanno un sapore strano, un retrogusto imperialista (se applicate, come del caso, alla geopolitica), mentre il relativismo suona diversamente: ha curiosamente il gusto della libertà.
Questo rovesciamento dovrebbe renderci sensibili al rischio di definire una posizione assiale che non guarda alle proprie premesse, e non le mette in questione. Multiculturalismo sta ad impero, se si tenta di farne una posizione politica, mentre su questo piano il relativismo culturale si connette con l’accettazione del multipolarismo. Stiamo leggendo, ad esempio, la posizione complessa ed in movimento di un autore certamente non conservatore come l’economista egiziano e terzomondista Samir Amin, a partire dal suo “Lo sviluppo ineguale”, del 1973, e poi “Oltre la mondializzazione”, del 1999, ma anche “Per un mondo multipolare”, del 2006, che ripercorre alcuni momenti della formazione della legge del valore mondializzato, trascinata dalla logica implacabile dell’accumulazione che finisce per dominare l’intero sistema sociale. Ciò che spinge verso l’espansione mondiale, e la dissoluzione di ogni resistenza statuale, oltre che nazionale, è per lui la tendenza alla polarizzazione ed alla mobilizzazione delle risorse (tra le quali sono inclusi i portatori di forza-lavoro divenuti emigranti). L’egemonia dell’economico, posta sotto accusa anche dalla Dichiarazione di Parigi, è dunque ciò che va ricondotto a controllo; ciò che nei termini di questa va ‘risecolarizzato’ (dato che si tratta di una sorta di surrogato della religione, come dice anche Amin, cfr OM, p.57). Ovvero che va nuovamente “incastrato in un iceberg di rapporti sociali di cui la politica costituisce la parte emergente” (OM, p.102).
La tesi, che come si vede non è articolabile solo da destra, è che “la ‘mondializzazione mediante il mercato’ è un’utopia reazionaria contro la quale bisogna sviluppare teoricamente e praticamente l’alternativa del progetto umanista di una mondializzazione che si inquadri in una prospettiva socialista” (OM, p.176), ma questa forma di connessione richiede e non inibisce la costituzione di fronti “nazionali, popolari e democratici”. Ciò che bisogna separare è il nesso interno tra una certa visione lineare della storia come progresso verso un qualche telos, l’identificazione della meccanica (quando non anche del telos stesso) con un presunto svolgersi infallibile di leggi dell’economia ‘pura’ (una visione autorizzata da una lettura banalizzante di alcuni passi dello stesso Marx, ma molto più di Engels e di alcuni suoi epigoni), e il precipitare finale di tutto ciò a servizio di un progetto di potenza nascosto in bella vista nella retorica Wilsoniana di tanto in tanto riemergente.
Si tratta di un nodo di grande rilevanza.
Ma qui la “Dichiarazione di Parigi” manifesta il suo tessuto conservatore; conduce infatti la battaglia contro la “falsa” idea del progresso imperialista, dell’uniformante idea assoluta del ‘Vero’ e del ‘Giusto’, sulla base di un’enfatizzazione caratteristica della “casa”. Questa idea riecheggia in effetti dibattiti ripetuti tra le posizioni liberali e quelle variamente ricondotte a posizioni comunitarie (talvolta abbiamo sfiorato un terreno di emergenza di questo antico dibattito in autori orientati a sinistra come Sandel, MacIntyre, anche qui, Walzer, e ne riprenderemo i testi essenziali), ed è riassunta in modo molto eloquente nel primo capoverso:
- L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa.Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.
Riconnettendosi piuttosto chiaramente alla tradizione conservatrice (che è inaugurata in Europa dal pensiero controrivoluzionario di Burke, de Maistre, Novalis, Schlegel, poi ovviamente Nietszche, e nel novecento Heidegger, autori di cui alcuni degli estensori sono fini studiosi) il progressismo illuminista è qui accusato, in sostanza, di essere parte delle “esagerazioni e distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa”, e cieco ai propri “vizi”. Si scivola insomma nello stesso tipo di linguaggio essenzialista che si rivede nella controparte: ci sono posizioni “autentiche” e altre “false” (le prime quindi “vere”), ci sono “distorsioni” (del “retto”). C’è dunque una “Europa falsa”, ed una “vera”, dove la prima smercia caricature e nutre pregiudizi verso il passato. Una Europa che è “orfana”, non riconosce padri, e se ci sono li uccide. Che si sente orgogliosa di questa mossa, si sente forte in essa. Si sente quindi “nobile”. Gioverebbe rileggere per fare mente locale “Filosofie del populismo” di Nicolao Merker.
Una Europa simile, che non c’è, e non ci può essere, in quanto vuota e disincarnata (direbbe Sandel), “incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatore di una comunità universale che però non è né universale né una comunità”. Una comunità universale è, infatti, quasi per definizione impossibile. E in quanto impossibile non è universale. Quel che si ha è al massimo una comunità di élite sradicate e interconnesse con i poteri sradicanti del capitalismo di cui parla Amin.
In questo scontro tra tradizioni culturali e politiche l’attacco è assolutamente radicale:
- I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.
Se tutto questo è fondato per gli autori della Dichiarazione, la minaccia che abbiamo davanti è “la stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità di immaginare prospettive”.
Scriveva Heidegger in “Lettera sull’umanismo”, nel 1949: “l’essenza dell’agire è portare a compimento [e non produrre un effetto in base alla sua mera utilità]. Portare a compimento significa dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori questa pienezza, producere”. Dunque si produce, in certo senso, solo ciò che già è; precisamente è nel pensiero e nel linguaggio che “è la casa dell’essere” e nella cui dimora “abita l’uomo”. Ecco che si viene alla stessa idea che è incorporata nella densa frase della Dichiarazione: “il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca un effetto o una applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa”. Il pensiero “dell’Europa falsa” è dunque la sua vera ed essenziale azione.
Nel suo assai complesso, ed a lunghi tratti involuto, manifesto contro ‘l’umanesimo’ (dunque anche contro l’illuminismo), Heidegger lamenta la “perdita di mobilità” e contesta l’esattezza “tecnico-teoretica” degli scritti specialistici e nel farlo si esercita in un vertiginoso esercizio di distinzioni e narrazioni. Si scopre quindi che ogni umanismo si fonda su una metafisica, ovvero su una posizione che già presuppone un’interpretazione data degli enti (e quindi una loro funzionalizzazione, un apprestarli) senza porre insieme la questione “dell’essere”; anzi in effetti la impedisce.
Porre lo sviluppo storico come dispiegarsi della logica immanente della tecnica come apprestamento del mondo per l’uso (tramite l’economico), in altre parole, dimentica di riflettere sul senso. Dimentica l’essere, lasciandoci in un mero mondo di enti, di oggetti. Noi stessi fatti tali. Nel linguaggio della tradizione marxista, che ovviamente Heidegger ha di mira, è la questione della ‘reificazione’ (cfr qui).
Nell’impedirlo può porre (e lo fanno i romani per primi, dice) come autoevidente “l’essenza universale dell’uomo” (in Segnavia, p.275); ovvero dell’uomo come animale razionale. Una interpretazione dell’umano che, naturalmente, “non è falsa, ma è condizionata dalla metafisica”. Non si tratta, cioè, di abbandonarsi “all’azione dissolvente di uno scetticismo vuoto”, ma di tenere in movimento il pensiero (tramite l’interrogazione dell’essere).
La posizione del filosofo tedesco è in sostanza che l’uomo si dispiega solo a partire da un reclamo che gli viene dalla domanda dell’essere, ovvero da un abitare in qualche modo all’aperto. Nello “stare nella radura” che gli è propria (in quanto essere che veramente “vive”).
Dunque il punto non è che il discorso sui valori (universali, ovvero umanistici) sia “senza valore”, perché ciò sarebbe opporre banale al banale, ma che bisogna capire che porre una cosa come “valore” in questo senso, crea sempre un fare e con esso una oggettivazione. Cioè fa il mondo come oggetto (ovvero lo manipola).
Con le sue parole: “ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare” (ivi, p. 301). Pensare “contro i valori” non significherebbe, cioè, “sbandierare l’assenza di valori e la nientità dell’essere, ma portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto”.
Con il linguaggio della Scuola di Francoforte, esercitare la critica. Uno degli esercizi più recenti ed interessanti nel lavoro in corso della Rahel Jaeggi, in “Forme di vita e capitalismo”.
Allora, tornando alla “Dichiarazione di Parigi”, da questa posizione si può rivendicare la storia concreta delle tradizioni di lealtà civica e le battaglie condotte per fare “i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare”, talora “con modi ribelli”, e la storia di condivisione ed unità, che ci consente di guardarci gli uni con gli altri come prossimi; come insieme responsabili.
Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.
Ne consegue che non si tratta di accettare od opporsi ad un astratto umanesimo, o a “Valori” universalmente preordinati a fare del molteplice l’uno. Si tratta di avere, o di essere nelle radure dell’essere (come direbbe Heidegger), riconoscendo che “l’Europa vera è una comunità di nazioni”. Si tratta di esercitare la critica partendo da ciò che si è, dalla Europa ‘vera’: lingue, tradizioni, confini.
Qui il testo raggiunge probabilmente il suo punto più profondo:
- Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.
Uno strano “cosmopolitismo” vi viene enunciato: un cosmopolitismo concreto.
E viene enunciata una connessione tra il venir meno del collante cristiano e lo sforzo di un sostituto funzionale (ma quanto più povero) nell’universalismo economico, nella sorta di impero regolatorio e monetario. In una sorta di universalismo pseudoreligioso.
Ci sono anche momenti di espressa polemica con l’altra Dichiarazione, come questo:
L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.
E dunque questo “spirito”, che è propriamente europeo, implica una fiducia (non una fede), gli uni negli altri, e una responsabilità verso il futuro. Quindi implica una forma di libertà che non è individuale ma collettiva, è una responsabilità verso se stessi e la forza di non prostrarsi; neppure davanti “all’implacabilità di forze storiche”.
Un europeo, insomma, si sente autore del suo destino. E sente questa forza e responsabilità attraverso le forme politiche che hanno prevalso, lo stato-nazione, tratto caratteristico della civiltà europea.
Altri tratti caratteristici che sono richiamati nella Dichiarazione, anche in questo radicalmente estranea al liberalismo (sia classico sia contemporaneo), sono le tradizioni religiose (con “virtù nobili” come “l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità”) e lo spirito del dono, ma anche quelle classiche, l’eccellenza, il dominio di sé, la vita civica. Dunque il futuro non è da considerare connesso con un universalismo disincarnato che dimentica il sé e perde la memoria, ma nella lealtà alle tradizioni migliori. Nella ripresa dell’antico lessico delle ‘virtù’ nel quale, come insegna MacIntyre riposava la tradizione greco-romana che la modernità ha interrotto.
Su questa via il progetto europeo, tracciato sulla via del cosmopolitismo liberale e della dissoluzione delle solidarietà nazionali, è designato come nemico.
E con essa è designato, con aspra franchezza, come nemico anche il movimento di liberazione dei costumi e antiautoritario che ha attraversato l’occidente al finire degli anni sessanta. Un movimento che viene connesso sia con la riduzione delle autorità, sia con l’esplosione dei consumi e di uno stile di vita edonista e individualista. Ovvero è denunciato come fattore di disgregazione sociale.
- L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.
Una disgregazione che è invece per gli estensori dello “statement” fonte di anomia, di perdita di senso, e del “vuoto conformismo” di una cultura ormai guidata da media e dai consumi. Una generazione, quella del 1968, che ha distrutto insomma forme di vita e valori storici ma non li ha sostituiti con altri; che ha, secondo gli autori, solo creato un vuoto.
Quel vuoto intravisto anche dal nostro Pasolini, che si riempie quindi di surrogati: i social media, il turismo di massa, la pornografia.
La Dichiarazione continua attaccando quindi direttamente il multiculturalismo, che nega le radici cristiane:
L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.
E quindi ovviamente la globalizzazione: la promozione di istituzioni sovranazionali il cui vero scopo è di tenere sotto controllo la sovranità popolare, riportando tutto allo stato di necessità, all’assenza di alternativa.
Ciò che propone è di “risecolarizzare la vita politica”, riconoscendo che la “fede” proclamata nella Dichiarazione di Praga è solo una superstizione, e che non abbiamo affatto bisogno di surrogati della religione (anche se il capitalismo stesso è una sua forma, come scrisse Benjamin).
Abbiamo bisogno, invece, di una nuova politica:
- Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.
Ciò significa anche affrontare con prudenza e ragionevolezza il tema dell’immigrazione, puntando su una corretta integrazione ed assimilazione degli immigrati, non alla coesistenza di culture non integrate senza comune unità civica e solidale.
Ma c’è di più:
In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.
Non si può dire che la Dichiarazione non sia dotata di coraggio nello sfidare apertamente il senso comune che è largamente condiviso nel nostro tempo. Lo spirito libertario nel quale per lo più siamo stati formati, nel quale io sono stato formato.
Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza.
Lo scopo è comunque enunciato con grande chiarezza: “l’Europa deve riorganizzare il consenso intorno alla cultura morale in modo che la gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa”.
E qui si trae direttamente la più netta delle scelte:
Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.
Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.
Anche se mi pare giusto “resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato”, e che mette “tutto in vendita”, il rispetto reciproco spetta in ultima istanza agli individui e spetta a tutti in quanto esseri umani, non a questi in quanto parte di classi (né cambia il rispetto al salire da una classe all’altra, o scendere). Ci sono certo doveri, e vanno rispettati, ma non competono allo stato in cui ci si trova, competono al nostro reciproco doverci. Qui, insomma, per me si passa il segno. Un umanesimo è necessario.
Ciò non impedisce che sia necessario i mercati siano orientati a fini sociali, e incorporati in beni non economici e non disponibili.
Gli autori sono:
- – Philippe Bénéton (France), 71 anni, politologo, professore all’Università di Renne e all’Istituto Cattolico di Studi Superiori, studioso del conservatorismo, Machiavelli, Erasmo e Thomas More.
- – Rémi Brague (France), 70 anni, filosofo, medievalista e studioso del pensiero arabo di fama mondiale, conservatore e studioso influenzato da Heidegger, Strauss, ha ricevuto il Premio Ratzinger.
- – Chantal Delsol (France), 70 anni, filosofa conservatrice e allieva di Julien Freund.
- – Roman Joch (Česko), 47 anni, politico.
- – Lánczi András (Magyarország), 61 anni, filosofo conservatore e politologo dell’università di Budapest.
- – Ryszard Legutko (Polska), 67 anni, filosofo polacco e traduttore di Platone
- – Pierre Manent (France), 68 anni, politologo conservatore, studioso di Alexis de Tocqueville, Raymond Aron, Leo Strauss, Allan Bloom.
- – Dalmacio Negro Pavón (España), 85 anni, politologo e studioso di Carl Schmitt.
- – Roger Scruton (United Kingdom), 73 anni, filosofo conservatore ed occidentalista.
- – Robert Spaemann (Deutschland), 90 anni, filosofo conservatore e teologo.
- – Bart Jan Spruyt (Nederland), 53 anni, storico conservatore, cofondatore della Edmund Burke Foundation.
- – Matthias Storme (België), 58 anni, giurista conservatore.
Di certo non si può dire che non sia una importante compagine, come non si può dire non sia caratterizzata da una specifica parte.
Ciò che dobbiamo, io credo, ricercare è la costruzione di una “comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un dato territorio” (Formenti, “La variante populista”, p.9) che indirizzi una tensione aperta ed inclusiva a fare “Nazione”, nel pieno rispetto della vocazione e del diritto eguale delle altre (ovvero in direzione di un autentico multipolarismo plurale). Ciò significa anche coltivare e dare piena legittimità ad una forma di “patriottismo”, cioè di amore e rispetto, verso tutti coloro che si orientano allo “spirito oggettivo” delle migliori istituzioni e della forma di vita che ci crea come individualità collettiva. Una forma di vita nella quale siamo socializzati o che accettiamo volontariamente. Un patriottismo che può essere aperto e universalista, senza sconnettersi, anzi proprio collegandosi, con le tradizioni costituzionali e la storia di libertà e determinazione ad essere esempio nei momenti più alti in cui ci siamo costituiti. Ciò non è affatto incompatibile con gli obblighi che intendiamo auto assumerci nei confronti dell’umanità in generale, ma li sostanzia: la causa dell’umanità si sostiene, infatti, difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare; compiendo la “buona gara” di renderle ognuna esempio per l’altra.
La conclusione della Dichiarazione è la seguente:
- In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.
Questa la condivido.