UCRAINA. LA GENESI DI UNA POLITICA DI AGGRESSIONE E I SUOI IDEATORI_ di Antonio de Martini

UCRAINA. LA GENESI DI UNA POLITICA DI AGGRESSIONE E I SUOI IDEATORI.

I DUE UOMINI CHE HANNO DIFESO L’IMPERO BRITANNICO ORA SONO I SUGGERITORI DELLA POLITICA USA.

La parte dell’opinione pubblica mondiale più sensibile alla propaganda si chiede perché mai l’Ucraina sia stata brutalmente attaccata dalla Russia. La parte più critica dell’opinione si chiede come mai sia successo.

Ventimila, forse, persone al mondo fanno risalire l’iniziativa agli Stati Uniti e di queste non più di diecimila conoscono le ragioni che hanno indotto il governo Usa ad un gesto tanto intriso di disperata audacia e probabilmente meno di duemila, non addetti ai lavori, conoscono quale meccanismo sia stato usato come intelaiatura dell’aggressione. Meno ancora ne conoscono la storia, che inizia nel 1898 con un uomo che Churchill definì “a man of no illusions”: Alfred Milner; e continua con un ammiraglio, capo dell’SIS ( secret intelligence service), l’ammiraglio Hugh Sinclair , morto il 4 novembre 1939 nome in codice Quex.

Naturalmente in questa, come in ogni mia descrizione, non offro considerazioni di carattere etico, prassi alla quale credo sempre meno e invito chi abbia a cuore la morale nei rapporti tra stati a passare oltre.

IL PRIMO

Alfred Milner, di padre inglese, nacque e studiò in Germania fino all’università. Gli rimase per tutta la vita un accento tedesco che lo spinse a mostrarsi più patriota degli altri e divenne un ” public servant”. Diventato giovanissimo governatore del Sud Africa britannico quando l’impero inglese, perse le speranze di assorbire pacificamente le due repubbliche boere ( Stato libero di Orange e la Repubblica del Sud Africa) che possedevano il Transvaal, (l’oltrefiume Vaal) che aveva avuto la ventura di avere nelle sue viscere la più grande vena aurifera mai trovata nel continente, nel 1867, decise l’aggressione.

Falliti i tentativi di assorbimento ” con le buone” , immigrazione massiccia inclusa, gli inglesi sarebbero passati alle maniere forti immediatamente, ma un forte movimento pacifista in patria, era di ostacolo, dato che la pubblica opinione capiva la “missione civilizzatrice” del’Inghilterra coi neri, ma i boeri erano bianchi e olandesi di origine e assalirli fu considerato un crimine e provocò polemiche violentissime pro e contro Paul Kruger, rustico presidente dei boeri, descritto come un macellaio.

Il giovane governatore si chiese se il movimento pacifista ( capitanato dalla sorella di un ufficiale destinato a diventare il comandante delle truppe inglesi in Francia nella prima guerra mondiale) avrebbe cambiato atteggiamento se i boeri avessero sparato il primo colpo e decise di giocarsi la carriera su questa carta.

In un messaggio ” Very secret” chiese ai suoi capi in Inghilterra ” Will not the arrival of more ( British ndr) troops so frighten the Boers that they will take the first step and rush part of our territory?”

Facendo questo, ” they would put themselves in the wrong and become the aggressors“.

Londra approvò e spedì di rinforzo oltre a un paio di battaglioni, nientemeno che il più famoso bardo dell’epoca Rudyard Kipling che per l’occasione, coi suoi reportages convinse l’opinione pubblica e coniando espressioni rimaste nella storia e nella letteratura, come ” il fardello dell’uomo bianco” ( che poverino deve amministrare gli incapaci..) e ” a est di Suez” espressione storica globale anch’essa.

I due battaglioni furono fatti sfilare minacciosamente alle frontiere più e più volte, fino a che il rustico Presidente Kruger abboccò vedendo il verme ma non l’amo, e attaccò.

Per vincere la guerra Milner si inventò anche i campi di concentramento, per facilitarsi il controllo dei civili boeri ( a volte dimenticando di nutrirli) e i Boy scout ( idea trovata buona dalla religione cristiana e diffusa in tutto il pianeta) che furono i primi bambini-soldato al mondo anche se addetti prevalentemente alla messaggistica e ai collegamenti.

Nessuna meraviglia se la prima guerra mondiale lo troverà a capo di gabinetto del premier e amante della di lui nuora.

l’Inghilterra aveva imparato a schivare l’ira dei pacifisti e a trasformarla in energia patriottica. Lo Zar di Russia, inviò un corpo di volontari a difesa dei Boeri e questa non é – come vedete- la sola somiglianza tra la campagna d’Africa di Milner e la guerra in atto in Ucraina.

IL SECONDO

L’Ammniraglio Hugh Sinclair era a capo del Secret Intelligence Service dal 1923, quando, prima dell’incontro di Monaco e un anno prima di morire fu chiamato da Neville Chamberlain , all’epoca era il primo ministro, ” asking Admiral Sinclair for a paper on what Britain should or could do to restrain Hitler without war”.

Nella foto accanto: il frontespizio di uno studio della Rand Corporation datato gennaio 2020 opera delle signore Stephanie Pezard e Ashley L. Rhoades della Rand Corporation , di 27 pagine che riecheggia fin dal titolo quanto meno lo spirito documento SINCLAIR britannico.

Della serie , come diceva Salvador Dalì, che ” tutto ciò che non é tradizione é plagio”.

Il documento, dal titolo ” What we should do” fu recapitato a Chamberlain il 18 settembre ( undici giorni prima dell’incontro di Monaco con Hitler).Il documento, fu redatto Da Sinclair, il suo vice, Menzies ( che doveva succedergli due mesi dopo la dichiarazione di guerra, il maggiore Malcom L Woollcombe ( capo della sezione politica)e forse il suo vice David Footman ( che risultò poi amico intimo di Guy Burgess , spia del KGB e quindi potrebbe essere stato trafugato. Perciò nel dopoguerra lo divulgarono eccezionalmente agli studiosi).

Inutile elencare tutto il documento, ma vale forse la pena di citare qualche briciola. Ad esempio sull’Italia: La Gran Bretagna “could never rely in an Emergency on the fickle ( incostante) and unscroupolous italiana. Italy would never be a stable factor in any defensive front, even if such were desirable” ma ” we can at least always work to keep them on the right side, treating them , above all, as equals, playing up to their pride, and always being quick to remove any suspicions which they may entertain as to our motives, at the same time never relaxing our vigilance on them”.

Sui paesi oggetto delle mire egemoniche tedesche, ( “L’Europa centrale e del sud est”, quindi non l’Italia) ” we should inject resisting power“, ” helping them financially” e ” making them realize that we and the French are strong and united.”

Se a questo si aggiunge la voce ” Turchia” giudicata ” powerful factor in Balkan resistance” e ” a bulwark in the Middle East”, avrete sotto i vostri occhi lo stesso identico quadro completo di oggi, mettendo la Russia al posto della Germania.

Notevole che non si faccia cenno alla instabilità psicologica di Hitler che invece si é fatta nella propaganda, così come si é fatta con Putin.

L’obbiettivo era assicurare la pace per dodici mesi per consentire al ministero dell’aeronautica di mettere in linea cinquantadue ” fast eight-gun Spitfire fighter into squadron service”.

Per avere la pace necessaria alla preparazione, suggeriva di abbandonare la Cecoslovacchia al suo destino.

I generali tedeschi che davano per scontata una resistenza da parte inglese ( che aveva garantito l’integrità cecoslovacca), vista la situazione desistettero dai piani del generale Beck e dell’ammiraglio Canaris che volevano defenestrare Hitler ( e lo aveva detto agli inglesi tramite Canaris) e si allontanarono dai congiurati.

La seconda occasione di liberarsi di Hitler si presentò cinque anni dopo con lo sbarco di Normandia e fu anche questa un fallimento. Gli inglesi , che prepararono la bomba, non sapevano che il Fuhrer lavorasse in una baracca con tenui pareti che crollarono senza provocare lo spostamento d’aria necessario alla uccisione degli abitanti.

E come da previsioni di Beck, la Germania perse la guerra e cinque milioni e mezzo di uomini.

Questa descrizione storica ( di Antony Cave Brown ) assomiglia come una goccia d’acqua alla situazione attuale con la Russia al posto della Germania e la Cina al posto della Russia.

Da queste descrizioni storiche, ( di Hochshield per Milner , Cave Brown per l’intesa coi vertici militari avversari e con gli inglesi sostituiti dagli USA) si può dedurre il modus operandi anglosassone ormai consolidato e la situazione Ucraina in cui

a) sono stati gli USA a provocare lo scontro e Putin ad abboccare come un contadinotto boero

b) esiste un canale di comunicazione tra gli alleati e vertici russi pronti a sostituire Putin ai primi cenni di sconfitta, ma non prima.

c) l’assunzione da parte inglese del ruolo di brillante secondo detenuto dai francesi nel 39.

d) la strategia é quella immaginata dal conte Schulemburg ( ex ambasciatore a Mosca)nel 1941/42 per la Russia occupata dalla wehrmacht: ” trasformare la guerra in guerra civile tra russi, altrimenti sono imbattibili.”

L’unica incognita é rappresentata dalle elezioni francesi di domenica che potrebbero , con Macron, rifiutarsi di rifornire con armi ( che comunque non giungerebbero mai integre al fronte, stante la superiorità aerea russa) come ha fatto la Germania e attorno a questi due renitenti si creerebbe una nuova Europa meno succuba degli USA, con una Italia giudicata inaffidabile da tutti.

https://corrieredellacollera.com/2022/04/21/ucraina-la-genesi-di-una-politica-di-aggressione-e-i-suoi-ideatori/

PACE E GUERRA IN UCRAINA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PACE E GUERRA IN UCRAINA

Quanto si legge e si vede sulla “liceità” della guerra in Ucraina presenta quasi sempre lo schema argomentativo seguente:

  1. a) si prende un manuale di diritto internazionale e se ne ricavano le norme ed i concetti applicabili (sovranità, guerra, aggressione)
  2. b) li si applica alla situazione concreta
  3. c) e ne consegue inevitabilmente la condanna della Russia aggressore e trasgressore del diritto internazionale

Questo nei casi meno bellicosi; negli altri, in cui la condanna dell’aggressore è caricata di valori i quali incrementano il sentimento d’ostilità, il nemico diviene criminale, macellaio, genocida ecc. ecc.

Nulla da obiettare per la prima categoria: è chiaro che la Russia è aggressore e la ricorrenza di circostanze attenuanti (come gli scontri pluriennali nel Donbass – quasi, a leggere certi “pezzi”, una guerra a bassa intensità) non vale ad escludere l’aggressione.

Tuttavia tale ragionamento, esclusivamente giuridico non esaurisce la riflessione politica (e filosofica) sulla “giustificazione” della guerra. Se sostituiamo all’armamentario lessicale e concettuale giuridico quello politico e filosofico e alla coppia lecito/illecito (o legale/illegale) quella opportuno/inopportuno (e quanto ne consegue) il risultato è diverso.

In effetti da secoli il contrasto tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno (tra “dovere” ed “essere”) è uno dei temi ricorrenti del diritto pubblico, non solo internazionale. Il prezzo da pagare per rispettare il diritto può consistere perfino nella distruzione dell’esistenza politica (e financo fisica) di una comunità; e nessun governante (che sia tale) è disposto a pagarlo, non foss’altro perché il principio del rapporto tra politico e giuridico è proprio l’inverso: salus rei publicae suprema lex.

Il che ha comportato una diversa valutazione della condotta. Ad esempio la guerra di aggressione. L’opinione dei teologi-giuristi della seconda Scolastica (e non solo) è che bellum defensivum semper licitum. Che lo fosse anche quello d’aggressione, non dipendeva solo dall’essere gli Stati sovrani titolari dello jus belli, ma anche da avere delle fondate ragioni per iniziare guerre scegliendo tempi e modi: guerre per lo più preventive.

Come scriveva Montesquieu (tra tanti) il diritto di difendersi comporta talvolta la necessità di attaccare, laddove indispensabile a salvare la comunità, (De l’ésprit des lois, X, 2). Ciò riprendeva le considerazioni di Suarez che “anche la guerra d’aggressione non è sempre di per se illecita (malum) ma può essere onesta e necessaria”. E al concetto di justa causa belli (cioè di giusta causa) va ricondotto il diritto di contrastare/reprimere i torti (iniuriae), dato che tra gli Stati non c’è un’autorità che possa decidere sul diritto né eseguire le decisioni, come all’interno delle unità politiche.

Diritto, esistenza, potenza (più gli ultimi che il primo) sono i criteri per l’esercizio legittimo del diritto di (muovere) guerra. La questione si complica poi, quando l’ostilità non assume la forme classiche  dell’invasione, del blocco navale, dell’interdizione di vie di comunicazione, ma quelle più sfumate, fino ad arrivare al c.d. soft power. Peraltro chiamato in causa spesso nella vicenda ucraina, quale causa dell’aggressione russa, attribuendo a Putin il terrore che un’Ucraina democratica, rispettosa dei “diritti comuni” ecc. ecc. avrebbe potuto indurre i russi a sbarazzarsi del regime autocratico del (nuovo) zar.

Ma chi lo sostiene non ha pensato che la convinta adesione alla NATO ed all’ “area” occidentale di ex satelliti sovietici come Ungheria e Polonia non ha affatto impedito agli stessi di essere assai critici nei confronti dell’U.E., di cui fanno parte e di cui criticano proprio il concetto di “Stato di diritto”, un po’ ristretto e molto strabico nel pensiero della nomenklatura europea. D’altra parte polacchi e ungheresi sono per motivi assai più seri – perché suffragati dalla storia – i più ostili alle pretese russe (un tempo sovietiche) di egemonia nell’Europa orientale. Tra chi avanza titolo di essere considerato difensore della libertà per il sangue versato nelle rivolte e guerre antisovietiche del XX secolo o in quelle anti-russe di quello precedente e chi predica i “diritti umani” chi è più credibile? I popoli che hanno pagato col sangue l’amore per l’indipendenza e la loro (scomoda) situazione geografica o chi sculetta nei gay-pride?

Pertanto appare secondario sia il (preteso) timore di Putin per l’appetibilità della democrazia liberale versione Bruxelles sia, ancor di più, la capacità attrattiva della suddetta versione.

Piuttosto, guardando una cartina geografica, e ricordando quanto capitò sessant’anni fa durante la crisi di Cuba – a parti invertite – è comprensibile che Putin, come  a suo tempo Kennedy – non voglia al proprio confine meridionale uno Stato aderente ad una alleanza potenzialmente avversa, esteso dalla Moldavia al Kuban e il cui confine settentrionale è a circa seicento chilometri da Mosca. Distanza non indifferente, ma ricordiamo che la Wermacht con i mezzi e la situazione di allora assai più propizie alla difesa, fu in grado di percorrerla in un paio di settimane. E senza ricordare che l’Ucraina – o almeno la parte orientale – fa parte della “civiltà” russa (Toynbee e Hungtinton). Ragioni che appaiono assai più rilevanti dell’attrattiva resistibilissima degli ideali U.E.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il partito Unico, di Michel Onfray

Ieri, mercoledì 20, Le Pen e Macron ci hanno deliziato per quasi tre ore del loro unico confronto diretto in vista delle elezioni presidenziali di domenica prossima. Un incontro finito più o meno alla pari, con Le Pen più in difficoltà iniziale e Macron nella fase finale, ma con qualche punzecchiatura efficace anche nel suo momento sfavorevole. Un duello il cui esito non riuscirà a ribaltare l’esito elettorale. Eppure lei ha avuto il tempo necessario a prepararsi e rimediare alla figuraccia di quattro anni fa. Marine Le Pen ha avuto almeno tre occasioni clamorose per affondare con durezza: sul ruolo mancato della Francia, quindi di Macron, come garante degli accordi di Minsk, il rispetto dei quali da parte del governo ucraino avrebbe certamente evitato l’attuale conflitto. Sul ruolo inesistente e controproducente della Unione Europea sulle due grandi crisi affrontate ultimamente, la crisi pandemica e la crisi ucraina e sul carattere messianico, autolesionistico e destabilizzante della sua politica di conversione energetica ed ecologica; sul ruolo della Francia come potenza mondiale piuttosto che prima donna europea senza specificare che tipo di rapporti intende instaurare con i propri vicini di casa. Solitamente l’assillo principale di ogni governo nazionale o classe dirigente che si rispetti. Nel dibattito, infatti, non a caso, è mancata una parola esplicita rispetto al convitato di pietra nello scacchiere europeo: gli Stati Uniti. Marine Le Pen, ancora una volta, ha rivelato il vizio d’origine che inficia le possibilità di successo di organizzazioni politiche radicate negli strati popolari, le quali rivendicano il diritto e la capacità di governare senza assumerne la postura e la autorevolezza: la capacità di dialogare, attrarre e conquistare parti essenziali di élites e classi dirigenti, indispensabili a far funzionare le cose e dare concretezza ai programmi di cambiamento e alle politiche alternative. Una confessione di sudditanza culturale e di subordinazione psicologica che si traduce in sterilità politica e nel ruolo di eterna oppositrice, così come egregiamente incarnata dalla Le Pen e non solo da essa, purtroppo. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Già il “partito unico” designato senza sparare un colpo a un regime dittatoriale, autoritario, tirannico. D’ora in poi è anche il segno del regime francese e questo poiché le varie consultazioni elettorali hanno sistematicamente portato alla validazione dello stesso programma da tre decenni: quello di Maastricht, di destra e di sinistra messe insieme.

Cinque anni fa era ancora possibile la scelta tra un emblematico maastrichtiano, Emmanuel Macron, e un affermato antimaastrichtiano, Marine Le Pen. Poiché quest’ultima ha affermato chiaramente di non toccare più l’euro, Schengen, i sistemi europei bancari, finanziari e giudiziari, Marine Le Pen la pensa più o meno come Emmanuel Macron. La vulgata mediatica può dire che lei è “estremamente giusta”, questa signora condivide con lui la stessa visione del mondo, il quadro , salvo, a margine, inezie su cui si eccitano gli antifascisti in pelle di pelle. l’ultimo degli studenti della Sorbona che sono più rumorosi del tema.

Tutti concordano sul fatto che i partiti politici siano ovviamente cambiati in mezzo secolo: il Partito socialista del Congresso di Épinay del 1974 propone, via Mitterrand, di rompere con il capitalismo: chi dirà che è ancora il progetto di Anne Hidalgo? Anche quella di Lionel Jospin o di François Hollande quando erano in affari? Se non quella di un François Mitterrand Presidente della Repubblica per due sette anni? Il pugno e la rosa sono scomparsi dal panorama politico francese molti anni fa.

Il Partito Comunista Francese stalinista, che fu collaborazionista con gli occupanti nazisti nell’ambito del patto tedesco-sovietico tra il 23 agosto 1939 e il 22 giugno 1941, che prese posizione contro la contraccezione, contro il divorzio, contro l’aborto, contro l’omosessualità negli anni ’50, contro il Manifesto del 121 all’epoca della guerra d’Algeria, o che, con Georges Marchais, rifiutò l’immigrazione perché procedeva dalla volontà dei datori di lavoro di impoverire i lavoratori, questo PCF n’ è di più. Da Maurice Thorez a Fabien Roussel, il cui responsabile della campagna Yann Brossat non nasconde la sua passione per l’ideologia sveglia. Lungi dalla costoletta innaffiata con vino rosso, l’acqua è passata sotto i ponti. La falce e il martello non hanno più posto tra i comunisti francesi.

La Lega Comunista Rivoluzionaria che, con Mitterrand, ha fornito molti attori del liberalismo maastrichtiano diventati devoti di Macron, non c’è più. Il progetto trotzkista di una rivoluzione proletaria internazionale viene accantonato. Il logo è cambiato. La falce del contadino e il martello dell’operaio lasciano il posto al megafono, che descrive chiaramente il progetto del Nuovo Partito Anticapitalista: un raduno di vocalist potenziati dal megafono. Il bolscevismo trotskista è fuori moda.

Il gollismo chiraquiano che espose nei suoi congressi un’immensa croce di Lorena e gigantesche foto del generale de Gaulle vendette la Francia firmando il Trattato di Maastricht che, nel 1992, gettò nella spazzatura la sovranità nazionale a favore di una nuova sovranità, quella di Jean Monnet Europa americana. Non più Croce di Lorena, non più ritratto del Generale, non più possibilità nemmeno di gollismo. Solo Valérie Pécresse rimane a dire durante la sua campagna che era tempo che una donna “gollista” (sic) arrivasse all’Eliseo. Pécresse gollista? Fammi ridere…

Allo stesso modo, Marine Le Pen non ha più molto a che fare con suo padre, di cui si possono leggere i programmi politici molto liberali degli anni ’70 e ’80 – Thatcher e Reagan erano i suoi modelli economici all’epoca. C’era nel padre una passione per il maresciallo Pétain e un odio per il generale de Gaulle che i due volumi delle sue Memorie confermano senza ambiguità.rispettivamente pubblicato nel 2018 e nel 2019, quindi era ieri. Con umorismo o ironia, cinismo o provocazione, Le Pen senior non ha mai smesso di giocare con l’Olocausto e la negazione dell’Olocausto – il dettaglio della Storia, l’Occupazione non così terribile, il “Crematorio Durafour”, recentemente la necessità di fare un “lotto” con Patrick Bruel, ecc. Questa passione maresciallista e vichy del padre non esiste più in Marine Le Pen che ha fatto dell’Olocausto il più grande crimine del XX secolo – si può immaginare che, per il suo capostipite, il crimine fondante sarebbe stato il gulag.

Ma se nessuno pensa più che il PS voglia rompere con il capitalismo, che il PCF sia contrario all’aborto e all’omosessualità, che i repubblicani difendano la nazione sovrana francese, la maggior parte crede, nonostante tutto ciò che ha detto per distinguersi dal padre, che Marine Le Pen è razzista, antisemita, xenofobo – perché non antibolscevico, sarebbe buono nello spirito! Basta confrontare le parole di Marine Le Pen con quelle di Charles Pasqua o Marie-France Garaud, Alexandre Sanguinetti e Pierre Juillet, tutti gollisti sfacciati, per concludere che il suo tropismo non è in alcun modo vichyst, maresciallista o petinista, ma neogollista .

Scrivo “neo-gollista” e non “gollista”, perché la sua recente svolta verso l’ Europa [1] la avvicina più a Chirac, il cinico attore di Maastricht, che al generale de Gaulle che passò la vita guidando i destini di una Francia sovrana nel mondo.

Un ottimo articolo di Thierry Breton [2] , che non è la mia tazza di tè politico liberale, ma che dice le cose giuste, mostra che Marine Le Pen non poteva portare a termine il suo programma rimanendo nell’Europa di Maastricht. Come Jacques Chirac ai suoi tempi, per elettoralismo, scelse di rimanere nel quadro di Maastricht, il che le avrebbe impedito di portare avanti la sua politica, tutta la sua politica, se per caso fosse stata eletta.

Ricordiamo l’avventura di Tsipras in Grecia: ecco cosa l’avrebbe aspettata se salisse al potere.

Bisogna dunque prendere in giro queste palinodie che saturano i media francesi tra le due torri e che oppongono il campo del Bene al campo del Male. La palma, nel campo dei buoni, va a Gérald Darmanin, ministro dell’Interno, comico nel tempo libero, che afferma, senza ridere: «Con Marine Le Pen forse moriranno i poveri» (sic) [3] . Serio ! Non sappiamo se è con il gas o con la ghigliottina…

Palme de l’hypocrisie a Lionel Jospin che, quattordici anni fa, nel programma Répliques de France-Culture , tornando al suo fallimento nel 2002 e alle manifestazioni che separavano le due torri con Chirac e Le Pen senior finalisti, affermò al microfono di Alain Finkielkraut che, in questa configurazione, “l’antifascismo era solo teatro” – ricordiamo che parlava allora del Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen… È lo stesso che, oggi, nella configurazione del RN di Marine Le Pen, vuole assolutamente lasciare la sua casa per recitare la scena dell’antifascismo in pelle di coniglio invitando a sua volta a votare Macron per bloccare, tralala, tralalère.

Sono innumerevoli le persone del Camp du Bien che, in processione, provenienti dallo sport o dalla cultura, dallo spettacolo o dalla televisione, dall’università o dalla politica, dal giornalismo o dalla strada, associano Marine Le Pen al fascismo, quindi, sia chiaro, a Lucien Rebatet o Robert Brasillach, rischiando o di banalizzare il fascismo di questi due, di cui, ricordiamo, il secondo ci invitava a non dimenticare i bambini ebrei deportati nei campi di sterminio nazisti, oppure a lavorare per l’impossibilità di utilizzare questa parola quando dovrebbe essere per qualcuno che se la merita – Vladimir Putin per esempio. Questa forma di negazione dell’Olocausto a cui stiamo assistendo mi ripugna.

Questo negazionismo è il cemento del Partito Unico che, in questi giorni, chiede un voto per Macron: Roussel del PCF & Hervé Morin dei Centristi, la CGT di Martinez & il MEDEF di Roux de Bézieux, Liberation of Joffrin, Médiapart of Plenel e il mondochi volete, lo Yannick Jadot degli Écolos e il Jean-Luc Mélenchon degli islamo-sinistra, il François Hollande del PS e il Nicolas Sarkozy dei repubblicani, ancora una volta amici porci, e con loro il loro seguito giustamente sconfitto, Anne Hidalgo e Valérie Pécresse, l’indescrivibile Jack Lang, i media del servizio pubblico ovviamente, Lionel Jospin ma anche Édouard Philippe, François Fillon & Jean-Marc Ayrault e Bernard Cazeneuve, quattro Primi Ministri di Maastricht, non parlo di Castex ovviamente , ministri di Mitterrand, Élisabeth Guigou, Marisol Touraine o, più sbalorditivo, Jean-Pierre Chevènement… Se fossero ancora vissuti, avremmo avuto anche Chirac & Giscard, ovviamente Mitterrand… In altre parole:tutti coloro che hanno messo la Francia nello stato in cui si trova oggi ululano al fascismo mentre il pastore gridava ai lupi! Hanno battuto la loro colpa sul petto degli altri.

Nonostante i loro deplorevoli punteggi, il PS non è morto e nemmeno LR poiché le loro idee maastrichtiane sono quelle di Macron: sono quindi al potere! Erano quelli di Sarkozy & Hollande, di Chirac & Mitterrand del resto. Contiamo quelli che vengono da rue de Solferino e dal diritto di andare al presepe macroniano per cinque anni, e per altri cinque anni la lista è lunga! Allungherà il tempo delle ricompense che verranno. Il Traditore è una grande figura della politica francese – Emmanuel Macron come ammiraglia.

Anche se venisse eletta Marine Le Pen, il sistema di Maastricht si rinnoverebbe. Domanda di tempo: un round, due o tre? C’è la domanda. Ma l’esito della lotta è noto. Non sono uno di quelli che pensa “Tutto tranne Macron”. Non ho niente contro quest’uomo che non lascerà traccia nella storia, ma ho contro il mondo che difende in cui regna il denaro – questa è la mia definizione di liberalismo. E se questo mondo deve essere difeso da Marine Le Pen, le mie armi scolpite nel legno politico degli anni ’90 del secolo scorso sono pronte.

Per me è: “Tutto tranne Maastricht”. Il resto è letteratura.

Non più del solito, e insieme a un quarto dei francesi , non voterò, perché la sera del primo turno si chiuderà la trappola su un popolo trasformato ancora una volta in un ripieno di tacchino.

Siamo sotto il governo di un Partito Unico e, per quanto possa sembrare paradossale, coronando il successo del sistema, i due finalisti difendono questa stessa ideologia maastrichtiana. Uno è il suo dichiarato vassallo, l’altro lo diventerebbe per non essersi chiaramente data i mezzi per sfuggire a questa vassalizzazione che la priva della sovranità – e quindi delle possibilità di agire… Eletta, Marine Le Pen non sconfiggerebbe l’Europa maastrichtiana, ne sarebbe disfatto.

Non possiamo liberarci di questo tipo di sistema trentennale imposto dal Partito Unico con solo scrutinio…

[1] Vedi il mio testo Le Front National est mort pubblicato il 2 aprile 2021, più di un anno fa, sul sito del Front Populaire.
https://michelonfray.com/interventions-hebdomadaires/le-front-national-est-mort?mode=video

[2] Le Figaro , 15/04/2022, “Il progetto di Madame de Pen richiede un Frexit”.

[3] Le Parisien , 14 aprile 2022.

https://frontpopulaire.fr/o/Content/co10014277/le-parti-unique?utm_source=frontpopulaire&utm_medium=newsletter&utm_campaign=nl1904fp&utm_content=parti+unique+michel+onfray+macron+le+pen

Dal Grande Gioco triangolare alla polarizzazione_di Alessandro Visalli

Dal Grande Gioco triangolare alla polarizzazione. Circa la posizione diplomatica e strategica cinese: Qin Gang e Yongnian Zheng

 

Sulla rivista cinese Guancha è presente[1] la notizia che il 18 aprile 2022 l’ambasciata cinese a Washington ha pubblicato sulla rivista “The National Interest” un articolo[2] a firma dell’ambasciatore Qin Gang. Nell’articolo l’ambasciatore definisce la posizione del paese.

 

La crisi e le sue ragioni

In primo luogo, la Cina afferma di amare la pace e opporsi alla guerra in ogni possibile circostanza, quindi di sostenere il rispetto del diritto internazionale e le norme che proteggono sovranità ed integrità territoriale di tutti i paesi, incluso l’Ucraina. La posizione cinese è dunque “westfaliana”, incardinata sul principio di sovranità (mentre quella Usa è, almeno dal tempo della crisi Jugoslava, ovvero dalla fine della Guerra Fredda “non vestfaliana”[3] ed imperniata sull’affermazione di una guida unica del mondo). Questa è la principale linea di divergenza che la nota, scritta in un misurato linguaggio diplomatico, esprime. Come risulta anche da precedenti esternazioni dell’ambasciatore si intravede l’interesse della Cina per la prosecuzione di un Grande Gioco triangolare, tra Russia, Usa e Cina ed il forte disappunto per il tentativo americano di semplificare il quadro polarizzandolo in uno ‘scontro di civiltà’ con fortissime connotazioni ideologiche.

Il secondo capoverso entra nella questione centrale delle lezioni che dalla crisi devono essere apprese. Riferendosi non per caso al “sistema internazionale del dopoguerra” (imperniato sull’Onu e quindi sul principio vestfaliano di autodeterminazione dei popoli e sovranità delle nazioni) l’ambasciatore denuncia come si trovi ora a dover fronteggiare la pressione più pesante dal tempo della Guerra Fredda (ovvero dal 1991). In rapida successione si è avuta, infatti, una pandemia, la crisi Ucraina e le relative sanzioni senza precedenti, quindi la spirale dell’inflazione riattivata e la recessione incombente. La ‘caldaia’ del sistema internazionale è perciò sotto pressione critica, bisogna ridurre la pressione.

Qin Guang

Il centro della crisi è in Europa, per la quale è necessario sia cessare la guerra sia progettare un sistema equilibrato, stabile e sostenibile di sicurezza comune. L’esempio da seguire è illuminato dalla diversa reazione che l’Occidente e i paesi orientali ebbero alla fine della Guerra Fredda ed al cambio di regime con crollo del Urss e del relativo impero. Mentre la Nato si estendeva verso oriente, ricercando una sicurezza a scapito di quella russa, la Cina, la stessa Russia ed i paesi dell’Asia centrale hanno promosso il meccanismo “Shangai Five”. Nel 1996, proprio mentre il Presidente Clinton annunciava l’estensione ad Est della Nato, la Cina, la Russia, il Kazakistan il Kirghizistan e il Tagikistan hanno firmato un Trattato sulle regioni di confine. In esso, poi sviluppato come “Organizzazione per la Cooperazione di Shangai”, i principi ordinatori sono stati la fiducia reciproca, il vantaggio reciproco, l’uguaglianza, la consultazione, il rispetto della diversità culturale e il perseguimento dello sviluppo comune. Come conclude dunque l’ambasciatore, se si sceglie la sicurezza a danno degli altri questa diversa scelta porterà frutti cattivi.

Questa crisi sembra porre fine anche al principio stabilito nelle visite del Presidente Eltsin in Usa ed in Cina nel 1992: quello di non considerarsi avversari. Sulla base di tale criterio le relazioni tra Cina e Russia in trenta anni si sono attenute al triplice principio di non confrontarsi, non prendere di mira terzi paesi, non allearsi ma restare indipendenti. Quindi “la Cina è stata e rimarrà un Paese indipendente che decide la propria posizione in base ai meriti di ogni questione, immune da pressioni o interferenze esterne”. Tuttavia, le relazioni tra Usa e Russia stanno scivolando verso una nuova guerra fredda che non è nell’interesse né della Cina, né della Russia e neppure degli Usa. Una relazione peggiore tra Russia e Usa non porterà, avverte, ad una migliore relazione tra Cina e Usa. Ma, d’altra parte, anche se la relazione tra Cina e Russia peggiorasse ciò non porterebbe a migliorare quella degli Usa con la Russia stessa, o viceversa (in altre parole, il messaggio agli Usa è <non ci separerete per combatterci uno alla volta>). L’articolo prosegue negando che le buone relazioni tra Cina e Russia implichino un “Asse Pechino-Mosca” nel rifiuto delle sanzioni. E avvertendo che trascinare verso il basso le relazioni tra Cina e Usa (ad esempio, coinvolgendo Taiwan) non farebbe bene a nessuno ed alle future generazioni.

 

Una proposta di cooperazione per il disegno del Nuovo Ordine

Venendo al centro del testo, per l’ambasciatore i destini attuali dell’Ucraina sono legati nuovamente a quelli di tutto il mondo (nella Seconda guerra mondiale il paese è stato sede di alcune delle battaglie più decisive del conflitto). Ricordando l’orrore della guerra ed i quattro decenni di pace, bisogna aver perciò chiaro che in nessun modo “qualsiasi paese o blocco di paesi” può avere la “sicurezza assoluta” ignorando quella degli altri, o, per dirlo meglio, a danno degli altri. Come dice “senza rispetto, fiducia, accomodamento reciproco e cooperazione il mondo non sarà mai pacifico”. Quindi la Cina e gli Stati Uniti devono collaborare sia a combattere il riscaldamento globale come il raffreddamento del clima politico internazionale, superando ogni diversa percezione della crisi ed esercitando sforzi congiunti nella prospettiva di lungo termine. Affrontare insieme le altre aree di crisi, prevenire gli impatti sull’economia ed il commercio globale, la finanza, l’energia, il cibo e le filiere industriali e di approvvigionamento.

Cina e Stati Uniti, come grandi paesi, hanno questa responsabilità storica: impegnarsi per una pace duratura, la sicurezza universale e la prosperità comune per i 7,8 miliardi di abitanti del mondo.

 

La lettera dell’Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Repubblica Popolare Cinese negli Stati Uniti si conclude quindi con una precisa offerta: la Cina offre la cogestione e propone il ridisegno delle Istituzioni internazionali su una rinnovata base ‘vestfaliana’, fondata sul riconoscimento della pluralità dei valori ed il rispetto reciproco. Propone di creare un nuovo Ordine mondiale sulla base del multilateralismo e di diplomazie variabili che incontrino gli interessi di tutti.

 

Il liberalismo non-vestfaliano degli Usa

Chiaramente questa offerta non è ricevibile dagli Stati Uniti, perché contrasta con il preteso carattere di “paese indispensabile” e “forza del bene” (Bush), il paese che “sta dalla parte della civiltà” e “fa ciò che è giusto” (George Bush). Quella forza che lavora per valori universali e ad affermare ovunque nel mondo valori considerati propri, come la “democrazia, sicurezza e benessere”. Gli Stati Uniti non hanno rispetto per chi non si conforma ai loro valori, che ritengono doversi affermare ovunque, ovvero per chi è fuori del loro canone. Questa impostazione “non vestfaliana” è in contrasto con l’art 1 dello Statuto dell’Onu (che riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli, un principio in strutturale tensione con l’interpretazione individualistica dei diritti umani proposta dagli Usa), con i Trattati in sede Onu del 1966 e con l’Atto Finale di Helsinki del 1975 (in particolare Principio VII e VIII). Infatti, in base ai Patti del 1966, tutti i popoli sono liberi “di determinare, senza intervento dall’esterno, il proprio status politico e seguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”. In base alla dichiarazione dell’Assemblea generale del 24 ottobre 1970, inoltre, l’attuazione del principio dell’autodeterminazione si esplica nella fondazione di uno Stato sovrano ed indipendente, nella sua libera unione con altri e nella sua libertà di cambiare status politico. Entrambe le dichiarazioni, del 1966 e del 1970, avvengono non per caso in una fase di liberazione dei paesi del Sud dai legami che si erano istituiti nella fase coloniale con le ‘potenze bianche’ del Nord. Il principio di autodeterminazione, così definito, si classifica nella tassonomia Onu come ius cogens, diritto inderogabile a tutela di valori fondamentali. Si tratta di un diritto di libertà dal dominio concreto di un popolo su un altro.

 

Al contrario, la pretesa propria della cultura liberale, tecnicamente totalitaria (ovvero che si pensa come espressione della totalità del Giusto e del Bene), ed etnograficamente connotata[4], sottordina gerarchicamente il principio di autodeterminazione al principio di universale affermazione della ‘democrazia liberale’, a sua volta collassata sulla libertà dell’individuo (ma interpretato, anche senza esserne del tutto cosciente, nel quadro della società dei proprietari[5]). È peraltro dalla fine della Guerra Fredda che nelle élite politiche statunitense, sia democratiche come repubblicane, è emersa la convinzione che la politica internazionale debba conformarsi ad un Ordine Post-nazionale e quindi “non vestfaliano”. Alla fine, lo scopo è rendere tutto il mondo simile agli Usa e promuovere una forma di interdipendenza ancorata ai principi liberali. In questa accezione la stessa dizione non-liberale (o illiberale) è diventata un giudizio di valore inappellabile e non più una semplice descrizione di differenza legittima[6].

 

Contesto, interregno e tensioni di trasformazione

Per approfondire questa posizione, che ha i crismi dell’ufficialità (anche se veicolata attraverso l’indiretta forma di un articolo di giornale, al quale non è obbligatorio rispondere), proviamo a confrontarla con la posizione che emerge dal discorso programmatico[7] tenuto il 7 aprile dal prof. Yongnian Zheng al Ciclo di Conferenze “Situazione politica” presso l’Università cinese di Hong Kong.

Quel che si vede, anche nell’articolo dell’ambasciatore, è l’avvio di una fase di ricostruzione dell’ordine mondiale che vedrà le Grandi Potenze, e le potenze intermedie, impegnate probabilmente per decenni, fino a che l’interregno sarà concluso. Gli interregni tra diversi Ordini mondiali sono il tempo più pericoloso nel quale vivere, individualmente e come paesi.

Questo interregno, anticipato dalla ‘scuola dei sistemi-mondo’ già sul finire degli anni Ottanta[8], è determinato dall’esaurimento delle risposte per acquistare tempo che l’Occidente ha messo in essere dalla crisi dell’Ordine Americano degli anni Settanta. Oggi l’assetto individuato da finanziarizzazione e globalizzazione a guida anglosassone (la prima in cogestione con la piattaforma londinese e la seconda dominata dalle grandi aziende statunitensi) che era già giunto a crisi terminale con il crac del 2007-8 (termine allontanato con sempre più disperate mosse di finanza pubblica non convenzionale le quali aggravano costantemente la situazione), viene condotto a termine dall’insorgenza di quattro fattori:

  • L’impatto dell’epidemia alla scala mondiale, che fa da preludio alla guerra come quasi sempre è avvenuto nella storia (i quattro cavalieri della fame, peste, guerra e conquista). Impatto che si è rivelato diverso in relazione ai sistemi sociali e politici, ed in linea generale ha colpito in modo più severo i paesi in cui le relazioni tra la popolazione ed il governo sono fondate su un individualismo più pronunciato. Queste tensioni hanno anche esacerbato le disuguaglianze, senza riuscire a ripartire i costi in modo equo, e favorito nazionalismo e risposte politiche estreme,
  • La guerra russo-ucraina, la tensione da lungo tempo accumulata in seguito al crollo dell’Urss, all’avanzamento progressivo ed inarrestabile della Nato, alle crisi economiche nei paesi ex satelliti (o nelle Repubbliche Socialiste), sono alla fine sfociate nel progetto di parte della società e della élite Ucraina di disaccoppiare i propri destini da quelli russi e aderire alle offerte apparentemente generose avanzate dalla Ue e dalla Nato. La crisi economica devastante che ha portato uno dei più poveri paesi europei a rimuovere, su spinta organizzativa interessata degli Stati Uniti, il legittimo governo filorusso in favore di un nuovo governo spiccatamente nazionalista, ha anche condotto al progetto (esplicito in una intervista[9] del 2019 del consigliere del Presidente ucraino Arestovich) di risolvere i problemi del paese attraverso una guerra maggiore con il vicino russo. Questo progetto, che arriva tre anni prima ad identificare con incredibile precisione le direttrici di attacco, le modalità e persino le date possibili, ha almeno due distinte ragioni: la costruzione della nazione dal fuoco della guerra (espellendo in tal modo la componente russa dal cuore e dalla mente del popolo, se del caso anche dal corpo); la soluzione del problema del sottosviluppo economico[10], trovando un ruolo geopolitico indispensabile che giustifichi l’erogazione di aiuti a tempo indeterminato dall’Occidente. Ruolo, cioè, che può forzare politicamente il braccio di ferro in corso da decenni tra il FMI (che ha un programma di aiuto vitale per l’economia da 15 anni e sempre sospeso) e gli oligarchi che controllano governo, banche, grandi industrie. Con l’organizzazione internazionale che continuava a chiedere riforme strutturali che il sistema politico locale non poteva concedere e la necessità impellente dei soldi internazionali per restare solvibile, la guerra sarà apparsa ad un certo punto come unica credibile strada per non essere alla fine costretti a tornare a Mosca ed ai suoi aiuti[11]. Questa è la ‘causa interna’ della guerra in corso.

In questo contesto, con sanzioni senza precedenti a danno della Russia, la speranza di una totale sconfitta del gigante geopolitico euro-asiatico è però molto bassa. Il paese ha una lunghissima storia di resistenza e capacità di soffrire senza cedere, risultando come tomba di alcuni dei più grandi eserciti della storia umana. Tra l’altro non è illimitata la disponibilità di armi che l’Occidente può mandare a distruggersi nel calderone ucraino. Secondo una interessante analisi di parte cinese[12] lo svuotamento in corso degli arsenali sovietici, da parte dei paesi dell’ex Patto di Varsavia potrebbe essere giunto al suo limite, e la dotazione di armi occidentali è tutt’altro che infinita. Ormai tra i due terzi e la metà della dotazione di “Javelin”, “Stinger”, NLAW, etc. dei magazzini Nato e Usa è stata consumata, la produzione annuale della Lockheed è di 6.000 “Javelin”, che bastano appena per due settimane di guerra. La scorsa settimana le aziende che producono armi sono state convocate alla Casa Bianca per programmare un ampliamento, ma non è così facile e gli Usa non sono gli stessi della II WW (basti dire che i motori dei razzi li comprano in Russia e moltissimi componenti in Cina). Per potenziare le forze sul campo (almeno 2 brigate Usa e 1 Nato, più la difesa aerea nei paesi baltici e Polonia) sarebbero necessari almeno 27 miliardi una tantum e 11 all’anno in seguito. Al contrario, la Russia ha enormi depositi di armi sovietiche e la sua industria militare riesce senza sforzo a sostituire i materiali usurati. Tuttavia anche la possibilità che la Russia vinca in modo completo, raggiungendo i suoi obiettivi, è altrettanto piccola.

La più probabile conseguenza della guerra, per l’analista cinese, è in mezzo tra questi due estremi: una possibile piattaforma potrebbe vedere, da una parte, l’allontanarsi dell’adesione alla Nato, e, dall’altra, un piano di sostegno e ricostruzione dell’economia ucraina sostenuto in modo condiviso da Fmi, Ue, Cina e altri (Arabia Saudita, Turchia, Usa?). Chiaramente l’accordo non dipende solo dall’Ucraina e dalla Russia, dato che la posta in gioco riguarda i rapporti internazionali tra le Grandi Potenze (di qui l’articolo dell’ambasciatore, che si occupa della ‘causa esterna’), ed un correlato di questo accordo di vitale importanza per l’Ucraina passa per la risoluzione delle sue esigenze finanziarie impellenti. Per cui qualcuno dovrà decidere di farsi carico della ricostruzione integrale dell’economia per togliere la ‘causa interna’ della guerra.

Al momento la guerra segnala la disintegrazione del sistema mondiale imperniato sulle Nazioni Unite. E mostra alcuni risultati come la creazione di unità nei paesi europei ed allineamento di questi con gli Usa (tagliando i ponti che alcuni, come la Germania, stavano tendendo da decenni con la Russia e la stessa Cina), ma, al converso, anche l’avvicinamento della Russia stessa alla Cina.

L’osservatore cinese dubita che la Ue resterà di questa posizione, ciò perché i danni per le economie e la società europee saranno molto ingenti, e la capacità di resistenza di queste è giudicata molto inferiore a quella della popolazione russa. Inoltre, la ri-militarizzazione della Germania dovrebbe provocare nel medio termine reazioni di preoccupazione ed allarme nelle controparti francesi.

  • La competizione per il Nuovo Ordine vedrà all’opera su un lungo arco temporale alcune Grandi Potenze come gli Usa, la Cina e la stessa Russia, ma anche la Turchia (paese che ha grande importanza ed influenza per la Cina, in corso di de-secolarizzazione e molto implicato in regioni delicate come lo Xinijang), l’India che è tirata da tutte le parti per scegliere un campo di gioco, il Giappone che è decisivo per la questione di Taiwan e l’Indonesia. Ovviamente dal lato dell’emisfero occidentale andrebbero nominati anche il Brasile, il Messico, alcuni grandi paesi africani come la Nigeria, l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Egitto, l’Australia e forse il Canada.
  • Le relazioni bilaterali tra Cina e Usa, nella Guerra Fredda si instituì una sorta di triangolo Cina-Usa-Unione Sovietica nel quale in effetti i primi due, pur non essendo alleati, contenevano insieme l’ultima; ma dopo la fine di questa gli Usa cominciarono a concentrarsi sulla Cina, vista come un potenziale concorrente a lungo termine. L’11 settembre 2001, spostò l’attenzione, creando una sorta di decennio franco che terminò con Obama. Questi spostò nuovamente l’attenzione strategica sulla Cina con il “Pivot to Asia”. L’allentamento dell’attenzione all’Europa, il ritiro dall’Afghanistan e il minor protagonismo nel Mediterraneo dell’epoca Trump sono motivati con questo riorientarsi ad Est (inizialmente accompagnato da tentativi di ricucire con la Russia, poi fermati dalle forze interne antirusse). Mentre per un certo periodo era sembrato che il triangolo si stesse riformando, ma a parti invertite (per cui, senza essere alleati, più o meno tacitamente Russia e Cina bilanciavano il potere statunitense) ora gli Usa puntano ad una semplificazione del quadro e stanno cercando di formare una Nato orientale contro la Cina. Fa parte di questa strategia di polarizzazione l’enfasi di Biden per l’alternativa secca tra “democrazia americana” e “autocrazia cinese (o russa)” come lotta di sistema.

 

 

Rispondere alle sfide

La risposta a queste quattro sfide proposta dal politologo parte da due percezioni del sistema politico e sociale cinese:

  • se la guerra è qualcosa al quale bisogna opporsi, nello stesso tempo bisogna farlo alla sua causa, che è l’allargamento della Nato;
  • la guerra è usata dagli Stati Uniti per fare pressione sulla Cina e polarizzare l’ordine mondiale in due soli blocchi, operazione che è contro gli interessi cinesi.

 

Ma questo non deve significare che gli Stati Uniti in quanto tali siano gli avversari. Occorre essere razionali e individuare la struttura profonda della situazione che si è creata, opponendosi in modo determinato a quanto in essa provoca questi esiti. Concretamente quindi, negli Stati Uniti sono presenti diversi gruppi di interesse, tra i quali il potente network di Wall Street (che vorrebbe casomai più apertura e investimenti reciproci), le forze connesse con il sistema militare-industriale (che spingono per il confronto che, male che vada, farà crescere enormemente il loro business), le industrie civili e i loro lobbisti (che hanno grandissimi interessi impegnati e non vogliono lo scontro). Alcuni sono fieramente anti-Russi, altri anti-Cinesi, o entrambi, altri sono orientati a compromessi o agli scambi finanziari e commerciali. Questi ultimi hanno a lungo prevalso, ora non più, ma serbano una loro influenza.

Caso a parte è quello dell’Europa, con la quale non ci sono mai state dispute geopolitiche, ma solo interessi commerciali. Ora è allineata, “rapita”, dagli Stati Uniti, ma questo potrebbe non durare sempre.

 

Le relazioni sino-americane sono per concludere da considerare molteplici; in alcune aree sono di cooperazione, in altre di competizione ed in altre di conflitto o di possibile guerra.

  • Le aree di cooperazione sono relative al clima, la salute mondiale e la proliferazione nucleare (ovvero la limitazione dell’accesso alle armi nucleari da parte delle potenze minori, cosa che sarà crescentemente difficile dopo questa guerra). La cooperazione presuppone la reciproca forza, e quindi si espanderà via via ad altri settori, come l’esplorazione spaziale.
  • Le aree di competizione sono soprattutto relative all’economico.
  • Le aree di conflitto si possono dividere in confronti a bassa intensità, come per le questioni dei diritti umani nello Xinjiang, nel Tibet ed a Hong Kong, tutto sommato controllabili, e i potenziali conflitti armati, come nel Mar cinese meridionale ed a Taiwan. In quest’ultimo caso la posizione cinese è univocamente determinata: non c’è spazio per concessioni.

 

Che genere di Ordine Mondiale emergerà da questa fare caotica dipenderà anche da quale area prevarrà dentro i diversi paesi, ed in particolare in quelli ‘sistemici’ (il paese più grande del mondo e con la maggiore quantità di materie prime strategiche, quello dotato della maggiore popolazione ed industria, il paese con il maggiore esercito).

 

Abbiamo bisogno della pace, per trovare il tempo di risolvere questi problemi, a vantaggio di tutti i popoli del mondo.

[1] – Qin Gang “Se c’è un conflitto simile tra Russia e Ucraina in altri luoghi, la Cina prenderà la stessa posizione”, Guancha, 18 aprile 2022.

[2] – Qin Gang, “The ukraine crisisi and its aftermath”, The National Interest, 18 aprile 2022

[3] – Come sostenuto in un’ampia letteratura internazionale la fine della Guerra Fredda ha visto gli Usa passare ad una posizione che prevede l’estensione di una politica “fondata sui valori”, in vece di una “fondata sulla sovranità” (e l’autodeterminazione dei popoli). In sostanza gli Stati Uniti si sentono in diritto di intervenire ogni qual volta i valori di libertà individuale e di espressione sono violati, ritenendoli universalmente validi.

[4] – Ovvero disegnata secondo il modello storicamente situato (nella forma di vita occidentale e nella versione illuminista di questa) che è abbastanza obiettivamente una potentissima arma ideologica. Una cosa che inizia a prendere forma durante la guerra fredda come arma contro un altro consenso (tramite la sistematica denuncia della violazione dei “diritti umani” da parte degli Stati Uniti a sostegno etico e legittimazione delle proprie iniziative sia contro l’Unione Sovietica e contro la Repubblica Popolare Cinese ed i loro alleati) e da allora viene usata, senza soluzione di continuità, contro chiunque si elevi ad ostacolare il dominio imperiale statunitense. In effetti, già l’idea in sé dei “diritti umani” può essere accusata di individualismo metodologico il quale è, esso stesso, alla base della microfondazione della teoria economica. I diritti sono immaginati come inerenti all’individuo naturale, cioè a un individuo astratto astorico, aculturale e dunque sono utilizzabili come marcatore e punto di riferimento del giudizio sulle azioni e sulle dinamiche collettive. Il dispositivo dei “diritti umani” crea, cioè, un decisivo passaggio teorico in cui richieste individuali che non fanno per sé stesse riferimento a nessun organismo sociale dato (o contesto culturale noto) e che finora nessuno ha riconosciuto possono essere poste come eticamente fondanti ed esistenti in natura e restare lì, in attesa che qualcuno ad un certo punto se ne faccia carico. Magari in appoggio alle sue istanze politico-strategiche.

[5] – Questa formula è proposta da Thomas Piketty nel suo “Capitale e ideologia”, (2020), p.125 e seg. Designa in questo modo la trasformazione che, a partire dal XVIII secolo, in Europa e nelle colonie europee, con ritmi e modalità differenti, ha portato le società tradizionali a trasformarsi in società nelle quali la libertà è rappresentata concretamente dal possesso di beni, in vece, dei “privilegi” politici. La sacralizzazione della proprietà, dalla quale emerge quella forma sociale particolare che chiamiamo ‘capitalismo’, ovvero il rispetto assoluto dei diritti di proprietà che è il nucleo stesso della individualità dei diritti, è la risposta al vuoto lasciato dalla religione nel generare coesione sociale ed attese di comportamento stabili. Si genera una nuova forma di ‘trascendenza’ che evita la propagazione del caos (ivi, p. 152).

[6] – Si veda anche il post “Politica estera basata sui valori o sull’autodeterminazione. Note sulla svolta di Biden”, Tempofertile, 5 aprile 2022.

[7] – Yongnian Zheng, “Il gioco dei grandi poteri e la ricostruzione dell’ordine mondiale”, Guancha, 18 aprile 2022

[8] – Ne parlo diffusamente in Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[9] – Oleksiy Arestovych è Consigliere del capo dell’ufficio del presidente dell’Ucraina per le comunicazioni strategiche nel campo della sicurezza e della difesa nazionale. Intervista del 2019.

[10] – Il paese, come racconta Limes in tempi non sospetti il 9 luglio 2021, dal 1991 non ha fatto altro che ridurre il proprio benessere economico rispetto ai vicini. Dal 2014 si è trovato a dipendere crescentemente da aiuti economici e militari occidentali, del Fmi e della Ue, oltre che degli Usa. Come scrive la rivista “L’Ucraina post-sovietica si è trovata di fronte al difficile problema di costruire uno Stato e una nazione in assenza di una solida legitimizzazione storica basata su tradizioni istituzionali, confini chiari e stabili e una cultura nazionale”. Un programma di sostegno del FMI, erogato come accade con il contagocce e tra molte condizionalità, ha tenuto costantemente il paese sull’orlo del collasso, senza farlo precipitare né sollevare. In questa condizione di oggettiva precarietà, per non dire ricatto, il Covid ha portato ad un crollo del 7% dell’economia (seguita ad uno del 15% del 2009 e del 10% del 2015) ed un impatto devastante sulla popolazione ed il consenso. Con un paese che è abituato a rivolgersi a vicini potenti è chiaro che il rischio per il governo Zelensky si era fatto esistenziale.

[11] – Si veda ad esempio, “FMI: l’Ucraina ne ha bisogno ‘come sangue nelle vene”, Osservatorio Balcani e Caucaso, 26 febbraio 2021; Stefano Grazioli, “L’Ucraina di Zelensky tra crisi economica e riforme necessarie”, Ispi, 3 giugno 2020; Gian Paolo Caselli, “Il trentennio perduto dell’Ucraina”, Limes, 9 luglio 2021,

[12] – Chen Feng, “L’esercito ucraino ha iniziato a crollare? Dove andrà la guerra russo-ucraina?”, Guancha, 18 aprile 0222.

https://tempofertile.blogspot.com/2022/04/dal-grande-gioco-triangolare-alla.html?fbclid=IwAR2Fka0Ck5Jm0tN1qscHx4bxm4k7rxy478xJMNl3tAXnQFcCjyDJlDSOklc

Comunicato di Donald J. Trump, 45° Presidente degli Stati Uniti

Sino ad ora abbiamo pubblicato posizioni ed analisi divergenti da quelle ufficiali dell’amministrazione statunitense espresse da analisti e giornalisti. Adesso è la volta di personaggi politici di primo piano, in grado di influenzare pesantemente il corso del dibattito e delle decisioni in un prossimo futuro. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Non ha senso che Russia e Ucraina non si mettano a sedere e non elaborino un accordo onorevole. Se non lo faranno presto, non resterà altro che morte, distruzione e carneficina. Questa è una guerra che non avrebbe dovuto mai scoppiare, ma è successo. La soluzione non può mai essere buona come sarebbe stata prima dell’inizio delle ostilità. Ma c’è una soluzione e dovrebbe essere trovata ora, non più tardi, quando tutti saranno MORTI!

presentazione del 7 aprile di John Mearsheimer

Punto di vista ACURA: trascrizione della presentazione del 7 aprile di John Mearsheimer

Grazie mille per avermi invitato ad essere qui. E ricordo con affetto i nostri viaggi in Germania, specialmente quando Steve e io abbiamo discusso della questione ucraina all’epoca. Sono d’accordo con quello che hai detto, Katrina, quando hai detto che questa è la crisi più pericolosa dalla seconda guerra mondiale. Penso che in realtà sia più pericoloso della crisi dei missili cubani, che non serve a minimizzare il pericolo di quella crisi. Ma penso che fondamentalmente quello che abbiamo qui sia una guerra tra Stati Uniti e Russia e non c’è fine in vista. Non riesco a pensare a come questo possa finire nel prossimo futuro. E penso che ci sia una possibilità molto pericolosa di escalation. Prima di tutto, l’escalation fino al punto in cui gli Stati Uniti stanno effettivamente combattendo contro la Russia, le due parti si stanno scontrando militarmente, cosa che finora non è avvenuta.

E penso che qui ci sia un serio pericolo di escalation nucleare. Non sto dicendo che sia probabile, ma posso raccontare storie su come accade realmente. Quindi la domanda è: come siamo finiti in questo pasticcio? Cosa l’ha causato? E il motivo per cui è molto importante affrontare questo problema è che ha ogni sorta di implicazioni per la comprensione del pensiero russo. Se vuoi capire come pensano i russi di questa crisi, devi capirne le cause. Ora il punto di vista dominante, che ovviamente rifiuto, è che Vladimir Putin o sia un aggressore congenito o sia semplicemente determinato a ricreare l’Unione Sovietica o una qualche versione dell’Unione Sovietica. È un espansionista, è un imperialista. Penso che questa argomentazione sia sbagliata e il mio punto di vista è che si tratta davvero degli sforzi dell’Occidente di trasformare l’Ucraina in un baluardo occidentale ai confini della Russia.

E l’elemento chiave di questa strategia, ovviamente, è l’espansione della NATO. E nella mia storia, tutto risale alla decisione dell’aprile 2008 al vertice della NATO a Bucarest, dove si diceva che sia la Georgia che l’Ucraina sarebbero diventate parte della NATO. I russi all’epoca avevano chiarito chiaramente che ciò era inaccettabile, che né la Georgia né l’Ucraina sarebbero entrate a far parte della NATO. E in effetti, i russi hanno chiarito che lo consideravano una minaccia esistenziale. Molto importante per capire quelle parole. Dal punto di vista russo fin dall’inizio, questa è stata percepita come una minaccia esistenziale. Molte persone in Occidente non credono che sia una minaccia esistenziale per i russi, ma ciò in cui credono è irrilevante perché l’unica cosa che conta è ciò che pensano Putin e i suoi compagni russi, e pensano che sia una minaccia esistenziale.

Ora penso, ad essere onesto, che l’evidenza sia schiacciante che questo non è un caso di Putin che agisce come un imperialista, ma è un caso di espansione della NATO. Se guardi al suo discorso del 24 febbraio che giustifica il motivo per cui la Russia ha invaso l’Ucraina, si tratta solo dell’espansione della NATO e del fatto che è percepito come una minaccia esistenziale per la Russia. Se si guarda al dispiegamento delle forze in Ucraina, è difficile sostenere che i russi siano decisi a conquistare, occupare e integrare l’Ucraina in una Russia più grande. Se ascolti Zelenskyy parlare di una possibile soluzione, la prima cosa a cui va è parlare di creare un’Ucraina neutrale. Questo ti dice che si tratta davvero dell’espansione della NATO e della neutralità ucraina. Inoltre, non ci sono prove che Putin affermi che ciò che vuole fare è in realtà rendere l’Ucraina parte della Russia.

Non ci sono prove che dica che questo è fattibile e che intende farlo. Non c’è dubbio, nel suo cuore vorrebbe vedere l’Ucraina far parte della Russia. Nel suo cuore probabilmente vorrebbe vedere il ritorno dell’Unione Sovietica. Ma come ha chiarito chiaramente, ciò non è possibile e chiunque la pensi in questo modo non sta pensando in modo chiaro. In effetti lo ha detto. Quindi vorrei che qualcuno mi indicasse le prove in cui chiarisce che ciò che sta effettivamente facendo in termini di formulazione della politica è cercare di creare una Russia più grande o ricostituire l’Unione Sovietica. Tutto questo per dire che se credi come me che sta affrontando una minaccia esistenziale, in effetti stai dicendo che lo vede come una minaccia alla sopravvivenza della Russia. E se si trova in una situazione del genere, non può perdere. Quando affronti una minaccia esistenziale, non perdi. Non hai scelta. Devi vincere.

Ora, questo ci porta dalla parte americana. Cosa stanno facendo gli americani? Quello che stiamo facendo, che è quello che abbiamo fatto dopo lo scoppio della crisi il 22 febbraio 2014, è raddoppiare. Abbiamo deciso che quello che faremo è sconfiggere la Russia all’interno dell’Ucraina. Daremo una sconfitta decisiva contro i russi all’interno dell’Ucraina. E allo stesso tempo, strangoleremo la loro economia. Metteremo loro sanzioni malvagie e li metteremo in ginocchio. Noi, in altre parole, vinceremo e loro perderanno. Inoltre, l’amministrazione Biden e lo stesso presidente hanno fatto di tutto per intensificare la retorica e ritrarre i russi come la fonte di tutti i mali e per ritrarci come i buoni e per creare l’impressione nella mente delle persone che questa sia una situazione che non non si presta al compromesso perché non puoi scendere a compromessi con il diavolo. In effetti, quello che bisogna fare qui è vincere.

Ora, saprai che sarebbe una sconfitta devastante per Joe Biden se i russi dovessero vincere questa guerra. E ovviamente, come ti ho appena detto, dal punto di vista russo, devono vincere questa guerra perché questa è una minaccia esistenziale che stanno affrontando. Quindi la domanda che ti vuoi porre è, dove ci lascia? Entrambe le squadre devono vincere. È impossibile per entrambe le squadre vincere, non quando si pensa alla situazione che stiamo affrontando qui. Quindi, come otteniamo un accordo negoziato? Solo che non lo vedo succedere. Non vedo i russi dare alcun motivo significativo e certamente non vedo gli americani dare alcun motivo significativo. Quindi cosa è probabile che accada? Ora si parla da parte nostra, e anche da parte russa, che questa guerra durerà per anni. In altre parole,

Ora, capisco che a questo punto non siamo coinvolti nei combattimenti, ma siamo il più vicino possibile a essere coinvolti. E poi inizi a dire a te stesso, non è possibile che verremo trascinati in questo? C’è un’enorme pressione politica sull’amministrazione Biden affinché noi implementiamo la no-fly zone per entrare effettivamente per scopi umanitari in Ucraina e così via. Finora Biden ha saputo resistere a quella pressione, ma riuscirà a resistervi per sempre? E se avessimo un incidente militare che ci trascinasse nei combattimenti? Quindi potremmo benissimo finire in una situazione in cui gli Stati Uniti e la Russia stanno combattendo l’uno contro l’altro in Ucraina. Poi veniamo alla questione dell’escalation nucleare.

Penso prima di tutto, se gli Stati Uniti vengono trascinati in una lotta contro la Russia ed è una guerra convenzionale in Ucraina o per l’Ucraina nell’aria, gli Stati Uniti picchieranno i russi. Se gli ucraini stanno facendo così bene contro i russi militarmente, puoi immaginare quanto meglio faranno gli americani negli scontri aria-aria e anche a terra, giusto? In quella situazione, non crede che sia possibile che la Russia si rivolga alle armi nucleari? Penso sia possibile. Ho studiato un sacco di storia militare. Ho studiato la decisione giapponese di attaccare gli Stati Uniti a Pearl Harbor nel 1941. Ho studiato la decisione tedesca di lanciare la prima guerra mondiale durante la crisi di luglio del 1914. Ho esaminato la decisione egiziana di attaccare Israele nel 1973 .

Questi sono tutti casi in cui i decisori si sono sentiti in una situazione disperata e hanno capito tutti che in un modo molto importante stavano lanciando i dadi, stavano perseguendo una strategia incredibilmente rischiosa, ma sentivano semplicemente di non avere scelta. Sentivano che era in gioco la loro sopravvivenza. Quindi quello di cui stiamo parlando qui è prendere un paese come la Russia, giusto, che pensa di affrontare una minaccia esistenziale, che pensa che la sua sopravvivenza sia in gioco e che lo stiamo spingendo al limite. Stiamo parlando di romperlo. Stiamo parlando non solo di sconfiggerlo in Ucraina, ma di romperlo economicamente. Questa è una situazione straordinariamente pericolosa, e trovo davvero straordinario che stiamo affrontando l’intera questione in un modo così disinvolto. E comunque, Penso che molto di questo abbia a che fare con il fatto che così tante persone che sono state coinvolte nel pensare a questo problema oggi sono state sollevate durante il momento unipolare e non durante la Guerra Fredda. Durante la Guerra Fredda, come qualcuno come Jack può dirti anche meglio di me, abbiamo riflettuto a lungo sulla guerra nucleare.

Abbiamo riflettuto a lungo sulle relazioni tra USA e Unione Sovietica e su come ciò potrebbe portare a una guerra nucleare. Le persone che sono cresciute nel momento unipolare sono molto più sprezzanti su questi temi. E penso che questo rappresenti una situazione molto pericolosa. Ora vorrei notare che anche se i russi e gli americani non finissero per combattersi, ma gli ucraini fossero in grado di scaglionare i russi in Ucraina e infliggere loro sconfitte significative, i russi potrebbero comunque rivolgersi alle armi nucleari. È possibile. È probabile? No, ma è possibile. E questo mi spaventa molto e dovrebbe spaventare la maggior parte degli americani e certamente la maggior parte degli europei. Quindi tutto questo per dire, quando guardo alle relazioni USA-Russia oggi, penso che siamo effettivamente in guerra l’uno con l’altro. Anche se ancora una volta, gli americani non stanno combattendo contro i russi sul campo di battaglia,

Ora che dire dell’Ucraina? Gli ucraini non hanno alcuna agenzia? Voglio dire, dopo tutto, è il loro paese che viene distrutto. Si potrebbe argomentare che l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti, è disposto a combattere questa guerra fino all’ultimo ucraino. E il risultato finale è che l’Ucraina è in effetti un paese distrutto. Dato che hanno un’agenzia, non è possibile che gli stessi ucraini dicano basta e mettano fine a tutto questo? Purtroppo, non credo che sia il caso. E penso che il fatto sia che gli Stati Uniti non permetteranno agli ucraini di concludere un accordo che gli Stati Uniti trovano inaccettabile.

Non vogliamo che ciò accada. Come ho detto prima, l’amministrazione Biden intende infliggere una sconfitta decisiva alla Russia. Se gli ucraini decideranno di concludere un accordo e consentire alla Russia di vincere in un certo senso significativo, gli americani diranno che è inaccettabile. E gli americani lavoreranno con i nazionalisti di destra in Ucraina per indebolire Zelenskyy o il suo successore. Quindi non vedo in alcun modo che l’Ucraina possa intervenire e porre fine a questa crisi. Lo vedo solo andare avanti e indietro. Posso concludere dicendo che George Kennen ha affermato alla fine degli anni ’90 che l’espansione della NATO è stato un tragico errore e che avrebbe portato all’inizio di una nuova Guerra Fredda. All’inizio sembrava che avesse torto. Abbiamo avuto la prima tranche di espansione nel 1999 e ce la siamo cavata. Abbiamo avuto la seconda tranche di espansione nel 2004 e siamo riusciti a farla franca. Ma poi, quando nell’aprile 2008 è stata presa la decisione per una terza tranche, che includerebbe Georgia e Ucraina, è abbastanza chiaro che avevamo spostato un ponte troppo oltre. E il risultato finale, mi dispiace dirlo, è che penso che la previsione di Kennen si sia rivelata vera. Grazie.

https://usrussiaaccord.org/acura-viewpoint-transcript-of-john-mearsheimers-april-7th-presentation/

SULLA SECONDA FASE DELLE OSTILITA’ IN UCRAINA, di Roberto Buffagni

SULLA SECONDA FASE DELLE OSTILITA’ IN UCRAINA

 

Nel video linkato in calce[1], il giornalista e documentarista italiano Giorgio Bianchi, che dal 2014 segue il conflitto in Ucraina, riporta quanto gli ha detto nel Donbass una fonte di alto livello e degna di fede del campo russo.

E’ notevole che il contenuto riportato da Bianchi coincida con quanto scritto da Gilbert Doctorow il 14 aprile[2] nel suo articolo The Russian Way of War – Part Two. Doctorow è uno storico americano, collaboratore dell’American Committee for U.S.-Russia Accord (ACURA)[3] del quale fu cofondatore il professor Stephen Cohen[4] (Princeton University), uno dei maggiori studiosi della Russia sovietica e post-sovietica.  Oggi Doctorow è residente a Bruxelles. Per decenni ha studiato la Russia e lavorato colà per imprese occidentali, come consulente. Ha dunque una vasta rete di relazioni in Russia.

I punti essenziali riportati da Bianchi sono:

  1. La Russia non prende in considerazione la possibilità di perdere questa guerra.
  2. Il campo occidentale ha chiarito che non intende trattare, ma anzi prolungare il più possibile la guerra per indebolire la Russia.
  3. Le sanzioni hanno già quasi raggiunto il massimo possibile.
  4. La demonizzazione della Russia da parte del campo occidentale è totale.
  5. Le FFAA russe hanno subito serie perdite.
  6. Dunque, non è più interesse russo continuare a condurre una guerra limitata, con mezzi limitati, per obiettivi limitati raggiungibili mediante trattativa diplomatica parallela alle operazioni militari.
  7. La Russia quindi ha deciso di impiegare tutti i mezzi a sua disposizione per raggiungere la vittoria sul campo, forse previa dichiarazione formale di guerra all’Ucraina.

Chiarisco il punto 1. Per la Russia, “perdere questa guerra” significa “interrompere le ostilità senza essersi assicurati gli obiettivi minimi dichiarati”, ossia a) Donbass indipendente b) neutralizzazione militare Ucraina c) neutralizzazione milizie armate nazionaliste radicali. I rapporti di forza oggettivi tra Ucraina e Russia fanno sì che la Russia possa “perdere questa guerra” solo se interrompe le ostilità con una decisione politica. Coeteris paribus, ossia se la NATO non interviene direttamente nel conflitto, è impossibile che la Russia subisca una sconfitta militare, se prosegue le ostilità. È incerto soltanto come, quando e a quale costo la Russia vincerà militarmente.

Chiarisco il punto 2. Che il campo occidentale non intenda favorire una trattativa tra Ucraina e Russia è chiarissimo, e non abbisogna di spiegazioni. Aggiungo una mia congettura. Secondo me la dirigenza russa ha concluso che gli Stati Uniti intendono prolungare il più possibile la guerra in Ucraina, per indebolire la Russia in vista di un obiettivo strategico: frammentazione della Russia sul modello jugoslavo. Ritengo che dal punto di vista russo, la strategia complessiva americana è quella di attaccare contemporaneamente i suoi maggiori avversari, Russia e Cina, al fine di riconfermare la propria egemonia mondiale. La Russia è il primo obiettivo perché è la più debole. Probabilmente gli Stati Uniti pensano anche che in caso di frammentazione della Russia, la Cina potrebbe essere associata agli Stati Uniti nella spartizione del bottino, e ricondotta a una (provvisoria) partnership con gli Stati Uniti.

Un indizio a suffragio di questa congettura sono gli articoli che linko in calce. Il primo è di Ray McGovern, ex analista CIA a capo per la sezione Unione Sovietica. Tema: rapporto Cina-Russia. È solido? I russi hanno informato i cinesi dell’invasione? Hanno ottenuto il loro consenso?[5] McGovern argomenta che sì, il rapporto Russia – Cina è più che solido, e che i cinesi erano al corrente dell’invasione.

Il secondo, su “Foreign Policy” è di Matthew Kroenig, vicedirettore dell’Atlantic Council’s Scowcroft Center for Strategy and Security, uno dei più importanti think tank USA. Il titolo parla da sé: Washington Must Prepare for War With Both Russia and China/ Pivoting to Asia and forgetting about Europe isn’t an option[6]. L’accesso all’articolo è pagamento. Ma il terzo articolo che linko, di Deborah Veneziale, The U.S. is preparing war with China and Russia at the same time[7] analizza l’articolo di Kroenig e ne cita ampi stralci. Cosa assai interessante, è stato scritto per un pubblico cinese e pubblicato su “Guancha”[8].

Se la mia congettura è corretta, la Russia ritiene che in questo conflitto sia a rischio la propria sopravvivenza, e dunque è disposta a battersi fino alle estreme conseguenze, compreso uno scontro diretto con la NATO e l’impiego delle armi nucleari. Faccio notare che anche qualora il campo occidentale non intendesse perseguire questi scopi strategici, e la Russia avesse equivocato le intenzioni americane, per prevedere che cosa farà la Russia contano soltanto le percezioni russe.

Per concludere. Sinora, la Russia ha condotto una guerra limitata, con mezzi limitati, per raggiungere obiettivi limitati con una trattativa diplomatica parallela alle ostilità. Il quadro giuridico in cui si svolgono le ostilità è quello dell’aiuto militare alle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, la cui indipendenza è stata riconosciuta dalla Duma russa prima dell’inizio dell’invasione: è per questo che i russi chiamano le ostilità “operazione militare speciale” e non “guerra”.

È probabile che prima di passare alla seconda fase delle ostilità, la Russia dichiari formalmente guerra all’Ucraina, per cambiare il quadro giuridico del conflitto, sia all’interno, sia all’esterno del paese. Non conosco la legislazione russa e dunque non sono in grado di valutare l’importanza del cambiamento del quadro giuridico tra “operazione militare speciale” e “guerra” formalmente dichiarata. In Italia, la differenza sarebbe decisiva.

In ogni caso, è probabile che nel prossimo futuro assisteremo a una forte, progressiva escalation del conflitto in Ucraina.

Come profetizzato dal professor John Mearsheimer sin dal 2015[9], l’Ucraina subirà immani distruzioni e gravi perdite civili. Per sventare questa tragedia, questa “inutile strage”, basterebbe che un paese europeo importante rompesse il fronte occidentale e promuovesse un ridisegno del sistema di sicurezza europeo che tenga conto delle esigenze russe. Temo che non accadrà.

 

 

[1] https://youtu.be/0Wtxd7Ay8Cs

[2] https://gilbertdoctorow.com/2022/04/14/the-russian-way-of-war-part-two/?fbclid=IwAR0qsuDV38Tzaxk2rv4mGqh_n_sIc4nX836D5qg7xkNMcfVPI3EXJsyw2dc

[3] https://usrussiaaccord.org/

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Stephen_F._Cohen

[5] https://original.antiwar.com/mcgovern/2022/04/03/the-late-deceased-paradigm-on-russia-china/

[6] https://foreignpolicy.com/2022/02/18/us-russia-china-war-nato-quadrilateral-security-dialogue/

[7] https://mronline.org/2022/02/27/the-u-s-is-preparing-war-with-china-and-russia-at-the-same-time/

[8] https://www.guancha.cn/DeborahVeneziale/2022_02_26_627801.shtml

[9] https://youtu.be/JrMiSQAGOS4

Mario Draghi, la parabola di un funzionario_di Giuseppe Germinario

Per oltre un anno hanno invocato l’arrivo del redentore a rimedio dello sfacelo provocato con tanta buona volontà da Conte e dai suoi apostoli.

Il suo annuncio aveva sollevato gli animi dell’universo, o quasi, dei peccatori dal cuore fibrillante e penitente.

Il comun sentire suggeriva che il suo prestigio, le sue entrature nel ristretto mondo dei veri decisori avrebbero riportato all’istante il Bel Paese nel cerchio magico dei forgiatori dei destini del mondo; se non proprio tra i commensali, almeno nella stanza di servizio, quella adibita ai sussurri e alle suppliche con qualche fondata speranza di essere accolti.

Il suo avvento trionfale, la sua acclamazione simboleggiava la realizzazione sorprendente, quasi miracolistica, delle aspettative unanimi, ma sino all’attimo precedente discordanti. Un branco di animali rissosi ricondotti dal buon pastore docilmente all’ovile come pecorelle smarrite, pur con qualche bizza bonariamente tollerata per dar sfogo ad intemperanze e smarrimenti identitari. Persino le rade pecorelle rimaste fuori dal recinto a brucare in solitudine i cespugli selvatici non riescono a sfuggire all’attrazione, pronte a seguire sia pure a distanza l’itinerario tracciato dal guardiano.

Lo hanno ritenuto, ancora in parte lo ritengono, il Grande Timoniere in grado di riparare la nave e condurla nel porto più sicuro con tutti gli onori e qualche onere. Si sta rivelando rapidamente in realtà il timone dalla rotta rigidamente prestabilita dal timone automatico, guidato da un software nemmeno tanto sofisticato e flessibile; più prosaicamente una ruota da timone trafitta e bloccata nella direzione da una barra a prescindere dai flutti, dagli ostacoli e dalle correnti.

Sulle doti di coraggio ed intraprendenza del sedicente timoniere è sufficiente la narrazione espressa dalla immagine; non ci sarebbe molto altro di sostanziale da aggiungere.

Sul punto di arrivo della sua missione questa redazione non ha nutrito il minimo dubbio; altrettanto sulla rotta e gli strumenti che avrebbe utilizzato per raggiungerlo. Qualche spiraglio il sottoscritto, dimentico delle stilettate del buon Cossiga, aveva lasciato aperto sulla capacità e possibilità del capitano, o sedicente tale, di rappezzare la nave ed ammorbidire quantomeno le modalità di espressione della propria fedeltà.

Su questo al contrario Mario Draghi ha rivelato nei vari ambiti, piuttosto, i limiti e gli impacci propri di un grigio travèt piuttosto che la sagacia e l’intraprendenza di un condottiero.

Osserviamo nel più ampio spettro possibile le modalità, le finalità e gli strumenti di azione adottati dal nostro in questi quattordici mesi di governo.

Nelle dinamiche geopolitiche europee Mario Draghi è una delle pedine, nemmeno la più importante, certamente una delle più solerti, che deve assolvere al compito di neutralizzare e ricondurre al verbo atlantista le pulsioni autonome, per quanto timide e dettate dalla situazione politica interna piuttosto che dalle ambizioni del ceto politico al governo, di Francia e Germania; deve inoltre coordinare e guidare in questo senso l’azione dei paesi mediterranei, in particolare di Portogallo, Spagna e Grecia. La recente conferenza congiunta con questi paesi mediterranei e la fretta con la quale si vorrebbe giungere alla costituzione dell’esercito europeo, a prescindere dalla costruzione di un complesso industriale, logistico e di comunicazione militare adeguati sono l’indizio di questa intenzione. In questo Mario Draghi, di suo, ha contribuito ad accentuare lo straniamento dell’Italia dalle vicende della Libia, così cruciali per il nostro paese; ha azzerato ogni ruolo di possibile mediazione nel conflitto russo-ucraino esponendosi platealmente più di altri europei, in compagnia di paesi baltici, Svezia, Polonia e Gran Bretagna, il pieno e fattivo sostegno al governo dell’attore nel pieno delle sue funzioni, Zelensky. Analogo fervore e coerenza ha dimostrato nell’applicare la politica di sanzioni alla Russia, in questo superando nella solerzia addirittura Stati Uniti e Gran Bretagna in diversi ambiti; ha rivelato il proprio zelo rusticano, in questo assecondato egregiamente dal valletto Giggino e dal curiale Enrico, apostrofando fuori tempo massimo Erdogan e continuando nella fustigazione personale di Putin. Ha ricevuto in cambio il riconoscimento di Zelensky a che l’Italia sieda in buona compagnia con i peggiori fomentatori al tavolo come garante della futura neutralità ucraina. Un riconoscimento che sa di polpetta avvelenata in caso di accordo solo parziale con i russi sulle nuove frontiere e sullo status ucraino; comunque l’ennesimo impegno dell’Italia in uno scacchiere lontano dai suoi effettivi interessi strategici. Lo ha attraversato sorprendentemente un piccolo sussulto, chiedendo sommessamente ai propri superiori considerazione per la particolare dipendenza del paese dal gas e dal petrolio russi. Una preghiera durata il lasso di un respiro; giusto il tempo di un paio di articoli minatori di richiamo personale apparsi sulla stampa americana. Per il resto Supermario ci sta abituando soavemente e surrettiziamente, con gelida nonchalance, all’inevitabilità di un conflitto armato con la Russia o in alternativa di una politica sanzionatoria foriera di austerità e soprattutto di drammatico dissesto economico e sociale di un paese già colpito dalla furia catastrofista che ha pervaso la crisi pandemica e l’approccio ambientalista.

Ben inteso il nostro ha saputo servire il calice amaro con argomenti insolitamente “sovranisti” per un uomo nutrito di valori agli antipodi. Sulle scelte energetiche ha riesumato il termine di “indipendenza”, ma solo per specificare che trattasi di indipendenza dalla Russia ed omettere il fatto che si arriverebbe in realtà a dipendere ulteriormente da una cerchia più ristretta di fornitori altrettanto e più rapaci, a cominciare dagli Stati Uniti; ha ripescato il termine diversificazione, un ossimoro per un globalista di tal fatta, quando in realtà l’eliminazione di un fornitore così importante conduce sulla strada opposta e per di più pescando in aree geopolitiche particolarmente instabili nelle quali l’Italia per altro riveste un ruolo del tutto insignificante.

I recenti viaggi in Algeria e in altri due paesi africani sono poco più di una cortina fumogena tesa a nascondere l’inattendibilità delle quantità di forniture promesse, per altro ridotte rispetto al fabbisogno nazionale e la divaricazione dei tempi rispetto all’urgenza imposta dalla propria sudditanza geopolitica agli statunitensi. L’Algeria, come è noto, paese per altro instabile politicamente, dispone di riserve in via di esaurimento rispetto alle potenzialità di altri paesi e soprattutto contese da numerosi concorrenti altrettanto assetati e meglio bardati. Riguardo alle forniture di GLN è sufficiente lanciare uno sguardo distratto sui costi esorbitanti di estrazione e di gestione delle infrastrutture di trasporto ed immissione per farsi un idea del dissesto a cui stiamo andando rapidamente incontro. Se a questo si aggiunge il furore dogmatico con il quale si è puntato sulla produzione di energia da fonti rinnovabili con tecnologie ancora sperimentali, comunque in buona misura inquinanti e non in grado di garantire continuità di fornitura e sostituibilità significativa delle fonti fossili, ecco che la strada verso il dissesto e la decrescita infelice è ormai ripida ed inarrestabile ovviamente coperta dall’aura della fedeltà europeista e del miraggio di un mondo bucolico scevro da fonti fossili e da energia nucleare della quale l’Italia deteneva sino a pochi decenni fa ottime capacità tecnologiche. Non solo ripida ed inarrestabile, anche di fatto irreversibile, almeno per lunghi lustri, data la mole e i tempi di attuazione richiesti dagli investimenti per dirottare i flussi verso sbocchi alternativi.

Come al solito, per leggere correttamente i termini della questione posti in Italia, bisogna curiosare sulla stampa e negli ambienti diplomatici all’estero. Nella fattispecie ci ha pensato l’ineffabile Victoria Nuland, rediviva sottosegretaria di stato statunitense, da sempre impegnata a fomentare il bellicismo e a coltivare i propri affari in Ucraina, a mettere nero su bianco i puntini sulle “i”. Raccomandiamo i lettori di scrutare attentamente la sua recente intervista sul quotidiano greco ekathimerinhttp://italiaeilmondo.com/2022/04/17/victoria-nuland-in-k-si-al-gnl-no-agli-oleodotti-nel-mediterraneo/

disponibile su questo nostro link assieme ad altri articoli importanti sull’argomento, in particolare per quanto dice su “Eastmed”. Ne risulta in sintesi la assoluta irrilevanza e scontata accondiscendenza dell’Italia rispetto alle priorità statunitensi rivolte alla Turchia, alla Germania, all’Europa Orientale e Settentrionale, giunte sino all’estremo sacrificio economico e strutturale del nostro paese.

Lungi dal porgere il petto in nome dell’interesse nazionale, il nostro se l’è cavata con un laconico ed inquietante “se ne può discutere”.

Tutto sommato, però, visti gli antefatti e il suo passato, in questi ambiti non ci si sarebbe potuto aspettare niente di diverso da quest’uomo, se non qualche asprezza ed qualche impaccio di troppo.

La vera sorpresa, mi si perdoni l’enfasi, riguarda e riguarderà ancor più in futuro i due piani operativi per i quali il nostro è stato invocato ed accolto trionfalmente: la gestione della crisi pandemica e la realizzazione del PNRR.

Una sorpresa particolarmente amara per il nostro paese e promettente per lui.

Segno che i destini di successo, gloria e riconoscenza personali non coincidono necessariamente con quelli del paese al quale presuntivamente si appartiene. Nella fattispecie tutto lascia intendere che siano inversamente proporzionali.

LA CRISI PANDEMICA

La conferma di personaggi a dir poco così improbabili, come il ministro Speranza e il commissario Arcuri, figli prediletti del cerchio magico, ormai decadente, direi penoso di Massimo Dalema, non lasciava presagire nulla di buono. La nomina del Generale Figliuolo è stato il vero colpo d’ala nella gestione della pandemia; ne ha rivelato nel tempo i limiti circoscritti e nel contempo indiscriminati dell’azione antipandemica rispetto ad altre finalità inconfessabili di manipolazione e controllo della società emerse via via in maniera sempre più evidente. Un baraccone costruito in realtà su un unico e rischioso obbiettivo, proprio per la sua unilateralità e preclusione di alternative ed interventi complementari: la vaccinazione di massa. Un rimedio dagli effetti annunciati miracolosi, in realtà solo parzialmente efficace. Una costruzione che in qualche maniera ha retto mediaticamente; che continuerà a reggere, anche se in maniera sempre più precaria, almeno sino a quando non saranno disponibili ed effettivamente di pubblico dominio i risultati esposti nelle 55.000 (cinquantacinquemila) pagine del documento appositamente prodotto dalla apposita Commissione, istituita ovviamente dal Congresso Americano.

Sta di fatto che la campagna vaccinale è riuscita soprattutto a nascondere l’incapacità e la aleatoria volontà di Governo e pubblica amministrazione ad agire selettivamente secondo categorie ed aree diversificate di rischio, con uno spettro ben più ampio di interventi seguendo un approccio multirischio più flessibile ed articolato, ma decisamente meno invasivo.

Ne abbiamo parlato e scritto più volte in questo sito sin dai primi giorni della crisi pandemica.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti e lo sarà ancora di più nel futuro prossimo: il dissesto e la precarizzazione di interi settori economici e intere categorie sociali; la gestione inquietante, manipolatoria e totalitaria dell’informazione e dei provvedimenti, strumentale ad altri fini di potere e controllo, così lesta ad essere attribuita e additata a paesi come la Cina, ma negletta in casa propria.

Da qui la vergognosa caccia all’untore, sostenuta e alimentata dall’intero sistema mediatico, ai danni di qualsiasi voce critica, a prescindere dalla fondatezza degli argomenti, le aperte e protratte discriminazioni tese a nascondere e a sopperire alla inefficacia e controproducenza di provvedimenti generalizzati di chiusura e limitazione e al prevedibile saccheggio di risorse del quale si incomincia ad intravedere ormai la reale dimensione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, almeno per chi vuol vedere. La stessa diffusione e patogenicità, letalità del virus non ha subito limitazioni rispetto a paesi dalle politiche più lassiste e flessibili.

Il sospetto, più che fondato, è che la crisi pandemica sia stata nel tempo l’occasione e il pretesto per sperimentare ed introdurre modalità e tecniche di manipolazione proprie di una condizione conflittuale e bellicista più generale e complessa, propria di una fase multipolare della quale gli Stati Uniti faticano e non intendono prendere atto. In questo contesto si inserisce ancora una volta l’azione specie mediatica, particolarmente maldestra, del nostro Supermario entro un baraccone mediatico parossistico, costruito con lo strepitìo di affermazioni e controaffermazioni dallo scarso fondamento scientifico e logico.

IL PNRR

Anche del PNRR abbiamo scritto con dovizia, almeno sino ad un anno fa. L’argomento avrebbe meritato ben altra attenzione nel tempo sia perché è stato il principale cavallo di battaglia che ha consentito l’ingresso di Mario Draghi nell’agone politico, sia per le grandi aspettative di sviluppo e riorganizzazione socioeconomica create ad arte intorno ad esso, sia per le finalità reali, ma celate, per le quali in realtà è stato rifilato, agognato e varato. Anche noi, purtroppo, a causa soprattutto della scarsità di forze disponibili, siamo caduti nella trappola della univocità dei temi imposti in questi ultimi due anni, nella fattispecie la crisi pandemica, dal quale è scaturito per altro il PNRR e la crisi poi del conflitto in Ucraina.

Dubbi perniciosi sulla effettiva efficacia del piano, almeno rispetto agli obbiettivi conclamati, iniziano ad insinuarsi anche in settori cruciali dell’establishment e dei centri amministrativi.

Altrettanto preoccupati, iniziano ad emergere giudici sulla organicità del piano, sulla definizione delle priorità e delle finalità, sull’approccio unilaterale che ignora i fattori multirischio che ne potrebbero inficiare l’esito, sulla capacità di realizzazione dei progetti da parte della macchina amministrativa, specie degli enti locali e sulla effettiva consistenza aggiuntiva dei fondi rispetto ai programmi di spesa di investimento previsti e non attuati in questi ultimi decenni.

Sono nodi dai quali il nostro Supermario riuscirà probabilmente a sfuggire, non sappiamo ancora con quale eleganza, visti i tempi di realizzazione previsti dal PNRR e vista la fretta sempre più evidente del nostro nel cercare gratificazioni alternative, possibilmenteal di fuori di questo “pauvre pays”; così povero, ma così irriconoscenteverso i propri geni.

Non è possibile in questo articolo ritornare analiticamente sulle varie parti del PNRR, né sono in grado al momento di affrontare nei dettagli le caratteristiche del piano.

È possibile comunque ribadire alcuni giudizi di fondo, già espressi per altro con più autorevolezza, ma con eccessiva cautela, da fonti ben più accreditate.

https://www.radioradicale.it/scheda/660186/pnrr-e-fondi-strutturali-2021-2027-il-paese-alla-prova-dellintegrazione-per-evitare-lo

https://www.radioradicale.it/scheda/661208/pnrr-scelte-di-sistema-per-la-ripartenza-scenari-e-valutazioni-sugli-strumenti

  • I fondi sono in gran parte sostitutivi di altri finanziamenti giacenti da tempo ed inutilizzati; la gran parte dei finanziamenti sono prestiti da restituire con una pesante ipoteca nel caso ad essi non dovesse corrispondere un sufficiente livello di sviluppo e crescita economica

  • i progetti, specie quelli propri degli enti locali, in gran parte sono riesumati

  • l’insieme dei progetti si sta rivelando una sommatoria avulsa da priorità, gerarchie, coordinamento ed inserimento in un progetto e modello di organizzazione sociale coerente ed efficace

  • la macchina tecnico-amministrativa, pur con gli interventi ventilati, non sembra in grado di formulare e seguire adeguatamente i progetti

  • manca esplicitamente quantomeno l’ambizione, esplicitata al contrario da Francia e Germania, di acquisire una capacità tecnologica autonoma, necessaria alla garanzia di acquisizione, protezione e manipolazione di dati e comandi indispensabili a gestire con sicurezza la circolazione dei flussi informatici e digitali. L’unico impegno riguarda l’intervento nella Pubblica Amministrazione e nella trasformazione digitale delle imprese in un quadro di indirizzo e controllo delle filiere determinato da altri, soprattutto da altri paesi

  • mancano progetti concreti consistenti di formazione di piattaforme industriali che integrino le attività di ricerca pura, applicata e di finalizzazione del prodotto senza i quali l’attività di ricerca in Italia, pur asfittica, anche se in realtà più significativa nella realtà chiusa delle piccole aziende di quanto mostrino i dati ufficiali, tende assumersi più i rischi che le potenzialità di realizzazione di profitto e sviluppo

  • mancano consistenti risorse finanziarie nazionali indispensabili, tali da curare specifici ambiti produttivi ed organizzativi e da aggirare i vincoli e le limitazioni al varo di nuove iniziative imposti dalle normative europee in materia di concorrenza

Ci sarebbero altri aspetti importanti da segnalare.

Sta di fatto che l’inerzia del processo di attuazione del piano tenderà a realizzare soprattutto alcuni progetti di entità strategica come la logistica e la rete di dati a danno di altri, secondo una logica per così dire apparentemente neutra, la quale porterà ad accentuare in realtà, in assenza di pesanti correttivi, ulteriormente i processi di polarizzazione della struttura socioeconomica europea e di periferizzazione ulteriore della struttura industriale italiana piuttosto che ad un riequilibrio delle dinamiche. Non solo! Ancora più importante, ad assecondare quei progetti logistici più compatibili con le strategie di integrazione militare della NATO e americane.

Una tematica ben presente da sempre in numerose sedi europee, ma quasi del tutto assente ancora in Italia. In perfetta linea purtroppo con la retorica ed il lirismo legato al tema del mancato utilizzo dei fondi strutturali piuttosto che ad un esame disincantato della loro funzione.

Non è il solo aspetto critico del piano.

Ne rimane un altro a segnare la continuità storica di ogni ambizione di riforma dello Stato e dei suoi apparati con precedenti nefasti.

La logica emergenziale, insita anche nel PNRR, che ha portato regolarmente alla creazione di apparati e centri di potere, inizialmente destinati a trasformare, coordinare e sostituire i precedenti e che in realtà si sono sovrapposti e sono entrati in competizione con essi sino ad arrivare e probabilmente a peggiorare in futuro il disordine istituzionale ed amministrativo e la competizione distruttiva e paralizzante tra centri di potere, sempre più spesso dipendenti e diretti da centri esterni.

Un disordine al quale la fede tecnocratica e positivista sulle magnifiche sorti e progressive delle nuove tecnologie difficilmente riuscirà a porre rimedio. Di esempi ne abbiamo ormai visti a iosa.

Il PNRR rappresenta solo l’ultimo strumento, l’occasione giusta al momento giusto, per rafforzare ulteriormente il processo di integrazione e subordinazione della formazione sociale ed economica italiana attraverso vincoli e dinamiche naturali e difficilmente reversibili al quale si sono prestate di buon grado quasi tutte le forze politiche e i gruppi di interessi ansiosi di partecipare ai frutti tanto attraenti nell’immediato, quanto tossici per la società nel futuro, di quel banchetto.

Frutti, per altro, già messi in forse dalle conseguenze destabilizzanti dell’attuale crisi geopolitica.

Attribuire a Mario Draghi la responsabilità esclusiva di tutto questo sarebbe fuorviante e ingeneroso. Una sopravvalutazione, soprattutto, del valore della persona.

Sono processi innescati ormai da oltre quarant’anni e culminati, nella prima fase, con Tangentopoli, la dismissione di un apparato pubblico industriale per altro in netta decadenza nella sua gran parte e un degrado e la letterale sparizione delle capacità tecnico-amministrative legate alla soppressione repentina di agenzie ed apparati pubblici negli anni ‘90.

EPILOGO

Mario Draghi ha seguito questa onda, ne è stato tra i tanti, l’artefice importante sin dagli albori; ci ha costruito sopra una brillante carriera.

Non ha evidentemente concluso la sua opera.

Quello che sta succedendo alla Tim-Telecom, con la possibile conciliazione e spartizione tra americani e francesi, alle Alleanze Generali, nella strategica industria di base italiana, a cominciare dall’acciaio, sono il compimento di questo processo drammatico e nefasto per il paese.

La legge sulla concorrenza dovrebbe essere infine la cornice adeguata per assecondare organicamente queste scelte e il compimento dell’opera.

A guardare gli ultimi documenti significativi prodotti dal Governo, in particolare il DEF e le note al DEF, colpisce l’assordante silenzio in materia di intervento e politiche attive di intervento nell’industria, di obbiettivi di ricostruzione consapevole delle filiere interrotte ed incrinate dalla crisi della globalizzazione, almeno nelle forme sin qui conosciute, di gestione in prima persona almeno di parte delle dinamiche fondamentali.

Una sequela di incentivi generali e di interventi assistenziali dal carattere meramente redistributivo, teso ad accontentare questuanti e ceto politico di bassa lega, ma che dissangueranno ulteriormente il paese e lo distoglieranno dalle questioni cruciali che si stanno affrontando in modo succedaneo e truffaldino.

La stessa protrazione di provvedimenti, quali l’agevolazione del 110% negli interventi di edilizia residenziale rappresentano una distorsione gigantesca in un settore complementare, ma cruciale, tale da saturare e distorcere l’offerta lavorativa ed imprenditoriale, determinare una levitazione enorme dei prezzi di fatto a carico dello Stato per il momento e dei privati nel futuro prossimo e distorcere l’attività dell’intero settore, specie quello legato all’edilizia industriale.

La possibilità di un contraccolpo, quindi, molto difficilmente riassorbibile. Specie se concomitante con la crisi pandemica e con i riflessi della crisi geopolitica in atto.

Su questo si è inserito da par suo, ancora una volta, il contributofattivo e subdolo di Mario Draghi.

Tirando fuori il solito tema, fondato per la verità, ma creato dalla farraginosità e superficialità dei sistemi di controllo, della corruzione ha soppresso il fattore più significativo e positivo di quel provvedimento, assecondando presumibilmente le sollecitazioni discrete ma efficaci della Commissione Europea o di lobby particolari in essa presenti: la circolarità di quei titoli, di fatto una moneta locale.

Mario Draghi ha trovato una strada spianata davanti a sé, grazie anche alla complicità del sistema associazionistico e lobbistico.

Alcune, come Confindustria, istituzionalmente incapaci per la loro composizione, di affrontare e proporre indirizzi di sviluppo, conversione ed aquisizione di potenza di una formazione socio-politica. Altre, come le confederazioni sindacali, incapaci di affermare e confermare appunto il proprio ruolo confederale ed una visione politica di insieme, quantomeno tentata in tempi lontani, che potesse prospettare una forma di sviluppo e di coesione sociale tale da offrire alle rivendicazioni la forma di diritti e doveri compatibili con un determinato assetto produttivo e sociale coeso e dinamico piuttosto che la caratteristica di una difesa distributiva di tipo sempre più difensivo e corporativo del tutto sterile. Un aspettativa evidentemente illusoria con un gruppo dirigente sindacale sin troppo legato alla matrice progressista ed europeista dell’attuale ceto politico e ad una visione sterilmente movimentista abbagliata dalla suggestione compassionevole di masse informi, per altro politicamente inesistenti quanto facilmente manipolabili, piuttosto che dalla partecipazione cosciente dei settori più professionalizzati, antico reale nocciolo duro del passato glorioso dei sindacati e dei partiti di massa organizzati.

Non sappiamo se la piega presa dal paese abbia assunto una direzione definitiva; lo temiamo. In qualche maniera sappiamo cosa servirebbe, ma non siamo in grado, almeno per ora, di contribuire a produrne le condizioni.

Sarebbe già tanto far comprendere che la fortuna personale di un personaggio con un tale passato e di tal fatta non coincide con quella di un paese e della sua popolazione; ne è agli antipodi, ma è quello che vogliono farci credere.

Con le dovute cautele, prima se ne andrà, meglio sarà per la nazione.

Victoria Nuland in “K”: Sì al GNL, no agli oleodotti nel Mediterraneo

Qui sotto due illuminanti articoli, il primo una intervista di Victoria Nuland, assistente al Dipartimento di Stato statunitense, al quotidiano greco khatimerini, l’altra un articolo del quotidiano atlantico, corredato di numerosi link, particolarmente utili alla comprensione dei due testi. L’intervista, nella sua logica difetta di coerenza. Illustra chiaramente invece le intenzioni della attuale amministrazione americana, della quale la Nuland è una delle più importanti e famigerate figure, nell’attuale contesto europeo. Ci dice quali sono i principali punti e luoghi di attenzione americani e quale ruolo ed onere dovranno sobbarcarsi i paesi mediterranei, in particolare l’Italia. Mai come adesso siamo una espressione geografica ai loro occhi e il nostro Presidente del Consiglio, in questo assecondato dalla loquacità passata e dal silenzio altrettanto significativo presente del PdR, ne sta assecondando pienamente la condizione. Del resto conosciamo bene cosa apprezza del nostro paese e quanto ci si identifica. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Victoria Nuland in “K”: Sì al GNL, no agli oleodotti nel Mediterraneo

Le distanze chiare da EastMed o altre condutture ricevono tramite “K” il sub. Il segretario di Stato americano Victoria Nuland

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La fine degli scenari su EastMed o altri gasdotti nel Mediterraneo orientale con il supporto di Washington è stata lanciata dal segretario di Stato americano Victoria Nuland nell’intervista rilasciata ieri mattina a “K” , con sede ad Atene. La signora Nuland osserva che gli Stati Uniti favoriscono il trasporto di GNL , mentre include anche la Turchia nei paesi che coopereranno con Grecia, Israele, Egitto e Repubblica di Cipro in questo contesto più ampio. Infatti, stima che la regione possa diventare un motore energetico per il Nord Europa. Ha anche fatto ampiamente riferimento all’intenzione degli Stati Uniti di migliorare le sue relazioni strategiche con la Turchia, rilevando che nei suoi contatti ad Ankara si è reso conto che il governo Erdogan era consapevole delle sanzioni dell’UE. – Anche gli Stati Uniti contro la Russia possono essere sentiti lì. Inoltre, fa riferimento all’importanza di Alessandropoli e delle basi militari utilizzate dalle forze armate statunitensi in Grecia sia per garantire la sicurezza nella regione che per il trasferimento delle forze militari nell’Europa orientale e in Ucraina.

– Hai avuto molti contatti ad Atene. Qual è stato il messaggio che hai trasmesso? In che modo pensi che Atene potrebbe migliorare ulteriormente le capacità dell’Ucraina in ambito militare o di altro tipo? Discuteresti qualcosa di simile con i tuoi interlocutori ciprioti?

— Il motivo principale per cui sono venuto ad Atene è stato per ringraziarti per tutto ciò che facciamo insieme. Devo dire che l’ultima volta che sono stato al governo ho fatto molti viaggi ad Atene e in quel momento era per aiutare la Grecia a ottenere l’aiuto internazionale di cui aveva bisogno per riprendersi. Tempi molto difficili. E ora vedo questo rapporto di sicurezza che abbiamo a tutti i livelli e tutto il lavoro che è stato fatto per costruire ciò che ora sta dando così tanti vantaggi, mentre cerchiamo collettivamente di porre fine a questa violenta guerra in Ucraina. E il ruolo che la Grecia svolge nell’Europa sudorientale come fornitore di servizi di sicurezza per aiutare l’Ucraina è stato eccellente. E in secondo luogo, il fatto che abbiamo lavorato molto nel corso degli anni per diversificare le nostre fonti di energia: il gasdotto TAP e l’interconnessione con la Bulgaria e ora il terminale galleggiante di gas naturale liquefatto (GNL) ad Alexandroupolis. Ciò consente alla Grecia di essere un hub energetico non solo per le proprie esigenze, ma per l’intera Europa sudorientale, in un momento in cui tutti in tutta l’UE, anche in Turchia, capiscono che investire nel petrolio e nel gas russi è una cattiva idea. Pertanto, la Grecia non solo offre opzioni per tutti, ma hai davvero l’opportunità di essere parte della soluzione per il futuro. in un momento in cui tutti in tutta l’UE, anche in Turchia, capiscono che investire nel petrolio e nel gas russi è una cattiva idea. Pertanto, la Grecia non solo offre opzioni per tutti, ma hai davvero l’opportunità di essere parte della soluzione per il futuro. in un momento in cui tutti in tutta l’UE, anche in Turchia, capiscono che investire nel petrolio e nel gas russi è una cattiva idea. Pertanto, la Grecia non solo offre opzioni per tutti, ma hai davvero l’opportunità di essere parte della soluzione per il futuro.

– Hai discusso di progetti energetici specifici?

Ci stiamo allontanando da un pesante gasdotto sul fondo del mare che sarà molto costoso e richiederà dieci anni per essere costruito. Tutti hanno bisogno di energia ora.

– Sì. Ho avuto l’opportunità di partecipare per un po’ all’incontro tripartito che il ministro Dendias ha avuto con il ministro degli Esteri Lapid e il ministro degli Esteri Kasoulides. Come sapete, sosteniamo il tripartito e il “3 + 1” con gli Stati Uniti e molte di queste discussioni riguardavano le opzioni energetiche. Quindi più GNL, più cavi elettrici tra i paesi. Penso che la parte da cui ci stiamo allontanando ora è questo oleodotto dal fondale marino pesante che sarà molto costoso e richiederà dieci anni per essere costruito. Tutti hanno bisogno di energia ora. Hanno bisogno di gas, hanno bisogno di elettricità. Ecco perché ora stiamo rivolgendo la nostra attenzione al GNL, a questi cavi di alimentazione, ecc., e capisco che noi tre abbiamo avuto una buona discussione su queste cose. Siamo disposti a essere di supporto. Direi che anche nel contesto della nostra visita ad Ankara lunedì, capiscono che ora dipendono molto dal petrolio e dal gas russi. Quindi vediamo reali opportunità per l’energia di essere un guaritore e un fattore di collegamento in questa parte del mondo.

Intendi dire che lo schema “3+1” ma anche la Turchia potrebbero essere parte di un più ampio dibattito sull’introduzione del gas del Mediterraneo orientale nei mercati europei? Quindi lo scenario di base è il GNL e non i gasdotti? È difficile costruire EastMed, ma è anche molto difficile costruire un gasdotto da Israele alla Turchia…

– Non dobbiamo aspettare dieci anni e spendere miliardi di dollari per queste cose. Dobbiamo trasportare il gas ora. E dobbiamo usare il gas oggi come transizione verso un futuro più verde. Tra dieci anni non vogliamo un gasdotto. Tra dieci anni vogliamo essere verdi. Ma in questo momento abbiamo bisogno di benzina. Quindi dobbiamo usare il GNL e dobbiamo usare connessioni elettriche che possiamo fare più velocemente. E la Grecia è un pioniere in tutto questo. E questo è importante.

– C’è un dibattito pubblico in Grecia che Ankara sta giocando da entrambe le parti. Non partecipa alle sanzioni contro la Russia, ma cerca di facilitare i colloqui tra Ucraina e Russia. Credi che la posizione di Ankara in questo momento sia giusta? E pensi che alla fine la Turchia dovrebbe far parte delle sanzioni?

– Penso che il fatto che il presidente Erdogan abbia avuto un rapporto efficace con il presidente Putin e un rapporto efficace con il presidente Zelensky sia stato importante affinché la Turchia potesse creare un rifugio sicuro per la diplomazia. E se questa guerra deve finire, abbiamo bisogno di una soluzione diplomatica alla fine della giornata. Quindi è positivo che possano incontrarsi ad Antalya e continuare a parlare. Ovviamente sarebbe meglio se Putin facesse ciò che deve accadere, ovvero un cessate il fuoco. È anche molto importante che la Grecia fornisca sostegno alla sicurezza all’Ucraina, molto generosamente, molto rapidamente, molto efficacemente, ma la Turchia ha fatto lo stesso. La Turchia è anche un fornitore di sicurezza con alcune tecnologie molto elevate e armi importanti che erano efficaci. Le tue armi sono state efficaci per l’Ucraina sul campo di battaglia e hanno contribuito a fare la differenza, ma anche la Turchia. Perché onestamente questa guerra non finirà finché Putin non si renderà conto che per lui è stato un fallimento strategico e che non può sconfiggere l’Ucraina con il suo esercito. Penso che geostrategicamente per tutti gli alleati della NATO, per la Grecia, per la Turchia, per gli Stati Uniti, la nostra priorità indiscussa ora sia porre fine a questa guerra. Quindi entrambi sono importanti. La Turchia ha particolari vulnerabilità derivanti dal suo coinvolgimento in Siria. Ma anche per la sua maggiore dipendenza dall’energia russa. Ma la mia sensazione dalla mia presenza lunedì (in Turchia) era che capissero l’impatto delle sanzioni dell’UE. e anche le sanzioni statunitensi hanno un impatto lì. C’è la sensazione che non possano permettersi di diventare un luogo in cui la Russia può evitare le sanzioni. E ne abbiamo parlato bene. Ma la cosa più importante è porre fine a questa guerra. Inoltre, cogliamo l’occasione per essere strategicamente nello stesso posto per vedere se possiamo costruirci sopra per normalizzare le relazioni.

Vedo un’opportunità per la questione di Cipro

– I colloqui sull’energia possono mitigare gli sviluppi ed eventualmente portare a nuove discussioni sulla questione cipriota? Hai visitato Ankara, Atene, poi Nicosia…

– Sono interessato a ciò che le persone a Nicosia hanno da dire su questi problemi. Personalmente vedo un’opportunità. Si tratta sempre di cercare di raggiungere un accordo di pace per garantire una federazione bicomunale e, successivamente, lo sfruttamento dell’energia. Dobbiamo vedere se questo è l’ordine giusto, ma in ogni caso l’intero vicinato ha bisogno di energia, e questa parte del mondo può essere anche un motore energetico per il Nord Europa. E vedete quanto velocemente dobbiamo compiere questa transizione lontano dalla Russia. Perché è un fornitore inaffidabile ed è anche un partner immorale, come si vede.

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“Il fatto che abbiamo una relazione di difesa con la Grecia completamente diversa, più ricca e più profonda rispetto a quella di pochi anni fa ha cambiato non solo ciò che possiamo fare insieme, ma anche la capacità della Grecia di diventare un fornitore di sicurezza in tutto il “sud-est Europa”, dice la signora Nuland a Vassilis Nedos.

Alexandroupoli e Volos offrono opportunità di sicurezza nell’area

– Vedreste un approfondimento della cooperazione attraverso MDCA? Ci sono tutte queste località, Alexandroupoli, Souda, Andravida, ma anche discussioni per un’ulteriore cooperazione nelle attrezzature. Ne hai parlato?

– Assolutamente. Il fatto che abbiamo una relazione di difesa con la Grecia completamente diversa, più ricca e più profonda rispetto a quella di pochi anni fa ha cambiato non solo ciò che possiamo fare insieme, ma anche la capacità della Grecia di diventare un fornitore di sicurezza in tutto il sud-est Europa. Senza questa relazione, potremmo ricevere più supporto alla sicurezza in Ucraina, letteralmente entro due giorni dalla richiesta di Zelensky? Potremmo trasferire parte dell’attrezzatura che gli Stati Uniti avevano qui in Ucraina? Avremmo il quadro delle informazioni di cui avevamo bisogno per capire cosa avrebbe fatto Putin e prepararci? Ma questo non è tutto. Questo è l'”Harry S. Truman” che può raggiungere l’ingresso del Mar Nero. Il fatto che Alexandroupolis e Volos e tutte queste località ci diano l’opportunità di fornire sicurezza non solo agli Stati Uniti e alla Grecia, ma a tutti gli alleati della NATO in quest’area. E ieri abbiamo parlato del fatto che ora che la Grecia ha compiuto la transizione per essere un esportatore di sicurezza all’interno dell’Ucraina, ci sono altre opportunità per fare le cose insieme. Stimolerai di nuovo un’attività di costruzione navale qui. Possiamo fare di più per garantire la sicurezza costiera in Africa e in altre parti del mondo. Quindi penso che ci siano enormi opportunità…

– Perché gli europei non hanno creduto a ciò che gli Stati Uniti avevano previsto nei mesi precedenti l’invasione russa dell’Ucraina?

– Cominciamo col stimare che anche gli ucraini fino a pochi giorni prima della guerra non riuscivano a capirlo bene. Forse non volevano credere che un vicino fosse capace di questa invasione non provocata e feroce. Putin ha anche mentito direttamente a tutti noi. Anche mente alla sua stessa gente, ai suoi soldati. Questi poveri ragazzi di 18-20 anni, che erano in Bielorussia pensando di fare un esercitazione e si sono trovati a Kharkov, dovrebbero essere trattati non come liberatori, ma come nemici. In effetti, i servizi di intelligence statunitensi erano eccellenti e dettagliati. E non siamo sempre in grado di condividere tanti dettagli come questa volta. Ma i nostri partner erano scettici. Non siamo contenti di aver avuto ragione. Ma penso che il rapporto di intelligence che abbiamo come alleati della NATO che siamo tutti con l’Ucraina ora, ci ha insegnato qualcosa. Che è qualcosa di prezioso e che dobbiamo costruirlo e rafforzarlo, perché purtroppo questa potrebbe non essere l’ultima cosa negativa che vediamo dagli autoritari, poiché cercheranno di cambiare le regole che le nostre democrazie hanno costruito.

https://www.kathimerini.gr/politics/561797341/synenteyxi-viktoria-noylant-stin-k-nai-se-lng-ochi-se-agogoys-sti-mesogeio/

https://www.atlanticoquotidiano.it/quotidiano/fame-di-gas-ma-biden-affossa-di-nuovo-eastmed-un-vagone-di-regali-per-erdogan/

CHE DOMANDA DOVREMMO FARCI?_di Pierluigi Fagan

È IL MOMENTO DI FARCI UNA DOMANDA: CHE DOMANDA DOVREMMO FARCI? L’intero apparato di gestione e controllo del pensiero e conseguente dibattito pubblico, ha ricevuto precise indicazioni dagli strateghi della psicologia comportamental-cognitivista. Per tutti costoro c’è una sola domanda da farsi: che fare davanti ad una ingiustificabile aggressione che provoca morte, distruzione e dolore ad un aggredito?
Qualcuno segnala la stranezza di farsi tali domande oggi quando non ce le siamo mai fatte e continuiamo a non farcele per molti altri tristi casi di conflitto planetario. Altri pensano forse che l’aggressione se non giustificabile andrebbe almeno contestualizzata. Qualcun altro pensa forse che anche l’aggredito non è esente da responsabilità pregresse. Altri infine sospettano che tra aggredito ed aggressore c’è un terzo incluso che andrebbe specificato per capire meglio la situazione per poi prender decisioni. C’è anche chi la mette sul pragmatico e cinicamente invita a farci i conti di quanto costa rispondere in un modo o in un altro a quella domanda. Ma è davvero questo la domanda più importante da farsi? O forse la domanda da farsi prima di ogni altra è proprio “ma chi ha deciso che è questa la domanda più importante da farci?”. Potrebbe esser il caso invece di farci questa seconda domanda e scoprire che rispondendo a questa, avremo anche più conseguente e logica risposta a quella che ci viene imposta.
Vediamo un po’. Vari istituti di ricerca d’opinione, segnalano concordi che c’è una evidente asimmetria tra quello che il parlamento italiano sta decidendo su i fatti relativi la guerra in Ucraina (non solo armi sì o no), unitamente alle unanimi convinzioni dell’intero apparato di gestione e controllo del pensiero e conseguente dibattito pubblico e l’opinione prevalente del popolo italiano. In una recente trasmissione televisiva un ambasciatore ed un oligarca occidentale hanno candidamente ammesso che la gente normale di queste cose non capisce niente e quindi c’è chi deve decidere per loro. Ma da qualche giorno, emerge anche un’altra questione interessante.
L’istituto SWG ha fatto una ricerca sui sentimenti geopolitici degli italiani. Tra il vissuto precedente il conflitto e l’oggi emergono significativi scostamenti. Sono crollate le simpatie verso la Russia dal 18% al 2% e quelle verso la Cina dal 22% al 3%. Sono salite quelle verso la Francia dal 15% al 38% e quelle verso la Germania dal 12% al 34%. Quindi si rileva un significativo ri-orientamento dall’Italia soggetto individuale con sguardo interessato verso altri mondi, all’Italia che riconosce comunanza di interessi coi consimili europei. Da notare che se il frame è l’Europa, questi sono stati a lungo vissuti come concorrenti, se il frame si allarga al mondo allora le differenze che notiamo con questi vicini ci fanno sembrare questi prima concorrenti, dei fratelli quasi naturali.
Ma il dato più interessante è forse un altro. La precedente postura di una Italia curiosa e libera di coltivare desiderio di relazione con questo o quello, inclusi i russi ed i cinesi, era pensato e vissuto dentro un fortissimo senso di coappartenenza con gli Stati Uniti d’America. Gli italiani consideravano gli USA il Paese più amico in assoluto ben il 44% pensava questo, più di Russia, Cina, Francia e Germania e di non poco. Oggi invece, questa percentuale è al momento scesa al 27%, ben meno del nuovo sentimento di neo-fratellanza europeo-occidentale. È la prima volta in settanta anni che l’Italia si sente più europea che americana e scommetterei sul fatto che questo trend continuerà ad approfondirsi.
Annusa l’aria al volo il direttore di una testata on line ora anche stampata settimanalmente, TPI. Una testata con una sua indipendenza che non la fa comunque essere nel campo “alternativo”, ma neanche del tutto in quello “mainstream”. L’articolo di fondo di Gambino titola: “Perché in questa guerra non possiamo non dirci anti-americani”. Gli USA vogliono indebolire se non far collassare la Russia e non è detto questo sia del tutto anche il nostro interesse. Gli USA vogliono egemonizzare l’intera Europa subordinandola ai propri interessi e spaccarla tra parte orientale ed occidentale e questo non è un nostro interesse. Gli USA vogliono colpire indirettamente per il momento la Cina e questo, ancora, non è il nostro interesse specifico visto che l’altro Europa è niente più che un mercato e logica del mercato vuole che vi siano forti interessi a sviluppare scambi con la Cina e l’Asia in generale che per via di ragione geografica non rappresenta, né mai potrà rappresentare per noi un problema. È da Marco Polo che rappresenta invece una opportunità, ma se si studia “Le vie della Seta” dello storico P. Frankopan anche ben da prima di Polo. Segue una densa analisi di come l’ordine mondiale versione americana, sia sempre più contradditorio e semmai utile solo agli americani e soprattutto come questa loro utilità confligga sempre più con la nostra.
Riguardo la domanda che sembra esser l’unica che ci dobbiamo porre, ne consegue ciò che ha sostenuto anche il gen. Tricarico ed altri tra i pochi che hanno voce indipendente in questi tempi bizzarri: Biden alzi il telefono e chiami un tavolo diretto di trattativa con Putin che non aspetta altro poiché tutto quanto sta succedendo riguarda più loro giochi di potenza di primo livello che non l’Ucraina ed il nostro inviargli o meno armi e tagliarci i consumi di energia sprofondando in profonda recessione e prossimo conseguente disordine sociale, con finale arruolamento in una Terza guerra mondiale che noi europei occidentali non vogliamo in alcun modo. Dobbiamo quindi mandare armi a Zelensky o un telefono a Biden?
La domanda da farci allora è “a chi stiamo andando appresso?”. Gli USA hanno in programma un potete riarmo del mondo e quando ci sono le armi, di cui sono i leader mondiali di produzione, poi queste vanno usate. Hanno sovvertito in un attimo alleanze consolidate con mezzo pianeta, tra cui il mondo arabo e buona parte di quello asiatico, inclusa l’India. Hanno fatto impazzire i prezzi dell’energia facendo infiammare l’inflazione. Hanno tentato di spaccare l’ONU, tra l’altro non riuscendoci. Dopo averci rimbambito per trenta anni con le meravigliose sorti progressive della globalizzazione, dopo essersi rimpinzati di soldi a livello delle loro esigue élite, ora hanno deciso che noi europei dovremmo commerciare solo con loro perché tutti gli altri sono “impuri”. Hanno un Presidente con un figlio che trafficava con investimenti in gas e laboratori bio in Ucraina e chissà che Zelensky e la sua cricca non lo ricatti con carte imbarazzanti. Un Presidente che ha sfondato il minimo storico di gradimento già sfondato da Trump, una macchietta presa in giro da mezzo mondo perché si vede che l’età non gli consente più di dirigere i molteplici e complessi interessi del suo Stato-potenza. Ma se è evidentemente incapace di svolgere i suoi compiti chi altro li svolge per lui? È stato eletto questo “dietro di lui”? Che agenda ed interessi ha? Un Paese che ha la più asimmetrica distribuzione di ricchezza interna del mondo occidentale e la conseguente più ampia popolazione carceraria del mondo, cosa ha di fondo “in comune” con noi? Un Paese che ha fatto 34 conflitti armati dal dopoguerra, per non parlare dei “colpi di Stato” e “regime change”, nonché varie proxy-war.
Si chiama geopolitica perché la geografia e la geostoria contano. Gli Stati Uniti sono su un’altra piattaforma continentale, così i canadesi. Gli inglesi sono su un’isola che dalla favola di Mandeville in poi (ma già da Enrico VIII) guarda all’Europa in maniera problematica e per nulla famigliare. Australiani e neozelandesi sono in mezzo ad un altro oceano e pure in un altro emisfero. Personalmente non amo le definizioni in negativo (una identità non si determina per esser “anti” un’altra) quindi non mi sento antiamericano. È sudditanza psico-culturale anche questo porre l’altro come qualcosa verso il quale si deve esprimere la differenza per trovare la propria identità.
Penso invece ci si trovi in una nuova ed interessante congiuntura storica, quella in cui occorre domandarci: “noi” chi siamo? Prima di elaborare, discutere e condividere una intenzione, la risposta al fatidico “che fare?” dovremmo capire chi è il soggetto, chi è questo “noi”. Un mio vecchio amico, diceva che più che di “progresso”, dovremmo porci il problema dell’”emancipazione”. Prima di domandarci da che parte andare e cosa fare, domandarci chi siamo anche perché è rispondendo a questa domanda che ogni altra va di conseguenza.
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